martedì 22 settembre 2009

La democrazia ateniese ai tempi di Pericle e Protagora (II di V)

La costituzione democratica favoriva in ogni modo il coinvolgimento di ogni cittadino alla vita politica di Atene. Fin dalla nascita ogni ragazzo ateniese aveva qualcosa di più della probabilità puramente ipotetica di diventare presidente dell'assemblea, una carica basata su un sistema di avvicendamento che veniva assegnata per un solo giorno e, come al solito, per sorteggio. Inoltre quello stesso ragazzo poteva diventare commissario del mercato per un anno, membro del consiglio per un anno o due anni (purché non consecutivi), sedere ripetutamente in una giuria e infine partecipare all'assemblea con diritto di voto tutte le volte che lo desiderava.
Clistene nel 509-508 basò la propria riforma costituzionale sulla suddivisione del territorio dell'Attica in demi. Il suo obiettivo era quello di eliminare la vecchia struttura gentilizia delle quattro tribù ioniche, basata sui rapporti di parentela delle famiglie nobili, per sostituirla con una ripartizione della popolazione in dieci tribù a base territoriale. Per fare questo utilizzò i villaggi, i piccoli borghi agricoli disseminati per l'Attica, dando a essi una precisa funzione istituzionale. I demi erano in tutto centotrentanove, cinque erano quelli che formavano l'astu, cioè i quartieri del centro urbano di Atene, mentre tutti gli altri erano nel territorio dell'Attica. Si andava da piccoli demi fino al grande demo agricolo di Acarne, che forniva all'esercito ben tremila opliti. Quando un giovane ateniese raggiungeva i diciotto anni, veniva presentato ai responsabili del suo demo, i quali, accertatane l'età, la paternità e dopo il 451-50 anche la maternità, lo iscrivevano nel registro del demo; a questo punto, dopo la conferma del consiglio, il giovane poteva essere considerato cittadino a tutti gli effetti e quindi presentarsi con il proprio nome, il patronimico e il demotico, cioè la forma completa e ufficiale del suo nome.
I cittadini di un demo avevano il diritto e il dovere di riunirsi in assemblea per decidere sulle principali questioni locali. I demi prima di tutto dovevano esaminare e registrare i nuovi membri, e poi curare la manutenzione dei templi, nominare sacerdoti e sacerdotesse, insomma sovrintendere alla vita religiosa del territorio; raccoglievano dazi e imponevano multe, ma prestavano anche denaro, a un interesse di circa il dodici per cento. In alcuni grandi demi c'erano dei teatri e quindi vi erano organizzati degli spettacoli, probabilmente sul modello degli agoni ateniesi. Le questioni che dovevano essere affrontate erano naturalmente più o meno complesse a seconda della grandezza del demo. Dalle scarse fonti si ricava che i vari demi avevano una forte autonomia rispetto al governo centrale e ampie competenze amministrative: pur con tutte le cautele che si devono fare in questi paragoni, si potrebbe confrontare la democrazia ateniese con il sistema cantonale svizzero.
In ogni demo veniva scelto tramite sorteggio un demarco che restava in carica un anno e probabilmente non era rieleggibile. Questi portava le istanze dei suoi compagni di demo al governo centrale e contemporaneamente rappresentava il governo centrale di fronte al demo: una funzione simile a quella di un sindaco. Presiedeva le assemblee ed era responsabile del registro del demo. Inoltre curava il registro delle proprietà confiscate dallo stato, riscuoteva le imposte, faceva rispettare il pagamento dei debiti e ordinava il pignoramento degli insolventi, rispondeva in generale del bilancio del demo. Faceva raccogliere le primizie per le feste Eleusinie, guidava il contingente che rappresentava il suo demo alla processione delle Panatenaiche, aveva incombenze nei culti e nelle feste locali, si assicurava che i suoi cittadini avessero un funerale decoroso. In un grande demo il demarco era probabilmente affiancato da altri funzionari: contabili, segretari, araldi.
Sulla base delle attuali testimonianze non si sa se il demarco e gli altri funzionari ricevevano un compenso per il loro lavoro. Questi aspetti del governo locale fanno capire come fin da giovani tutti i cittadini dell'Attica fossero abituati a discutere di problemi politici e amministrativi locali e fossero anche pronti ad assumersi delle responsabilità di governo. Le idee di uguaglianza, di partecipazione e di trasparenza permeavano questa forma di forte decentramento amministrativo, di cui purtroppo ci sono ben poche notizie.
L'assemblea del demo era in piccolo l'ecclesia: l'abitudine a partecipare e a votare in quella portava a partecipare e a votare in questa. L'assemblea era il centro della vita politica di Atene. Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi fornisce alcune importanti notizie sul funzionamento e sui compiti dell'assemblea. “I pritani riuniscono l'assemblea quattro volte ogni pritania [...] una di esse, la principale, è quella in cui si deve decidere per alzata di mano e confermare i magistrati, qualora ritenga che essi governino bene, e si debbono trattare i problemi dell'approvvigionamento e della difesa del territorio; e chi vuole sporgere denuncia per tradimento deve farlo in questa occasione. Si dà lettura dei beni confiscati, delle prove riguardo ai processi per le eredità e le ereditiere, affinché nulla sfugga al controllo di nessuno. Nella sesta pritania, inoltre, decidono per alzata di mano se sia il caso di procedere all'ostracismo oppure no, e riguardo alle denunce degli ateniesi e dei meteci contro i sicofanti fino a tre per ciascun gruppo, e contro quelli che non abbiano mantenuto le promesse fatte al popolo. Un'altra assemblea è dedicata alle suppliche [...] le altre due assemblee sono dedicate al disbrigo degli altri affari: in esse le leggi impongono che si trattino tre questioni sacre, tre riguardanti gli araldi e le ambascerie e tre questioni profane”. Questo calendario dei lavori assembleari riflette la realtà del IV secolo; è probabile che nel V secolo, durante gli anni in cui si formò e si consolidò l'impero marittimo, le sedute non fossero meno frequenti. Dalla testimonianza di Aristotele si calcola che si tenevano almeno quaranta riunioni l'anno, senza tener conto di convocazioni straordinarie. Demostene racconta con grande efficacia lo scompiglio con cui ad Atene fu accolta la notizia della presa di Elatea da parte di Filippo e la velocità con cui venne decretato lo stato d'assedio: venne sgombrata l'agorà, si riunirono immediatamente i pritani che stavano cenando e venne convocata per l'indomani l'assemblea.
Tutte le decisioni importanti dovevano passare al vaglio dell'assemblea. A questo organo spettava di dichiarare una guerra, di indicare quanti uomini e quante navi occorresse inviare e chi dovesse guidare la spedizione, di stipulare i trattati di pace e di definire le clausole di una alleanza; l'assemblea gestiva il bilancio statale, decideva la costruzione degli edifici pubblici, si occupava dell'approvvigionamento di acqua e di grano per la città, sovrintendeva alle miniere pubbliche e al conio delle monete, eleggeva quei funzionari che non venivano scelti tramite un sorteggio e controllava periodicamente il loro operato, riceveva gli ambasciatori degli altri stati.
Le decisioni su questioni così importanti erano determinate dall'alzata di mano di quei cittadini che avevano deciso di partecipare all'assemblea, avevano ascoltato la lettura di un decreto e di eventuali emendamenti e i discorsi favorevoli e contrari a quella proposta. Ai decreti era poi data la massima pubblicità, attraverso l'iscrizione su pietre che erano visibili nell'agorà; non esisteva nulla di paragonabile a un moderno archivio, gestito da una burocrazia. Ad Atene il governo si svolgeva letteralmente alla luce del sole: Senofonte racconta che durante il drammatico processo agli strateghi delle Arginuse la votazione dovette essere sospesa in quanto, a causa dell'insolito protrarsi del dibattito, si stava facendo buio ed era ormai impossibile contare esattamente il numero delle mani alzate.
Nella Pnice potevano sedere soltanto seimila dei quarantamila cittadini ateniesi, solo un settimo o al massimo un sesto degli aventi diritto partecipavano regolarmente alle sedute dell'assemblea ed è logico pensare che vi si potessero recare preferibilmente quei cittadini che abitavano nell'astu o nelle sue immediate vicinanze e la cui situazione economica era tale che permetteva loro di perdere un giorno di lavoro. La partecipazione ai lavori dell'assemblea cominciò a essere retribuita soltanto dopo la restaurazione della democrazia, successivamente al colpo di stato oligarchico dei Trenta Tiranni, con una indennità di un obolo a seduta. Ad assicurare che gli interessi di coloro che avevano delle difficoltà a raggiungere la Pnice fossero comunque tutelati e che il potere non rimanesse in mano dei soli cittadini dell'astu, vi era il consiglio dei cinquecento, la bulé, il cui compito essenziale era quello di coordinare i lavori dell'assemblea.
Il consiglio era formato da cinquecento cittadini che avevano più di trent'anni ed erano scelti ogni anno con il metodo del sorteggio, in tutti i centotrentanove demi dell'Attica, in proporzione al numero dei cittadini iscritti in ogni demo: in questo modo la rappresentanza territoriale era salvaguardata. Pare che secondo la riforma di Clistene un cittadino potesse ricoprire la carica di buleuta una sola volta nella vita; certo alla fine del IV secolo un ateniese poteva sedere nel consiglio per due anni, purché non consecutivi. Clistene divise l'anno in dieci periodi, in ciascuno di essi un gruppo di cinquanta buleuti, detti pritani, svolgevano il coordinamento effettivo dei lavori del consiglio; i pritani lavoravano tutti i giorni e quindi vivevano e mangiavano in un edificio a loro riservato, il Pritaneo. Ogni giorno tra i pritani era sorteggiato l'epistates, una sorta di presidente della repubblica, che in quelle ventiquattro ore doveva stare obbligatoriamente nel Pritaneo e custodire i sigilli di Stato e le chiavi della tesoreria e, se quel giorno era convocata una seduta dell'assemblea, aveva l'onore di presiederla. Questo incarico si poteva svolgere una sola volta nella vita: quindi in dieci anni a più di tremilacinquecento cittadini toccava l'onore di essere epistates. Con le riforme di Efialte del 461 si cominciò a retribuire la partecipazione al consiglio: al tempo della guerra del Peloponneso l'indennità era fissata per un buleuta in cinque oboli a seduta e per un pritano in una dracma, pari a sei oboli, al giorno. Una dracma era il salario medio giornaliero per un operaio di un cantiere edile, come si può ricavare da alcune testimonianze del 409-406.
Il compito fondamentale del consiglio era quello di preparare l'ordine del giorno delle sedute dell'assemblea. È molto probabile che rispetto ai problemi più importanti e controversi il consiglio si limitasse a enunciare i termini della questione, demandando la discussione e la decisione all'assemblea, ma per una serie di affari minori, l'ordinaria amministrazione, che doveva essere naturalmente aumentata con la creazione dell'impero, il consiglio preparava già i decreti che l'assemblea si limitava a ratificare. Secondo alcuni studiosi questa funzione esecutiva del consiglio aumentò nel corso degli anni; ad esempio competenze maggiori vennero assunte dal consiglio riguardo alla costruzione della flotta e alla manutenzione degli edifici pubblici. Comunque il consiglio, per sistema di elezione e per competenze, era qualcosa di ben diverso da un moderno parlamento; ma era comunque un organo importante: dal momento che l'organismo sovrano era una grande assemblea incapace di tenere riunioni frequenti, un consiglio dotato di poteri esecutivi e giudiziari in un settore così vasto non poteva non diventare potente, se non altro perché era il centro di informazione della cittadinanza, ma poiché tutti i cittadini potevano esercitare a turno questo potere, l'assemblea non aveva nulla da temere.
A questo punto occorre fare alcune osservazioni sul potere esecutivo, esaminando le principali magistrature dell'Atene democratica. L'amministrazione di Atene può apparire a osservatori moderni caotica e inefficiente: infatti per gran parte delle cariche vigevano i criteri del sorteggio, della collegialità, della durata annuale e della non rieleggibilità e soprattutto era completamente assente una burocrazia esperta che assicurasse la continuità amministrativa. I magistrati svolgevano compiti che non richiedevano competenze specialistiche, non agivano praticamente mai di propria iniziativa e si limitavano a eseguire i decreti dell'assemblea e ad applicare dei regolamenti. Nella sola Costituzione degli Ateniesi sono indicate più di trecento magistrature assegnate con sorteggio e da documenti ed epigrafi se ne ricorda un altro centinaio, non citate da Aristotele: c'erano gli undici commissari di polizia, incaricati anche di sovrintendere alle prigioni, i sovrintendenti al mercato, ai pesi e alle misure, alla zecca, alla pulizia delle strade, alle grandi strade di comunicazione, ai pozzi e alle sorgenti, all'approvvigionamento del grano, i funzionari incaricati di controllare i partecipanti all'assemblea e quelli che dovevano contare i voti, quelli incaricati degli acquisti e delle concessioni dei beni statali, i custodi degli arredi sacri, i segretari, i tesorieri e i contabili dei vari comitati. Ogni anno almeno un migliaio di persone (compresi i buleuti) erano sorteggiate e coinvolte nell'amministrazione della città.
C'erano poi le magistrature che venivano assegnate tramite elezione e per le quali non esistevano limiti di rieleggibilità. Si trattava di quelle magistrature che richiedevano una competenza ben precisa e non potevano essere affidate al dilettantismo di cittadini inesperti. Erano prima di tutto gli alti gradi dell'esercito ed era naturale che una città quasi continuamente in guerra e che aveva fondato un esteso impero marittimo affidasse il proprio esercito e la propria flotta a chi mostrava maggiori capacità. C'erano i dieci strateghi, a cui era affidato il comando delle truppe di terra e di mare. Nel V secolo l'assemblea assegnava ai vari strateghi i diversi campi di azione. C'erano poi i dieci tassiarchi e i due ipparchi, rispettivamente i comandanti dei contingenti delle tribù e i comandanti della cavalleria. Erano eletti anche gli ambasciatori e un magistrato, il cui nome non è chiaro dalle testimonianze antiche, preposto all'approvvigionamento idrico della città.
Erano scelti invece tramite sorteggio i nove arconti, la più antica magistratura ateniese, espressione del vecchio ordinamento gentilizio legato alle quattro tribù ioniche. Per rispetto della tradizione questa magistratura non venne abolita con l'introduzione della democrazia, ma già Clistene ne ridusse drasticamente compiti e influenza; dal 487-86 fu poi assegnata non più per elezione, ma tramite sorteggio. Dopo le riforme di Efialte, che indebolirono l'influenza dell'Areopago, il venerando consiglio in cui sedevano a vita gli ex-arconti, a cui venne assegnata soltanto la giurisdizione sui reati di sangue, agli arconti rimasero alcuni caratteri rituali, l'arconte eponimo dava il proprio nome all'anno e l'arconte re sovrintendeva ad alcuni riti, ma il loro ruolo era essenzialmente legato al sistema giudiziario e alle procedure penali: gestivano la formazione e la scelta delle giurie, erano responsabili del calendario dei dibattimenti, ricevevano le accuse e istituivano i processi, presiedevano le giurie con compiti meramente procedurali.
Passiamo ora ad alcune considerazioni sul sistema giudiziario dell'Atene democratica. L'attività dei tribunali permeava tutta la vita della città. Quando nelle Nuvole un discepolo di Socrate mostra a Strepsiade su una raffigurazione della terra la città di Atene, il vecchio risponde: “Che dici? Non può essere: non vedo i giudici in seduta”. Tucidide dice che a parere di molti gli ateniesi amavano i processi. Sicuramente in una città così ricca e in cui si erano notevolmente sviluppate le attività commerciali e manifatturiere, le occasioni per liti e questioni legali dovevano essere maggiori che in altre città. Inoltre gli Ateniesi costringevano gli alleati della lega delio-attica a celebrare i loro processi ad Atene. L'attività dei tribunali era frenetica, molto impegnati, e ben retribuiti, erano gli autori di discorsi giudiziari, come Lisia e, da giovane, Isocrate; quando Strepsiade va nel pensatoio socratico per apprendere l'arte della parola, le Nuvole gli promettono: “Avrai sempre gente seduta alla tua porta, che vogliono parlare con te, discutere affari e cause per un valore di molti talenti”.
Ad Atene non esistevano tribunali permanenti con magistrati incaricati di emettere sentenze e non c'erano né pubblici ministeri né avvocati difensori. Era sempre un cittadino a dovere sostenere l'accusa, sia che fosse parte lesa e quindi direttamente interessato, sia che si facesse parte civile a favore dell'intera comunità. Allo stesso modo l'accusato doveva difendersi personalmente, aiutato magari da un discorso scritto da uno specialista, un logografo, e da lui imparato a memoria. A giudicare tra le due parti era o un arbitro, estratto a sorte tra i cittadini che avevano più di sessant'anni, per le cause di minore importanza, oppure una giuria composta da duecentouno, quattrocentouno o più cittadini, tratti a sorte da un elenco di seimila ateniesi preparato all'inizio di ogni anno dagli arconti. I giurati a partire dall'età di Pericle ricevevano un'indennità di due oboli al giorno, una paga piuttosto bassa, che però attirava gli anziani che non lavoravano più, come Filocleone, protagonista delle Vespe di Aristofane. Le cause si discutevano in una sola seduta, mai più lunga di una giornata, e si concludevano con il voto segreto dei giurati che non facevano una discussione preliminare, e la cui sentenza era senz'appello.
Il sistema giudiziario era quindi basato su un'estrema efficienza e sulla volontà dei cittadini; gli ateniesi accettavano questo sistema, barbarico per la sensibilità giuridica moderna, che teneva in pochissimo conto i diritti dell'individuo e mirava essenzialmente alla salvezza e al benessere della polis; Aristofane mostra tutti i difetti di questo sistema giudiziario che, controllato da abili e spregiudicati demagoghi, era diventato uno strumento di lotta politica, utile per colpire i nemici e per aiutare gli amici.
Gli ateniesi ponevano l'autorità delle sentenze nello stesso corpo di cittadini che prendeva le decisioni politiche, non esisteva alcuna distinzione tra i diversi poteri. I cinquecento buleuti, tutti i magistrati e i demarchi erano sottoposti, prima di entrare in carica, alla dochimasia, un esame per verificare se avevano tutti i requisiti necessari ad assumere la carica: la cittadinanza, l'età e il godimento dei diritti politici; alla fine dell'anno poi erano sottoposti a un esame della loro condotta, in cui dovevano rendere conto della loro attività, in particolare dal punto di vista finanziario. In ogni pritania inoltre, nel corso della seduta principale, c'era la possibilità di togliere la fiducia ai magistrati. Nessun uomo politico ateniese si trovò mai nella situazione in cui si trovano gli uomini politici nelle moderne democrazie, i quali, ricevuta dagli elettori una delega, la possono esercitare per almeno quattro anni. Pericle ogni mese rischiava di subire una procedura di impeachment. Oltre a ciò, attraverso l'ostracismo, gli ateniesi potevano mandare in esilio qualsiasi cittadino che fosse ritenuto pericoloso per la vita democratica della comunità: l'ostracizzato perdeva i diritti politici e per dieci anni doveva vivere al di fuori del suolo dell'Attica, ma non perdeva i propri beni, di cui rientrava in possesso alla fine del periodo di ostracismo. L'ostracismo colpì quasi tutti i leaders della democrazia ateniese: qualsiasi atteggiamento che in qualche modo potesse essere considerato tirannico veniva punito in questo modo. Questi meccanismi assicuravano l'onnipotenza dell'assemblea.
Tucidide racconta come si svolsero alcune importanti sedute dell'assemblea ateniese. Nel 432, dopo una serie di trattative andate a vuoto, gli spartani inviarono un ultimatum ad Atene, in cui si pretendeva che la città rinunciasse all'impero. La guerra tra le due potenze egemoni del mondo greco era ormai alle porte. “Allora gli ateniesi convocarono l'assemblea, sottoposero le proposte alla discussione e decisero di consultarsi e di rispondere una volta per sempre a tutte quante le domande rivolte dai lacedemoni. E, presentatisi molti altri che erano di opposti pareri, gli uni dissero che bisognava fare la guerra e gli altri sostennero che il decreto non doveva essere ostacolo alla pace e che bisognava abrogarlo”. Fu necessario un lungo intervento di Pericle per convincere gli ateniesi a rifiutare l'ultimatum spartano: la guerra poteva essere evitata, se l'Alcmeonide non spendeva tutto il suo carisma a favore della guerra e prevalevano i filospartani. Tucidide, che quasi certamente era presente a quella seduta, fa capire i dubbi e le incertezze degli ateniesi che stavano per fare una scelta molto difficile, che li riguardava direttamente, toccava le loro famiglie e i loro interessi. Votare a favore o contro la guerra per un cittadino di Atene voleva dire scegliere se partire, magari con la speranza di facili guadagni, o rimanere a coltivare il proprio campo. Allo stesso modo durante un'altra drammatica seduta dell'assemblea, quella del 415, per decidere se intraprendere la spedizione in Sicilia, si scontrarono Nicia e Alcibiade, le ragioni della prudenza e quelle dell'avventura. Tucidide è, come al solito, acutissimo nel descrivere lo stato d'animo degli ateniesi, pronti a gettarsi nella sfortunata avventura siciliana. “E tutti ugualmente furono presi dal desiderio di partire, i più vecchi convinti che o avrebbero assoggettato la città verso cui andavano o non avrebbero avuto insuccessi, potenti com'erano; i più giovani, per desiderio di vedere e osservare un paese lontano, pieni di speranza di tornare sani e salvi. La gran massa dei soldati nel momento presente pensava di riportare molto denaro o di acquistare per Atene una potenza dalla quale avrebbero avuto un soldo perenne”.

continua...

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