mercoledì 31 marzo 2010

Considerazioni lbere (93): a proposito dell'esito del voto...

Quando si prova a dare un giudizio sulle elezioni - in qualunque paese e in qualunque periodo si svolgano - credo che sarebbe necessario seguire almeno due semplici regole: a) tenere conto dei numeri (quelli veri e non come ce li siamo immaginati o li abbiamo sperati); b) ricordare quello che si è detto prima di quelle stesse elezioni (per non fare la figura di astrologi che non commentano mai le proprie previsioni). Capita di leggere analisi che sfuggono a una - o anche a entrambe - queste regole.
Io avevo parlato delle elezioni regionali in una mia "considerazione" di circa due mesi fa (la nr. 61, per la precisione), occupandomi prevalentemente di quello che stava facendo il Partito Democratico. Se non avete voglia di rileggere quella pur breve "considerazione", ve ne riassumo il senso: lamentavo che il Pd era in ritardo nella definizione delle candidature (a metà gennaio mancavano ancora i candidati presidenti in almeno cinque regioni), che in alcuni casi la candidatura era stata "subita" dal Pd (penso al Lazio) e soprattutto che mancava un profilo riconoscibile del partito. Per me quelle valutazioni sono ancora valide e quindi ritengo che in qualche modo i risultati di lunedì scorso potessero essere previsti, anzi personalmente pensavo che lo scarto tra centrodestra e centrosinistra sarebbe stato ancora più negativo. Poi tra gennaio e le elezioni è successo un po' di tutto: il "pasticcio" delle liste, l'emergere di nuovi scandali, il duro scontro sulle trasmissioni televise di informazione politica e così via, tanto che a qualche dirigente del Pd è venuta l'idea che le elezioni si potessero anche vincere. Con le conseguenti delusioni di queste ore.
Veniamo ai dati. C'è un primo elemento che secondo me balza agli occhi e che non ho sentito citare da nessun commentatore (forse per la mia incapacità di assistere a molti dei lunghi e noiosi commenti al voto che ci ha propinato la televisione). Hanno votato circa due elettori su tre e tra i votanti poco più di un quarto ha espresso la propria preferenza per la lista del Pdl e poco più di un altro quarto ha votato per il Pd: diciamo che circa un elettore su tre ha votato per i due partiti maggiori. Dovrei fare dei conti che adesso non riesco a fare - e mi rendo conto che questa affermazione è arbitraria, perché ci insegnano alle elementari che non si possono sommare mele e pere -, ma probabilmente nell'epoca del proporzionale puro, gli elettori della Dc e quelli del Pci erano più di un terzo dell'intero elettorato italiano. Ormai la distinzione tra centrodestra e centrosinistra è acquisita dagli elettori italiani, eppure il risultato dei due partiti che hanno - o hanno avuto - l'ambizione di avere una vocazione maggioritaria all'interno del proprio schieramento non esprime questa polarità. Di questa debolezza non beneficia l'Udc, che non riesce a esprimere grandi risultati, nonostante i suoi voti siano stati necessari per far vincere alcuni candidati, come Burlando in Liguria, o siano stati a loro modo determinanti per far perdere il candidato del centrodestra in Puglia (per non parlare della sacrosanta scomparsa di Rutelli), ma hanno tratto profitto forze che esprimono spinte estreme, radicali e intransigenti, come la Lega, come l'Italia dei valori, come il Movimento cinque stelle. L'Italia che esce dalle regionali di quest'anno è ancora bipolare, ma il panorama politico è certo più frastagliato. Vale la pena di considerare che succede qualcosa di analogo anche negli altri paesi europei. In Gran Bretagna alle prossime elezioni politiche potrebbe finire il bipartitismo classico del Novecento e i liberali potrebbero essere determinanti per formare il nuovo governo; in Francia a sinistra, accanto al Psf è nato un movimento ecologista importante, mentre a destra soffre un partito che, non a caso, ha tentato di unificare in un'unica forza tutte le tendenze del centrodestra francese. In Germania i liberali, i verdi e la Linke sono tornati a essere forze di cui tenere conto nel gioco delle alleanze dei due partiti maggiori. Soltanto in Italia però lo scontro si radicalizza in questo modo.
Questo avviene, secondo me, per due motivi, che provo ad analizzare.
Nel centrodestra il "vero" partito di Berlusconi non è il Pdl, ma è proprio la Lega nord. Forza Italia era un partito assolutamente anomalo nel panorama italiano ed europeo. Era formato in larga parte da dipendenti di Berlusconi, i suoi avvocati, i suoi medici, gli uomini che hanno lavorato per lui e con lui nel mondo della finanza, nella televisione e in tutti i campi dove egli si è impegnato nel corso degli anni, in sostanza le persone di cui si poteva fidare: un partito assolutamente personale, gestito e finanziato dal proprietario-leader. Non è un caso che tanti dirigenti che, pur provenendo da esperienze diverse ed estranee al mondo di Berlusconi, all'inizio o nel corso degli anni si sono avvicinati a quel partito, ne siano stati progressivamente allontanati o marginalizzati. Naturalmente dal momento che in Forza Italia c'era molto potere, lì si sono radunati molti opportunisti - qualità questa peculiarmente italiana - ma tra questi raramente si trova personale politico preparato. Il Pdl, nonostante gli sforzi di Fini, somiglia troppo a Forza Italia e credo che non reggerà al momento in cui Berlusconi lascerà la vita politica italiana. Un partito politico è qualcosa di più e di diverso - e Fini lo sa bene e cerca di ricordarlo ogni giorno al presidente del consiglio. La Lega nord è un partito politico, che riesce a esprimere un gruppo dirigente sul territorio e soprattutto che rappresenta valori, aspettative e richieste di un blocco sociale; questo blocco sociale non è la maggioranza del paese, ma è significativo per insediamento economico e produttivo. La Lega rappresenta davvero quel ceto produttivo, piccolo e medio-piccolo, che Berlusconi vorrebbe rappresentare, anche contro certo mondo dell'alta finanza - che invece l'ha sempre considerato un parvenù - e che comunque si riconosce in lui, ma non nel suo partito. E in più la Lega rappresenta in quelle regioni del nord anche una parte del mondo del lavoro, perché sa interpretare paure che quelle persone hanno di fronte al mondo che cambia.
Sono intervenuto in queste "considerazioni" diverse volte sul centrosinistra e forse non è necessario ribadire ancora una volta la mia opinione. Il Pd perde perché non si capisce cosa sia. E' significativo il voto in Emilia-Romagna, dove pure Errani vince, ma dove la coalizione registra un pesante arretramento, prevalentemente a favore dell'astensione e del Movimento cinque stelle. Ed è altrettanto significativo che il centrosinistra raggiunga risultati importanti dove non era guidato da uomini del Pd. Il risultato di Vendola in Puglia e quello della Bonino nel Lazio sono il segno che non tutto è perduto; anche quando il partito maggiore della coalizione "perde il diritto" di indicare i propri uomini, come è avvenuto in quelle regioni, a causa degli scandali che l'hanno colpito, esiste una coalizione che ha le energie per rianimare energie che sembravano sopite. Il risultato della Bonino, nonostante la sconfitta, è molto significativo. Bisogna ricordare le dimissioni ignominiose di Marrazzo, l'incapacità del Pd di trovare un candidato, nonostante tutto questo la Bonino è riuscita a portare il centrodestra a un testa a testa che non era immaginabile alcuni mesi fa, quando il Lazio si considerava perso.
Quali sono le prospettive? Cosa dovremmo fare? Naturalmente mi esprimo soltanto per la "mia" parte. Chi milita nel centrodestra deciderà. Personalmente ho deciso di votare per Sinistra-Ecologia-Libertà, nonostante una mia atavica avversione per un'idea "frazionistica" sempre presente a sinistra, per cui si tendono a individuare più le ragioni che dividono che quelle che uniscono. Speravo che a livello nazionale il risultato fosse migliore, anche se non mi illudevo. Ho votato così perché speravo che i dirigenti di Pd capissero che una parte del popolo della sinistra sta lì, e soprattutto sta in attesa, disperdendosi tra protesta e non-voto, in attesa che ci sia davvero qualcosa di nuovo. Speravo che i dirigenti del Pd capissero che può essere utile e necessario un accordo tattico con l'Udc, ma che la prospettiva non può essere una solida alleanza tra Pd e Udc, con un ulteriore spostamento al centro dell'asse del partito.
Ho letto con attenzione la proposta di Vendola che chiede ai partiti della sinistra in Puglia di sciogliersi per formare qualcosa di nuovo: può essere una strada, pur rendendomi conto che sarebbe per tanti l'ennesima fondazione di un "partito nuovo". Eppure qualcosa bisogna fare. Personalmente continuo a pensare che in Italia sia necessario, come c'è negli altri paesi europei, un grande partito che rappresenti i valori del socialismo europeo. C'era e lo abbiamo chiuso, per fare qualcosa che ancora non abbiamo capito cosa sia.

martedì 30 marzo 2010

da "Le ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria

dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

lunedì 29 marzo 2010

"Cantèda òng" di Tonino Guerra


Du dè fa ch'l'era la pròima dmènga
d'novembar
u i èra una nebbia ch'la s taièva se cùrtel.
I èlbar i èra biènch ad broina e al strèidi e la campagna
al parèva quèrti d'lanzùl. Pu l'è avnù
fura è sòl
ch'l'à sughè l'univèrs e sultent agli òmbri
agli è resti bagnèdi.
Pinèla è cuntadòin è lighèva al vòidi
de filèr sa degli èrbi sèchhi ch'è tnèva tra gli urècci.
Intènt ch'è lavurèva me a zcurèva
d'là zità,
dlà mi vòita ch'l'era pasa t'un balèn
e ch'um fèva paèura la morta.
Aloura l'a fèrum totti i rumeùr
ch'la fasèva sal mèni
e sòul adès u s'è santoi un gazòt ch'è cantèva
a là dalòng.
U m'à dètt: parchè paèura?
La morta l'a n'è mèga nuiòsa,
la vèn una vòlta snò.

domenica 28 marzo 2010

"Gli indifferenti" di Antonio Gramsci


articolo da "La Città futura" del febbraio 1917

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'èin essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

sabato 27 marzo 2010

"Una pacchia" di Raymond Carver


Non c’è altra parola. Perché proprio quello è stata. Una pacchia.
Una pacchia, questi ultimi dieci anni.
Vivo, sobrio, ha lavorato, ha amato,
riamato, una brava donna. Undici anni
fa gli avevano detto che aveva solo sei mesi da vivere
se continuava così. E non poteva che
peggiorare. Così cambiò vita,
in qualche modo. Smise di bere! E per il resto?
Dopo, fu tutta una pacchia, ogni minuto,
fino a quando e anche quando gli dissero che,
be’, c’era qualcosa che non andava e qualcosa
che gli cresceva dentro la testa. “Non piangete per me”,
disse ai suoi amici. “Sono un uomo fortunato.
Ho campato dieci anni di più di quanto io o chiunque altro
si aspettasse. Una vera pacchia. Non ve lo scordate”.

venerdì 26 marzo 2010

Storie (I). "L'uomo del balcone..."

Definire il luogo e il giorno esatti non è necessario per raccontare questa storia; e non serve neppure sapere perché quel giorno io stavo passando proprio per quella strada. Se dovessi iniziare un vero racconto, di quelli con uno o due protagonisti, un bell'intreccio e magari un finale sorprendente, tutti questi elementi quasi sicuramente dovrei affrontarli fin dall'inizio, magari senza dare indicazioni troppo precise - come fanno a volte certi autori. Ma questo forse non è nemmeno un racconto e quindi posso anche cominciare così.
Era mattina, in una di quelle giornate di fine inverno o inizio primavera in cui si può camminare lentamente, guardandosi attorno - sempre se uno non ha un posto verso cui affrettarsi; quando è troppo freddo si desidera il tepore di un luogo chiuso e quando è troppo caldo si cerca l'ombra o un refolo d'aria, quel giorno invece si poteva camminare, non minacciava di piovere, per cui non era neppure necessario l'ombrello, che, anche quando è chiuso, è sempre d'impiccio.
Mi trovavo in una piccola strada residenziale: due file di palazzine decorose, ordinate, di due al massimo tre piani, con i loro piccoli giardini condominiali, ben curati; due stretti marciapiedi, le automobili parcheggiate su entrambi i lati; una strada a senso unico, da dove difficilmente si deve passare per andare da qualche altra parte.

Percorro lentamente il marciapiede, vedo le case, i giardini, le auto e non guardo nulla. A un certo punto mi accorgo di un uomo, forse il primo che vedo in quella strada o forse soltanto il primo che ho notato: sta in piedi sul balcone, al secondo piano di una palazzina a tre piani sul lato opposto a quello in cui io cammino. Ha sessant'anni o qualcosa di più, un paio di pantaloni marroni, un maglione anch'esso marrone, solo un po' più scuro, porta gli occhiali. Non so perché l'ho notato: immagino controlli il poco frequente passaggio davanti al suo balcone e invece non mi nota, il suo sguardo è concentrato unicamente sul marciapiede che sta dal lato della sua palazzina.
Proseguo, faccio alcuni metri e l'uomo esce dal mio sguardo e intanto sull'altro lato mi viene incontro, anche lui lentamente, un altro uomo, più anziano, con una piccola borsa della spesa. Quando siamo alla stessa altezza, pur su due marciapiedi diversi, lui mi osserva. Lo capisco, sono una faccia nuova. Immagino i suoi pensieri: "non può essere un rappresentante, non ha né una valigetta né un campionario, non è un medico che fa visite a domicilio, non ci sono stati traslochi negli ultimi sei mesi in tutta la via e quindi non è un nuovo condomino, chissà... forse è un ladro mandato in un giro di ricognizione".
Sto pensando a cosa sta pensando quell'uomo: anch'io penserei che sono un ladro. In quel momento sento per la prima volta il "ciao" dell'uomo sul balcone. Un "ciao" automatico, che non si aspetta di essere ricambiato, e infatti l'altro uomo procede per la sua strada, incurante di quel saluto sentito evidentemente tantissime volte. Un "ciao" triste, sommesso.
Mi giro e mi fermo, fingendo interesse per una siepe un po' più curata delle altre. Passa ora una donna, anziana anche lei, portandosi e facendosi portare da uno di quei carrellini a due ruote per la spesa, anche lei è sull'altro marciapiede, come l'uomo di prima, ma viene verso di me - si deve essere incontrata con l'altro uomo qualche civico più in là, se questi non è entrato in uno dei vari cancelli; quando passa sotto il balcone, arriva il "ciao", lei alza lo sguardo, ma non ricambia il saluto.
Ricomincio a camminare e arrivo fino in fondo alla strada, dove questa si interseca con un'altra in tutto simile, indistinguibile dalla prima, se non per uno che ci abiti o forse neppure da questi e durante questi pochi metri sento arrivare, leggermente attutiti, ma comunque distinguibili altri tre "ciao". Non sento mai risposte. Allora decido di rifare la strada in direzione contraria a prima, ma sempre tenendo il "mio" marciapede. Sembrava una strada deserta e probabilmente se un'ora dopo mi avessero chiesto quante persone avevo incontrato in quel mio silenzioso camminare, avrei risposto nessuna, avrei detto: in quella via non ho visto proprio nessuno, anche se mi avesse interrogato la polizia, come si vede in qualche telefilm. Invece quei "ciao" tristi mi servono a tenere il conto delle persone che sono passate lungo il marciapede, che sono entrate o uscite da quella palazzina o da una vicina, che sono arrivate, hanno parcheggiato e sono scese sempre su quel marciapiede. Adesso sì, saprei dire, se interrogato dalla polizia - con una precisione di cui io stesso mi stupirei - quante persone sono passate in quel quarto d'ora nel marciapiede di quel lato della strada. Se mi chiedessero quante persone ho visto sul marciapiede dove io ho camminato, non sarei altrettanto sicuro, probabilmente esiterei e sarei subito scartato come testimone. Evidentemente qualcuno deve essere passato anche accanto a me, è improbabile che tutti gli abitanti di quella via abbiano deciso proprio in questo giorno di usare quell'unico marciapiede.
Quelle persone, nel loro camminare anonimo, sono esistite per me soltanto grazie al "ciao" dell'uomo del balcone. O forse esistono affinché l'uomo del balcone possa dire i suoi "ciao". Oppure ancora esistono soltanto nel momento in cui l'uomo del balcone li saluta e poi misteriosamente spariscono.
Il mondo dell'uomo del balcone non arriva all'altro marciapede, a quello dove io sto camminando, e infatti quando passo lì vicino, proprio in linea con il balcone, nonostante quasi mi fermi e mi metta a osservarlo, non mi saluta, non scatta il "ciao" che invece accompagna le persone che passano dall'altra parte. In qualche modo ho cercato il suo "ciao", ma non è arrivato, perché sto dalla parte sbagliata del mondo. Ho la tentazione di attraversare la strada, di passare nel mondo dell'altro marciapiede; controllo se arriva un auto, mi ci vorrebbe meno di un minuto, ma esito, ho paura.
Mi sto convincendo di una cosa: i "ciao" dell'uomo non sono indirizzati alle persone che si trovano a passare sotto il suo balcone; per uno strano disegno o per una fortuita combinazione, quando l'uomo del balcone pronuncia uno dei suoi sommessi e automatici "ciao", lì sotto passa un'altra persona, e i due fatti non sono per nulla collegati. Forse se domani mi trovassi ancora qui, alla stessa ora, sentirei ripetere dall'uomo i suoi "ciao", negli stessi momenti e con gli stessi identici intervalli tra l'uno e l'altro, indipendentemente dal fatto che qualcuno stia passando lì sotto; potrei scoprire che l'uomo del balcone ogni giorno ripete i suoi "ciao", sempre negli stessi momenti, con la regolarità di un orologio. Oppure domani potrei assistere alla stessa scena: passa l'uomo con la borsa della spesa, "ciao", passa la donna con il carrellino, "ciao", forse in questa strada c'è una casualità regolare, quotidiana, o forse c'è un ordine più complicato, che si ripete ad esempio ogni diciassette giorni.
Mi basterebbe attraversare la strada per scoprire se quel saluto è legato all'improvviso apparire di una persona sul marciapiede o è un pensiero di quell'uomo assolutamente indipendente da qualunque cosa succeda fuori da quel balcone e dal suo cervello. Ma se attraversassi la strada e l'uomo mi salutasse non saprei ancora come stanno le cose: mi ha visto davvero e ha deciso di indirizzarmi il suo "ciao" oppure faccio parte anch'io di quell'ordine misterioso per cui i "ciao" dell'uomo e i passanti stranamente si sovrappongono?
Preferisco non tentare. E mi allontano.


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Considerazioni libere (92): a proposito di debiti...

Voglio tornare a parlare della Repubblica Democratica del Congo. I lettori più fedeli ricordano certamente la vicenda della diga Grand Inga, di cui mi sono occupato nella "considerazione" nr. 83 (invito chi non l'avesse letta a farlo: si tratta di una storia molto "istruttiva").
Il 25 gennaio scorso il governo di Kinshasa ha emanato il bilancio statale per il 2010: ammonta a circa 6,2 miliardi di dollari, ossia 77 volte inferiore a quello della Francia, per una popolazione più o meno equivalente. Di fatto il bilancio prevede unicamente il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, senza alcun intervento in campo sociale; 430 milioni sono destinati al rimborso del debito estero. Il governo congolese infatti continua a pagare gli arretrati dei debiti contratti dal dittatore Mobutu, con la complicità dei creditori occidentali, per la realizzazione di grandi opere - come le due dighe ora ferme di cui ho parlato nell'altra "considerazione" - e per aiuti finiti nelle tasche nel dittatore e del suo partito. Nel diritto internazionale questo debito si definisce "odioso" e il governo congolese potrebbe rifiutarsi di pagare questa somma così ingente, destinandola magari alla spesa sociale. Non può farlo perché i paesi creditori, sia direttamente sia attraverso istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, continuano a controllare di fatto il governo del paese. L'aiuto internazionale rappresenta il 46,3% delle entrate complessive dello stato e di fatto questa catena non riesce a essere spezzata.
Per continuare a ricevere questi aiuti il governo di Kinshasa deve accettare di essere messo di fatto sotto tutela, con l'impegno a seguire quanto prescritto da un accordo che si chiama Documento strategico di crescita e di riduzione della povertà. Questo documento prevede che il governo congolese migliori "il clima degli affari", il che significa fare leggi affinché le multinazionali possano continuare a fare affari, senza alcun vincolo di carattere sociale o ambientale e godendo di una tassazione agevolata. Di fatto questo fa sì che dimuniscano le entrate legate alle imposte e che vengano svendute le risorse naturali e i settori strategici dell'economia.
Uno degli indicatori per misurare il "clima degli affari" è la facilità con un'azienda può licenziare i propri lavoratori. La Banca mondiale presenta ogni anno un rapporto, intitolato "Doing business", in cui gli stati sono classificati secondo questi parametri: meno vincoli ci sono ai licenziamenti più si sale in classifica. Ad esempio nel rapporto del 2009 il Ruanda ha raggiunto un'alta posizione in classifica perché è stata approvata una legge che permette alle imprese di fare ristrutturazioni senza consultare né i lavoratori né il locale ispettorato del lavoro. Nella Repubblica Democratica del Congo la Banca mondiale è intervenuta nei licenziamenti dei 10.655 lavoratori della Gecamines, un'azienda pubblica nella regione mineraria del Katanga. A fronte di una situazione di crisi, per cui i lavoratori non erano pagati da mesi, tra il 2003 e il 2004 il governo ha deciso di chiudere l'azienda e di licenziare tutti i lavoratori. I lavoratori chiedevano complessivamente dei risarcimenti per 240 milioni di euro, mentre la Gecamines ne proponeva 120. Dal momento che il governo congolese non aveva però queste risorse, si è rivolto alla Banca mondiale, che ha accettato di accollarsi la spesa, imponendo però una modalità di calcolo dei risarcimenti che viola sia la legislazione congolese che le norme dettate dall'Organizzazione internazionale del lavoro: i funzionari della Banca mondiale hanno calcolato che i risarcimenti dovevano ammontare al massimo a 43 milioni di euro. A tutt'oggi questi risarcimenti, seppur miseri, non sono stati ancora pagati e la vicenda si sta trascinando, senza che il governo congolese possa chiedere alla Banca mondiale il rispetto degli accordi, dal momento che i funzionari della Banca continuano a tenere saldamente nelle loro mani i cordoni della borsa.
Anche alla fine di questa "considerazione" mi sembra abbastanza ovvio capire chi ci sta guadagnando e chi ci sta rimettendo.

giovedì 25 marzo 2010

da "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci (V)

19 novembre 1928

Carissima Giulia,
sono stato molto cattivo con te. Le giustificazioni, in verità, non sono molto fondate. Dopo la partenza da Milano, mi sono stancato enormemente. Tutte le mie condizioni di vita si sono aggravate. Ho sentito di piú il carcere. Ora sto un po’ meglio. Lo stesso fatto che è avvenuta una certa stabilizzazione, che la vita si svolge secondo certe regole, ha normalizzato in un certo senso anche il corso dei miei pensieri. Sono stato molto felice nel ricevere la tua fotografia e quella dei bambini. Quando si forma troppa distanza di tempo tra le impressioni visive, l’intervallo si riempie di brutti pensieri; specialmente per Giuliano, non sapevo che pensare, non avevo nessuna immagine che mi sorreggesse la memoria. Ora sono proprio contento. In generale, da qualche mese, mi sento piú isolato e tagliato via da tutta la vita del mondo. Leggo molto, libri e riviste; molto, relativamente alla vita intellettuale che si può condurre in una reclusione. Ma ho perduto molto del gusto della lettura. I libri e le riviste dànno solo idee generali, abbozzi di correnti generali della vita del mondo (piú o meno ben riusciti), ma non possono dare l’impressione immediata, diretta, viva, della vita di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di singole persone reali, senza capire i quali non si può neanche capire ciò che è universalizzato e generalizzato. Molti anni fa, nel 19 e 20, conoscevo un giovane operaio, molto ingenuo e molto simpatico. Ogni sabato sera, dopo l’uscita dal lavoro, veniva nel mio ufficio per essere dei primi a leggere la rivista che io compilavo. Egli mi diceva spesso: "Non ho potuto dormire, oppresso dal pensiero: cosa farà il Giappone?". Proprio il Giappone lo ossessionava, perché nei giornali italiani del Giappone si parla solo quando muore il Mikado o un terremoto uccide almeno 10.000 persone. Il Giappone gli sfuggiva; non riusciva perciò ad avere un quadro sistematico delle forze del mondo, e perciò gli pareva di non comprendere nulla di nulla. Io allora ridevo di un tale stato d’animo e burlavo il mio amico. Oggi lo capisco. Anch’io ho il mio Giappone: è la vita di Pietro, di Paolo e anche di Giulia, di Delio, di Giuliano. Mi manca proprio la sensazione molecolare: come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso? Anche la mia vita propria si sente come intirizzita e paralizzata: come potrebbe essere diversamente, se mi manca la sensazione della tua vita e di quella dei bambini? Ancora: ho sempre la paura di essere soverchiato dalla routine carceraria. È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione su me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti, ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati. Certo io resisterò. Ma, per esempio, mi accorgo che non so piú ridere di me stesso, come una volta, e questo è grave.
Cara Giulia, ti interessano tutte queste chiacchiere? E ti dànno un’idea della mia vita? Però, mi interesso anche di ciò che avviene nel mondo, sai. In quest’ultimo tempo ho letto una certa quantità di libri sull’attività cattolica. Ecco un nuovo "Giappone": attraverso quali fasi passerà il radicalismo francese per scindersi e dare vita a un partito cattolico francese? Questo problema "non mi lascia dormire" come avveniva per quel mio giovane amico. E anche altri naturalmente. Ti è piaciuto il tagliacarte? Sai che mi è costato quasi un mese di lavoro e mezzi i polpastrelli consumati?
Cara, scrivimi un po’ diffusamente di te e dei bimbi. Dovresti mandarmi le vostre fotografie almeno ogni sei mesi, in modo che io possa seguire il loro sviluppo e vedere il tuo sorriso piú spesso. Ti abbraccio teneramente, cara.

Antonio

Postilla per Tania
Ma come sei cattiva, Tania. Da quanto tempo non ricevo tue notizie?
Non importa che tu scriva delle lunghe lettere, basta anche una cartolina illustrata. Sai che anch’io sento sempre più la forza d’inerzia che mi spinge a non scrivere? E devo lottare per vincerla. Ma vincerò sempre? Qui c’è della gente che non scrive da mesi e da anni. Anch’io farò la stessa fine, certamente, se non trovo corrispondenti attivi. Cara Tania, ti abbraccio, sperando che non ti senta male.

Antonio

"Parabola" di Guido Gozzano


Il bimbo guarda fra le dieci dita
la bella mela che vi tiene stretta;
e indugia - tanto è lucida e perfetta -
a dar coi denti quella gran ferita.

Ma dato il morso primo ecco s'affretta:
e quel che morde par cosa scipita
per l'occhio intento al morso che l'aspetta...
E già la mela è per metà finita.

Il bimbo morde ancora - e ad ogni morso
sempre è lo sguardo che precede il dente -
fin che s'arresta al torso che già tocca.

"Non sentii quasi il gusto e giungo al torso!"
Pensa il bambino... Le pupille intente
ogni piacere tolsero alla bocca.

Considerazioni libere (91): ancora a proposito di colonialismo...

A leggere le pagine economiche dei giornali pare che ormai l'economia giri unicamente attorno alla finanza o all'alta tecnologia; sarà forse così in quei paesi che, con un eufemismo che sarebbe ormai da rivedere, continuiamo a definire sviluppati. In America latina, in Asia, in Africa c'è una corsa ad accappararsi i beni primari: l'acqua e la terra. I protagonisti di queste vere e proprie guerre per l'acqua e la terra sono i grandi investitori, gli istituti di credito, le multinanzionali, che spesso godono di aiuti pubblici destinati allo sviluppo: le donne e gli uomini che vivono in quei territori ne pagano quasi sempre le conseguenze negative, senza alcun vantaggio.
Mi sono occupato in diverse "considerazioni" delle grandi opere che sono state costruite e che sono in progetto per ricavare energia dall'acqua.
Nella "considerazione" nr. 34 invece ho raccontato la storia dei latifondi in Paraguay.
La situazione è purtroppo molto simile in Africa. In questo continente nel solo 2009 è stata acquistata da investitori stranieri una superficie di circa 50 milioni di ettari, pari all'1,6% dell'intera superficie africana, secondo i dati raccolti dall’Istituto internazionale per l' Ambiente e lo Sviluppo, dalla Coalizione internazionale per l'accesso alla terra, da ActionAid e da altri gruppi non governativi. L'aumento del petrolio nel 2008 ha portato da un lato i grandi investitori internazionali a diversificare i propri interessi tornando a produrre materie prime alimentari, il cui costo è tornato a crescere dopo un periodo di stasi, e dall'altro lato a cercare nuovi fonte energetiche, in particolare nel settore dei biocombustibili. Naturalmente per produrre nuovi prodotti agricoli serve terra, tanta terra, e in Africa ce n'è moltissima, a un prezzo contenuto.
Così ad esempio il governo etiope ha concesso a due aziende indiane una concessione ventennale per lo sfruttamento di 15mila ettari di terreno nella regione di Gambela, nell'Etiopia occidentale. L'obiettivo degli indiani è impiantare delle piantagioni di pongamia pinnata, da cui si ricavano biocombustile e prodotti per l'industria chimica. La regione di Gambela però non è né incolta né disabitata. Questa è la testimonianzia di Nyikaw Ochalla, un’anauk indigena che vive in Gran Bretagna, ma è in contatto con agricoltori della sua regione.
Tutta la terra nella regione Gambella si utilizza. Ogni comunità possiede e si prende cura del proprio territorio, dei fiumi e terre da coltivazione al suo interno. Dire che esiste terra sprecata o non usata a Gambella è un mito diffuso da governo e investitori.
Le compagnie estere arrivano in gran numero e privano le persone della terra che hanno utilizzato per secoli. Non ci sono consultazioni con la popolazione indigena. Gli accordi si chiudono in segreto. L’unica cosa che le persone del posto vedono è gente che arriva con numerosi trattori per invadere le loro terre. Tutta la terra che circondava il villaggio della mia famiglia, Illia, è stata presa ed è svuotata. Adesso la gente deve lavorare per una compagnia indiana. La loro terra è stata presa con la forza e senza alcun compenso. La gente non può credere a quanto sta succedendo. Migliaia di persone ne saranno colpite e soffriranno la fame.

Inoltre una parte della regione di Gambela è parco nazionale e non si sa che effetto avranno sull'ecosistema della regione né la trasformazione in agricoltura intensiva né gli insediamenti degli stabilimenti per la produzione del biocombustibile e dei prodotti chimi che pure sono in progetto.
Lo stesso governo etiope ha concesso per 99 anni 1.000 ettari all'imprenditore Mohammed al-Amoudi, uno dei cinquanta uomini più ricchi al mondo. In quell'area, nella valle di Rift, si sta costruendo una serra di 20 ettari. A regime si prevede si raccogliere 50 tonnellate di alimenti al giorni, pomodori, peperoni, vegetali che in 24 ore saranno nei mercati di Dubai e di altre grandi città del Medio Oriente. Questa fattoria modello a regime utilizzerà da sola la quanità d'acqua necessaria per 100.000 etiopi.
In sintesi l’Etiopia è uno dei paesi più affamati nel mondo, dove più di 13 milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari, eppure il suo governo offre almeno 3 milioni di ettari della sua terra più fertile a paesi ricchi e a alcuni degli individui con più soldi nel mondo perché esportino alimenti fuori dal loro paese.
Gli esempi sono moltissimi. Investitori arabi producono cereali per il proprio paese nelle terre che hanno acquistato in Sudan, in Egitto, in Etiopia e in Kenia. La Cina ha firmato un contratto con la Repubblica Democratica del Congo per la coltivazione di 2,8 milioni di ettari di olio di palma per biocombustibile. Compagnie indiane, coperte da prestiti governativi, hanno comprato o affittato centinaia di migliaia di ettari in Etiopia, in Kenia, in Madagascar, in Senegal e in Mozambico dove coltivano riso, canna da zucchero e lenticchie per alimentare il loro mercato interno. Azienda britanniche, danesi, statunitensi hanno acquistato terreni per la produzione di biocombustile.
Questa corsa ad acquistare terre in Africa è una nuova forma di colonialismo.
L’agricoltura industriale su grande scala separa la gente della terra, richiede l’uso di prodotti chimici, pesticidi, fertilizzanti, un uso intensivo dell’acqua e dei mezzi di trasporto, con danni ambientali non prevedibili. Chi fino ad ora ha coltivato la terra ne viene espropriato: questo porterà più povertà e possibili nuove cause di conflitto. Ancora una volta si stanno facendo grandi affare, sulla pelle degli africani.

p.s. p.s. devo queste considerazioni al giornalista John Vidal, autore di un articolo su Mail & Guardian; ve ne consiglio la lettura

martedì 23 marzo 2010

"Tra i rami" di Raymond Carver

Sotto la finestra, sul balcone, ci sono degli uccellini malridotti
che si affollano attorno al cibo. Sono gli stessi, credo,
che vengono tutti i giorni a mangiare bisticciando. C’era un tempo, c’era un tempo,
gridano e si beccano. Sì, è quasi ora.
Il cielo rimane cupo tutto il giorno, il vento viene da ovest e
non smette di soffiare... Dammi la mano per un po’. Tienimi la
mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui
pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era un tempo,
gridano gli uccellini malridotti.

Considerazioni libere (90): a proposito di aborti...

Clemenceau sosteneva che la guerra era una faccenda troppo importante e seria per lasciarla ai generali; allo stesso modo vorrei dire che l'aborto è una questione troppo importante e seria per lasciarla discutere soltanto a maschi anziani e non sposati, che hanno idee abbastanza confuse sulla sessualità.
Francamente credo che il cardinal Bagnasco e gli altri autorevoli prelati che ieri si sono riuniti a Roma avrebbero fatto miglior servizio alla verità - che pure loro dovrebbero difendere, per ruolo e per funzione - se avessero dichiarato che la Cei appoggia alle prossime elezioni regionali i candidati del centrodestra perché questi hanno sostenuto e sostengono con maggior convinzione di quelli del centrosinistra la sanità privata, in cui la stessa Cei ha legittimi e importanti interessi. Dato che forse questa verità è parsa "politicamente scorretta", hanno preferito usare una metafora, invitando a non votare quei candidati che sostengono l'aborto, che peraltro in Italia è consentito per legge e quindi non è reato - bisogna sempre ricordarlo agli anziani signori della Cei, che, forse per l'età avanzata, tendono a dimenticarlo. Gli anziani signori della Cei sono riusciti così anche a esprimere una più forte preferenza verso la traballante candidata del centrodestra alla Regione Lazio, visto che la sua avversaria è una donna che ha speso parte importante della propria vita politica affinché questo paese avesse una legge per regolare l'interruzione volontaria di gravidanza.
Proprio perché l'aborto è un problema serio, al di là di questa premessa leggermente polemica, avevo già deciso di dedicare a questo tema questa "considerazione", perché venerdì scorso ho letto due articoli dell'Economist - tradotti e pubblicati sul nr. 838 di Internazionale - che mi hanno fatto pensare e che vorrei condividere con i miei sparuti e fedeli lettori.
C'è un genocidio nascosto, che si consuma ogni giorno in Cina, in India, nei paesi dei Balcani e del Caucaso, ma anche in alcune comunità degli Stati Uniti: la strage di bambine che o non vengono fatte nascere o vengono uccise immediatamente dopo il parto. Amartya Sen calcolò che nel 1990 queste donne non nate fossero già cento milioni, oggi sono certamente moltissime di più: un'enorme risorsa di intelligenza, di forza, di amore che l'umanità ha perso per sempre.
Bisogna partire da alcune cifre: in ogni società nascono in media dai 103 ai 106 maschi ogni 100 femmine. E' un dato costante, naturale: i bambini hanno qualche probabilità in più di morire durante l'infanzia rispetto alle bambine e allora la natura, per garantire che nell'età della pubertà il rapporto tra maschi e femmine sia il più possibile vicino a cinquanta e cinquanta, ha introdotto questo leggero disequilibrio. Negli ultimi venticinque anni questo rapporto è cambiato, in maniera repentina: nella generazione dei cinesi nati alla fine degli anni ottanta lo squilibrio era salito a 108 maschi per ogni 100 femmine, in quella dei primi anni del duemila è arrivato a 124 maschi per ogni ogni 100 femmine. Si tratta di un dato medio: in alcune province cinesi lo squilibrio è arrivato a 130 contro 100. E lo stesso sta avvenendo in diverse regioni dell'India. Se pensate che questi due paesi hanno complessivamente una popolazione di quasi 2 miliardi e mezzo di persone, è immediatamente evidente cosa può significare questo squilibrio, che è molto più grave dell'innalzamento di alcuni centimetri della linea delle acque, che pure è un fenomeno molto grave. Non è un fenomeno circoscritto a quei paesi. In Armenia, Azerbaigian e Georgia lo squilibrio è in medio 115-120 contro 100, mentre in Serbia e in Macedonia è salito a 108 contro 100. Naturalmente in questi paesi i numeri complessivi sono molto diversi.
Come è evidente non si tratta di un fenomeno naturale, ma di scelte consapevoli, spesso sofferte. Le cause sono essenzialmente tre, intrecciate tra di loro. In molte società si preferisce ancora il maschio alla femmina, sia per ragioni culturali, perché il maschio tramanda il nome della famiglia, sia per ragioni economiche, perché le donne non possono ereditare la terra o devono essere accompagnate da una dote per essere sposate. Cresce la tendenza ad avere famiglie con pochi figli e in Cina è stata fatta scientemente la politica del figlio unico per limitare l'ondata demografica. Un'ecografia costa in media 12 dollari, sia in Cina che in India, e quindi è alla portata di moltissime famiglie e oggettivamente è molto più semplice abortire piuttosto che uccidere una bambina già nata, fenomeno che pure avviene ancora, specialmente nelle campagne.
E' importante considerare che questo fenomeno è diffuso in tutta la popolazione, avviene sia in città che in campagna, sia tra le persone che hanno studiato che tra gli analfabeti, sia tra i poverissimi che tra le persone più ricche. In India in particolare le regioni più ricche sono quelle dove lo squilibrio tra maschi e femmine tende ad aumentare. E lo stesso fenomeno è avvenuto è in paesi come Taiwan e Corea del sud - dove lo squilibrio è arrivato rispettivamente a 110-100 e 117-100 - proprio negli anni in cui le economie di questi due paesi hanno conosciuto la fase di maggiore incremento.
Fortunatamente in questi due paesi negli ultimi anni si registra un'inversione di tendenza e il ritorno a un equilibrio naturale tra maschi e femmine tra i nuovi nati: qui ha giocato come elemento fondamentale la diffusione di valori culturali che hanno messo in discussione l'idea atavica che gli uomini siano da preferire alle donne. La cultura e la diffusione di una cultura dei diritti sono l'unico modo per combattere questo fenomeno, che avrà comunque conseguenze negative difficile da prevedere in questo momento.
In Cina nel 2020 ci saranno quasi 40 milioni di ragazzi in più rispetto alle ragazze, che non potranno sposarsi e costruire una propria famiglia. In ogni società con questo squilibrio è destinata a crescere la criminalità e già ora in Cina sono aumentati i rapimenti, le compravendite delle donne, i reati sessuali.
C'è un altro dato drammatico legato a questo fenomeno. In Cina il suicidio è la più comune causa di morte tra le donne dai 15 ai 34 anni: secondo gli studi moltissime di queste donne sono donne che non sopportano l'idea di avere abortito o di aver permesso che la loro figlia fosse uccisa subito dopo il parto. L'aborto, bisogna sempre ricordarlo, è sempre una scelta sofferta, anche quando è consapevole.
Quello che sta avvenendo in Corea del sud dimostra che questo fenomeno fortunatamente non è irreversibile, ma occorrono politiche per aiutare le famiglie, per far crescere una cultura diversa del rapporto tra donne e uomini. La soluzione non è vietare l'aborto - sia in Cina che in India l'aborto selettivo è formalmente vietato, ma non cambia i termini della questione. Anzi vietare l'aborto causerebbe l'aumento degli aborti illegali e delle uccisioni dopo il parto. Bisogna far crescere una nuova generazione di donne e uomini che abbiano valori diversi dai loro padri e delle loro madri, per far sì che l'aborto possa essere, per usare una bella espressione di Bill Clinton "sicuro, legale e raro". Però bisogna parlarne, senza ideologismi e senza nascondersi dietro a certezze date una volta per tutte.

sabato 20 marzo 2010

"Oriente e Occidente" di Adonis


Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia
una cosa adorna, esplosiva
che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato
al quale il mercante avvelenato intona una canzone
esisteva un Oriente simile a un bambino che implora,
chiede aiuto
e l’Occidente era il suo infallibile signore.

Questa mappa è mutata
l’universo è un fuoco
l’Oriente e l’Occidente sono una tomba
sola
raccolta dalle sue ceneri.

venerdì 19 marzo 2010

"Un soldato di Lee" di Jorge Luis Borges


L’ha raggiunto una palla sopra la riva
D’una chiara corrente di cui il nome
Ignora. Cade bocconi (è vera
La storia, e più d’un uomo fu quell’uomo.)
La brezza d’oro muove gli oziosi
Aghi delle pinete. La paziente
Formica scala il volto indifferente.
Sale il sole. Già molte cose cambiarono
E molte cambieranno sino a questo
Giorno dell’avvenire in cui ti canto.
Per te, che senza il beneficio del pianto
Sei caduto, come cade un uomo morto,
Non c’è marmo, che custodisca la tua memoria;
Sei piedi di terra sono la tua oscura gloria.

Considerazioni libere (89): a proposito della fine dell'emergenza...

Come era facile prevedere, qui in Europa di Haiti e del suo sfortunato popolo non si parla più. Ci sono altre emergenze e poi gli haitiani sono così lontani...
A onor del vero, bisogna anche ricordare che lo scorso 10 marzo c'è stato un incontro a Washington tra Obama e il presidente haitiano Preval e il primo ha dichiarato che "la situazione continua a essere molto grave". In una "considerazione" di qualche settimana fa (la nr. 65, per la precisione), concludevo la mia riflessione, dicendo che il modo con cui sapremo aiutare e ricostruire Haiti sarà la cartina di tornasole della crescita dei diritti umani nell'intero pianeta. E i problemi purtroppo stanno emergendo.
Gli Stati Uniti da soli hanno stanziato e raccolto un miliardo e mezzo di dollari, ma per ora solo una metà di queste risorse è destinata a progetti veri e propri. Naturalmente il governo statunitense è ancora in tempo per avviare nuovi interventi, ma c'è una questione che, a due mesi dal sisma, sta emergendo in maniera drammatica. Il gran numero di aiuti alimentari sta mettendo definitivamente in ginocchio la già esile agricoltura dell'isola caraibica. Preval sta chiedendo alle organizzazioni non governative di acquistare il riso dagli agricoltori locali, che sono in grado di produrlo.
Sul riso di Haiti credo sia utile aprire una piccola parentesi. Nella regione dell'Artibonite si è sempre prodotto un riso di ottima qualità, in grado di soddisfare le esigenze alimentari dell'intera isola. Quando gli Stati Uniti intervennero militarmente per deporre la giunta militare e insediare nuovamente il presidente democraticamente eletto Jean-Bertrand Aristide, il Fondo monetario internazionale impose un fortissimo controllo sull'economia dell'isola e in particolare obbligò il governo a liberalizzare il costo del riso, con l'obiettivo dichiarato di abbassarne il prezzo sul mercato. Questo ha fatto sì che Haiti diventasse un nuovo mercato per le aziende statunitensi e in particolare per la Riceland Food, una potentissima cooperativa di produttori dell'Arkansas - lo stato dove era governatore Clinton, il "liberatore" di Haiti. Il prezzo del riso statunitense, grazie anche alle sovvenzioni statali di cui godeva - e gode - l'agricoltura, fin dai tempi dell'ultraliberista Reagan, era la metà di quello haitiano e in breve gran parte dei contadini dell'Artibonite lasciò le campagne per cercare fortuna nelle periferie della capitale.
Ora, in seguito al terremoto, sarebbe necessario cambiare decisamente rotta: occorrono investimenti sulla rete di irrigazione, che da anni non riceve un'adeguata manutenzione, sull'ammodernamento delle attrezzature agricole, sulla sperimentazione di nuove qualità di prodotto. Occorre investire affinché i contadini tornino nelle loro campagne. Invece solo il 2% degli aiuti sono stati finora destinati alla ricostruzione dell'economia agricola, anche perché la pressione degli agricoltori statunitensi è ancora molto forte sul governo federale.
Ad Haiti non c'è bisogno di riso, gli haitiani devono essere messi in condizione per tornare a produrlo.

mercoledì 17 marzo 2010

Considerazioni libere (88): a proposito di pedofilia (II)...

La pedofilia non è un fenomeno circoscritto alla chiesa, è presente nella nostra società, nelle famiglie, nelle agenzie educative. E' un problema di noi maschi, di come riusciamo a gestire la nostra sessualità.
Sempre domenica scorsa, c'era su "La Stampa" un articolo di Barbara Spinelli dedicato alla pedofilia nella chiesa (anche questo lo potete trovare in rete, se non lo avete letto). Mi ha colpito l'inizio, che riporto.
Nel raccontare lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, Stevenson descrive la doppia presenza, nell’essere umano, del bene e del male. Le due forze si affrontano, e se alla fine è la parte malvagia a vincere non è perché l’eccelsa viene travolta. Il duello non è fra eccelso e abietto, ma fra l’impeto ardente del male e l’inerzia, la scarsa ambizione, l’energia spenta della parte ritenuta buona. Il male trabocca in Jekyll perché Jekyll è un uomo onorato ma mediocre. Perché non ha combattuto il male, ma lo ha semplicemente nascosto (di qui il nome Hyde).

Barbara Spinelli applica questa metafora alla chiesa, ma io credo che più utilmente dovrebbe valere per tutti noi, per noi maschi, che non siamo abbastanza forti, che sottovalutiamo la forza del male e ci abbandoniamo a esso.
La pedofilia, i maltrattamenti e le violenze sessuali verso i minori sono probabilmente sempre esistiti. Non sono uno psicologo e non so se ci sia un impulso che porta alcuni di noi a provare piacere in questo modo, che a tanti altri sembra abberrante. C'è una responsabilità personale fortissima delle singole persone che si piegano a questi impulsi e credo che la società debba trovare i mezzi idonei a punirli, anche con severità.
Questa responsabilità personale, che comunque non viene mai meno, è però anche nostra, ossia di chi non ha questi impulsi o, se li ha da qualche parte nel proprio inconscio, riesce a dominarli e a non farli mai emergere. La nostra società non riesce a fare i conti con la sessualità, non riesce a fare i conti con il corpo della donna. Non serve acquistare le riviste pornografiche, basta sfogliare un qualsiasi giornale per trovarci davanti a un modello femminile di donna sempre bellissima, sempre giovane, sempre disponibile, che viene usata per indurci ad acquistare un'automobile, un rasoio o qualunque altro banale oggetto di tutti i giorni. Non è necessario cercare siti particolari nella rete, basta guardare i video musicali normalmente trasmessi da Mtv o su Youtube per vedere immagini costruite apposta per sollecitare la nostra sessualità.
Abbiamo ormai accettato questo continuo bombardamento di immagini, di allusioni, di promesse, che credo mettano in difficoltà chi è più debole, chi è più giovane, chi non ha una compagna o un compagno con cui riuscire a esprimere la gioia e la bellezza di un rapporto fisico da entrambi voluto e condiviso. E fatalmente si sposta sempre più il livello di ciò che è proibito, di ciò che è trasgressione, con tutto il fascino che questo si porta con sé, fino ad arrivare alla violenza o alla pedofilia.
Ripeto, così come la società patriarcale e autoritaria di alcuni decenni fa non giustificava la violenza domestica contro le donne e non toglie responsabilità agli uomini che hanno esercitato questa violenza, così la nostra società così apparentemente disinibita non può servire da alibi per chi non riesce a contenere i propri impulsi di violenza, verso le donne o verso i bambini. La responsabilità personale rimane, ma dobbiamo anche fare qualcosa per insegnare ai nostri figli che esiste una sessualità diversa, fatta di reciproca intesa, di accettazione tra pari, che quindi esclude la pedofilia, dove sempre c'è violenza, perché c'è troppa differenza tra le due persone, tra le diverse consapevolezze con cui affrontano quel rapporto.
Dobbiamo chiedere aiuto alle donne, ma dobbiamo cominciare noi uomini a riflettere su questo tema, anche a costo di scontrarci. Un amico che si vanta delle sue "conquiste" sempre più giovani non è qualcuno da invidiare, ma uno da mettere fuori dalla cerchia delle proprie amicizie, provandogli a spiegare perché sta sbagliando. Un collega che ci racconta le sue avventure con le prostitute non è qualcuno da ammirare, ma uno da evitare. Non è questione di essere moralisti, ma bisogna cercare di andare controcorrente rispetto a un mondo che va, purtroppo, in una direzione che non ci piace.

Considerazioni libere (87): a proposito di pedofilia (I)...

Chi legge queste "considerazioni" con una qualche regolarità - non potrò mai sdebitarmi per la loro pazienza - sa che atteggiamento ho da un lato verso la religione e dall'altro lato verso la chiesa. Gli altri, se vogliono, possono leggere due mie vecchie "considerazioni", la nr. 6 e la nr. 25. In sintesi io sono un ateo, attento e rispettoso alla dimensione religiosa delle altre persone, in qualunque forma e in qualunque credo si esprima, e sono un laico che cerca di non essere anticlericale, nonostante siano tanti i punti che mi dividono dalle opinioni politiche e sociali delle gerarchie cattoliche.
Faccio questa premessa, che mi pare doverosa, perché voglio affrontare il tema della pedofilia. In questi giorni se ne parla molto e, per certi versi, credo sia un bene, perché è un problema che esiste, probabilmente più di quanto non sospettiamo, e che per troppo tempo è stato costantemente eluso e non affrontato. Come sapete, se ne parla quasi unicamente in relazione a episodi di cui sono stati protagonisti sacerdoti della chiesa cattolica. Sta passando un messaggio che tende a mettere sullo stesso piano omosessualità e pedofilia, individuando nei preti, a causa del celibato, i più facili a cadere in queste "tentazioni".
Io credo che occorra fare delle distinzioni ben nette e soprattutto che questo tema vada affrontato punto per punto.
Penso che la chiesa abbia in parte ragione quando afferma che sta montando una campagna tesa a mettere in evidenza ogni "scandalo" che avviene al suo interno; non so quali siano i motivi profondi che animano questo anticlericalismo, che si avverte in Europa come negli Stati Uniti, ma certamente esiste. Solo perché qui in Italia la chiesa cattolica è un potere così forte, capace di condizionare la vita politica e con forti legami nell'economia, non dobbiamo dimenticare che in molti paesi la chiesa è - permettetemi il termine - una forza di "opposizione", debole sul piano pratico, ma assai autorevole su quello morale, una forza che non manca di denunciare ingiustizie, ad esempio nei paesi in via di sviluppo. Forse non è un caso che si voglia minare la sua autorevolezza.
Nonostante sia sotto attacco, la chiesa a mio avviso sbaglia a cercare di minimizzare i casi, di nasconderli o peggio di sottovalutarne la portata. Evidentemente tra i sacerdoti la pedofilia esiste e occorre che la chiesa agisca con severità contro quei sacerdoti che si macchiano di queste colpe. E agisca con trasparenza, perché la chiesa è anche una grande agenzia educativa a cui moltissime famiglie affidano le loro figlie e i loro figli e un'agenzia educativa non può portarsi addosso questo sospetto, pena la perdita di credibilità sulle tante cose buone fatte.
C'è poi una questione più complessa che riguarda il capire come mai la pedofilia cresca all'interno della chiesa. Su questo riporto un brano di un articolo che Chiara Saraceno ha scritto per "la Repubblica" del 14 marzo scorso e che mi sembra illuminante (potete trovare in rete, in diversi blog, l'intero articolo, se non lo avete letto).
Non credo che la causa vada cercata solo nell’obbligo del celibato, o nella posizione esclusivamente ancillare delle donne nella Chiesa cattolica. Pedofili e maltrattatori di bambini si trovano anche tra le persone sposate. E, come ha testimoniato la vicenda irlandese, anche gli istituti retti da religiose possono diventare luoghi di abuso.
Piuttosto la causa va cercata nelle concezioni della sessualità, del ruolo della donna, della famiglia, che motivano sia il celibato sia l’esclusione delle donne dal sacerdozio. Il matrimonio è sempre visto come remedium concupiscientiae, un male minore rispetto ad una sessualità cui non si riconosce senso e valore umano, salvo che a scopi procreativi. Il corpo della donna è sempre potenzialmente impuro, rischioso e da sottoporre a controllo, sia come luogo del desiderio (maschile) che come strumento della procreazione. La famiglia è insieme necessaria (sempre a scopi riproduttivi). Ma avere una famiglia e generare figli è visto come un vincolo alla disponibilità all’altruismo. Non a caso, papa Wojtyla nel suo documento sull’amore umano, con una torsione concettuale tanto suggestiva quanto rivelatrice della tensione tutta irrisolta della Chiesa nei confronti della sessualità, scrisse che la verginità è il culmine della sessualità, perché consente una generatività che va oltre quella biologica.
Fino a che la Chiesa cattolica non avrà affrontato la questione del posto della sessualità nel suo concetto di persona umana, difficilmente riuscirà a contenere il ripresentarsi non occasionale dei fenomeni di abusi sessuali.

E' questa un'interpretazione che mi convince molto, ma su questo non voglio dire altro, perché entra in una sfera che non mi riguarda più, dal momento che non sono credente e non faccio parte della comunità della chiesa.
Questo però è soltanto un aspetto del problema e appunto sbaglieremmo a chiudere qui la nostra riflessione.

martedì 16 marzo 2010

da "Il Consiglio d'Egitto" di Leonardo Sciascia

Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall'alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.
"Ruscello congelato" disse mostrandola. Sorrideva: che aveva citato Ibn Hamdis, poeta siciliano, per omaggio agli ospiti. Ma, tranne don Giuseppe Velia, nessuno sapeva di arabo: e don Giuseppe non era in grado di cogliere il gentile significato che sua eccellenza aveva voluto dare alla citazione, né di capire che si trattava di una citazione. Tradusse perciò, invece che le parole, il gesto. "La lente, ha bisogno della lente"; il che monsignor Airoldi, che con emozione aspettava il responso di sua eccellenza su quel codice, aveva capito da sé.
Sua eccellenza era di nuovo chino sul libro, muoveva la lente come a disegnare esitanti ellissi. Don Giuseppe vedeva i segni balzare dentro la lente e, prima che avesse il tempo di coglierne uno solo, sfrangiati ricadere sulla pagina tarlata.
Sua eccellenza voltò il foglio, ancora si attardò nell'esame. Mormorò qualcosa. Voltò altri fogli velocemente scorrendoli con la lente, sull'ultimo che guizzava di piccoli vermi d'argento si soffermò.
Si sollevò, voltò le spalle al codice: lo sguardo gli si era di nuovo spento. "Una vita del profeta - disse - niente di siciliano: una vita del profeta, ce ne sono tante".

Don Giuseppe Velia si voltò con faccia radiosa verso monsignor Airoldi. "Sua eccellenza dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della dominazione...".
Monsignor Airoldi si imporporò di gioia, balbettando di emozione. "Domandate - disse - a sua eccellenza... Ecco: domandategli se, nella forma, è simile alla cronica di Cambridge o, che so?, al de rebus siculis...".
Il fracappellano Velia non era uomo da scoraggiarsi per cosi vaga domanda, era preparato a ben altro. Si volse a sua eccellenza. "Monsignore è deluso che questo codice non tratti di cose siciliane. Ma desidera sapere se vite del profeta, come questa, si trovino a Cambridge o in altri luoghi d'Europa".
"Nelle nostre biblioteche, molte: non so se a Cambridge o in altre città d'Europa se ne trovino... Mi dispiace di aver dato una delusione a monsignore: ma le cose sono come sono".
"Eh no, le cose non sono come sono!", pensò don Giuseppe; e a monsignore disse "Sua eccellenza non conosce il de rebus siculis, naturalmente...". "Naturalmente, già..." disse, un po' confuso, monsignore.
"Ma sa della cronica di Cambridge... Questo codice è, dice, qualcosa di diverso: si tratta di una raccolta di lettere, di relazioni... Cose di governo, insomma".

L'idea di armare l'imbroglio al fracappellano Velia era venuta appena monsignor Airoldi aveva proposto la gita al monastero di San Martino: dove, si era ricordato monsignore, c'era un codice arabo che a Palermo aveva portato, un secolo prima, don Martino La Farina, bibliotecario dell'Escuriale. E non c'era occasione migliore, per sapere cosa contenesse quel codice: un arabo che s'intendeva di lettere e di storia, un interprete come il Velia...
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco alla corte di Napoli, si trovava a Palermo, in quel dicembre del 1782, per causa di un fortunale che aveva spinto il vascello, sul quale verso il Marocco navigava, a sfasciarsi sulle coste siciliane. Il viceré Caracciolo, che sapeva quanto il governo di Napoli tenesse a mantenere rapporti col piratesco mondo arabo, persino operando in tal senso con velata soggezione, appena saputo del disastro aveva mandato portantine e carrozze, con buona scorta, a rilevare l'ambasciatore che derelitto se ne stava sulla spiaggia tra i suoi bagagli. Ma appena l'ambasciatore arrivò a palazzo, il viceré si accorse che era impossibile comunicare con lui: non conosceva il francese, non conosceva nemmeno il napoletano. Provvidenzialmente, qualcuno gli suggerì di chiamare quel cappellano maltese che andava vagando per la città sempre solo, sempre ingrugnato: non si sapeva da quale sorte balestrato nella felice città di Palermo.
I volanti mandati in traccia del Velia, affannosamente lo cercarono per tutta la città: che in casa della nipote, che disagiatamente lo ospitava, lo si poteva trovare la notte e nelle ore dei pasti; per il resto se ne stava sempre fuori, occupato nella duplice professione di fracappellano dell'Ordine di Malta e di numerista del lotto. Da quest'ultima attività ricavava il superfluo, come dalla prima il necessario: e non la passava poi tanto male; solo che ancora non era in condizione di liberarsi dell'ospitalità di sua nipote; spinosissima ospitalità, con mezza dozzina di bambini che parevano sortiti dalla bocca dell'inferno e un capo di casa, marito della nipote e padre di quei bambini, ozioso e ubriacone.

Uno dei volanti riusci finalmente a trovarlo. Stava nella bottega di un carnezziere, all'Albergaria: ed era impegnato a smorfiargli un sogno piuttosto confuso. Perché più che un numerista il fracappellano era uno smorfìatore di sogni, dai sogni che gli raccontavano trasceglieva gli elementi che potevano assumere una certa coerenza di racconto, e le immagini che nel racconto prendevano risalto egli traduceva in numeri: e non era impresa facile ridurre a cinque numeri i sogni della gente dell'Albergaria e del Capo (che erano i due quartieri cui limitava la sua attività); sogni che non finivano mai, come le storie dei Reali di Francia; che si scomponevano in un caos di immagini, che si sperdevano in mille rivoli oscuri. In quello che il carnezziere stava raccontandogli, all'arrivo del volante, nientemeno c'entravano un porco che rideva, il viceré, una vicina di casa, una mangiata di cuscus e... Questi erano gli elementi che il fracappellano era riuscito ad estrarre da quel formidabile sogno.

Considerazioni libere (86): a proposito di scuola...

In questi anni il centrodestra ha avuto la grande capacità di far parlare sempre di qualcos'altro, aiutato - per riconoscere con equanimità i meriti - dal centrosinistra. Così, per fare un esempio, le discussioni sulla giustizia, sulle riforme istituzionali, sulle scelte bioetiche hanno trovato molto più spazio di quello concesso alle questioni legate al lavoro, alla scuola, alla sanità, ossia ai temi che toccano più direttamente i cittadini e di cui la politica dovrebbe occuparsi continuamente. Se ci pensate, davvero Berlusconi in questa capacità di diversione è stato bravissimo: la politica italiana ha vissuto una serie ininterrotta di mosse del cavallo, di spiazzamenti, di annunci. Tutto questo fumo è servito in parte per nascondere le tante cose che questo governo non ha fatto - ad esempio sulla pubblica amministrazione, il campo in cui il ministro Brunetta è il prototipo di questa fantomatica efficienza, fatta di annunci a cui non segue mai un provvedimento - ma è servito anche a nascondere l'arrosto, perché in diversi campi l'intervento del governo c'è stato ed è stato assai pesante.
Prendiamo la pubblica istruzione. In Italia si è sempre parlato troppo poco di scuola e in questi ultimi anni non abbiamo fatto eccezione: ricorderete certamente il dibattito sul ripristino dei voti in condotta, sull'uso del grembiulino alle elementari, sull'introduzione del maestro unico. Intanto silenziosamente, senza quel dibattito che un tema del genere avrebbe meritato, è stata riformata in maniera profonda la secondaria superiore, con effetti che vedremo soltanto tra qualche anno. Nella vulgata giornalistica, quella dei titoli di prima pagina e delle aperture dei telegiornali, è passata come una semplificazione delle scelte, ma si è trattato di qualcosa di più. Intanto c'è stato un taglio radicale nelle risorse: meno 1.650 milioni di euro nel 2010, meno 2.538 nel 2011, meno 3.188 nel 2012. Questo si traduce in meno insegnanti, meno ore di lezione, meno laboratori.
Guardiamo la riforma dei licei. Al classico si starà a scuola 27 ore nel biennio e 31 nel triennio, per una riduzione complessiva di 6.000 ore di lezione: spariscono le sperimentazioni introdotte in moltissimi istituti che hanno esteso a tutti i cinque anni lo studio della lingua straniera. E così via l'orario dello scientifico scenderà a 27 ore nel biennio e 30 nel triennio, dell'artistico rispettivamente a 34 e 35. Di fatto i nuovi licei, quello musicale e quello coreutico non partiranno nemmeno: le nuove classi saranno rispettivamente 24 e 4 in tutta Italia. Molte scuole poi hanno già di fatto eliminato la spesa per le supplenze oppure deciso di pulire i locali a giorni alterni per risparmiare sulle spese di gestione.
Vogliamo cominciare a parlarne, e non lasciare questa discussione soltanto alle rivendicazioni del personale della scuola, che rischiano di far emergere soltanto il lato rivendicatico e contrattuale, che pure è importante.
Tullio De Mauro nella sua rubrica settimale su Internazionale ha ricordato una frase di Benjamin Franklin: “An investment in knowledge pays the best dividends”. Per questo gli Stati Uniti hanno deciso di aumentare gli investimenti sull'istruzione, per questo il governo cinese sta aumentando in maniera esponenziale le risorse da destinare all'istruzione. In Italia si sta facendo una scelta diversa.

lunedì 15 marzo 2010

da "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci (IV)

27 febbraio 1928

Carissima Giulia,
ho ricevuto la tua lettera del 26-XII-1927, con la postilla del 24 gennaio e l’unito bigliettino.
Sono stato proprio felice di ricevere queste tue lettere. Ma ero già diventato piú tranquillo da qualche tempo. Sono molto cambiato, in tutto questo tempo. Ho creduto in certi giorni di essere diventato apatico e inerte. Penso oggi di aver sbagliato nell’analisi di me stesso. Cosí non credo neanche piú di essere stato disorientato. Si trattava di crisi di resistenza al nuovo modo di vivere che implacabilmente si imponeva sotto la pressione di tutto l’ambiente carcerario, con le sue norme,con la sua routine, con le sue privazioni, con le sue necessità, un complesso enorme di piccolissime cose che si succedono meccanicamente per giorni, per mesi, per anni, sempre uguali, sempre con lo stesso ritmo, come i granellini di sabbia di una gigantesca clepsidra. Tutto il mio organismo fisico e psichico si opponeva tenacemente, con ogni sua molecola, all’assorbimento di questo ambiente esteriore, ma ogni tanto bisognava riconoscere che una certa quantità della pressione era riuscita a vincere la resistenza e a modificare una certa zona di me stesso, e allora si verificava una scossa rapida e totale per respingere d’un tratto l’invasore. Oggi, tutto un ciclo di mutamenti si è già svolto,perché sono giunto alla calma decisione di non oppormi a ciò che è necessario e ineluttabile coi mezzi e nei modi di prima, che erano inefficaci e inetti, ma di dominare e controllare, con un certo spirito ironico il processo in corso. D’altronde mi sono persuaso che un perfetto filisteo non lo diventerò mai. In ogni momento sarò capace con una scossa di buttar via la pellaccia mezzo di asino e mezzo di pecora che l’ambiente sviluppa sulla vera propria naturale pelle. Forse una cosa non otterrò mai piú: di ridare alla mia pelle naturale e fisica il colore affumicato. Valia non mi potrà piú chiamare il compagno affumicato. Temo che Delio, nonostante il tuo contributo, sarà ormai piú affumicato di me! (Protesti?) Sono rimasto, questo inverno, quasi tre mesi senza vedere il sole, altro che in qualche lontano riflesso. La cella riceve una luce che sta di mezzo tra la luce di una cantina e la luce di un acquario. D’altronde, non devi pensare che la vita mia trascorra cosí monotona e uguale come a prima vista potrebbe sembrare. Una volta presa l’abitudine alla vita dell’acquario e adattato il sensorio a cogliere le impressioni smorzate e crepuscolari che vi fluiscono (sempre ponendosi da una posizione un po’ ironica), tutto un mondo incomincia a brulicare intorno, con una sua particolare vivacità, con sue leggi peculiari, con un suo corso essenziale. Avviene come quando si getta uno sguardo su un vecchio tronco mezzo disfatto dal tempo e dalle intemperie e poi piano piano si ferma sempre piú fissamente l’attenzione. Prima si vede solo qualche fungosità umidiccia, con qualche lumacone, stillante bava, che striscia lentamente. Poi si vede, un po’ alla volta tutto un insieme di colonie di piccoli insetti che si muovono e si affaticano, facendo e rifacendo gli stessi sforzi, lo stesso cammino. Se si conserva la propria posizione estrinseca, se non si diventa un lumacone o una formichina, tutto ciò finisce per interessare e far trascorrere il tempo.
Ogni particolare che riesco a cogliere della tua vita e della vita dei bambini mi offre la possibilità di cercare di elaborare qualche rappresentazione piú vasta. Ma questi elementi sono troppo scarsi e la mia esperienza è stata troppo scarsa. Ancora: i bambini devono mutare troppo rapidamente in questa loro età perché io riesca a seguirli in tutti i movimenti e a darmene una rappresentazione. Certo, in questo devo essere assai disorientato. Ma è inevitabile che sia cosí.
Ti abbraccio teneramente.

Antonio

Considerazioni libere (85): a proposito di riti e di memoria...

Affronto oggi un tema bolognese, scusandomi in anticipo con le lettrici e i lettori che non vivono nella mia città: credo comunque che queste riflessioni abbiano un qualche interesse che va al di là dell'ambito strettamente municipale.
In questi giorni Anna Maria Cancellieri, il Commissario straordinario che regge il Comune dopo le dimissioni del Sindaco, ha aperto con largo anticipo la discussione su come dovrà svolgersi la manifestazione per ricordare la strage del 2 agosto: si tratta del 30° anniversario ed è certamente un appuntamento significativo. Va dato atto al Commissario di avere mostrato una grande sensibilità e un'attenzione non comune verso la città in cui è stata, suo malgrado, catapultata. Sensibilità e attenzione non sempre mostrate dai legittimi ed eletti rappresentanti dei cittadini, che in genere affrontavano la questione a ridosso della data, quando ormai era difficile modificare una cerimonia che è rimasta sostanzialmente immutata dal 1981, primo anniversario di quel tragico attentato.
Per chi non è di Bologna è doveroso dare qualche informazione in più. La manifestazione prevede un momento d'incontro tra istituzioni e familiari delle vittime presso il palazzo municipale e poi un corteo che da piazza Maggiore raggiunge il piazzale davanti alla stazione. Qui si svolgono alcuni interventi ufficiali, fino al momento - le 10.25 - in cui suona la sirena e la piazza rispetta un minuto di silenzio.
Da diversi anni la sobrietà di questa cerimonia è stata deturpata dalla scelta di gruppi, variamente ascrivibili all'estrema sinistra, a volte anche non di Bologna, che hanno cominciato a fischiare i rappresentanti delle istituzioni. Sono stati fischiati, soprattutto negli ultimi anni, i rappresentanti dei governi di centrodestra, ma non sono mancati neppure i fischi verso esponenti del centrosinistra, accusati di non aver fatto abbastanza per togliere il segreto di stato e raggiungere una compiuta verità sui mandanti della strage. E' stato fischiato Guazzaloca, perché, nonostante la sua posizione personale, nella sua maggioranza c'erano esponenti che avevano chiesto per anni di togliere l'aggettivo fascista dalla lapide che ricorda la strage e negavano validità alle condanne di Fioravanti e Mambro come esecutori materiali. E' stato fischiato Cofferati, perché aveva sgomberato alcuni insediamenti abusivi nella periferia della città e aveva adottato una linea sulla sicurezza ritenuta di "destra". In qualche modo i fischi quindi sono diventati parte del rituale, a prescindere: si contestano le istituzioni, punto e basta, chiunque le rappresenti.
Naturalmente il passare degli anni ha allontanato il ricordo vivo di quello che successe quella mattina d'agosto e lentamente la manifestazione è diventata sempre meno partecipata. Personalmente sono due anni che non vado, dopo esserci andato tutti gli anni, almeno dall '86, e forse anche qualche volta negli anni precedenti, accompagnato da mio padre. Non sono andato perché quei fischi, che a volte hanno macchiato anche il minuto di silenzio, hanno per me rovinato in maniera irremediabile la solennità della cerimonia. Poi, come tanti bolognesi, non riesco ad andare in stazione, che debba partire o che stia arrivando, senza passare dalla sala d'attesa di seconda classe; però mi manca il rito collettivo del 2 agosto.
Dopo questa troppo lunga premessa, credo che la prima riflessione debba riguardare il bisogno per una comunità di trovare alcuni momenti simbolici condivisi. I riti sono importanti e non è facile codificare dei riti civici, laici. E' una difficoltà che non riguarda soltanto le comunità, ma anche le famiglie: molte volte si preferisce fare il funerale di un proprio caro in chiesa, al di là del vero sentimento religioso e delle convinzioni profonde sia di chi è morto sia di chi è rimasto, perché lì comunque c'è una ritualità codificata, conosciuta, accettata. Tanto più è difficile trovare una ritualità condivisa per i riti civici, come una commemorazione. Eppure io credo sia importante trovare dei punti comuni.
Personalmente, pur con tutto il rispetto che dobbiamo alle persone che hanno sofferto e soffrono non solo per la perdita di uno o più familiari, ma hanno sofferto e soffrono perché hanno dovuto lottare con grande fatica affinché parte della verità venisse finalmente alla luce, anche a prezzo di grandi sacrifici personali ed economici, credo che sia sbagliato dare a loro un potere di veto sulla decisione di come svolgere la manifestazione. L'anniversario della strage del 2 agosto appartiene all'intera comunità e insieme dovremmo trovare il modo di celebrarlo in un modo consono.
Credo si possa e si debba fare a meno dei discorsi davanti alla stazione. Personalmente - naturalmente la mia è una proposta come le altre - darei appuntamento alle cittadine e ai cittadini direttamente davanti alla stazione e leggerei i nomi delle 85 vittime innocenti, per arrivare al momento del suono della sirena e al minuto di silenzio.
Poi credo debba riprendere una cosa che la città ha lasciato cadere. Nel '91 e nel '92, nella sera del 2 agosto, nelle vie e nelle piazze della città si rappresentò Antigone delle città, un evento che mescolava il testo di Sofocle con versi di Franco Fortini, Franco Loi, Gianni D'Elia, rappresentato da giovani attori di diverse scuole di teatro italiane: furono due eventi molto intensi di partecipazione culturale e di impegno civico che davvero credo andrebbe ripreso, tematizzato, magari coinvolgendo ogni anno un poeta e un regista diversi.
La nostra città e soprattutto la memoria del 2 agosto di trent'anni fa meritano maggiore attenzione.

domenica 14 marzo 2010

"Rimorso per qualsiasi morte" di Jorge Luis Borges


Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,
al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e assenza del mondo.
Tutto gli abbiamo rubato,
non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:
qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,
là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.
Perfino ciò che pensiamo
potrebbe stare pensandolo anche lui;
ci siamo spartiti come ladri
il flusso delle notti e dei giorni.

venerdì 12 marzo 2010

Considerazioni libere (84): a proposito della democrazia in Birmania...

Nel corso del 2010 si dovrebbero svolgere le elezioni in Birmania: la giunta militare, che dal 1988 esercita un potere dittatoriale su quel paese di quasi 50 milioni di abitanti, tenta in questo modo di alleggerire la pressione della comunità internazionale - e in particolare degli Stati Uniti - che richiede da anni il ripristino dei diritti civili e politici. Non è però una buona notizia per i birmani.
Le elezioni non sono state ancora fissate ufficialmente, ma la giunta militare in questi giorni ha dato notizia delle leggi che regoleranno il voto. Bisogna ricordare prima di tutto che la costituzione voluta dagli stessi militari prevede che il 25% dei seggi del nuovo parlamento sia assegnato a membri dell'esercito, che sceglieranno anche chi dovrà gestire alcuni dipartimenti del futuro governo, quale che sia l'esito del voto. In questi giorni è stata definita la composizione della commissione elettorale: è un organo, composto da cinque personalità "eminenti e fedeli allo Stato" - quindi militari - che avranno il potere di decidere, senza possibilita' di appello, la delimitazione delle circoscrizioni elettorali e soprattutto potranno annullare il voto in quelle dove, a loro giudizio, si registreranno delle irregolarità o dove il voto non dovesse essere favorevole alla giunta.
Poi è stato deciso che coloro che sono stati riconosciuti colpevoli da una corte birmana e stanno scontando una pena, qualsiasi sia il reato, non potranno essere candidati; anzi non potranno neppure essere iscritti a un partito, pena la inammissibilità di quello stesso partito al voto. Si tratta chiaramente di una legge contro Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), che nelle uniche elezioni libere in quel paese, svolte nel 1990 e mai ratificate dalla giunta, ottenne l'80% dei seggi al parlamento. In pratica la Nld per poter partecipare alle elezioni dovrebbe espellere Aung San Suu Kyi, che è stata in carcere per 14 degli ultimi 20 anni, è attualmente agli arresti domiciliari e deve scontare la sua pena fino al prossimo novembre. La giunta ha concesso 60 giorni ai partiti per iscriversi alle liste elettorali ed è probabile che il voto avvenga subito dopo, forse a giugno, per limitare al massimo la campagna elettorale. Probabilmente sia la Nld che altre formazioni minori di carattere etnico non parteciperanno alle elezioni, boiccotando il voto.
In questi mesi, nonostante il tentativo di ingraziarsi la comunità internazionale il regime birmano ha inasprito il suo controllo sul paese. Ha tentato di trovare un accordo con le milizie etniche che controllano alcune zone del nord est del paese, obbligando le stesse milizie a diventare guardie di confine sotto il controllo delle forze armate; in poche hanno accettato. E così nell'agosto dell'anno scorso l'esercito ha duramente attaccato le milizie Kokang e si prepara ora all'offensiva contro le milizie Wa e Kachin.
Intanto i militari continuano a fare affari, nonostante le sanzioni statunitensi, grazie ai buoni rapporti con la Cina e con altri paesi asiatici.
E' di pochi giorni fa la notizia che due importanti aziende della Corea del sud, la Hyundai Heavy Industries e la Daewoo, hanno sottoscritto un accordo da 1,4 miliardi di dollari per lo sviluppo di un enorme giacimento di gas naturale al largo della costa birmana: un affare a cui partecipano anche due compagnie indiane. Tra due-tre anni, quando il gasdotto sarà completato, 15 milioni di metri cubi di gas al giorno per circa 25-30 anni arriveranno in Cina, consentendo al regime birmano di intascare circa un miliardo di dollari all'anno. E sempre in Cina arriverà il petrolio dal Medio Oriente attraverso un grande oleodotto in costruzione, permettendo di evitare le migliaia di chilometri necessari per circumnavigare l'Asia sud-orientale. La Thailandia prevede la costruzione in Birmania di una diga e di una centrale idroelettrica per importare nuova energia elettrica e l'India ha in progetto la costruzione di un gasdotto che la colleghi con la Birmania. Evidentemente per tutti questi paesi pecunia non olet. Naturalmente ciascuna di queste grandi opere si porta dietro sgomberi senza risarcimenti, lavori forzati, violenze contro la popolazione, incalcolabili danni ambientali.
Nonostante queste grandi ricchezze naturali, la Birmania è uno dei paesi più poveri del mondo, al 162° posto nella lista redatta dal Fondo monetario internazionale sul Pil. In queste settimane, nonostante l'esito delle elezioni sia scontato, i generali stanno comunque cercando di far rendere al massimo la propria posizione di potere: hanno avviato un piano di privatizzazioni e, come ho detto, continuano ad arricchirsi con il gas naturale, lucrando, come hanno fatto in passato, con il cambio fasullo della valuta nazionale. Ufficialmente un dollaro vale circa 6 kyat, ma al mercato nero un dollaro vale almeno 1.000 kyat: una differenza che la giunta usa per mettere minori introiti a bilancio, utilizzando il resto per gonfiare i propri conti bancari a Singapore.
Non dimentichiamoci della Birmania e della lotta di Aung San Suu Kyi.

giovedì 11 marzo 2010

da "Socialismo liberale" di Carlo Rosselli

I miei conti con il marxismo li vado facendo da parecchi anni, sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in compagnia di pochi eretici amici. Voglio renderne conto qui prima di tutti a me stesso, poi a quei miei compagni di destino che non credono terminate alle Alpi le frontiere del mondo.
Sarò chiaro, semplice, sincero e, poi che i libri mi mancano, procedendo per chiaroscuri senza i famosi “abiti professionali” e i non meno famosi “sussidi di note”.

Intanto, chi sono. Sono un socialista.
Un socialista che, malgrado sia stato dichiarato morto da un pezzo, sente ancora il sangue circolare nelle arterie e affluire al cervello. Un socialista che non si liquida né con la critica dei vecchi programmi, né col ricordo della sconfitta, né col richiamo alle responsabilità del passato, né con le polemiche sulla guerra combattuta. Un socialista giovane, di una marca nuova e pericolosa, che ha studiato, sofferto, meditato e qualcosa capito della storia italiana lontana e vicina. E precisamente ha capito:

  1. Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale.
  2. Che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell'avvenire.
  3. Che tra socialismo e marxismo non vi è parentela necessaria.
  4. Che anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista.
  5. Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura).
  6. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l'erede del liberalismo.
  7. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo.
  8. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo.
  9. Che lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti, e mena acqua al mulino reazionario.
  10. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura.
  11. Che ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.
  12. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
  13. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse una unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.
Il primo liberalismo ha da attuarsi all'interno.

Le tesi sono tredici.
Il tredici porta fortuna.
Chi vivrà vedrà.

Nota: Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura e dittatura significa uomini servi, numeri e non coscienze, prodotti e non produttori, e significa quindi negare i fini primi del socialismo.

mercoledì 10 marzo 2010

Carlo Rosselli parla alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936

Compagni, fratelli, italiani, ascoltate.
Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell'armata rivoluzionaria.
Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli: ecco la testimonianza del suo sacrificio.
Una seconda colonna italiana, formatasi in questi giorni, difende eroicamente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che avendo perduto la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano.
Giornalmente arrivano volontari italiani: dalla Francia, dal Belgio. dalla Svizzera, dalle lontane Americhe.

Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall'Italia oppressa partono volontari.
Nelle nostre file contiamo a decine i compagni che, a prezzo di mille pericoli, hanno varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell'antifascismo lottano i giovanissimi che hanno abbandonato l'università, la fabbrica e perfino la caserma. Hanno disertato la guerra borghese per partecipare alla guerra rivoluzionaria.
Ascoltate, italiani. E' un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Un secolo fa, l'Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell'Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti. Ogni sforzo di liberazione veniva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all'esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia, Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisacane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese, lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostrando al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quei sacrifici, da quegli esempi uscì consacrata la causa italiana. Gli italiani riacquistarono fiducia nelle loro forze.
Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell'antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani.

Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di de Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. E' come nel Risorgimento, nell'epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall'estero vennero l'esempio e l'incitamento, cosi oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto.
E' con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia.

Fratelli, compagni italiani, ascoltate. E' un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona.
Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta.
La rivoluzione in Ispagna è trionfante. Penetra ogni giorno di più nel profondo della vita del popolo rinnovando istituiti, raddrizzando secolari ingiustizie. Madrid non è caduta e non cadrà. Quando pareva in procinto di soccombere, una meravigliosa riscossa di popolo arginava l'invasione ed iniziava la controffensiva. Il motto della milizia rivoluzionaria che fino ad ora era "No pasaran" è diventato "Pasaremos", cioè non i fascisti, ma noi, i rivoluzionari, passeremo.
La Catalogna, Valencia, tutto il litorale mediterraneo, Bilbao e cento altre città, la zona più ricca, più evoluta e industriosa di Spagna sta solidamente in mano alle forze rivoluzionarie.

Un ordine nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. Nelle officine non comanda più il padrone, ma la collettività, attraverso consigli di fabbrica e sindacati. Sui campi non trovate più il salariato costretto ad un estenuante lavoro nell'interesse altrui. Il contadino è padrone della terra che lavora, sotto il controllo dei municipii. Negli uffici,gli impiegati, i tecnici, non obbediscono più a una gerarchia di figli di papà, ma ad una nuova gerarchia fondata sulla capacità e la libera scelta. Obbediscono, o meglio collaborano, perché‚ nella Spagna rivoluzionaria, e soprattutto nella Catalogna libertaria, le più audaci conquiste sociali si fanno rispettando la personalità dell'uomo e l'autonomia dei gruppi umani.
Comunismo, si, ma libertario. Socializzazione delle grandi industrie e del grande commercio, ma non statolatria: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l'uomo da tutte le schiavitù.
L'esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell'Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!

Fratelli,compagni italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei volontari italiani.
Sull'altra sponda del Mediterraneo un mondo nuovo sta nascendo. E' la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l'Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, cosi vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perché la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d'inerzia e di abbandono, di riprendere in mano il loro destino.
Fratelli italiani che vivete nella prigione fascista,io vorrei che voi poteste, per un attimo almeno, tuffarvi nell'atmosfera inebriante in cui vive da mesi, nonostante tutte le difficoltà, questo popolo meraviglioso. Vorrei che poteste andare nelle officine per vedere con quale entusiasmo si produce per i compagni combattenti; vorrei che poteste percorrere le campagne e leggere sul viso dei contadini la fierezza di questa dignità nuova e soprattutto percorrere il fronte e parlare con i militi volontari. Il fascismo, non potendosi fidare dei soldati che passano in blocco alle nostre file, deve ricorrere ai mercenarii di tutti i colori. Invece,le caserme proletarie brulicano di una folla di giovani reclamanti le armi. Vale più un mese di questa vita, spesa per degli ideali umani, che dieci anni di vegetazione e di falsi miraggi imperiali nell'Italia mussoliniana.
E neppure crederete alla stampa fascista che dipinge la Catalogna,in maggioranza sindacalista anarchica, in preda al terrore e al disordine. L'anarchismo catalano è un socialismo costruttivo sensibile ai problemi di libertà e di cultura. Ogni giorno esso fornisce prove delle sue qualità realistiche. Le riforme vengono compiute con metodo, senza seguire schemi preconcetti e tenendo sempre in conto l'esperienza.
La migliore prova ci è data da Barcellona, dove, nonostante le difficoltà della guerra, la vita continua a svolgersi regolarmente e i servizi pubblici funzionano come e meglio di prima.

Italiani che ascoltate la radio di Barcellona attenzione. I volontari italiani combattenti in Ispagna, nell'interesse, per l'ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà, vi chiedono di impedire che il fascismo prosegua nella sua opera criminale a favore di Franco e dei generali faziosi. Tutti i giorni aeroplani forniti dal fascismo italiano e guidati da aviatori mercenari che disonorano il nostro paese, lanciano bombe contro città inermi, straziando donne e bambini. Tutti i giorni, proiettili italiani costruiti con mani italiane, trasportati da navi italiane, lanciati da cannoni italiani cadono nelle trincee dei lavoratori.
Franco avrebbe già da tempo fallito, se non fosse stato per il possente aiuto fascista. Quale vergogna per gli italiani sapere che il proprio governo, il governo di un popolo che fu un tempo all'avanguardia delle lotte per la libertà, tenta di assassinare la libertà del popolo spagnolo.
Che l'Italia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi. Dalle fabbriche, dai porti italiani non debbono più partire le armi omicide. Dove non sia possibile il boicottaggio aperto, si ricorra al boicottaggio segreto. Il popolo italiano non deve diventare il poliziotto d'Europa.

Fratelli, compagni italiani, un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona, in nome di migliaia di combattenti italiani.
Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l'emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari.E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna.
Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa.