giovedì 30 dicembre 2010

da "L'arte della commedia" di Eduardo De Filippo


Oreste Campese
(parte dal centro della ribalta per raggiungere la quinta di scena)
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette...
(si ferma, si gira su se stesso e fissa il punto di partenza)
...sette passi. Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E' un bel cortile! Si potrebbe fare un discreto teatro. Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori... Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente. In fondo, il capannone non aveva che trecento posti a sedere. E il palcoscenico che era? Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri, per quattro di profondità. Ho recitato quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati! Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché contano qualche cosa gli scenari? Quali scenari ho mai avuto io? Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate. Il torrione del castello, la sala del trono, la foresta... tutto lì! E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s'impicciavano gli anelli... E il pubblico non diceva niente. "Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente", e la chiusura della tenda la completavo io, vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca. Che conta? Una sera, la chiusura del sipario l'ha dovuta completare mia figlia, vestita da Ofelia. Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata? "Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso". Una risata, un applauso, quattro colpi di martello e l'attore riprende la scena dal punto in cui l'ha lasciata. Se gli riesce, e questo è affare suo, ristabilisce tra sé e i pubblico l'incantesimo del teatro. Gli attori della mia generazione li creavano apposta gli incidenti a teatro, per dare al pubblico la sensazione dell'imprevisto. E' proprio questo imprevisto che eleva il teatro a forma d'arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico e finanziario che si può compiere per rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico, ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione. Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione. l'esperienza tecnica e artistica di uno scenografo, anche se è geniale, non potrà mai dare tante versioni figurative per quante se ne creano gli spettatori, ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d'animo che attraversa in quel momento... Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth - io lo faccio coi baffi, Macbeth -, me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione...

martedì 28 dicembre 2010

Considerazioni libere (191): a proposito di accordi di fine d'anno...

Su come è finito il 2010 nel mondo ho scritto qualche giorno fa (la "considerazione" nr. 190, per la precisione). E mi pare non ci siano novità degne di questo nome: chi sta peggio continua a stare peggio e chi è più debole e più povero paga per tutti.
Su come sta finendo il 2010 in Italia vorrei scrivere in questa "considerazione", l'ultima per quest'anno. Ho parlato più volte delle reciproche e vicendevoli inconsistenze della maggioranza e dell'opposizione e della continua, progressiva, perdita di autorevolezza delle istituzioni; voglio soltanto segnalare gli sforzi del Presidente Napolitano e di alcuni amministratori locali - quest'anno è stato ucciso Angelo Vassallo, un sindaco eroico perché svolgeva con coscienza il proprio ruolo in una terra difficile - che faticano ogni giorno a tenere in piedi la baracca.
Al di là di tutto questo, mi pare che l'anno si chiuda con la volontà della più grande e importante industria privata, la Fiat, di imporre ai lavoratori un accordo che segna oggettivamente un passo indietro nel campo dei diritti dei lavoratori, sia singolarmente sia considerati come classe - se questa "brutta parola" si può ancora usare.
Ho già scritto dell'accordo di Pomigliano (nelle "considerazioni" nr. 126 e nr. 131) ed era facile immaginare che Marchionne avrebbe voluto esportare quel modello in tutti i suoi stabilimenti, specialmente in uno così simbolico come Mirafiori.
Non ho le competenze per affrontare le questioni legate a orari, straordinari, turni, ma ci sono punti su cui mi pare che dovremmo tutti fare una riflessione. L’accordo definisce le quote proporzionali di assenze oltre le quali l’assenteismo si giudica eccessivo: il 6% a luglio 2011, il 4% a gennaio 2012, il 3,5% dal 2013; in caso si superino queste soglie, non verranno pagati i primi due giorni di malattia a chi negli ultimi dodici mesi si è ammalato subito prima di un giorno di riposo o di ferie, ad esclusione di patologie gravi.
L'accordo prevede che non ci sia più l’elezione dei delegati sindacali di fabbrica, ma che soltanto i sindacati che firmeranno l’accordo potranno nominare i rappresentanti aziendali. Inoltre i sindacati che sciopereranno contro l’accordo potranno essere puniti con l’annullamento dei permessi sindacali; l’azienda non tratterrà le quote di iscrizione ai sindacati dalle buste paga, ma saranno i sindacati a raccoglierle. Infine tutti i lavoratori firmeranno personalmente il nuovo contratto e se poi sciopereranno contro l’accordo, potranno essere licenziati. Si toglie valore al contratto nazionale, si indeboliscono i sindacati, si lascia il lavoratore, ogni singolo lavoratore, solo davanti al padrone - altra "brutta parola" che non si usa più - e fatalmente questo lavoratore, sempre più isolato, preoccupato per sé e molto di più per la propria famiglia, i propri figli, finirà con il piegarsi, con il trovarsi con il cappello in mano e accettare quello che gli verrà offerto.
Assicuratosi la copertura politica del governo e la sospetta acquiescenza di Cisl e Uil - oltre all'entusiasmo dei vari commentatori che predicano la fine della conflittualità novecentesca - Marchionne ha, come l'altra volta, lanciato un ultimatum ai lavoratori: o si accetta l'accordo o la produzione verrà portata fuori dall'Italia, lontano da Torino. E così il sindaco della città, che si vorrebbe candidare a guidare il centrosinistra nazionale, si è piegato all'accordo, il candidato sindaco Fassino ha fatto altrettanto, e così faranno anche questa volta i lavoratori: il lavoro è troppo importante e non possono correre il rischio di perderlo.
E' rimasta la Cgil a difendere un contratto nazionale, che tutti ormai considerano superato, e i diritti elementari dei lavoratori, che non possono essere comprati con degli investimenti e neppure con degli aumenti salariali. Ancora una volta, è scioccante il silenzio di quella che dovrebbe essere la maggior forza del centrosinistra e soprattutto di uomini che vengono da una storia che evidentemente non ricordano più. La sinistra che ha perso l'anima è qui, quella che lascia soli i lavoratori.
Chiudo questa "considerazione" con alcune frasi pronunciate da Giuseppe Di Vittorio all'Assemblea costituente, che, al di là di una forse datata retorica di partito, mantengono nella loro essenza il nocciolo di quello che dovrebbe essere l'azione di un partito di sinistra.
Il diritto di associazione è senza dubbio fra i diritti fondamentali del cittadino e una delle espressioni più chiare delle libertà democratiche. Il diritto di associazione è anzi il presidio più sicuro della libertà della persona umana, la quale tende in misura crescente a ricercare la via del proprio sviluppo, della propria difesa, e d’un maggiore benessere economico e spirituale, specialmente nella libertà di coalizzarsi con altre persone, in aggruppamenti sociali, professionali, cooperativi, politici, religiosi, culturali, sportivi e d’ogni alto genere, aventi interessi od ideali comuni od affini.
[...]
Tale diritto dev’essere riconosciuto a tutti i cittadini d’ambo i sessi e d’ogni ceto sociale, senza nessuna esclusione. Tuttavia, la Costituzione non può ignorare che se il diritto di associazione dev’essere garantito ad ogni cittadino, esso ha però un valore diverso pei differenti strati sociali.
Nell’attuale sistema sociale, infatti, la ricchezza nazionale è troppo mal ripartita, in quanto si hanno accumulazioni d’immensi capitali nelle mani di pochi cittadini, mentre l’enorme maggioranza di essi ne è completamente sprovvista. In tali condizioni, è chiaro che nei naturali ed inevitabili contrasti di interessi economici e sociali sorgenti fra i vari strati della società nazionale, il cittadino lavoratore ed il cittadino capitalista non si trovano affatto in condizione di eguaglianza. Il cittadino capitalista, basandosi sulla propria potenza economica, può lottare e prevalere anche da solo, in determinate competizioni di carattere economico. Il cittadino lavoratore, invece, da solo, non può ragionevolmente nemmeno pensare a partecipare a tali competizioni. Ne consegue che per il cittadino lavoratore la sola possibilità che esista - perché possa partecipare a date competizioni economiche, senza esserne schiacciato in partenza - è quella di associarsi con altri lavoratori, aventi interessi e scopi comuni, per controbilanciare col numero, con l’associazione e con l’unità d’intenti e d’azione degli associati, la potenza economica del singolo capitalista o d’una associazione di capitalisti. Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido, per i lavoratori, per l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro, che dovranno essere sanciti dalla nostra Costituzione.

lunedì 27 dicembre 2010

"Speculando sul sisma" di Josè Saramago

Mi perdonerà il lettore se ogni tanto mi lascio scivolare lungo i declivi di facili filosofie. Freno più che posso per non precipitare nel tono di pretenziosa gravità, che è, a mio avviso, il peggior nemico di una convivenza pacifica. Preferisco questa corda complice, tra cronista e lettore che la vita un po’ la conoscono e, proprio per questo, non si prendono troppo sul serio.
Ciò viene a proposito, anche se non sembra, della scossa di terremoto che ha spaventato tutti e qualcuno lo ha ucciso. Ci sono rovine, piccoli avvisi di quel che avrebbe potuto essere. E qui cadrebbe a fagiolo la risaputa aria sulla precarietà della vita umana, sulla fragilità di questo mondo, l’allusione fatalista al vecchissimo Salomone: "Vanità delle vanità...", ecc., ecc. Non ne vale la pena. Conoscevamo già tutto prima, anche quando sembrava che non ce lo ricordassimo. Nel profondo sappiamo che la vita (questa nostra vita) è, come si dice correntemente, appesa a un filo. Ma poi i giorni passano, passano gli anni, la terra obbediente fa il suo giro e noi finiamo col credere di aver afferrato qualche briciola dei manicaretti dell’eternità. È questo che ci aiuta: così, andiamo facendo progetti per il domani, per l’estate ancora lontana.
Fino a che venti o trenta secondi di scosse (e che sono trenta secondi?) ci mostrano quanto poco significhiamo. Qualche milione di animali spaventati, con l’anima tremante come il mondo che ci sfugge sotto i piedi. Tutto finirà, sta finendo, ormai è finito. Ma la terra torna alla serenità, si finge solida e sicura, giovinetta di buone maniere, e allora quell’irresistibile desiderio di continuare a vivere raccoglie i pezzi (i nostri e quelli delle cose) e li ricompone, gli dà senso e persistenza. Abbiamo vinto la partita: non abbiamo sconfitto il terremoto, ma abbiamo sconfitto la paura, non le abbiamo permesso di mettere radici nell’animo che si è spaventato - e che si spaventerà ancora.
Non so che cosa unisca di più, se le grandi catastrofi o le grandi gioie. Le catastrofi sono una buona marea per far venire a galla l’istinto di conservazione, l’egoismo istintivo (le gioie, a pensarci bene, hanno anch’esse i loro peccati). Ma almeno, dopo una catastrofe, quando ci ritroviamo alla luce del giorno, ancora non del tutto ripresi dallo spavento, forse vergognosi delle fughe dissennate, della ferocia del "si salvi chi può" - ci guardiamo l’un l’altro negli occhi e ci vediamo uguali, un po’ fratelli e amici. Perciò parliamo tanto di quel che ci è accaduto, con questo, con quello, con lo sconosciuto che ci è capitato davanti per caso. C’è un bisogno impellente di abbandonarci, di comunicare, come se tutti insieme acquistassimo forza per far fronte a quel che ancora potrebbe succedere.
Tutti insieme - ecco il fiore di questo piccolo arbusto che è la cronaca. Di colpo, le persone vogliono delle soluzioni, si afferra il terremoto con entrambe le mani, virilmente. Stavolta è così. Non abbiamo vinto la paura, ma abbiamo guadagnato solidarietà. Siamo un blocco saldo, senza crepe. Un progetto in atto che ha fatto marcia indietro e si è installato nel giorno di oggi. Non siamo in salvo da una catastrofe futura (nessuno lo è), ma abbiamo imparato la lezione: ora tutto sarà fatto per proteggere tutti. Potremo restare sepolti sotto le macerie, ma non per incuria, non per indifferenza. Avremo fatto tutto quello che era alla portata delle nostre piccole forze umane.
Mi perdonerà il lettore se mi son lasciato scivolare lungo il declivio delle utopie. L’uomo ha la memoria corta. Una giornata di sole basta per far dimenticare tutto, il pavimento solido della strada smentisce la paura. Ciascuno per sé, nessuno per tutti, e il vicino ha una faccia sgradevole che decisamente non quadra con le mie esigenze.
Fino al prossimo terremoto.

venerdì 24 dicembre 2010

Considerazioni libere (190): a proposito di bilanci...

Visto che siamo a fine anno, mi è venuta la curiosità di vedere le ultime "considerazioni" dello scorso dicembre, per capire come era finito il 2009 - e, conseguentemente, com'era cominciato il 2010. Nella nr. 48 del 19 dicembre ho parlato della protesta dei lavoratori della Coop Estense contro la tendenza a tenere aperti supermercati e negozi il maggior numero possibile di domeniche e giorni festivi; nella nr. 49 del 22 dicembre ho raccontato la storia di James Bain, che ha ha trascorso 35 anni nelle carceri statunitensi, con l'accusa di aver rapito e violentato un bambino, attendendo oltre una decina d'anni che una corte accettasse di sottoporlo alla prova del Dna, cosa che l'ha effettivamente scagionato; infine nella nr. 50 del 25 dicembre, il giorno di Natale, ho riportato, dal sito di Amnesty, l'intervista con Biram Dah Abeid, presidente dell'associazione Initiative de Résurgence du mouvement Abolitionniste de Mauritanie, sul problema della schiavitù in quel paese africano. L'ultimo post dell'anno, come potete vedere, è la poesia Soldati di Giuseppe Ungaretti.
Il 15 dicembre scorso e agenzie di stampa hanno dato la notizia che Biram Dah Abeid, insieme ad altri otto militanti della sua organizzazione, sono stati picchiati e arrestati, dopo aver manifestato per denunciare che due ragazzine di 9 e 13 anni sono tenute in stato di schiavitù a Nouakchott. Il 17 dicembre è stata eseguita in Oklahoma la prima condanna a morte con un farmaco usato nell'abbattimento degli animali; a causa della crisi economica, sono terminate le scorte del tiopentale sodico, il farmaco finora usato nelle iniezioni letali per sedare i condannati. Non cambia molto rispetto alla brutalità e all'ingiustizia della pena di morte, il modo con cui John David Duty è stato ucciso, ma certo fa una certa impressione commentare una notizia del genere. Per quello che riguarda le aperture domenicali basta darsi un'occhiata in giro. Ieri ho aggiunto nel mio blog un racconto di Calvino sul Natale; come è profetica questa frase.
Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri.

Viste le notizie di questo dicembre e quelle del dicembre scorso, possiamo tranquillamente dire che quest'anno non è successo nulla.

giovedì 23 dicembre 2010

"I figli di Babbo Natale" di Italo Calvino

Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino danno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto - come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
In magazzino, il bene - materiale e spirituale - passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra "tredicesima mensilità" e "ore straordinarie". Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: - Ehi, tu! - disse a Marcovaldo. - Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. "Dapprincipio, - pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!"
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. - Mah... Non vedete come sono vestito?
- E come vuoi essere vestito? - disse Pietruccio. - Da Babbo Natale, no?
- E m'avete riconosciuto subito?
- Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
- E il cognato della portinaia!
- E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
- E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
- Tutti vestiti da Babbo Natale? - chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
- Certo, tal quale come te, uffa, - risposero i bambini, - da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, - e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. - Si può sapere cosa state complottando? - chiese Marcovaldo.
- Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
- Regali per chi?
- Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
- Ma chi ve l'ha detto?
- C'è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: "Siete voi i bambini poveri!", ma durante quella settimana s'era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: - Bambini poveri non ne esistono più!
S'alzò Michelino e chiese: - È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentì stringere il cuore. - Ora devo guadagnare degli straordinari, - disse in fretta, - e poi ve li porto.
- Li guadagni come? - chiese Filippetto.
- Portando dei regali, - fece Marcovaldo.
- A noi?
- No, ad altri.
- Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: - Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
- No.
- Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d'esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. - Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, - disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
- Andiamo, forse troverò un bambino povero, - disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
- La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. - Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
- La Sbav augura...
- Be', portate qua, - e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
- Gianfranco, su, Gianfranco, - disse la governante, - hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
- Trecentododici, - sospirò il bambino - senz'alzare gli occhi dal libro. - Metta lí.
- È il trecentododicesimo regalo che arriva, - disse la governante. - Gianfranco è così bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
- Papà, quel bambino è un bambino povero? - chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: - Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator...
S'interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
"Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro..." Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
- Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?
- A casa, a prendere i regali... Si, i regali per quel bambino povero...
- Eh! Chi?
- Quello che se ne stava cosi triste.. - quello della villa con l'albero di Natale...
- A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
- Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
- Figuriamoci! - disse Marcovaldo. - Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
- Sì, sì dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano...
- E cos'erano?
- Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno...
- E lui?
- Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
- Come?
- Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo...
- Cos'era?
- Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari...
- Basta, basta, non voglio più sentire! E... il terzo regalo?
- Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: "I fiammiferi non me li lasciano mai toccare!" Ha cominciato ad accenderli, e...
-E...?
- …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. - Sono rovinato!
L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.
- Alt! - gli dissero, - scaricare tutto; subito!
"Ci siamo!" si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
- Presto! Bisogna sostituire i pacchi! - dissero i Capiufficio. - L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
- Cosi tutt'a un tratto... - commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima...
- È stata una scoperta improvvisa del presidente, - spiegò un altro. - Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi...
- Quel che più conta, - aggiunse il terzo, - è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino... Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo...
- Ma questo bambino, - chiese Marcovaldo con un filo di voce, - ha distrutto veramente molta roba?
- Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata...

Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po' più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

domenica 19 dicembre 2010

"L'usignolo è di nuovo tra noi" di Bogomil Gjuzel


È tornato al giardino per boicottare la nostra povertà
ignorare l’embargo, e dormire durante la guerra.

Nessuno sa perché. Forse ama gli alberi
che volevamo tagliare, ma non l’abbiamo mai fatto, o la compagnia

di corvi e gazze schiamazzanti, le colombe e i gatti,
o semplicemente i bambini, la piscina nata dal canale rotto?

Forse ama noi, “signori del maniero” ... non è probabile, non da quando
un vicino, che non riusciva dormire “per tutto quel dannato cantare”,

cercò di farlo andare via. Ora tace. Ha trovato
un compagno, è tornato ad un nido invisibile.

Cosa ci è successo? Il canto dell’uccello
è stupido. Nessuna preoccupazione.

Non sua preoccupazione, ma nostra... per più di un anno
non abbiamo mai notato la sua assenza (come la nostra assenza passerà inosservata).

Ora ricordiamo perché il canto
disturba il nostro sonno, questo costante disagio.

Possa questo canto spandersi tra questa modesta poesia
e trovarci l’anno prossimo, qui, a casa

con i nuovi signori del maniero, assenti,
un nuovo canto che sgorghi, come se nulla

potesse accadere, o dovesse. I nostri vicini
si addormentino, rintanandosi, i futuri solo oblio.

Considerazioni libere (189): a proposito di soldi che si hanno e non si hanno...

Non so quanti dei miei sparuti seguono il calcio e quanti, tra le vicende di questo sport, si interessano a quello che succede intorno al Bologna Fc: suppongo siano assai pochi. In questi mesi però è successo qualcosa che merita una qualche attenzione, anche per chi non ama lo sport.
Nell'estate del 2008 il Bologna è stato acquistato da Renzo Menarini, un imprenditore bolognese, proprietario di un'importante impresa di costruzioni. Menarini, già socio di minoranza del club, aveva pensato che la proprietà della squadra di calcio gli avrebbe permesso di realizzare un nuovo stadio nei dintorni della città e quindi sarebbe stato un affare considerevole. Svanita ben presto questa ipotesi, è stato subito evidente che Menarini non aveva il denaro necessario, oltre che le capacità, per gestire una squadra di calcio: il Bologna quindi è stato messo sul mercato. Dopo alcune trattative andate a vuoto, è sbarcato a Bologna un imprenditore sardo, Sergio Porcedda, che questa estate, ha acquistato l'80% del club, avviato una campagna acquisti piuttosto costosa e cominciato a gestire la società: pareva andasse tutto bene, nonostante qualcuno avesse dei sospetti sulle reali capacità finanziarie di Porcedda. Alcune settimane fa è venuta fuori la vera situazione della società: Porcedda non ha mai tirato fuori un euro, non ha pagato Menarini per l'acquisto della società, non ha pagato le altre squadre per l'acquisto dei giocatori, non ha pagato l'affitto al Comune per lo stadio, non ha pagato l'affitto per la sede e il centro tecnico, non ha pagato né gli stipendi dei giocatori né le tasse e i contributi. In sostanza è venuto fuori che Porcedda non solo non ha i soldi per comprare una squadra di serie A, ma probabilmente neppure per comprarsi un calcio balilla.
Pare che alcuni importanti imprenditori legati alla città vogliano acquistare la società e Porcedda sta trattando per uscire, non solo senza pagare dazio, ma probabilmente con una qualche buonuscita. E probabilmente ci riuscirà.
Ora questa vicenda - che ho riassunto per sommi capi - mi sembra che racconti esattamente cosa è diventato questo paese. Un truffatore - perché questo è Porcedda - può tranquillamente acquistare una società e fare affari di milioni senza avere in tasca un soldo e quando lo scoprono può farla franca. Per chiunque di noi l'acquisto di un oggetto a rate, un'automobile piuttosto che una cucina, si rivela a volte un lungo passaggio di carte e garanzie, per qualcuno evidentemente per comprare una società basta la faccia tosta e la spregiudicatezza. C'è evidentemente qualcosa di patologico nel nostro sistema, nelle forme del capitalismo italiano, se un personaggio di questo genere può continuare a fare affari sul nulla. Mancano elementi di garanzia e di tutela per chi lavora.
Il Bologna si salverà, perché attorno a una squadra di calcio c'è un'altissima attenzione mediatica e politica: compresibilmente molti imprenditori, finora lontani dal mondo, hanno deciso di fare un investimento perché il fallimento della squadra finirebbe per danneggiare l'immagine dell'intera città. Ma cosa sarebbe successo se il Porcedda di turno avesse "acquistato" una qualunque altra società? L'azienda sarebbe fallita, lasciando a casa i lavoratori e senza soldi i fornitori, mentre il Porcedda di turno farebbe la bella vita da qualche altra parte. No, così non può continuare ad andare avanti.

venerdì 17 dicembre 2010

Considerazioni libere (188): a proposito di questa strana crisi di governo...

Ho aspettato un paio di giorni per commentare quello che è successo all'inizio della settimana, in parte perché impegnato in altre cose, ma soprattutto perché volevo farmi un'idea un po' meglio definita di quello che è successo, dentro e fuori il Palazzo. cominciamo dal fuori.
In Italia, almeno per quel che riguarda la storia della repubblica dal '45 a oggi, ci hanno abituato piuttosto male alla verità. Non sappiamo la verità su moltissimi avvenimenti, più o meno tragici, che hanno segnato la vita collettiva di tutti noi. Certo ci sono responsabilità che sono cominciate a emergere, ci sono sentenze che hanno in qualche modo accertato come si sono svolti certi fatti, poi ci sono ricostruzioni, alcune molto attendibili, altre decisamente più fantasiose. Alcuni passaggi della vita del nostro paese sono già oggetto di storia, altri sono ancora sotto la lente della cronaca. Non è un caso che in Italia sia così praticata la "dietrologia": c'è una certa tendenza nazionale a guardare dal buco della serratura, a sospettare - sempre gli altri, naturalmente - ma ci sono anche molte storie su cui esercitare questo sospetto. Pier Paolo Pasolini poteva scrivere "io so" il 14 novembre 1974 e molti di noi, certo più modestamente, pensano di sapere qualcosa, almeno hanno dei forti sospetti.
Proprio perché ci hanno così abituato a sospettare, non sono affatto convinto di quello che è successo lo scorso martedì a Roma. C'è qualcosa che non mi torna. Le violenze sono state pianificate e condotte in maniera troppo precisa per essere soltanto legate agli scoppi d'ira dei manifestanti, che pure ci sono stati e hanno influenzato l'esito degli avvenimenti. Poi mi stupisce la contemporanea presenza, e soprattutto la coordinazione, di persone che militano nei gruppi più violenti legati all'anarchia e all'estrema sinistra, con gli ultras romani, strettamente legati a tutt'altri ambienti politici. Francamente non so se c'erano infiltrati nella manifestazione, non so se la strategia delle forze dell'ordine sia stato la migliore per controllare la violenza, mi rimangono però alcuni dubbi. Soprattutto mi fa pensare la tempistica con cui si è svolto questo "attacco". Sinceramente penso che le violenze di martedì sarebbero state un efficace "piano b", se il governo non avesse ottenuto la fiducia alla Camera, cosa che non era comunque scontata, visto il livello etico di una parte dei nostri parlamentari.
In caso di sfiducia, seppur di misura, le violenze, magari ulteriormente esasperate ed esacerbate, sarebbero state un ottimo argomento per il Tg1, il Tg5 e compagnia cantante per parlare d'altro, per distogliere un po' l'attenzione dal risultato del voto parlamentare. La situazione di tensione avrebbe probabilmente sconsigliato le immediate dimissioni del governo o almeno fatto sì che ci fosse un immediato reincarico a Berlusconi. Certamente lo stato di tensione avrebbe giovato al presidente del consiglio - e al suo zelante ministro dell'interno - che avrebbe ricevuto la solidarietà e il sostegno anche di parte di quell'establishment che non lo ama (basti leggere il corsivo del Corriere della sera del giorno dopo, che pure è stato scritto dopo che il governo aveva ottenuto la risicata fiducia e le violenza erano state represse). Ripeto, non so come sia andata, ma il sospetto continua a rimanermi in testa.
Anche le scarcerazioni di ieri diventano funzionali a questo quadro, servono a ricompattare un fronte moderato e di destra che si è oggettivamente indebolito in parlamento, ma che rimane assai forte nella società.
Un'ultima annotazione sul "fuori". Sia che gli infiltrati ci siano stati sia che si sia trattato di episodi spontanei, non bisogna sottovalutare il carico di tensione e di violenza che esiste nella nostra società. E' una violenza non solo politica, anzi è molto più presente in altri aspetti della vita sociale e civile, ma è lì, pronta a esplodere; quando tanti ragazzi vedono con incertezza il proprio futuro, senza la possibilità di un lavoro stabile, questi rischi sono tutt'altro che imprevedibili.
Ora alcune brevi annotazioni su quello che è successo in parlamento. Fini ha sfidato Berlusconi e ha perso. Le opposizioni si sono accodate nella sfida a Fini e anch'esse hanno perso. Sinceramente è difficile descrivere in altro modo quello che è successo. Anch'io avrei preferito un esito diverso, ma purtroppo non è andata come speravamo. Stupiscono certi commenti dei dirigenti del Pd che hanno detto dopo il voto le stesse cose che avevano detto prima. In particolare il voto di martedì ha sancito che il governo di transizione o di responsabilità nazionale senza Berlusconi è impossibile numericamente, prima ancora che politicamente. Chi fa finta che sia ancora possibile, mente e, se ci crede, significa che non capisce molto di politica.
Il tentativo di Fini è stato generoso, ma velleitario: almeno fino a quando ci sarà Berlusconi, il centrodestra italiano ruoterà intorno a lui. Quando lui non ci sarà più forse la situazione cambierà, anche se le scorie lasciate sul campo continueranno a contaminarlo per molti altri anni.
In Italia, come negli altri paesi europei, c'è, e non da ora, un certo bipartismo: ci sono persone, che per cultura, valori, idee, interessi si collocano nel centrodestra e persona che cultura, valori, idee, interessi si collocano nel centrosinistra. Poi negli ultimi sedici anni si è imposto un un altro bipolarismo, pro o contro Berlusconi, che in parte, ma solo in parte, si configura come il primo. E' questo secondo bipolarismo che domina la vita politica e sociale italiana ed è oggettivamente un'anomalia, che non poteva essere sanata con l'iniziativa di Fini.
In mezzo alle divisioni del centrodestra ci sarebbe probabilmente spazio per il centrosinistra, ma, ancora un volta, questo non è pervenuto. Il Pd non ha le risorse per "acquistare" i vari Razzi e Scilipoti, ma questo non deve naturalmente diventare un obiettivo per questo partito; non è neppure in grado di proporre un patto di potere, per conquistare le Polidori e le Siliquini, e anche questo non un obiettivo da perseguire. Il problema è che il Pd perde pezzi perché non è chiaro cosa sia e quando si perdono i pezzi per strada è difficile avere la capacità di attrarne di nuovi.

lunedì 13 dicembre 2010

Discorso ai giovani di Enrico Berlinguer del 18 aprile 1982

Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell'epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano probleni non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell'umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili. Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.
La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica - e poi dalla microelettronica - nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell'organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell'ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.
Nuove risorse d'energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l'incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall'energia solare.
Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.
[...]
Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.
Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo - che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo - scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all'inizio del secolo la condizione dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell'Europa e nell'America settentrionale, per avere l'idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.
Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.
Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.
Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.
Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all'inizio - un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni - di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice - che consisteva nel proporre alle donne l'imitazione del modello maschile - tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.
Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all'umanità potenzialità negative anch'esse mai prima esistite.
Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell'uomo su questa terra.
Contemporaneamente, l'uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L'allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull'esistenza di danni crescenti per le acque - i fiumi, i laghi, i mari - e per l'aria che respiriamo, per l'atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra.
[...]
Grava poi sulla umanità l'incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.
E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l'emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all'andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.
Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell'estrema indigenza, (com'era ancora nell'Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.
Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.
Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell'estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.
Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.

Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo - e come - pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un'analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell'umanità?
E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all'interno delle nazioni?
Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l'avvertenza dei pericoli gravi che l'umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.
[...]
Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.
Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.
Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c'è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all'analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.

Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.
Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un "socialismo nuovo".
L'esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall'età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.
Noi riscopriamo proprio così l'esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.
Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E' del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto - già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta - che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale.
La discussione sarà ed è sul rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l'idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E' vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l'idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.
Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all'inizio del secolo.
[...]
Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.
Quei modelli di società e di Stato non solo - e da tempo - li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l'uomo di oggi chiede siano soddisfatti.

Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.
Se non si vuole che la giustizia prevalga sull'ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all'ingiustizia, o l'accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.
Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l'obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell'umanità. Non è così. Vi è anzi un'altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l'altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.
Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l'assurdità - tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l'obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.
[...]
Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il "nuovo socialismo", così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.
In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.
Si è cominciato, praticamente, a parlarne all'inizio degli anni '70: prima, e ancora per tutti gli anni '60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.
[...]
La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.
Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.
Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro.
La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma - dunque - la battaglia per il lavoro chiede anch'essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, "mature" e cioè all'avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?
Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.
Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.
Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.
[...]
Non è mai stato facile essere comunisti. L'assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.
[...]
Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all'associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all'impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.
[...]
Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l'offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica - come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce - ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.
Lo sviluppo dell'associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. "Democrazia" deve congiungersi con efficienza e "libertà", deve divenire responsabilità e liberazione.

"Denuncia di smarrimento" di Hans Magnus Enzenberger


Perdere i capelli, i nervi,
capite, il tempo prezioso,
in una partita perduta perdere
quota, lustro, sono dolente,
non importa, perdere per un pelo,
non interrompetemi, sangue
perdere, padre e madre,
ho perso il cuore a Heidelberg,
senza battere ciglio,
perdere ancora una volta, il fascino
della novità, acqua passata,
i diritti civili, haha,
la testa, Dio mio, la testa,
se proprio dev'essere,
il paradiso perduto, per conto mio,
il posto di lavoro, anima perduta,
la faccia, anche quella,
un molare, due guerre mondiali,
tre chili di peso, perdere,
perdere, sempre e solo perdere, anche
le illusioni già da tempo perdute,
beh se proprio ci vuole, taciamo
sulla fatica perduta,
ma da dove, il lume degli occhi
dagli occhi, l'innocenza
perderla, peccato, la chiave di casa,
peccato, perdersi d'animo
perdendosi tra la folla,
non m'interrompete,
la ragione, fino all'ultimo centesimo,
se è per questo, ho quasi finito,
la calma, il ranno e il sapone,
perdere tutto in una volta,
guai, persino il filo,
la patente, e la voglia.

domenica 12 dicembre 2010

Banca nazionale dell'Agricoltura, piazza Fontana, Milano, 12 dicembre 1969


Giovanni Arnoldi, 42 anni
Giulio China, 57 anni
Eugenio Corsini
Pietro Dendena, 45 anni
Carlo Gaiani, 37 anni
Calogero Galatioto, 37 anni
Carlo Garavaglia, 71 anni
Paolo Gerli, 45 anni
Luigi Meloni, 57 anni
Vittorio Mocchi
Gerolamo Papetti, 78 anni
Mario Pasi, 48 anni
Carlo Perego, 74 anni
Oreste Sangalli, 49 anni
Angelo Scaglia, 61 anni
Carlo Silvia, 71 anni
Attilio Valè, 52 anni

venerdì 10 dicembre 2010

Liu Xiaobo pronuncia la sua difesa il 23 dicembre 2009 nel corso del processo che lo ha condannato

Giugno 1989 è stato un momento di svolta nella mia vita. La carriera universitaria ha seguito un corso normale; dopo la laurea sono rimasto all'università di Pechino.
In cattedra, ero un insegnate benvoluto ed ero un intellettuale pubblico. Negli anni Ottanta, ho pubblicato articoli e libri, sono stato invitato a conferenze e corsi anche in America e Europa. La mia regola di vita era di comportarmi con onestà, senso di responsabilità e dignità.

Poi, tornato in Cina per prendere parte al movimento dell'89, fui imprigionato per "propaganda controrivoluzionaria e incitazione al crimine". Non avrei più potuto pubblicare o fare conferenze in Cina. Per aver espresso opinioni politiche diverse e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un insegnante perde la cattedra, uno scrittore perde il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico: questo è triste, non solo per me, ma per la Cina, dopo trent'anni di riforme.

Le esperienze più drammatiche della mia vita dopo il 4 giugno hanno a che fare con i tribunali. Le due occasioni che ho avuto di esprimermi in pubblico mi sono state fornite dal tribunale di Pechino, una nel gennaio 1991 e una ora. Capi d'accusa identici: reati d'opinione.
Le anime del 4 giugno non riposano ancora in pace. Dopo essere uscito dalla prigione di Qincheng nel 1991, ho perso il diritto di parola nel mio paese e mi sono potuto esprimere solo coi media stranieri. Sono stato agli arresti domiciliari (maggio 1995-gennaio 1996), mandato in un campo di rieducazione attraverso il lavoro (ottobre 1996-ottobre 1999) e oggi sono processato dai miei nemici.

Ripeto quanto avevo detto venti anni fa nella "Dichiarazione per il secondo sciopero della fame del 2 giugno": non ho nemici, non provo odio. Nessuno dei poliziotti che mi hanno tenuto sotto sorveglianza, arrestato, interrogato, nessuno dei procuratori che mi hanno perseguito, nessuno dei giudici che mi hanno condannato è un mio nemico. Anche se non posso accettare i vostri arresti e le vostre condanne, rispetto le vostre professioni e personalità.

L'odio corrode la saggezza e la coscienza, la "mentalità del nemico" avvelena lo spirito di una nazione, incita a lotte mortali, distrugge la tolleranza e l'umanità di una società, blocca lo sviluppo verso democrazia e libertà. Spero di trascendere le mie vicende in una comprensione dello sviluppo dello stato e dei cambiamenti della società, contrastare l'ostilità del potere con le mie migliori intenzioni, sostituire l'odio con l'amore.

La politica delle riforme ha portato allo sviluppo dello stato e alla trasformazione della società. Le riforme sono cominciate quando è stato abbandonato il principio della lotta di classe. Ci siamo dedicati allo sviluppo economico e all'armonia sociale. Il processo di abbandono della filosofia della lotta equivaleva allo stemperamento della mentalità del nemico, all'eliminazione della psicologia dell'odio e all'eliminazione del "latte della lupa" nel quale i cinesi erano stati immersi. Questo processo ha consentito la nascita di un ambiente più sereno per le riforme, per ristabilire l'amore fra le persone, per offrire un terreno più favorevole alla coesistenza pacifica di valori e interessi diversi. Così sono esplosi la creatività e il ritorno a un sentimento di umanità. L'orientamento dell'economia al mercato, il pluralismo culturale, l'evoluzione di uno stato di diritto hanno tratto profitto dall'indebolimento della mentalità del nemico. Anche in campo politico, dove i progressi sono stati più lenti, il potere è diventato più tollerante delle diversità sociali, è calata la persecuzione dei dissidenti.

L'indebolimento della mentalità del nemico ha portato il potere ad accettare l'universalità dei diritti dell'uomo. Nel 1998, il governo si è impegnato a sottoscrivere le due convenzioni internazionali sui diritti umani dell'Onu. Nel 2004, l'Assemblea del popolo ha iscritto per la prima volta nella Costituzione che "lo stato rispetta e garantisce i diritti umani". Il potere politico ha annunciato di voler mettere "l'uomo al centro" e di voler creare una "società armoniosa". Questi cambiamenti li ho sperimentati dopo il mio ultimo arresto.
Anche se mi professo innocente, ho conosciuto due prigioni, quattro uffici di polizia, tre procuratori e due giudici. Nel mio caso, non mi hanno mai mancato di rispetto. Il 23 giugno 2009 sono stato trasferito dal mio domicilio sorvegliato all'Ufficio di pubblica sicurezza di Pechino, noto come Beikan. Nei sei mesi che ho passato lì ho visto i progressi intervenuti nella gestione delle carceri.

Sono convinto che in Cina il progresso politico non si fermerà: nessuna forza può bloccare l'aspirazione dell'uomo alla libertà. Un giorno la Cina diventerà uno stato di diritto rispettoso dei diritti umani. Spero che un tale progresso potrà riflettersi sul mio caso.
L'esperienza più fortunata di questi vent'anni è l'amore incondizionato di mia moglie Liu Xia. Oggi non può essere presente al processo, ma voglio dirti, amore mio, che sono sicuro che il tuo amore per me non cambierà. Nella mia vita non libera, il nostro amore ha conosciuto l'amarezza imposta dall'ambiente esterno, ma quando ci penso lo considero un amore senza confini. Sono stato condannato a una prigione visibile, mentre tu aspetti in una prigione invisibile. Il tuo amore è la luce che supera i muri di recinzione e le sbarre alle finestre, che carezza la mia pelle, che mi consente di mantenere la mia calma interiore, la mia magnanimità e la mia lucentezza, rendendo significativo ogni minuto che trascorro in prigione. Ma il mio amore per te è pieno di colpe e rimpianti, tanto che rende pesanti i miei passi. Sono come una pietra in una landa desolata, ma il mio amore è solido. Anche se venissi ridotto in polvere, ti abbraccerei con le mie ceneri.

Spero che un giorno il mio paese sarà una terra dove ci si potrà esprimere liberamente; dove valori, fedi, opinioni diverse potranno convivere. Spero in un paese dove le opinioni politiche diverse da quelle di chi detiene il potere saranno rispettate e protette; dove tutti i cittadini potranno esprimere le loro opinioni politiche senza paura e le voci dissenzienti non saranno perseguitate. Spero di essere l'ultima vittima dell'immarcescibile inquisizione e che dopo di me nessun altro venga incarcerato per quello che ha detto.
La libertà di espressione è la base dei diritti umani, la radice dell'umanità, la madre della verità. Impedire la libertà di parola significa calpestare i diritti umani, schiacciare la verità. Non mi sento colpevole di aver utilizzato il diritto alla libertà di parola sancito dalla Costituzione.
Io sono innocente, e anche se vengo condannato per questo, non me ne cruccio.
Grazie.

giovedì 9 dicembre 2010

Considerazioni libere (187): a proposito di due giovani italiane...

Degli adolescenti si parla pochissimo in questo paese, come se non esistessero, come se non avessero diritti. Non ci preoccupiamo, a parte le loro famiglie - e non tutte purtroppo - e i più consapevoli dei loro educatori di come stanno crescendo in questa società "vuota", come la racconta il Rapporto del Censis e come la vediamo ogni giorno, se solo abbiamo il coraggio e la voglia di alzare lo sguardo dai nostri piccoli interessi di tutti i giorni.
Degli adolescenti non ci occupiamo, a meno che non diventino protagonisti di fatti di cronaca nera. Di Sarah Scazzi ci sembra ormai di conoscere tutto, non solo il suo bel viso di quindicenne; conosciamo i suoi segreti più intimi, i suoi sogni, la sua voglia di andare via da Avetrana, il suo desiderio di sentirsi più grande, il suo bisogno di un rapporto affettivo che non trovava nella famiglia. I giornali e soprattutto le reti televisive hanno scavato oltre il lecito nella vita di questa ragazza, uccisa dalla follia, più o meno lucida, di un suo familiare. Di Yara Gambirasio - che nauralmente si spera possa tornare dalla sua famiglia, dimenticando, per quanto possibile, questa terribile storia - sappiamo meno, per la riservetezza della sua famiglia e della sua comunità; ci sono diventati ormai consueti il sorriso con l'apparecchio e lo sguardo intenso dopo un'esercizio, conosciamo la sua normalità, e pare che questo non sia sufficiente agli sciacalli che hanno bisogno di un nuovo caso da prima pagina. Giorni fa ho notato lo stupore di un cronista che faceva notare che nei tabulati telefonici di Yara c'erano soltanto una decina di numeri telefonici ricorrenti, quelli dei genitori, dell'allenatrice, delle compagne di scuola e di palestra. Spero sinceramente che analizzando i tabulati telefonici di molte tredicenni si possa fare un'analoga scoperta.
C'è una prima considerazione che nasce intorno a queste due storie. Di fronte alla morbosità dei media la famiglia di Sarah e la comunità di Avetrana non hanno saputo opporre alcuna difesa. Sarah era scomparsa da pochissimo tempo quando già i vari protagonisti della vicenda erano stati intervistati da questa o quella rete televisiva e le giornaliste appostate davanti alla casa di Sarah si mandavano messaggini con le cugine. Ho visto brani di un'intervista - naturalmente "esclusiva" - alla madre di Sarah condotta insieme dagli inviati del Tg1 e del Tg5, in cui questi due impuniti si rivolgevano alla signora dandole del tu. Durante i collegamenti non sono mai mancati quelli che facevano capolino nello sfondo, fino ad arrivare ai "viaggi tutto compreso": villetta degli Scazzi, villetta dei Misseri, pozzo del ritrovamento. Ad Avetrana abbiamo assistito - e assistiamo ancora purtroppo - al peggio che può offrire di sé una famiglia e una comunità, compreso il monumento funebre alla memoria di Sarah offerto dal Comune.
Della famiglia Gambirasio non ci sono interviste, non ci sono foto, se non quelle strettamente necessarie di Yara, e le immagini dei genitori che entrano ed escono dalla stazione dei carabinieri. Dietro agli inviati non appare mai nessuno, ma sappiamo che da giorni, nonostante le difficile condizioni meteorologiche, gruppi di volontari di Brembate perlustrano le campagne per trovare un qualche indizio che porti a Yara. Non ci sono state fiaccolate, ma soltanto una veglia di preghiera, a il parroco ha vietato l'accesso ai giornalisti. Naturalmente Brembate non è il paradiso: Yara è scomparsa probabilmente rapita da una persona che conosceva e di cui si fidava; quando i carabinieri hanno arrestato per errore un giovane marocchino, sono comparsi cartelli razzisti, che invocavano una vendetta sommaria. Va dato atto al sindaco leghista e alla maggioranza di quella comunità di aver saputo condannare queste pulsioni, rientrate prima che si sapesse definitivamente che si era trattato di un tragico errore.
Esiste un'Italia solidale, che non si fa irretire dalle sirene delle telecamere e la dignità della famiglia Gambirasio dovrebbe essere di insegnamento per tanti.
Naturalmente rimane il dramma di Sarah, uccisa dalla sua famiglia. Non è inutile ricordare che la grande maggioranza dei delitti e delle violenze contro le donne avviene dentro le mura di case e per responsabilità di uomini che loro conoscevano bene: in questo la vicenda di Sarah è purtroppo di una tragica normalità, anche se è più semplice trovare il "mostro" fuori, magari tra gli "altri" oppure in Facebook, da subito considerato il colpevole della vicenda. Speriamo che la storia di Yara non diventi l'ennesimo dramma di questo tipo e francamente a questo punto non è determinante se il "mostro" sia di fuori o uno di Brembate, la cosa importante è che la ragazza possa essere salva. In ogni caso è importante che la punizione, per chi ha ucciso Sarah, per chi ha rapito Yara, per chi uccide ogni giorno donne, più o meno giovani, sia durissima. Come ha ricordato ieri Claudio Magris, "troppo spesso si dimentica che Dio è anche collera".
Poi sarebbe necessario che tutti noi cominciassimo a occuparci di più degli adolescenti e delle adolescenti, anche al di là della cronaca nera.

martedì 7 dicembre 2010

"Pallida consolazione" di Hans Magnus Enzenberger


La lotta di tutti contro tutti dovrebbe,
secondo quanto trapela da ambienti
vicini al ministero degli Interni,
essere prossimamente nazionalizzata,
fino all'ultima macchia di sangue.
Tanti saluti a Hobbes.

Guerra civile ad armi impari:
quel che gli uni fanno con la carta bollata
gli altri lo fanno col mitra.
Gli avvelenatori e i piromani
dovranno fondare un sindacato
per difendere il proprio posto di lavoro.

Si osserva un'apertura sempre maggiore
del nostro regime carcerario.
Lavabile, rilegato in plastica nera,
Krapotkin è lì pronto per lo studio:
Sistema del reciproco aiuto in natura. Magra consolazione.

Abbiamo con rammarico appreso
che non esiste giustizia,
e con ancora maggior rammarico
che, come ci assicurano negli ambienti in questione,
stropicciandosi le mani, mai alcunché
del genere potrà, dovrà né saprà esistere.

Dibattuto è tuttavia chi o che cosa
ne abbia colpa. Si tratta del peccato originale
o della genetica? della cura del neonato?
della scarsa educazione sentimentale?
della dieta sbagliata? del Diociassiste?
del predominio del maschio? del capitale?

Del fatto che purtroppo non possiamo impedirci
di violentarci a vicenda,
di metterci in croce alla prima occasione
e di mangiarci gli avanzi, non sarebbe male
scoprire un'adeguata spiegazione,
balsamica per l'intelletto.

Anche se l'obbrobrio quotidiano disturba,
esso tuttavia non ci stupisce.
Ciò che però appare enigmatico
è il tacito aiuto,
la bonarietà senza secondi fini,
nonché l'angelica bontà.

E' dunque gran tempo ormai di elogiare
con lingua infuocata il barman che per ore e ore
ascolta il monologo dell'impotente;
il rappresentante di gallette prodigo
di misericordia, il quale risparmia il colpo mortale
lasciando cadere l'ingiunzione a pagare;

nonché la bigotta, la quale
inaspettatamente accoglie il disertore affranto
che bussa alla sua porta, e lo nasconde;
e il rapitore che al confuso complotto
con un fievole sorriso di felicità
improvvisamente rinuncia, stanco morto;

e noi mettiamo da canto il giornale
rallegrandoci, con un'alzata di spalle, come
quando il pezzo strappalacrime, se Dio vuole, è finito;
quando al cinema si accendono le luci, e fuori
ha smesso di piovere, e allora finalmente
c'infiora le labbra la prima boccata di sigaretta.

lunedì 6 dicembre 2010

Considerazioni libere (186): a proposito di uomini e di città...

Mentre non sappiamo cosa succederà il prossimo 14 dicembre in Italia, potrebbe sembrare un paradosso pensare a cosa succederà in Africa tra 40 anni.
Per fortuna qualcuno ci sta pensando, anche se probabilmente questi studi sono destinati a rimanere nei cassetti di qualche agenzia internazionale. Un-Habitat è il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani: è nato nel 1978, ha sede a Nairobi, in Kenya, e attualmente è diretto dalla tanzaniana Anna Tibaijuka. Secondo un recente rapporto di Un-Habitat, da qui al 2050 la popolazione dell'Africa aumenterà di circa un miliardo. Già questo dato da solo dovrebbe far riflettere, ma a preoccupare ulteriormente è la distribuzione della popolazione africana: nel 2050 il numero degli abitanti delle grande aree metropolitane è destinato a salire fino a 1,3 miliardi. Stando alle attuali proiezioni Ougadougou, la capitale del Burkina Faso, passerebbe dagli attuali 1,9 milioni di abitanti a 3,4 milioni già nel 2020, tra soli dieci anni. Niamey, in Niger, Kampala, in Uganda, Dar-el-Salaam, in Tanzania, avranno un livello di crescita vicino al 60%, mentre Lagos, in Nigeria, Kinshahsa, nella Repubblica Democratica del Congo, Luanda, in Angola, cresceranno tra il 40 e il 50%.
Oltre alla crescita della popolazione, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, assisteremo al progressivo trasferimento di popolazione dalle campagne alla città. Ho già avuto modo di raccontare in alcune altre "considerazioni" come si sta trasformando il territorio africano: la costruzione di grandi dighe per la produzione di energia elettrica costringe ogni anno migliaia e migliaia di contadini a lasciare le loro terre, che vengono o sommerse dalle acque dei bacini o private dei loro naturali corsi d'acqua; così ad esempio il lago Ciad, al centro del continente, si sta rapidamente restringendo. Le compagnie dei paesi occidentali e di quelli arabi acquistano enormi quantità di terre per avviare coltivazioni intensive (leggete la "considerazione" nr. 91). Non è inutile ricordare che sia l'energia elettrica sia i prodotti coltivati sono destinati solo in minima parte al mercato africano, ma serviranno allo sviluppo dei nostri paesi. Intanto l'Africa viene progressivamente impoverita: in agosto del 2010, anche per rendere fertili i grandi latifondi e sostenere le coltivazioni cosiddette water-intensive, sono finite le risorse naturali che la terra può fornire e reintegrare nel corso di dodici mesi.
Per molti africani l'unica possibilità sarà quella di trasferirsi nelle enormi periferie delle città, dove già ora c'è una povertà incredibile, con tutti i rischi di carattere sanitario e sociale che sono facilmente immaginabili. Il rapporto di Un-Habitat descrive l'Africa del 2050 come "un oceano di miseria con isole di benessere".
Questi problemi sono i nostri problemi, non soltanto perché fatalmente molte di queste persone saranno costrette a fuggire dai loro paesi e cercare una qualche forma di sopravvivenza nei nostri paesi. E' un problema nostro perché questo pianeta non è più in grado di reggere questi livelli di sviluppo, e quando si arriverà al collasso, non sarà molto differente vivere a Roma, a Milano o a Ougadougou.
Se vogliamo immaginare l'Africa come a una speranza, bisogna che mettiamo al riparo lo spazio riproduttivo, arginiamo la conquista della terra, difendiamo la sovranità alimentare e le economie locali.
Voglio concludere citando un programma "rivoluzionario".
Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.

Questo lo diceva nel 1977 Enrico Berlinguer.

domenica 5 dicembre 2010

"Bread and roses" di James Oppenheim


As we go marching, marching, in the beauty of the day,
A million darkened kitchens, a thousand mill lofts gray,
Are touched with all the radiance that a sudden sun discloses,
For the people hear us singing: Bread and Roses! Bread and Roses!

As we go marching, marching, we battle too for men,
For they are women's children, and we mother them again.
Our lives shall not be sweated from birth until life closes;
Hearts starve as well as bodies; give us bread, but give us roses.

As we go marching, marching, unnumbered women dead
Go crying through our singing their ancient call for bread.
Small art and love and beauty their drudging spirits knew.
Yes, it is bread we fight for, but we fight for roses too.

As we go marching, marching, we bring the greater days,
The rising of the women means the rising of the race.
No more the drudge and idler, ten that toil where one reposes,
But a sharing of life's glories: Bread and roses, bread and roses.

Our lives shall not be sweated from birth until life closes;
Hearts starve as well as bodies; bread and roses, bread and roses.

potete ascoltare la canzone, interpretata da Mimi Farina e Joan Baez, cliccando qui

sabato 4 dicembre 2010

Considerazioni libere (185): a proposito di crisi, di valori e di responsabilità...

Il Rapporto sulla situazione sociale del Paese curato dal Censis, che è arrivato alla sua 44° edizione, è una lettura sempre molto interessante, che offre diversi spunti di riflessione. Ci sono molti elementi da approfondire, ma per ora vorrei scrivere qualche nota sulle "considerazioni generali", che vi invito a leggere con attenzione.
In Italia siamo abituati a dare sempre la colpa a qualcun altro. Il Rapporto del Censis ci spiega con una certa efficacia che si tratta di un alibi. Molti, a destra come a sinistra, pensano che se la situazione va così male sia colpa della nostra classe politica, fondamentalmente incapace e disonesta; tanti militanti del centrosinistra sono convinti che quando non ci sarà più Berlusconi tutto migliorerà. Certamente la nostra classe politica è mediamente inferiore al livello della cosiddetta società civile, ma questa non si segnala né per le proprie capacità né soprattutto per i propri valori etici. Allo stesso modo - come ho già avuto occasione di dire - Berlusconi porta gravissime responsabilità della decadenza italiana, ma è illusorio pensare che la sua fine politica, che speriamo comunque arrivi il prima possibile, possa di colpo risolvere i tanti problemi che affliggono questo paese.
Nel Rapporto si dice chiaramente che probabilmente
anche se ripartisse a breve la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe spessore e vigore adeguati alle sfide complesse che dovremo affrontare.

Non è quindi il problema soltanto della politica, ma di una società che non trova gli stimoli per reagire. Sono oltre due milioni i giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro: è una fascia di apatici, che non riesce a immaginare il proprio futuro.
E' evidente a questo punto che il problema non è solo politico, ma è etico.
È frequente il riscontro di comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi o arrangiatorii, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Con una rassegnazione implicita e diffusa non solo alla grande violenza della criminalità organizzata (“non c’è niente da fare”), ma anche alla insensatezza di molte insensatezze quotidiane (“siamo tutti un po’ matti”).

Il punto interessante è questo che segue, che mette in evidenza come la responsabilità di questa condizione sia complessiva.
Cresce l’indistinto. Lo si avverte nella dialettica politica, sempre meno chiara e bipolare; nella comunicazione giornalistica, fatta da paginate eguali e parallele, salvo mirate spregiudicate operazioni di servizio; nella comunicazione televisiva, coatta all’eccesso di stimolazioni ed eventi destinati a non permanere nella psiche collettiva; nelle nuove forme di tecnologia comunicazionale, in cui è ormai difficile distinguere messaggi e soggetti e le relative responsabilità; nel panorama delle responsabilità istituzionali, troppo frazionate e contraddittorie; nel mercato del lavoro, segnato da una nebbiosa
sovrapposizione di disoccupati, precari, lavoratori sommersi, ecc.; nella stessa composizione etnica, visto lo scarso peso dei processi di integrazione; per non parlare di quanto avviene ai confini ambigui e traspiranti fra economia legale ed economia criminale.

A me sembra che queste parole descrivano in maniera efficace tutto quello che ci circonda, l'insensatezza di certi comportamenti privati che finiscono per diventare comportamenti pubblici.
Le cronache minute della vita italiana ci rinviano infatti tanti comportamenti
puramente pulsionali, senza telos, incardinati in un egoismo autoreferenziale e narcisistico. Non si tratta solo di comportamenti di limite a livello dei singoli
soggetti (il consumo tossicomaniaco di sostanze, l’ipnosi narcisistica
dell’anoressia, il ritiro libidico del depresso) o dello stesso utilizzo del delitto
per guadagnare potere all’interno della grande criminalità. Si tratta di fenomeni più diffusi e forse invasivi. Basta guardarsi intorno per constatare la
sregolazione pulsionale esistente negli episodi di violenza familiare; nel
bullismo gratuito e talvolta occasionale in strade e locali pubblici; nel gusto più apatico che crudele di compiere delitti comuni; nella tendenza ad altrettanto apatici e facilitati godimenti sessuali; nella ricerca di un eccesso di
stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto; nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere; nella ricerca spesso demenziale di esperienze che sfidano la morte (dal cosiddetto balconing allo sfrangersi su un muro ad alta velocità).
E' una società in cui apparentemente si può possedere di tutto, ogni bene, ogni donna, in cui non ci sono limiti di tempo tra il giorno e la notte, in cui si può godere di ogni emozione, ma in cui effettivamente ogni esperienza rischia di lasciarci ogni momento più vuoti.
Questa crisi ci riguarda tutti, ci coinvolge tutti, non è il problema di un altro, è il nostro problema; e le responsabilità non sono altre, ma sono nostre.