sabato 29 maggio 2010

"L'isola dell'amore" di Stefano Benni


per Zaira

Io e te partiremo
su un aereo di carta
in tre ore per passare il mare
dove il vento ci porta

un aereo di carta di giornale
che porta la notizia che
io e te siamo partiti
e non si sa dove siamo finiti
...

Considerazioni libere (119): a proposito di Bologna (II)...

Alcuni giorni fa ho scritto una "considerazione" piuttosto critica sulla mia città (la nr. 117, per la precisione); a questo punto mi sembra doveroso scriverne una sorta di seguito o meglio, per dirla alla maniera di Bacone, far seguire alla pars destruens una pars construens, per non lasciare un'eccessivo senso di pessimismo nei miei sparuti lettori.
In queste settimane a Bologna molti si domandano quale dovrà essere il profilo del prossimo sindaco o più prosaicamente scommettono su chi sarà il nuovo inquilino di Palazzo d'Accursio, saggiando alcuni nomi, bruciandone altri, tenendone nascosti altri ancora: in una parola il peggio della politica. Alcuni altri stanno provando a ragionare sul modello di città a cui aspiriamo e che legittimamente possiamo pensare di costruire; francamente questa discussione mi pare un poco più interessante. Questa città ha conosciuto la sua fase migliore, dall'immediato dopoguerra agli anni settanta del secolo scorso, perché la sua classe dirigente - tra il pragmatismo bonario di Giuseppe Dozza e l'analisi intellettuale un po' aristocratica di Renato Zangheri, passando per molti altri politici e amministratori, non solo proveniente dalle fila del Pci - aveva ben in testa un modello da seguire: Bologna doveva essere il modello della buona amministrazione, il modello del riformismo socialista in un Paese che era governato dall'immobilismo democristiano. Voglio far notare - ma è cosa nota - che il fatto che Bologna fosse l'unica grande città italiana da sempre governata dal Pci ha fatto sì che qui anche il livello degli esponenti della Dc sia stato mediamente più alto che a livello nazionale. Naturalmente non sempre i risultati furono all'altezza del modello - occorre essere onesti, al di là delle comprensibili nostalgie - ma fu importante avere una linea da seguire. E soprattutto fu importante che questa idea fosse non solo prerogativa di un gruppo dirigente, per quanto allargato, ma condivisa da un gran numero di cittadini, il cui senso civico e la cui sensibilità politica erano certamente sopra la media.
So bene che è impossibile ricreare quel clima ideale, non ci sono più da tempo le condizioni storiche e politiche perché questo avvenga. A essere onesti e per ristabilire una dura verità storica, Bologna è stata così duramente colpita dal terrorismo - basti pensare alla strage del 2 agosto - proprio perché non fosse più quel modello e bisogna dire che l'obiettivo è stato raggiunto. Nonostante questa necessaria premessa, credo che potremmo convenire su un'idea, su qualcosa su cui investire in maniera unanime, in modo che gli sforzi di tutti prendano una stessa direzione o almeno direzioni non troppo divergenti, come sta invece avvenendo ora. Personalmente penso che Bologna, accantonata l'idea di essere di nuovo un modello di qualcosa, potrebbe trovare la sua ragion d'essere, la sua idea forte - mi verrebbe da dire la sua anima, mi sembra il termine più chiaro - nel suo patrimonio culturale e creativo. Non pretendo di essere originale e so bene che tante volte ho sentito la frase "Bologna deve investire sulla cultura", ma altrettanto spesso ho visto disattesa questa dichiarazione di principio.
A Bologna c'è un'università che ha certo molti problemi, come ogni altra università italiana, ma che continua a godere di un prestigio in molti campi; a Bologna ci sono moltissimi artisti, scrittori, cineasti, teatranti, fumettisti, musicisti; a Bologna c'è già un pubblico potenzialmente attento e soprattutto può facilmente arrivarci da ogni parte d'Italia; Bologna continua a essere una bella città, nonostante l'incuria in cui versa da parecchi anni. E allora la città provi davvero a investire sulla cultura e sulla creatività. Facciamo in modo che i giovani che vengono a studiare a Bologna siano accolti dalla città, lottando veramente contro la piaga del caro affitti - basterebbero pochi controlli per scoprire i tantissimi proprietari che affittano in nero le loro case a prezzi oltre ogni vergogna - offrendo servizi e luoghi di aggregazione. Proviamo a immaginare iniziative, eventi, festival; negli anni passati, ne sono stati fatti di importanti e belli, pensiamo davvero di non esserne più capaci? Certo bisogna uscire dalla logica delle iniziative a spot, occorre programmare, seminare, anche rischiare. Torniamo a investire nei musei, nelle biblioteche, nei luoghi dove naturalmente e ogni giorno si produce cultura. Pensiamo cosa sarebbe la nostra città se si tornasse a lavorare sull'aggregazione associativa, su una miriade di piccoli eventi disseminati nelle vie e nelle piazze del centro e delle periferie - scusate l'inciso personale, ma ricordo con gioia alcune piccole feste dell'unità, ad esempio nei giardini della ex manifattura tabacchi e in piazza XX settembre. Sarebbe una città più pulita, più sicura e con una mobilità più sostenibile. Proviamo a immaginare un turismo diverso che non sia soltanto quello legato alle fiere. Io credo che ci sia una ricchezza possibile in una città che riscopra la sua anima accogliente, ospitale, anche un po' gaudente, che torni a essere un luogo a cui si guarda, in cui si abbia voglia di abitare, in cui faccia piacere venire, una città di cui si invidino almeno un po' i suoi cittadini.

venerdì 28 maggio 2010

da "Orlando furioso" (XXXIV, 73-85) di Ludovico Ariosto


Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l'apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch'in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch'eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro.

Ami d'oro e d'argento appresso vede
in una massa, ch'erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch'in laude dei signor si fanno.

Di nodi d'oro e di gemmati ceppi
vede c'han forma i mal seguiti amori.
V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi,
l'autorità ch'ai suoi danno i signori.
I mantici ch'intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.

Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l'opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch'era il servir de le misere corti.

Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch'importe.
- L'elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. -
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch'ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.

Vide gran copia di panie con visco,
ch'erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l'occurrenze nostre:
sol la pazzia non v'è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch'egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n'era quivi un monte,
solo assai più che l'altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d'Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l'altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d'Orlando.

E così tutte l'altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch'egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n'era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de' signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d'altro aprezze.
Di sofisti e d'astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n'era molto.

giovedì 27 maggio 2010

da "Sotto il sole giaguaro" di Italo Calvino

Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere, un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce. Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange. Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona. Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo. Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. Non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra? Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui! Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente. Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare. E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.

martedì 25 maggio 2010

"Quando avrai un passato" di Raymond Queneau


Quando tu avrai un passato,
Yvonne, ti accorgerai che cosa
curiosa che è. Prima di tutto, ce
ne sono angoli interi, di frane:
dove non c'è più niente. Altrove
erbacce che sono cresciute a
casaccio, e non ci si capisce più
niente neppure lì. E poi ci sono
posti che ci sembrano così belli
che uno se li rivernicia tutti
gli anni, una volta d'un colore, una
volta d'un altro. E lì la cosa
finisce per non somigliare più per
niente a quella che era. Senza
contare quello che uno ha creduto
molto semplicemente e senza
mistero quando è successo, e che
poi anni dopo si scopre che non
è tanto chiaro come sembrava,
così come alle volte tu passi tutti
i giorni davanti a un'affare
qualunque senza farci caso e poi
tutt'a un tratto te ne accorgi.

Considerazioni libere (118): a proposito di reality show...

Ammetto la mia ignoranza in merito al genere reality; conosco "Il grande fratello", conosco "L'isola dei famosi", so che ci sono varianti tipo "La fattoria" o "La talpa", ma sinceramente non avevo mai sentito nominare "The first 48". "The first 48" è giunto alla sua nona stagione ed è prodotto dalla casa di produzione statunitense A&E. Si tratta davvero di un reality, la troupe segue il lavoro della polizia nelle prime quarantotto ore che seguono un omicidio: un vero omicidio, con un vero colpevole e veri poliziotti che lo individuano e lo catturano. Le immagini riprese vengono poi montate e raccontate da un narratore, l'attore Dion Graham.
Il 16 maggio scorso la troupe di "The first 48" stava seguendo il lavoro della polizia di Detroit, impegnata nella cattura di un giovane sospettato di omicidio, che stava fuggendo. La squadra speciale, gli Swat - quelli che siamo abituati a vedere nei telefilm - hanno individuato il fuggiasco all'interno di una casa in un quartier popolare della città, hanno gettato una granata stordente nell'appartamento e hanno fatto irruzione, uccidendo una bambina di sette anni, Ayana Stanley-Jones, che stava dormendo nel suo letto. I genitori della bambina accusano la polizia di aver agito in maniera avventata, dicono che il colpo è stato sparato dall'esterno dell'abitazione e che il sospetto è stato poi arrestato in un'altra casa della via; la polizia afferma che il colpo è stato sparato in casa e non dà indicazioni sul luogo effettivo dell'arresto. Forse le riprese di "The first 48" saranno determinanti per sapere la verità.
Al di là di cosa emergerà dall'inchiesta, alcuni hanno cominciato a riflettere sulla responsabilità dello show. La povera Ayana non è morta per colpa della troupe di "The first 48", ma certamente dovrebbe far riflettere che ad esempio l'uso delle granate stordenti è in relazione proprio a questo tipo di interventi, perché hanno un maggior effetto televisivo. Fare un'irruzione in una casa per catturare un possibile omicida è già qualcosa di complicato, soggetto a moltissimi elementi imprevedibili e dannatamente rischioso, come è evidente anche da quello successo a Detroit domenica scorsa, ma certo non aiuta i poliziotti sapere che la loro azione sta per essere ripresa, c'è il rischio, sempre più concreto che finiscano per interpretare i poliziotti, secondo gli schemi che hanno visto in tanti telefilm. Chi ha analizzato questo reality e altri del genere - perché non è l'unico - ha messo in evidenza che le azioni tendono a concentrarsi in quartieri poveri, che spesso i sospettati sono persone di colore e soprattutto che nelle azioni c'è un maggior elemento di drammatizzazione rispetto a un normale inseguimento.
Ieri sera, quando ho raccontato l'episodio a Zaira, lei mi ha fatto notare che in Italia la polizia preferisce non essere filmata e mi ha venuto in mente quel dirigente di carcere che aveva rimproverato i suoi uomini perché avevano picchiato un ragazzo nella sua cella, dove potevano essere visti, mentre potevano farlo nei sotterranei. Francamente spero che questo reality non venga importato; penso ci basti "La pupa e il secchione".

lunedì 24 maggio 2010

Considerazioni libere (117): a proposito di Bologna... (I)

Mi scuso con i miei pochi e pazienti lettori, che vivono quasi tutti lontani da Bologna, ma questa nuova "considerazione" è dedicata alle vicende bolognesi; come è successo altre volte, spero di riuscire a ricavarne qualche riflessione che possa interessare anche i non-bolognesi.
Come è noto la città dal febbraio scorso è retta dal Commissario straordinario, la dottoressa Anna Maria Cancellieri; nonostante qualche sempre più timida richiesta, si voterà nella prossima primavera. Si tratta, come è evidente, di una situazione irrituale, di cui porta la responsabilità prima di tutto il precedente sindaco - e conseguentemente le forze politiche che lo hanno scelto e sostenuto; se Delbono si fosse dimesso nei tempi previsti dalla legge, si sarebbe votato regolarmente nelle scorse settimane, contestualmente alle elezioni regionali. Nonostante le proteste di rito, questi mesi di sospensione dell'attività amministrativa sembrano andar bene a tutti gli schieramenti, e questo la dice lunga sulla situazione politica in cui si trova la nostra città.
In città non si trova nessuno che non manchi di lodare il pragmatismo e il buon senso della "commissaria" e anzi qualcuno si spinge a dire che si sta facendo in questi mesi più di quanto si sia fatto negli anni precedenti. Francamente non mi sento di unirmi al coro dei lodatori; certo la dottoressa Cancellieri è persona di buon senso, è probabilmente un funzionario capace, anche sopra la media, ma la sua azione non può incidere più di tanto sulla città. Certo la breve esperienza amministrativa di Delbono è stata scialba e, per ragioni diverse, le amministrazioni Guazzaloca e Cofferati non hanno risposto alle tante aspettative, legittimamente diverse, che avevano suscitato, ma in tutta onestà non si può dire che la città governata dal commissario sia, almeno finora, migliore di come era quando è iniziato il suo periodo di governo: è ugualmente sporca, ugualmente poco accogliente, ugualmente lontana dai bisogni dei cittadini, continua a non essere curata dai suoi cittadini e a non prendersi cura di essi. Al di là di alcune lodevoli eccezioni, i principali funzionari che presidiano la macchina comunale non hanno la capacità non solo per dare un colpo d'ala all'azione amministrativa, ma neppure quella di svolgere con attenzione la manutenzione. Tra i più entusiasti lodatori della "commissaria" ci sono personaggi che, pur non eletti, rappresentano alcuni poteri della città, come l'ex-rettore e ora presidente di un'importante fondazione bancaria e il presidente della Camera di commercio, già presidente dei commercianti. Anch'essi fanno parte della mediocre classe dirigente della città e ora sperano di superare questa fase di crisi, addossando ogni colpa sulla politica. Tra i cosiddetti "poteri forti" che non sono contenti - anche se non lo dicono, o lo dicono a mezza bocca - ci sono i costruttori, perché in una città senza la politica non vanno avanti i progetti di edificazioni da cui essi traggono i loro lauti guadagni. E, anche qui con grande franchezza, un'azione amministrativa che è tutta incentrata sulle opere e sul mattone, come quella degli ultimi anni, non è una buona amministrazione.
Il fatto che la politica abbia dato così scarsa prova di sé nell'amministrare la città non significa, come qualcuno sta tentando di dimostrare, che la politica non serva e che anzi sarebbe un ostacolo allo sviluppo ideale della città. Certo non si vede nella politica bolognese una soluzione degna di questo nome. Il centrodestra sta tenendo sulla graticola un possibile candidato, che probabilmente quando si arriverà al dunque non sarà più tale e non ha un gruppo dirigente degno di questo nome, e pare non voglia neppure averlo, dal momento che ha deciso di rimandare a Roma la candidata sconfitta alle elezioni regionali, che pure aveva migliorato il risultato della coalizione di centrodestra e poteva essere una delle persone attorno a cui costruire un nuovo gruppo dirigente. Il Pd teme di avere troppi candidati, preferirebbe non essere costretto a scegliere e pare invochi nuovamente un "briscolone", magari un candidato civico a cui non si possa dire di no e che permetta di non sollevare troppa polvere rispetto ai precari equilibri interni. Il Pd intanto è impegnato nel congresso per scegliere il nuovo segretario provinciale, che sarà probabilmente quello designato dai "maggiorenti" del partito; al di là del giudizio di merito sulla persona, è piuttosto bizzaro che sia candidato a segretario quello che fino a ieri era di fatto il vicesegretario, con una piattaforma di forte rinnovamente rispetto alla gestione precedente. Intorno al Pd sinceramente c'è poco, sia numericamente purtroppo - vedi la sinistra - sia per qualità politica, vedi l'Italia dei valori che è riuscita a fare una figuraccia per accaparrarsi qualche delega in più in Provincia, sì proprio in quell'ente che andrebbe eliminato.
Mi pare che per oggi abbia prevalso una certa visione pessimistica; nei prossimi giorni mi piacerebbe riuscire a scrivere a proposito di quello che si dovrebbe fare.

domenica 23 maggio 2010

"C'è chi insegna" di Danilo Dolci


C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

sabato 22 maggio 2010

Considerazioni libere (116): a proposito di quello che sta succedendo in Thailandia...

Francamente non è facile capire quello che sta succedendo in Thailandia; gli scontri violenti di questi ultimi giorni e la morte di un fotoreporter italiano hanno costretto i mezzi di informazione ad accendere i riflettori su quel paese, che - come avviene solitamente - sono stati rapidamente spenti (vuoi mettere come è più interessante la politica italiana).
Al di là del notorio provincialismo italiano, credo che uno dei motivi che rende difficile intervenire sulle vicende di quel paese - uno dei più importanti del sud-est asiatico, con i suoi 64 milioni di abitanti - sia la difficoltà a definire in maniera netta da che parte stare. Certo l'attuale governo, sostenuto dai militari e dalle cosiddette "camicie gialle", non ha alcuna legittimazione democratica, è stato imposto con un colpo di stato nel settembre del 2006, tacitamente accettato dalla comunità internazionale, e rifiuta di proclamare nuove elezioni. A onor del vero, il capo del governo deposto Thaksin Shinawatra era un personaggio che aveva qualche difficoltà a rispettare le regole democratiche; eletto con una grande maggioranza, anche grazie alla sua grande fortuna economica, con un programma di chiara impronta populista, dopo una prima fase in cui aveva avviato alcune riforme a favore delle fasce più deboli della popolazione, aveva cominciato a restringere gli spazi di libertà, imponendo suoi familiari e amici nelle principali pubbliche e approfittando della sua posizione per favorire le sue attività economiche. Si era presentato come una sorta di Bloomberg thailandese, ma ricordava piuttosto il nostro Berlusconi. A rendere ancora più incerta la situazione da un lato c'è lo stato di salute dell'anziano monarca, molto amato dalla popolazione, ma ormai fuori dalla vita pubblica, e lo scarso credito di cui gode il principe ereditario e dall'altro lato le tendenze indipendentiste della popolazione mussulmana del su del paese.
C'è però qualcosa nelle proteste di queste settimane che è destinato a durare, anche al di là del possibile ritorno dall'esilio di Thaksin. Le persone che in questi giorni sono scesi in piazza, hanno duramente lottato, hanno rischiato la loro vita, le cosiddette "camicie rosse", chiedono sì nuove elezioni e la fine dell'esilio di Thaksin, ma soprattutto chiedono di poter contare nella vita politica e sociale del paese. Bangkok è in pochi anni diventata il simbolo della crescita impetuosa dell'economia della Thailandia, è diventata una città moderna, internazionale, in cui sono andati a vivere e a lavorare donne e uomini che hanno progressivamente abbandonato le campagne: in due decenni la popolazione della città è quasi raddoppiata. Queste donne e questi uomini, e soprattutto i loro figli, che sono nati nella città e non si sentono ormai più parte del mondo agricolo tradizionale, ora chiedono di far sentire la propria voce, vogliono portare avanti le proprie rivendicazioni, vogliono diritti politici ed economici. Queste persone avrebbero bisogni di leaders capaci di guidare questa lotta, ma certo non potranno più essere ignorati, perché ora non vivono lontani dal centro del potere, ma sono lì, come hanno dimostrato in questi giorni, occupando il cuore commerciale della capitale.
Forse dovremmo cominciare a sostenere la lotta delle "camicie rosse"...

venerdì 21 maggio 2010

Considerazioni libere (115): a proposito di spese e di risparmi...

"Si vis pacem, para bellum", recita il noto detto latino. Deve esserne ricordato anche il segretario generale della Nato, l'ex-premier danese Rasmussen, noto anche per la sua avvenenza, come fece notare un evidentemente invidioso Silvio Berlusconi un po' di tempo fa. Lunedì scorso, insieme a Madeleine Albright, ha presentato a Bruxelles il nuovo "Concetto strategico", ossia il documento di orientamento politico-strategico con cui periodicamente la Nato ridefinisce il proprio ruolo e le proprie funzioni. Nell'enfasi della presentazione Rasmussen ha detto, tra le altre cose: "Nonostante le grandi sfide economiche che gravano sui singoli stati" - evidentemente anche lui si è accorto che in Europa c'è la crisi, deve averlo letto in qualche memorandum riservato - "è preoccupante osservare il crescente divario nella spesa militare tra Stati Uniti e alleati europei". Infatti il bilancio della spesa militare degli Stati Uniti è quasi il 4,7% del Pil, mentre i ventisei alleati europei - quasi ventisei piccoli indiani - spendono in media l'1,7%. Sono soltanto sei i paesi europei che hanno un bilancio militare superiore al 2% e tra questi c'è la Grecia, che arriva al 3,2%, la percentuale più alta dopo quella degli Stati Uniti. Un esempio da lodare e da imitare, secondo Rasmussen; e infatti la Grecia è messa come ben sappiamo, gli stipendi e le pensioni sono stati congelati, le tasse sono state aumentate e così via. Il governo greco, pur incassando le lodi di Rasmussen e della Nato - le uniche lodi internazionali che riceve in questo periodo - ha deciso di ridurre un po' le proprie spese militari, passando da 6,8 a 6 miliardi. Mentre gli altri paesi europei hanno richiesto a voce la politica di rigore, di fronte a questa decisione di Atene hanno storto il naso. Il governo francese pretende che comunque la Grecia acquisti le sei navi da guerra già ordinate alla Dcns, per un totale di 2,5 milardi di euro e il governo tedesco che vengano acquistati i due nuovi sottomarini che sta costruendo la Thyssen-Krupp - sì, proprio la stessa azienda ben nota a Torino - per 150 milioni.
Chissà cosa farà il governo italiano, che spende soltanto 23 miliardi all'anno per il bilancio della difesa? Rinuncerà al programma di acquisto di 131 cacciabombardieri F-35, rischiando di scendere ancora nella considerazione di Rasmussen e degli esperti della Nato?

giovedì 20 maggio 2010

Considerazioni libere (114): a proposito di olimpiadi...

A proposito della decisione di Roma e di Venezia di candidarsi per le olimpiadi del 2020 e della successiva scelta del Coni di presentare al Cio la capitale come unica candidata italiana, francamente mi è sembrato paradossale che tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito si siano schierati per l'una o l'altra città, con argomenti più o meno condivisibili, con accenti più o meno campanilistici, ma che nessuno abbia sollevato questioni sull'opportunità di una candidatura italiana, a prescindere dalla città.
A parte i casi virtuosi di Genova e di Torino, che hanno saputo utilizzare bene due importanti manifestazioni come l'Expo del '92 e le recenti olimpiadi invernali, la tradizione italiana dei cosiddetti "grandi eventi" non mi pare che sia a nostro favore. Italia '90 non è stato certo un esempio di capacità amministrativa: sono state spese risorse ingentissime per costruire impianti ampiamente sottoutilizzati e non sono state completate molte delle opere infrastrutturali previste per quell'evento. A quello che si legge, la Figc sta cercando il modo di ritirarsi con onore dalla corsa per l'assegnazione dei campionati europei di calcio del 2016, per evitare una certa bocciatura, che certo non gioverebbe all'immagine del paese. Nonostante uno sbandierato impegno bipartisan e nonostante il centrodestra sia al governo nel Comune, nella Provincia e nella Regione e abbia nominato a capo dell'evento un ex-ministro dalla fama di manager, i lavori per l'Expo 2015 sono in grande ritardo; come spesso succede le uniche cose che si stanno realizzando sono gli insediamenti residenziali e commerciali privati, che hanno visto in questa manifestazione una grande opportunità di investimento, a scapito dell'interesse generale. Il fatto poi che i funzionari "esperti" nella realizzazione delle opere per i "grandi eventi" siano praticamente tutti in carcere non è certo il miglior viatico per la nostra candidatura: le irregolarità negli appalti e gli alti costi delle opere in relazione ai mondiali di nuoto sono a tutt'oggi oggetto di indagine.
Evidentamente non ci ha insegnato nulla l'esperienza della Grecia, che sta pagando, insieme a una corruzione sociale diffusa e all'inefficienza del settore pubblico - due elementi che accomunano i nostri paesi - anche i debiti fatti per ospitare le olimpiadi del 2004. Ho stima di due amministratori come Cacciari e Galan che per primi hanno sostenuto la candidatura ddi Venezia e credo che abbiano fatto delle valutazioni corrette; ho molta meno stima degli amministratori di Roma, di centrodestra e di centrosinistra, che dovrebbero preoccuparsi di far funzionare la città, di curare la manutenzione, piuttosto che immaginarsi come i promotori di nuovi grandi eventi. Nonostante la stima per la candidatura di Venezia, continuo a pensare che il nostro paese abbia bisogno di altro, ad esempio un grande piano per mettere in sicurezza gli edifici scolastici oppure interventi per l'assetto idrogeologico, che è sempre più fragile. Le risorse sono davvero poche, abbiamo proprio bisogno di un'olimpiade?

mercoledì 19 maggio 2010

"Siamo tutti politici (e animali) di Edoardo Sanguineti


Siamo tutti politici (e animali):
premesso questo, posso dirti che
odio i politici odiosi: (e ti risparmio anche soltanto un parco abbozzo di catalogo
esemplificativo e ragionato): (puoi sceglierti da te cognomi e nomi, e sparare
nel mucchio): (e sceglierti i perché, caso per caso)
ma, per semplificare,
ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto,
a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: (e questo mi definisce,
sempre per me, i politici odiosi, e il mio perché:
amo, così, quella grande politica
che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao,
pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi,
spraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva):
(e poi,
lo so che non si dice, ma, alla fine, mi sono odiosi e uomini e animali):

Considerazioni libere (113): a proposito dell'irruzione nella scuola Diaz e della fiducia nello stato...

Sono passati quasi nove anni, ma questa notte finalmente è stata emessa una sentenza che serve a far luce su quello che è successo a Genova in occasione delle manifestazioni contro il G8, in particolare durante l'irruzione nella scuola Diaz. La terza sezione della Corte d'appello della città ligure ha ribaltato la sentenza di primo grado, che aveva assolto i vertici della polizia e condannato a pene lievi solo 13 dei 27 imputati. La nuova sentenza ne condanna 25. Il capo dell'anticrimine Francesco Gratteri è stato condannato a quattro anni, l'ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque anni, l'ex vicedirettore dell'Ucigos Giovanni Luperi - che oggi lavora presso l'Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna - a quattro anni, l'ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola - che adesso è vicequestore vicario a Torino - a tre anni e otto mesi, l'ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi. Pietro Troiani e Michele Burgio, accusati di aver portato le molotov nella scuola, sono stati condannati a tre anni e nove mesi. Per i 13 poliziotti già condannati in primo grado le pene sono state inasprite.
Quello che è successo nella notte del 21 luglio del 2001 nella scuola Diaz, che il Comune di Genova aveva adibito come ostello per i giovani venuti da ogni parte d'Europa, è stato definito da uno degli stessi poliziotti "macelleria messicana". Ci sono video, foto, testimonianze: furono arrestati 93 giovani, che furono poi prosciolti, una sessantina di loro rimasero feriti, qualcuno anche in maniera grave. I poliziotti portarono loro stessi all'interno della scuola due bottiglie molotov per giustificare gli arresti.
Da parte mia non c'è davvero nessuna intenzione di criminalizzare la polizia e le forze dell'ordine; durante questi anni ho avuto modo di apprezzare tanti poliziotti, dirigenti e semplici agenti, che hanno fatto e fanno con coscienza e impegno il proprio lavoro, troppo spesso non riconosciuto. Mi disturbano certe semplificazioni, che purtroppo ancora si leggono, che portano a dire "polizia fascista". Probabilmente neppure nel caso della Diaz abbiamo assistito a un esempio di "polizia fascista", ma a una miscela di inesperienza, incapacità, malcelato senso di autoritarismo, che ha portato a questo episodio. Proprio per tutelare le donne e gli uomini che lavorano in polizia bisogna che chi si è macchiato di queste responsabilità sia allontanato da quel corpo. Francamente trovo vergognosa l'affermazione del sottosegretario Mantovano che stamattina si è affrettato a dichiarare che i condannati di Genova "resteranno al loro posto, perché hanno e continuano ad avere la piena fiducia del sistema di sicurezza e del Viminale". Su quello che è successo alla caserma Diaz negli anni si è alimentato un sistema di coperture e di omissioni che forse è perfino più grave dei fatti in sé, che pure sono molto gravi. Nessuno dei governi che si è avvicendato in questi anni, di centrodestra e di centrosinistra, ha avuto la forza per dire una parola chiara su quell'accaduto e il capo della polizia di allora è stato promosso, con il beneplacito di tutte le forze politiche, a capo dei servizi segreti. L'allora ministro dell'interno, Claudio Scajola, si dimise in seguito, ma solo per l'incredibile leggerezza con cui definì il professor Biagi un "rompicoglioni". Per inciso, Mantovano era già allora sottosegretario e francamente suona abbastanza interessata la sua difesa degli uomini che agirono nella scuola Diaz.
Sinceramente è difficile avere fiducia in uno stato che non riconosce le colpe delle proprie forze dell'ordine e non fa nulla per far sì che fatti del genere non avvengano. E' difficile avere fiducia in uno stato che di fronte al caso di un ragazzo morto in carcere per un'incredibile serie di responsabilità di guardie penitenziarie manesche, di dirigenti ligi solo alla burocrazia e di dottori incapaci, non riesce a dire una parola in grado di attenuare il dolore della famiglia e la rabbia dei cittadini, e soprattutto non riesce a definire norme che tutelino i carcerati. E' difficile avere fiducia in uno stato in cui dall'inizio dell'anno si sono suicidate in carcere 26 persone, una ogni cinque giorni.

martedì 18 maggio 2010

"Ballata della guerra" di Edoardo Sanguineti


dove stanno i vichinghi e gli aztechi,
e gli uomini e le donne di Cro-Magnon?
dove stanno le vecchie e nuove Atlantidi,
la Grande Porta e la Invincibile Armata,
la Legge Salica e i Libri Sibillini,
Pipino il Breve e Ivan il Terribile?
tutto è finito, lì a pezzi e a bocconi,
dentro le moli mascelle del tempo:
qui, se a una cosa non ci pensa un guerra,
un'altra guerra ci ha lì pronto il rimedio:
dove stanno le Triplici e Quadruplici,
la Belle Epoque e le Guardie di Ferro?
dove stanno Tom Mix e Tom Pouce,
il Celeste Impero, gli Zeppelin, il New Deal,
l'Orient Express, l'elettroshock, il situazionismo,
il twist, l'O.A.S., i capelli all'umberta?
tutto è finito, lì a pezzi e a bocconi,
dentro la pancia piena della storia:
qui, se a una cosa non ci pensa una guerra,
un'altra guerra ci ha lì pronto il rimedio:

oh, dove siete, guerre di porci e di rose,
guerre di secessione e successione?
oh, dove siete, guerre sante e fredde,
guerre di trenta, guerre di cento anni,
di sei giorni e di sette settimane,
voi, grandi guerre lampo senza fine?
finite siete, lì a pezzi e a bocconi,
dentro il niente del niente di ogni niente:
qui, se a una guerra non ci pensa una pace,
un'altra pace c'ha lì pronta la guerra:
principi, presidenti, eminenti militesenti potenti,
erigenti esigenti monumenti indecenti,
guerra alle guerre è una guerra da andare,
lotta di classe è la guerra da fare.

domenica 16 maggio 2010

"Hai viso di pietra scolpita" di Cesare Pavese


Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l'alba è silenzio.

E sei come le voci
della terra; l'urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo; le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.

Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov'è entrato una volta
ch'era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come il cortile antico
dove s'apriva l'alba.

sabato 15 maggio 2010

Considerazioni libere (112): a proposito delle leggi del capitalismo...

Ho già scritto qualcosa a proposito della crisi della Grecia e delle lezioni che dovremmo ricavarne, anche qui in Italia (per chi fosse interessato, si tratta della "considerazione" nr. 107).
Vorrei provare a fare un breve riassunto di quello che è successo, per vedere, insieme a voi, miei cari e sparuti lettori, se ho ci ho capito qualcosa: la materia infatti è assai ostica.
Il 15 settembre del 2008 i dirigenti della Lehman Brothers, una delle più importanti società attive nei servizi finanziari a livello globale, hanno chiesto l'avvio della procedura di fallimento pilotato, innescando una reazione a catena che ha portato alla bancarotta di banche e di società finanziarie negli Stati Uniti e in Europa.
Nelle settimane successive, sull'onda della crisi e incalzati dalla prospettiva di aumento della disoccupazione, i governi sono intervenuti per salvare le aziende sul rischio del fallimento, investendo un'enorme massa di denaro pubblico. La crisi finanziaria del 2008 ha portato alla crisi economica del 2009 e alle vicende di questi giorni, proprio per l'aumento della spesa pubblica: ora a rischio di fallimento sono gli stati, a causa del debito che è cresciuto e della difficoltà di ripianarlo in tempi certi. Gli stessi mercati finanziari, "salvati" poco più di un anno fa dai governi, oggi contribuiscono ad aggravare la crisi, minando la fiducia degli investitori nei titoli dei paesi considerati a rischio.
Forse ho saltato qualche passaggio, ma mi pare che il punto essenziale stia qui. Il problema non che all'improvviso una sorta di "cupola" degli speculatori ha deciso che la Grecia non era più solvibile e che l'euro poteva essere oggetto di attacchi speculativi, ma che è il mercato, con le sue regole - a cui non si è voluto mettere alcun limite - a dettare legge. Il mercato non è il male in sé, ma deve essere sottomesso all'interesse generale, anche con regole severe, che fino ad ora, nonostante qualche enunciazione, sono mancate. In buona sostanza quello che è successo in questi giorni non è una degenerazione del sistema capitalistico, ma la sua naturale evoluzione, quando smette di essere regolato, imbrigliato, appunto sottomesso all'interesse generale.
Perché non proviamo a ripartire da qui?

Considerazioni libere (111): a proposito della ricchezza dei rifiuti...

L'India è un paese che si sta rapidamente trasformando. Questo enorme paese, che ha più di un miliardo di abitanti, è la dodicesima più grande economia del mondo in termini nominali e la quarta in termini di potere di acquisto. Le riforme economiche degli ultimi anni hanno trasformato l'India nella seconda economia in più rapida crescita del mondo; questi risultati non bastano a nascondere le contraddizioni di questo sviluppo, l'altissima percentuale di poveri e la grande sperequazione nella distribuzione delle risorse. Così come il numero sempre crescente di matematici e di informatici indiani non nasconde il fatto che l'analfabetismo sia ancora una piaga di questa società.
Mi pare però che il tema che dovrebbe preoccupare non solo la società indiana, ma tutti noi, siano le forme con cui le classi dirigenti indiane hanno fatto sì che quel paese conoscesse questi livelli di crescita. In una mia precedente "considerazione" (la nr. 105, per la precisione) ho raccontato alcune delle conseguenze sulla società, e sulle donne in particolare, causate dalla decisione del governo di sviluppare il cosiddetto "turismo medico": per molte famiglie statunitensi ed europee l'India è diventata la meta per praticare quelle forme di inseminazione che non sono permesse nei loro paesi e per molte donne indiane fare la madre surrogata è diventato un vero e proprio lavoro: la mancanza di normative ha favorito la crescita di questo legalizzato "mercato" della fertilità.
C'è un altro terreno su cui l'India ha deciso di investire, quello dei rifiuti, uno dei grandi affari di questi anni. Anche qui è stato deciso di eliminare ogni regola e di liberalizzare le importazioni di rifiuti. I risultati sono stati stupefacenti. L'importazione di rifiuti e rottami di acciaio inossidabile è passata dalle 100mila tonnellate del 2003-04, per un valore di circa 80 milioni di euro, alle 336mila tonnellate del 2007-08, per un valore di 680 milioni di euro. E lo stesso è avvenuto per l'alluminio (passato da 99mila a 225mila tonnellate), per l'ottone (passato da 36mila a 75mila tonnellate) e per altri metalli; le ceneri e i residui dell'incenerimento sono passati dalle 400 tonnellate del 2003-20 alle 38mila del 2008-09; nello stesso periodo le batterie sono passate da 10o tonnellate a 2,8mila. Le industrie indiane si trovano così a disposizione grandi quantità di materie prime, anche se non di prima scelta, comunque a buon mercato.
La totale assenza di controlli provoca degli incidenti, perché non c'è nessuna distinzione tra rifiuti pericolosi e no. Nell'aprile scorso a Mayapuri, un mercato di rottami di New Delhi, undici persone sono state contaminate da un elemento radioattivo, il cobalto-60, presente in una partita di rottami di acciaio. E non si tratta del primo caso. Nel 2008 le autorità francesi non hanno permesso l'importazione di una partita di interruttori prodotti in India perché presentavano tracce di cobalto-60: evidentemente erano stati prodotti con acciaio ricavato da materiale riciclato e contaminato, arrivato in India magari dalla stessa Francia. Quello che giustamente non va bene per i lavoratori statunitensi o europei viene utilizzato regolarmente e senza nessun controllo dai lavoratori indiani. Oltre all'incidente du Mayapuri non ci sono dati su casi di contaminazione tra i lavoratori, anche perché non vengono effettuati controlli. E ora si sta aprendo la strada per l'importazione dei rifiuti elettronici, che, come ho scritto in un'altra "considerazione" (la nr. 100, per la precisione) ora sono spediti in Africa, anche qui in assenza di controlli.
Lo sviluppo dell'India, che pure è un elemento positivo, sta avvenendo a scapito della salute dei lavoratori e della tutela dell'ambiente. Quanto tempo occorrerà per capire che non è questo il tipo di cui abbiamo bisogno?

"Già letto" di Yang Lian


nei cimiteri cinesi i pini respirano così come crescono
ma il vento cambia tranquillo la direzione della giornata
l'aratro va avanti e indietro fino alla fine del campo
verde fertile libro di agosto
la vita semina i semi dei morti

la notte tutte le stelle viaggiano in un pozzo di giada

per tutta l'estate leggi una biografia
l'ombra del pino è immersa nell'acqua
una sedia piena d'acqua è incisa in un bassorilievo
il mare lontano va in collera da solo
canti di uccelli inondano il cielo quasi non cantassero
leggi come se non avessi letto niente

c'è solo l'arte che scuote un pomeriggio e lo rende nero

venerdì 14 maggio 2010

Considerazioni libere (110): a proposito di donne e di crisi...

Forse vi è capitato di sentire una canzone degli anni Trenta intitolata "Ma cos'è questa crisi?": un motivo allegro, scanzonato, tipico di quegli anni, che pure allegri non erano per gli italiani e preparavano un futuro che sarebbe stato ancora più drammatico. Dopo più di settant'anni siamo ancora qui a chiederci: "ma cos'è questa crisi?", cercando di capire come ci colpirà, a cosa dovremo rinunciare, quali sacrifici saremo costretti a fare. Come si faceva nell'Italia degli anni Trenta, anche noi preferiamo nascondere gli aspetti più drammatici di questa crisi, di cui non capiamo tutta la portata. Alcuni giorni fa ho dedicato una mia "considerazione" alle persone che non riescono a sopportare il peso di questa situazione, che si lasciano travolgere a volte più dalla stessa idea della crisi che dalle vere e proprie difficoltà della loro vita, che decidono di lasciare andare tutto, fino ad arrivare alla più estrema delle scelte.
Oggi voglio raccontare un aspetto di cui nessuno parla, perché si svolge tanto lontano da noi da permetterci di trascurarlo. Parliamo tanto di "villaggio globale", ma non sappiamo - o forse non vogliamo sapere - quello che succede nell'altra parte di questo villaggio che è il nostro pianeta.
La Cambogia è uno dei paesi che sta pagando maggiormente gli effetti della crisi finanziaria globale: il tasso di crescita è sceso dal 6,7% del 2008 al 2,1% del 2009 e le prospettive per il 2010 sono ancora peggiori. Il settore che ha più sofferto di questo calo è stato quello tessile, che aveva rappresentato fin dall'inizio degli anni '90 uno degli elementi più dinamici dell'economia cambogiana, grazie soprattutto al lavoro delle donne, una manodopera meno istruita e conseguentemente meno retribuita. In Cambogia il settore tessile impiega 350mila persone, per il 90% donne, e ha innalzato l'occupazione femminile dal 28% del '98 al 40% del 2004. Naturalmente, qui in occidente, non ci siamo mai posti il problema del costo della manodopera delle donne cambogiane quando acquistavamo capi di abbigliamento a prezzi estremamente conveniente né ora ci poniamo il problema di cosa sta succedendo a quelle stesse donne, dal momento che il mercato mondiale ha subito una forte contrazione e il settore del tessile in quel paese ha cominciato a licenziare moltissime donne. Le donne continuano a essere l'anello debole della catena, prima lo erano in quanto lavoratrici con meno diritti - ma almeno erano lavoratrici - ora lo sono come merce per il sempre fiorente mercato del sesso. Non ci sono numeri precisi, ma ogni giorno molte donne cambogiane sono oggetto di traffico e ridotte in schiavitù, usate nei bordelli e nei centri massaggi, mandate all'estero per alimentare il mercato della pornografia e della pedopornografia. Questo pare sia un mercato che non conosca crisi, grazie naturalmente ai dollari e agli euro che spendiamo noi occidentali, anzi per la precisione noi maschi occidentali. La crisi colpisce sempre più le famiglie e mette a rischio le generazioni più giovani; in Cambogia il livello di analfabetismo tra le donne è già al 40% - contro il 15% degli uomini - e naturalmente questa condizione economica spinge le famiglie a mandare le bambine a lavorare o peggio a ingrossare le fila delle schiave del sesso.
Ma cos'è questa crisi?

mercoledì 12 maggio 2010

Considerazioni libere (109): a proposito di fertilità e povertà...

Probabilmente ricordate dalla scuola l'espressione "mezzaluna fertile": nei libri di storia e di archeologia si definisce così quella vasta regione che si estende dalla Mesopotamia alla valle del Nilo, passando per la valle del Giordano. Proprio la presenza di questi grandi fiumi e la particolare vocazione agricola hanno fatto sì che in queste terre si sviluppassero le prime grandi civiltà dell'uomo. Tra queste terre particolarmente ricca era la "terra in mezzo ai fiumi", ossia quel cuneo di terra tra il Tigri e l'Eufrate che ora fa parte dell'Iraq.
Per gli iracheni la fertilità della loro terra è ormai un ricordo. Nel 2008 l'Iraq ha importato dall'estero 2,54 milioni di tonnellate di grano e 610mila tonnellate di riso; nel 2009 queste importazioni sono salite rispettivamente a 3,55 milioni e 1,7 milioni e i funzionari dell'Ente statale per le granaglie, un organo del Ministero del commercio, prevedono che queste quote aumenteranno ancora nel 2010. L'Iraq deve importare dall'estero circa l'80% del grano e del riso necessari per sfamare la sua popolazione.
La responsabilità di questa situazione è dell'uomo. L'Eufrate arriva dalla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo: un record negativo; il Tigri ha una portata dimezzata rispetto al 2003, da 1.680 a 836 metri cubi al secondo. Nella "considerazione" nr. 75 ho parlato dei progetti della Turchia di costruire una serie di grandi dighe sull'alto corso dei due fiumi e questo non potrà far altro che peggiorare la situazione. La mancanza d'acqua ha fatto aumentare la salinità dei terreni, rendendoli di fatto inutilizzabili per scopi agricoli: il 40% delle terre agricole dell'Iraq sta subendo questo processo di salinizzazione. La mancanza d'acqua e il sempre più diffuso bisogno di tagliare gli alberi per avere legna da ardere ha provocato la desertificazione del 50% della terra che era produttiva negli anni Settanta. Il continuo stato di guerra, le lotte tribali, lo stato di insicurezza, la scelta di investire unicamente sull'industria petrolifera hanno provocato i mancati investimenti nell'innovazione e nella meccanizzazione dell'agricoltura e così, per colpa dell'uomo - unicamente per colpa dell'uomo - una delle terre più fertili del mondo è diventata poverissima e costretta a vivere con le importazioni straniere, naturalmente pagate a caro prezzo. Un terzo della popolazione irachena vive nelle aree rurali e naturalmente sono queste persone quelle che stanno soffrendo di più; secondo i dati delle organizzazioni internazionali il 69% della popolazione irachena definita in "povertà estrema" vive proprio in queste aree rurali.
Quando ci sono queste condizioni di sussistenza, francamente credo che qualunque altra analisi debba essere ricondotta a questo dato. Per anni abbiamo letto articoli e saggi sullo scontro di civiltà o analisi geopolitiche sulla situazione mediorientale, ma continuiamo a dimenticare, più o meno scientemente, questo dato di fatto: in una zona fertile si soffre la fame, per responsabilità precise e definite degli uomini. Sarà forse banale, ma la soluzione del problema passa inevitabilmente da qui.

lunedì 10 maggio 2010

da "Trenta giorni con Tonino Guerra" di Tonino Guerra

Domenica, 28 marzo. Ricordo spesso la Casa Nobel di San Pietroburgo, abbandonata da molti anni. Scrissi già qualcosa su questo piccolo viaggio facendone protagonista il grande clown Polunin. Da alcuni giorni sto rendendo più corposo il suo incontro con gli specchi ammassati contro le pareti del primo stanzone. Polunin si avvicina allo specchio più grande che è proprio all'inizio del muro di fondo. Riesce a intravedere parti del suo corpo e del suo viso. Con un fazzoletto toglie lo strato di polvere, ma sotto la polvere non c' è più la sua faccia ma il viso di un uomo anziano che indossa un cappello militare di vecchia foggia. Polunin si ritrae sbalordito. Ripete gli stessi gesti sugli altri specchi e sempre incontra individui diversi. Torna a controllare lo specchio più grande e finalmente si rivede. E si ritrova anche negli altri specchi. Ma quando passa davanti al primo si accorge che c'è un'intera famiglia che sta in posa. Polunin sosta davanti a questo gruppo di persone e vede che piano piano tutti scompaiono per mostrare un uomo che passa con un mobile sulle spalle. Adesso una farfalla si muove in quello spazio. Poi Polunin si rivede ma subito la sua faccia diventa il viso sudato di una donna che si asciuga con un panno. Emozionato Polunin va a vedere quello che succede negli altri specchi e scopre immagini sepolte che affiorano, quasi che gli specchi volessero raccontare la loro storia. Nell'ultimo si intravede un morto sopra un vecchio letto d'angolo e alcune donne vestite di nero che pregano muovendo le dita sulle bianche corone. La cosa più sconvolgente è che Polunin sente un bisbiglio sommesso. Allora si allontana spaventato e si trova in un corridoio delimitato da armadi che all'improvviso si aprono e gli rotolano addosso una montagna di carte che gli si ammucchiano attorno e lo bloccano fino al petto. Si accorge che ci sono delle cose scritte a mano su quei fogli. Si muove appena per riuscire a leggere quei messaggi. Ne ripete qualcuno a voce alta per confermare la forza delle frasi.

sabato 8 maggio 2010

Considerazioni libere (108): a proposito della solitudine dei lavoratori...

Il 7 maggio un operaio di 38 anni ha tentato di uccidersi con un coltello: nella sua azienda, dopo un periodo di cassa integrazione a rotazione, deve cominciare un periodo di cassa integrazione straordinaria; probabilmente lui non sarebbe stato coinvolto, ma l'incertezza di queste settimane lo ha spinto a questo gesto estremo, da cui è stato salvato grazie all'intervento della moglie e al coraggio di un vicino di casa. Il 17 aprile un operaio di 41 anni si è impiccato: la sua azienda era in cassa integrazione da un anno ed è destinata al fallimento; anche sua moglie era disoccupata e con i piccoli lavori che avevano trovato, lei a fare le pulizie, lui come cantante nei piano-bar, facevano fatica a mandare avanti la famiglia. Sono due storie diverse, successe in meno di un mese tra Bologna e la sua provincia.
Il 18 febbraio un ingegnere informatico della Pennsylvania ha noleggiato un piccolo aereo e si è schiantato contro gli uffici del fisco di Austin, nel Texas; era stato rovinato dalla crisi e ha scritto prima di morire di sentirsi tradito sia dalle imprese per cui aveva lavorato sia dal governo che non lo aveva in alcun modo tutelato, mentre si era impegnato nel salvataggio di quelle banche che erano le responsabili della perdita del suo lavoro. Nonostante le notizie trapelino a fatica da quel paese, alcuni studiosi hanno potuto verificare che nel nord-est della Cina sta crescendo il numero dei suicidi tra gli operai; il governo di Pechino ha deciso di chiudere le fabbriche in questa regione, tradizionale area produttiva del paese, per far crescere le più arretrate regioni del sud e molti lavoratori si sono sentiti traditi dal proprio paese, da quei principi di solidarietà comunista e di etica confuciana che pure vengono sbandierati in ogni occasione ufficiale.
Confesso di parlare a fatica di questo argomento, perché ho vissuto tempo fa nella mia famiglia il dramma di un suicidio e perché quotidianamente mi scontro con le difficoltà che si provano ad avere un lavoro precario, con la tensione che spesso ti tiene sveglio e ti fa vedere nero il futuro. Personalmente ritengo che ogni suicidio sia una storia a sé, un evento drammatico e privato, che coinvolge quella singola persona, le sue paure, le sue debolezze, le sue disillusioni; una storia personale, un dissidio con la propria coscienza, che naturalmente ricade e coinvolge le persone vicine, le famiglie. E per questo ritengo anche che sarebbe un errore leggere in questi fatti una causa comune, un unico elemento scatenante, anche perché sono naturalmente ben di più i lavoratori senza lavoro che decidono di andare avanti, di non rinunciare alla vita. Eppure questi casi, che coinvolgono persone diverse, in paesi diversi, con culture diverse, ci raccontano qualcosa di quello che sta succedendo nel nostro mondo. Ed è qualcosa che dovrebbe preoccuparci tutti.
I lavoratori sono sempre meno tutelati, sono sempre più in balia di decisioni che vengono prese in luoghi che non conoscono e su cui loro non possono incidere. I lavoratori sono e si sentono soli. Di fronte alla perdita del lavoro o anche solo alla minaccia - reale o immaginata - di perderlo, non hanno strumenti per reagire, si sentono impotenti. E in qualche modo - come ha scritto il suicida della Pennsylvania - si sentono traditi, dalle imprese per cui hanno lavorato, hanno investito tempo, risorse, intelligenza e si sentono traditi dallo stato. In questi giorni in cui le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali sono occupati dalla crisi greca e dal pericolo che alcune manovre speculative mettano in grave difficoltà l'economia europea, mi colpisce come si affronti questo tema in maniera asettica, parlando di numeri, di percentuali, di ripercussioni sulle monete e sulle banche. Certo c'è anche questo, ma la crisi è soprattutto crisi del lavoro, che ricade immediatamente su chi è più povero. Credo che i cittadini greci che in questi giorni stanno manifestando contro le politiche di sacrifici decise dal governo e imposte dall'Europa vogliano dire soprattutto questo: ricordiamoci che questa crisi è una crisi delle persone e che queste persone non sono numeri, ma sono storie, vite, amori. Forse fare una manifestazione serve anche a questo, a farci sentire vicini, a vedere negli occhi degli altri la sofferenza che è anche nostra, a farci essere meno soli, meno indifesi. Naturalmente questo non può bastare, ad alcuni comunque non basta.
L'operaio che si è ucciso nella sua casa di Molinella aveva lottato, insieme ai suoi colleghi e al sindacato per difendere il proprio posto lavoro, eppure è stato comunque travolto. Probabilmente le organizzazioni sindacali, i partiti, le amministrazioni locali dovrebbero cominciare a pensare a forme di aiuto e di sostegno che non siano generiche, ma rispondano ai bisogni di ciascuno: all'operaio di Molinella non sono bastate le consuete forme di sostegno al reddito - che pure per la maggioranza dei suoi colleghi sono stati sufficienti a non lasciarsi vincere dalla disperazione - sarebbe servito un sostegno psicologico, per salvarlo dal male che alla fine ha vinto e lo ha fatto cadere.
Forse bisognerebbe tornare ad avere l'ambizione di cambiare il mondo.

venerdì 7 maggio 2010

da "L'artefice" di Jorge-Luis Borges


Del rigore della scienza

... In quell'Impero, l'Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava un'intera Città, e la mappa dell'Impero un'intera Provincia. Col tempo, queste Mappe Smisurate non soddisfecero più e i Collegi dei Cartografi crearono una Mappa dell'Impero che aveva la grandezza stessa dell'Impero e con esso coincideva esattamente. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive capirono che quella immensa Mappa era Inutile e non senza Empietà l'abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell'Ovest restano ancora lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti; nell'intero Paese non vi sono altre reliquie delle Discipline Geografiche.

Suarez Miranda, Viajes de varones prudentes, Libro Quarto, cap. XLV, Lérida, 1658

giovedì 6 maggio 2010

Considerazioni libere (107): a proposito della Grecia e dell'Europa...

Probabilmente io continuo a essere il solito inguaribile pessimista, eppure mi sembra che qui in Italia si stia sottovalutando quello che sta avvenendo in questi giorni in Grecia. Certo ieri sera i telegiornali hanno aperto sugli scontri di Atene e hanno dato la notizia delle tre persone uccise da una frangia, per fortuna molto minoritaria, dei manifestanti, ma non c'è stato alcun approfondimento; d'altra parte i morti fanno sempre notizia e probabilmente a qualcuno ha fatto anche piacere poter far "retrocedere" a seconda notizia il coinvolgimento di Denis Verdini nell'ennesimo scandalo che ha investito la maggioranza di governo. Anche sui giornali mi pare ci si concentri più sulla cronaca degli scontri che sui motivi che li hanno causati.
Comunque sia della Grecia, a mio avviso, non si parla abbastanza. Eppure dovremmo farlo, perché le analogie tra la Grecia e l'Italia sono purtroppo molte. In entrambi i paesi c'è un'economia fragile, un alto debito pubblico, elevati tassi di disoccupazione, specialmente tra i giovani; in entrambi i paesi cresce tra i giovani la consapevolezza che loro vivranno peggio dei loro genitori. In entrambi i paesi c'è una diffusa corruzione sociale, un pericoloso allentamento, a tutti i livelli, dei vincoli etici tra le persone. In entrambi i paesi c'è una forte sfiducia verso le istituzioni e verso la classe politica, che peraltro in entrambi i paesi merita ampiamente questa sfiducia. Probabilmente non fa piacere cogliere queste analogie e magari preferiremmo confrontarci con le regioni più ricche e più avanzate dell'Europa, ma dobbiamo renderci conto che nel resto del mondo guardano al nostro paese con la stessa preoccupazione con cui guardano ad altri paesi in difficoltà, come il Portogallo, la Spagna, l'Irlanda. E anche se probabilmente alcune regioni del nord Italia possono davvero competere con le più ricche regioni europee, questo non cambia in maniera sostanziale il quadro dello sviluppo del nostro paese. In Italia credo ci sia la stessa tensione sociale che c'è in questi giorni in Grecia e temo che questa tensione sia pronta a esplodere, magari per l'interesse di qualcuno, come è accaduto nelle settimane scorse a Rosarno, dove per l'ndrangheta è stato piuttosto semplice far scoppiare una sorta di rivolta contro gli immigrati, per difendere i propri interessi e lanciare un messaggio trasversale alle istituzioni. Mi sembra che troppi sottovalutino questi campanelli d'allarme.
I motivi per cui la Grecia sta rischiando di "fallire" sono piuttosto semplici: sono stati "aggiustati" i bilanci per farli apparire migliori di quanto effettivamente fossero, ci si è indebitati per sostenere il piano di opere pubbliche e di infrastrutture necessarie a ospitare i giochi olimpici del 2004, non si è intervenuti per combattere con coraggio la corruzione e l'inefficenza della pubblica amministrazione. Anche qui le analogie tra i nostri paesi sono piuttosto evidenti. Ora il governo greco, incalzato dall'Europa e dalle istituzioni internazionali, chiede sacrifici, ma - credo giustamente - i cittadini greci vogliono che siano individuati i colpevoli di questa situazione e soprattutto chiedono che questi sacrifici non ricadano unicamente sulle fasce più deboli della popolazione, lasciando ai molto ricchi e ai molto furbi quello che hanno accumulato in questi anni.
Personalmente credo che la questione centrale non sia tanto quella delle responsabilità. Come ho già avuto modo di scrivere a proposito del nostro paese, in una democrazia la classe politica è lo specchio della società: se la classe politica è inefficiente e corrotta, non è che la società civile sia esente da ogni vizio, tutt'altro. I tanti greci impiegati nelle amministrazioni pubbliche hanno approfittato del loro ruolo, dei loro piccoli o grandi privilegi, di un sistema che garantiva - e garantisce - loro di poter far poco nel miglior dei casi e di potersene approfittare nei casi peggiori. Come vedete, anche qui torna l'analogia con il sistema italiano. Credo che nella società, prima ancora che nella politica, debba aprirsi una riflessione su quello che si è permesso che succedesse. E francamente spero che un'analoga riflessione possa cominciare anche in Italia, una riflessione che dovrebbe iniziare grazie al contributo degli scrittori, dei registi, degli intellettuali.
Sul tema della ridistribuzione dei sacrifici credo invece che si misurerà la capacità del governo di Atene di imboccare una strada diversa e si misurerà anche la capacità della sinistra, visto che a capo di quel paese c'è uno dei pochi esponenti del Pse che ancora ha responsabilità di governo. Capisco la preoccupazione dei sindacati e dei lavoratori greci: le ricette per il cosiddetto risanamento sono imposte al loro paese da quelle istituzioni internazionali, a partire dal Fondo monetario, che in questi anni si sono caratterizzate per un'adesione acritica al modello ultraliberista, che tanti danni ha fatto in molti paesi. In alcuni mie precedenti "considerazioni" ho raccontato cosa hanno significato i piani di risanamento dell'economia per paesi come Haiti o alcuni stati africani: l'ulteriore impoverimento della popolazione e il conseguente arricchimento di poche fortissime aziende multinazionali. E giustamente i greci non vogliono - e non possono - fidarsi neppure dei super-burocrati di Bruxelles, le cui ricette rischiano di ammazzare il cavallo.
Per questo credo che serva più politica e, almeno per come la vedo io, serve più politica di sinistra. Non credo che si debba lasciare questa enorme responsabilità sulle sole spalle di George Papandreou, mi piacerebbe sentire anche le idee degli altri socialisti e qui purtroppo le voci latitano. Per i socialisti europei sarebbe il tempo di essere meno tedeschi, meno francesi, meno inglesi e più europei, riscoprire quella dimensione internazionale che in fondo è un elemento costitutivo della nostra storia. Non ho dimenticato gli italiani, ma qui, come è noto, il maggior partito di ispirazione socialista ha scientemente deciso di tirarsi fuori da questa storia. Mi piacerebbe che i socialisti europei ripartissero da alcuni temi chiave, dagli impegni assunti con la cosiddetta strategia di Lisbona. Quel documento ha segnato un punto alto dell'ispirazione sociale dell'Europa e non credo sia un caso che sia stato assunto quando molti paesi erano governati da coalizioni di centrosinistra e da esponenti del Pse. Con altrettanta franchezza bisogna anche dire che proprio il non avere fatto nulla, o quasi nulla, per tradurre in pratica quegli ambiziosi obiettivi ha fatto sì che quella stagione sia sfumata e che oggi il quadro europeo sia molto diverso da dieci anni fa. Proprio oggi molto probabilmente si chiuderà in Gran Bretagna la lunga esperienza del governo laburista e anche i socialisti spagnoli sono destinati a passare la mano. Molto banalmente i socialisti europei hanno pagato questa incapacità di adeguare il dire al fare. Speriamo che non continui così.

mercoledì 5 maggio 2010

"Il mio cuore è stanco" di Daniel Varujan


Il mio cuore è stanco, ferito:
non aspetta nessun fiore di primavera:
una donna con vacuo accanimento
lo squarciò: e ora dalle sue dieci dita di luce
è il mio sangue che cola, goccia dopo goccia,
come i chicchi di melagrana.
Il mio cuore è stanco
e il mio amore al suo interno è ferito.

La mia lira è triste, infranta:
non aspetta nessun vino della festa:
una donna con incosciente perfidia
strappò le sue corde come le mie viscere:
e nell'ombelico di bosso
colò i veleni delle sue poppe e della sua lingua.
La mia lira è triste,
e il mio canto al suo interno è ferito.

martedì 4 maggio 2010

"Ma dove" di Mario Luzi


"Non è più qui" insinua una voce di sorpresa
"il cuore della tua città" e si perde
nel dedalo già buio
se non fosse una luce
piovosa di primavera in erba
visibile al di sopra dei tetti alti.
Io non so che rispondere e osservo
le api di questo viridario antico,
i doratori d'angeli, di stipi,
i lavoranti di metalli e d'ebani
chiudere ad uno ad uno i vecchi antri
e spandersi un po' lieti e un po' spauriti nei vicoli attorno.
"Non è più qui, ma dove?" mi domando
mentre l'accidentale e il necessario
imbrogliano l'occhio della mente
e penso a me e ai miei compagni, al rotto
conversare con quelle anime in pena
di una vita che quaglia poco, al perdersi
del loro brulicame di pensieri in cerca di un polo.
Qualcuno cede, qualcuno resiste nella sua fede tenuta stretta.

domenica 2 maggio 2010

"Nessun uomo è un'isola" di John Donne


per Stefano Cucchi

Nessun uomo è un'isola,
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla
venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo
mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.

Considerazioni libere (106): a proposito di un povero cristo...

La storia di Stefano Cucchi descrive bene quello sta diventando - o forse è già diventato - il nostro sfortunato paese. Qualunque sarà l'esito dei processi, che temo arriverà tra molto tempo e sarà pieno di contraddizioni, in questa vicenda c'è un dato certo: il 15 ottobre Stefano è entrato in carcere con le proprie gambe e il 22 ottobre è uscito dall'ospedale morto.
Come è ovvio, adesso la magistratura ha il dovere di verificare le responsabilità e di punire i colpevoli. In questi giorni la pubblica accusa ha presentato l'esito delle proprie indagini, descrivendo un quadro preoccupante di responsabilità: Stefano sarebbe stato prima picchiato da alcuni agenti della polizia penitenziaria, poi trasferito in ospedale dove medici e infermieri avrebbero sottovalutato colpevolmente le sue condizioni di salute. Sarà probabilmente molto difficile stabilire se Stefano sia morto per le lesioni inflitte in carcere o per la noncuranza con cui è stato trattato in ospedale e su questo sicuramente si aprirà un lungo cammino processuale, il cui esito adesso non è prevedibile. Ma non è su questi aspetti giuridici, per quanto importanti, che ora voglio riflettere.
Stefano è morto, trascorrendo gli ultimi sette giorni della sua vita in due strutture pubbliche, un carcere e un ospedale, e di questo dobbiamo parlare. Stefano non è stato vittima di un incidente, ma, nella migliore delle ipotesi, di una serie impressionante di incapacità e di omissioni: Stefano è vittima di quello Stato che lo aveva arrestato e lo doveva punire, ma che lo doveva anche tutelare e curare. Ma ora, anche da morto, continua a essere vittima della nostra colpevole indifferenza.
Sul "Corriere della sera" di ieri l'articolo in cui si parla della morte di Stefano Cucchi e della decisione della Procura di Roma di indagare le persone coinvolte occupava due terzi di pagina 30; a fianco l'intera pagina 31 era dedicata a una nuova prova, un capello biondo, sul caso di Garlasco. Ammetto di non avere letto questo articolo, ma sinceramente non credo possa avere la stessa rilevanza. Eppure il "Corriere" si è occupato del caso di Stefano, con articoli e editoriali, non ha nascosto nulla, è stato duro nel sottolineare le responsabilità: non si tratta di volontà di nascondere o di insabbiare, semplicemente di una scelta di gerarchia delle notizie. Non ho a disposizione nessun dato, ma sono certo che la morte di Stefano Cucchi abbia avuto sui giornali e in televisione molto meno spazio di uno dei casi di cronaca che hanno acceso la curiosità dell'opinione pubblica in questi mesi, ad esempio l'omicidio di Chiara Poggi. Con tutto il rispetto per chi è morto e per le loro famiglie, che hanno vissuto e stanno vivendo drammi che nessuno può capire, francamente non credo che nessuna di queste storie sia più importante di quello che è successo a Stefano.
Quello che mi preoccupa - e mi spaventa - è l'indifferenza dell'opinione pubblica. Penso a un'altra persona che è entrata in questura con le proprie gambe e ne è uscita morta: il povero Giuseppe Pinelli. Certo per molte ragioni non bisogna rimpiangere quegli anni, il clima di violenza, gli attentati, l'esasperazione della lotta politica, e non posso dimenticare che a quella morte - ancora senza una spiegazione dopo quarant'anni - è seguita la morte violenta di Luigi Calabresi, che pure non era responsabile della morte di Pinelli. Eppure la morte di Pinelli indignò una parte importante e consistente dell'opinione pubblica, spinse giornalisti a scrivere articoli e condurre inchieste, ispirò i versi di poeti e scrittori, animò una discussione profonda nel paese, che ancora continua, tanto che ci sono due distinte lapidi a ricordare quella morte. Non so se ci sarà mai una lapide per ricordare la morte di Stefano Cucchi. Lo ripeto, a scanso di equivoci, non rimpiango quegli anni - che per altro, non ho vissuto, e di cui posso solo parlare per esperienza indiretta - ma la morte di Stefano Cucchi non ha sollevato la stessa indignazione, è passata nella nostra indifferenza.
La stessa indifferenza che ha contribuito a ucciderlo. Stefano in fondo è uno dei tanti ragazzi con problemi di droga che ogni notte vengono portati nei commissariati di polizia e nelle caserme dei carabinieri, uno delle migliaia di volti con cui si scontrano ogni giorno uomini delle forze dell'ordine sotto organico e mal pagati. Uno dei tanti giovani che arrivano nei pronto soccorso degli ospedali, che - lo sappiamo bene - hanno problemi di risorse e di strutture. Uno di quelli che ciascuno di noi scansa per strada, magari cambiando marciapiede. Forse l'agente che ha picchiato Stefano ha pensato che quello era l'unico modo per farlo stare zitto e che non sarebbe successo niente, forse il medico che non ha sentito il polso di Stefano ha pensato che si sarebbe ripreso e che non sarebbe successo niente. Invece qualcosa è successo. Stefano alla fine di quei sette giorni è morto.
A leggere gli stralci dei verbali, mi ha colpito soprattutto l'inumanità di certi passaggi burocratici. Per trasferire Stefano all'ospedale "Pertini" serviva un'autorizzazione dell'amministrazione penitenziaria, ma gli uffici chiudono alle 14 del sabato. Quando i genitori arrivano in ospedale non si capisce chi li può autorizzare a vedere il figlio, che infatti morirà senza che loro possano essergli accanto. Mentre Stefano sta morendo e dopo che è morto vengono scritti documenti, autorizzazioni, referti, vengono apposti timbri e firme, ma nessuno gli sente il polso. Naturalmente so bene che tutte le organizzazioni hanno bisogno di regole e queste si portano dietro una certa dose di formalismo e di burocrazia, ma in questa storia probabilmente le formalità hanno prevalso su ogni altra considerazione, tanto non sarebbe successo niente. E invece qualcosa è successo. O forse non è successo davvero niente, perché nessuno ha la forza di indignarsi, di scrivere una canzone per Stefano, di firmare appelli o di scendere in piazza. C'è stata anche una commissione parlamentare d'inchiesta che ha, nel limite delle proprie competenze, accertato delle responsabilità, ma non ha detto nulla sulle "regole" e sul "sistema"che hanno portato alla morte di Stefano.
Rimane la lotta della famiglia, la dignità con cui la sorella di Stefano risponde alle domande dei giornalisti, rimangono le foto di Stefano, quelle allegre quando era vivo e quelle terribili dopo la sua morte. Ha scritto Adriano Sofri in un articolo pubblicato su "la Repubblica" il giorno di Pasqua, intitolato significativamente "Resurrezione":
Le carceri sono fitte come non mai, anche se è improbabile che vi si trovi un Gesù. Ancora meno probabile che ci sia più qualcuno capace di riconoscerlo. Ma poveri cristi sì, a migliaia. Dentro, e fuori. A volte lasciano un’impronta su un sudario, l’impronta di un ragazzo macilento tossico e pestato.

Stefano è questo povero cristo e noi siamo quelli che non lo sappiamo riconoscere.

sabato 1 maggio 2010

da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters


"Butch" Weddy
Quando mi convertii e misi giudizio
mi diedero lavoro alla fabbrica di scatolette,
e ogni mattina dovevo riempire
di benzina la cisterna del cortile
che nella rimessa alimentava i bruciatori
per scaldare i saldatoi.
E salivo una scaletta sgangherata,
portando secchi di quella roba.
Una mattina, che stavo lì versando,
l’aria si fece immobile e sembrò gonfiarsi,
e saltai in aria con l’esplosione della cisterna,
e piombai a terra con le gambe spezzate,
e gli occhi sfrigolanti come due uova fritte.
Qualcuno aveva lasciato acceso un bruciatore,
e qualcosa aveva risucchiato la fiamma nella cisterna.
Il Giudice distrettuale disse che certo
era stato un mio compagno di lavoro, e quindi
il figlio del vecchio Rhodes non mi doveva un soldo.
E io sedevo sul banco dei testimoni, cieco
come Jack il violinista e continuavo a ripetere,
"No, non lo conosco affatto".