sabato 7 maggio 2011

Considerazioni libere (228): a proposito di un mondo che potrebbe cambiare...

Ho chiuso la mia ultima "considerazione" dicendo che, morto Osama bin Laden, adesso tocca alla politica; ed è un compito molto difficile, che fa tremare le vene ai polsi. Le cose da fare sono molte, forse troppe - per come si è lasciata incancrenire la complessa vicenda mediorientale - ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
Prima di tutto c'è l'Afghanistan. Il principale obiettivo con cui la coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, ha motivato quel conflitto è stato raggiunto; siamo andati in Afghanistan dicendo che volevamo colpire Osama bin Laden e adesso che lui è morto e che Al Qaeda è senza una guida i nostri eserciti non possono continuare a rimanere lì come se niente fosse. Peraltro, guardando a come si sono sviluppati gli eventi, al netto dei proclami bellicosi sulla "guerra globale al terrorismo" e alla vittoria tante volte annunciata e altrettante volte smentita, si può dire che quella guerra è stata utile: ha indebolito Osama, l'ha costretto a rinunciare a un controllo diretto su quel paese, ha spezzato il forte legame che esisteva tra al Qaeda e i talebani; in qualche modo la guerra ha contribuito all'uccisione di bin Laden. Proprio perché abbiamo raggiunto questo importante obiettivo, bisogna seriamente cominciare a pensare al modo con cui ritirare le truppe occidentali dall'Afghanistan e non solo per compiacere opinioni pubbliche sempre più stanche di pagare i costi di conflitti lontani. Lasciare l'Afghanistan non sarà meno costoso, richiederà uno sforzo finanziario enorme, ma quei soldi dovremo saperli spendere bene, per promuovere lo sviluppo, per ricostruire un'agricoltura distrutta da decenni di guerre, per garantire livelli accettabili di assistenza sanitaria, per combattere l'analfabetismo, facendo andare a scuola bambine e bambini, ragazze e ragazzi, senza distinzioni. Quello è che è successo in Egitto dovrebbe aiutare a non commettere gli stessi errori: garantire il pane a un prezzo politico, oltre a essere un'iniziativa assai costosa per gli Stati Uniti, non è servito a migliorare il livello di vita della popolazione, ma ha impedito lo sviluppo dell'agricoltura, come ho scritto in un'altra "considerazione" (la nr. 220, per la precisione); inoltre è stata una delle leve che ha permesso la corruzione del regime.
Allo stesso modo i paesi occidentali, alla prova del dopo-Osama, devono ricordare che sostenere un regime autocratico e corrotto non è servito a garantire la difesa contro il diffondersi dell'islamismo più radicale. Osama e al Qaeda sono cresciuti nell'Africa settentrionale proprio quando c'erano i governi "amici" di Mubarak, Ben Alì, Bourghiba. Osama bin Laden è stato sconfitto non dalle truppe statunitensi, che si sono limitate a trovarlo e ucciderlo, ma dai giovani scesi in piazza ad Algeri, a Tunisi, al Cairo, a Bengasi, in Siria e nello Yemen. Sono quei giovani che pongono le domande più urgenti, a cui è necessario dare una risposta, se si vuole dare un senso a quello fatto fino ad ora nella cosiddetta guerra contro il terrorismo e soprattutto se si vuole immaginare un mondo diverso, in cui milioni di persone non continuino a essere escluse dai diritti fondamentali. I giovani della primavera araba chiedono di uscire da una povertà che condiziona pesantemente il loro futuro, chiedono diritti e libertà, chiedono di poter vivere come i loro coetanei occidentali. Chiedono anche, almeno quelli che credono - perché bisognerebbe cominciare a smetterla con l'equazione arabo uguale musulmano - che la loro fede sia considerata come una religione di pace e di amore e non una bandiera da sventolare in una guerra di civiltà. Chiedono tutti, laici e credenti, che il nostro mondo smetta di guardare al loro con un malcelato senso di superiorità: troppe volte sentiamo discorsi di persone comuni, ma anche analisi di intellettuali, che partono dal presupposto che la democrazia e i diritti umani sarebbero difficilmente conciliabili o addirittura inconciliabili con l'islam o con il mondo arabo tout court. La democrazia è un processo che richiede tempo, che richiede un'assunzione progressiva di responsabilità, che richiede il crescere di una cultura dei diritti: la democrazia non nasce dall'oggi al domani. Lo dovrebbero ricordare gli europei, visto che il nostro continente è stato governato in gran parte da regimi dittatoriali nella prima metà del Novecento e che le ultime dittature, in Portogallo, in Spagna, in Grecia, sono cadute soltanto negli anni Settanta; l'Europa ha conosciuto l'orrore di una guerra fondata sulla religione, che ha causato centinaia di morti, non nei secoli scorsi, ma solo fino a pochi anni fa, in Ulster, nel civilissimo Regno Unito; il cammino per il riconoscimento del ruolo delle donne nelle società europee è cominciato da poco ed è ancora in corso.
Possiamo sperare che, anche grazie ai nostri errori, il cammino delle giovani società orientali, sarà più breve, ma sarà comunque un cammino.

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