sabato 19 settembre 2009

Il pensiero di Protagora di Abdera: il valore dell'opinione comune

Protagora, con il suo tenace relativismo, nega ogni possibilità di credere negli dei e di giustificare l'origine divina delle leggi, ma allo stesso tempo non può accettare che le leggi non abbiano alcun valore e quindi che non ci sia nulla a regolare la vita degli uomini. Egli trova un'altra soluzione, in linea con la sua teoria del logos orthoteros, ossia il discorso migliore. Per Protagora un concetto è migliore di altri non perché sia fondato su una verità assoluta e neppure su una soggettività empirica, ma è tale soltanto sul piano della comunità degli uomini; perciò le leggi che ogni città si dà, per quella città sono giuste, per tutto il tempo in cui le riconosce come tali: la polis è la fonte della giustizia. Così è riassunto il pensiero di Protagora nel Teeteto platonico.

Dunque anche in politica, il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, il santo e il non-santo, quale ciascuna città pensa e pone come legge a se stessa, così anche è in verità per ciascuna; e in questo campo un individuo non è affatto più sapiente di un altro individuo, né una città di un'altra città. Nello stabilire ciò che è vantaggioso per lei stessa e ciò che non lo è, qui, d'altro canto, se mai in altra occasione, ammetterà che un consigliere è superiore ad un altro consigliere, e che l'opinione di una città sarà diversa, rispetto alla verità, da quella di un'altra città, e non oserà mai affermare che quello che una città ritiene e sancisce come vantaggioso per sé, questo sarà anche realmente vantaggioso in tutti i casi. Ma nel campo di cui sto parlando, nel campo del giusto e dell'ingiusto, del santo e dell'empio, vogliono insistere a dire che nessuna di queste cose esiste per natura e con una sostanza propria, ma è ciò che sembra alla comunità che diventa vero, nel momento in cui sembra e per tutto il tempo in cui sembra.
Ogni città, ogni nazione, a seconda della propria storia, delle proprie caratteristiche geografiche, etnografiche, culturali, sociali, economiche ha le proprie leggi e le deve cambiare quando questi caratteri mutano. Il sofista, il sapiente, non deve governare la città, ma ha il compito altissimo di indicare se le leggi che una città si è data sono anche le più vantaggiose per quella città e quindi se sono le migliori che quella città si può dare, e nel caso non lo siano deve proporne delle altre. È ingiusto considerare, come fanno alcuni studiosi, la morale e la filosofia politica di Protagora come essenzialmente conservatrici: il sofista non è certo un laudator temporis acti, un difensore della tradizione, ritiene che le leggi possano e debbano essere cambiate quando non rispondono più alle esigenze della città, ma tali modifiche della legislazione devono essere ben temperate, dettate sempre dalla ragionevolezza e non affrettate.
Per Protagora il metro di giudizio per dire se una legge si confà o meno a una determinata polis non è un astratto, quanto inconoscibile, bene, ma l'utile che tutti i cittadini o almeno la maggioranza di loro, possono ricavarne. Se tutti i discorsi sono validi allo stesso modo davanti al tribunale della ragione, uno sul piano della pratica diventa migliore, perché appare più idoneo a un'intesa, a un patto di accettazione, e più utile per la collettività per una sua intrinseca maggior forza di persuasione, molto probabilmente per una sua più ampia considerazione di aspetti che esso può presentare”. Protagora accetta il fatto che le leggi siano semplici convenzioni che gli uomini si danno per poter vivere in società e riconosce alla giustizia il suo carattere eminentemente antropocentrico, ma crede che la legge abbia in se stessa la propria legittimazione e che la polis, per il consenso dell'opinione dei cittadini costituisca l'unica autorità in campo etico. Il relativismo gnoseologico si è spostato nel campo della morale; parafrasando la più celebre affermazione del sofista si potrebbe dire: "di tutte le leggi misura è la città". In sostanza per il sofista ciò che è socialmente vantaggioso è eticamente sano; il singolo individuo non è il giudice di quanto è socialmente vantaggioso, ma lo è l'opinione comune, determinata dalla maggioranza. L'individuo non può parlare che dal proprio punto di vista. Ma senza un senso morale in ogni individuo, nessuna opinione comune, nessuna decisione presa dalla comunità potrebbe mai essere socialmente benefica; sarebbe invece socialmente disastrosa. Il sofista quindi postula che ogni individuo ha un proprio senso morale e che dal confronto e dall'accordo dei sensi morali di tutti i cittadini della polis può sorgere un senso morale proprio della polis stessa, che la caratterizza e giustifica il potere che essa ha sui cittadini.

2 commenti:

  1. Direi che così si rende giustizia a un pensiero che era relativista in senso positivo, laico direi...

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  2. “Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”.
    Sull’onda di alcuni scandali edilizi, del degrado politico, morale e culturale delle nostre città, della confusione urbana della metropoli moderna, risuonano bene queste parole accorte di Italo Calvino, tratte da “Le città invisibili”, un piccolo libro forse poco celebrato, ma senz’altro anticipatore dei tempi. Le città del desiderio, della memoria, dei segni, le città nascoste, le città che vorremmo vivere ogni giorno e che, per pigrizia e cecità, non riusciamo a vivere, diventano sempre più i luoghi del sogno, le città invisibili.
    Bisogna riscoprirle queste nostre belle città. Perché le tentazioni della Città del Rumore ci sono sempre e prendono le forme, oggi, di una comunicazione tra la gente, rapida, al minuto, superefficiente e quindi superficiale, di una “realtà virtuale” che ci avvinghia tutti con schermi e schermucci; e perché sarebbe meglio pensare di più ad una Città del Silenzio, come luogo privilegiato della parola. E’ quasi un paradosso: il silenzio come comunicazione vera. E quindi tornare a parlarsi. Con il vicino di casa, il passante per strada, con il barbone e il malato di mente.
    Tornare sì ad aprire i monumenti, i musei ed i centri storici, ma tornare a riscoprire le strade della città, a starci con i suoi ritmi e i suoi colori, a frequentare i luoghi dove si beve del buon vino e dove si ascolta della buona musica, a fare teatro all’aperto, cinema all’aperto, a ripopolare le nostre strade di poeti, suonatori, scrittori, filosofi, pifferai, giocolieri, incantatori, maghi e astrologi, venditori ambulanti e poveri, matti, mendicanti, come un grande circo dove ognuno può danzare, parlare e stare in silenzio. In una babele di uomini e culture, dove ci sia posto per tutti.
    Forse è una città del sogno, una città, appunto, invisibile.
    Ma la Città del Silenzio è anche il luogo della dimensione utopica, del ciò che non è ancora e non sarà, come afferma lo storico Vittorio Emanuele Giuntella, in un prezioso volumetto dal titolo “La città dell’illuminismo”: “La città, che è per eccellenza il luogo della storia e il luogo della trascendenza, il segno di contraddizione e quello dell’unità, è Gerusalemme, le pietre della Gerusalemme distesa tra la valle del Cedron e quella di Ben-Hinnom, e l’altra Gerusalemme, quella dell’Apocalisse e della Mishna, che non è ancora, ma che verrà”.
    Una dimensione spirituale che però non ci toglie lo sguardo dalla dura realtà urbana di ogni giorno. E’ lo stesso Calvino che ci indica una possibile strada da seguire, per bocca del viaggiatore Marco Polo che racconta ad un desolato e melanconico Gran Khan: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

    CITTA' INVISIBILI

    di Fausto Corsetti

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