lunedì 14 dicembre 2009

da "La guerra del Peloponneso" (II, 36-41) di Tucidide


Tucidide ricostruisce il discorso che Pericle fece agli ateniesi in onore dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso.

Per prima cosa comincerò dagli antenati: è giusto, infatti, e conveniente insieme che in simile occasione sia dato loro questo onore della prima menzione. Restando sempre i medesimi abitatori di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni, grazie al loro valore, la tramandarono libera fino ai nostri giorni. E se i nostri antenati sono degni di lode, ancora di più lo sono i nostri padri: non senza fatica aggiunsero quell’impero che ora è nostro a quello che era stato lasciato loro, e cosi grande lo lasciarono a noi.
Ma l’ampliamento dell’impero stesso è opera nostra, di tutti quanti noi che ci troviamo nell’età matura e che abbiamo ingrandito la nostra città, si da renderla preparata da ogni punto di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra. Le imprese in guerra, con le quali furono conquistati a uno a uno questi vantaggi, o le occasioni in cui noi stessi o i nostri padri respingemmo valorosamente il barbaro o il greco che ci assaliva, le tralascio, perché non voglio dilungarmi a parlarne con persone che ne sono al corrente. Ma in virtù di quali principi noi siamo giunti a questo impero, e con quale costituzione e con qual modo di vivere tale impero si è ingrandito, questo mi accingo a mostrare per primo, e quindi a lodare costoro, poiché penso che in questa situazione non è sconveniente che se ne parli, ed è utile che tutta la folla dei cittadini e degli stranieri lo ascolti.
Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale più che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale.
Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, si, non sono dannose, ma pure sono spiacevoli ai nostri occhi. Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.
E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui.
Ma anche nelle esercitazioni della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti motivi. Offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con la cacciata degli stranieri noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa (mentre un nemico che potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne trarrebbe un vantaggio). Ché la nostra fiducia è posta più nell’audacia che mostriamo verso l’azione (audacia che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli inganni.
E nell’educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed esercizi di raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non per questo ci rifiutiamo di affrontare quei pericoli in cui i nostri nemici sono alla nostra altezza. Eccone la prova: neppure i lacedemoni invadono la nostra terra da soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo da soli i nostri vicini, di solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera, combattendo con della gente che difende i propri beni. Le nostre forze unite per ora nessun nemico le ha incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e contemporaneamente per terra facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte imprese. Se si scontrano con una piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di averci respinti tutti, mentre se sono vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi.
Eppure, se noi siamo disposti ad affrontare pericoli più col prendere le cose facilmente che con un esercizio fondato sulla fatica, e con un coraggio generato in noi non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da questo fatto ci deriva il vantaggio di non affaticarci anticipando i dolori che ci attendono, e di non apparire, quando li affrontiamo, più timidi di coloro che sempre si mettono a dura prova, e per la nostra città il vantaggio di esser degna di ammirazione per questa e per altre cose.
Amiamo il bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa, e noi ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati delle discussioni prima di entrare in azione. E di certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce audacia e il calcolo incertezza.
E' giusto giudicare superiori per forza d’animo coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per questo si lasciano spaventare dai pericoli. E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici ma col farli. Chi ha fatto il favore è un amico più sicuro, in quanto è disposto, con una continua benevolenza verso chi lo riceve, a tenere vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore è meno pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma per pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi.
Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazioni, e con la più grande versatilità accompagnata da decoro. E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto lo indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la prova in modo superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non dà motivo di irritazione quando costui considera da chi è vinto, né, al suddito, motivo di disprezzo, come se costui non fosse dominato da persone degne.
Non spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può dilettare per il momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite sui fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra audacia, stabilendo ovunque, assieme alle nostre colonie, monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o sfortunate. Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia disposto ad affrontare sofferenze per lei.

1 commento: