martedì 31 maggio 2011

da "La zattera di pietra" di José Saramago


La razza degli inquieti, fermento del diavolo, non si estingue facilmente, per quanto si adoprino gli àuguri in pronostici. È lei che segue con gli occhi il treno che passa e si rattrista, nostalgica, per il viaggio che non farà, è lei che non può vedere un uccello nel cielo senza provare la bramosia di un volo alcionio, è lei che, nel dileguarsi di una barca all’orizzonte, libera dall’anima un sospiro tremulo, l’amata ha creduto perché fossero sì vicini, solo lui sapeva perché era sì lontano. Fu dunque uno di quegli insoliti e inquieti uomini che per la prima volta osò scrivere le parole dello scandalo, segnale di una evidente perversione, Nous aussi, nous sommes ibériques, le scrisse su un muro, in un angolino, timidamente, come chi, non potendo ancora proclamare il suo desiderio, non ce la fa più a nasconderlo. Essendo stato scritto, come si può leggere, in francese, si penserà che il fatto sia accaduto in Francia, è il caso di dire, Pensi ciascuno ciò che vuole, poteva esser successo anche in Belgio, o in Lussemburgo. Questa dichiarazione inaugurale dilagò rapidamente, comparve sulle facciate dei palazzi, sui frontoni, sull’asfalto delle strade, nei corridoi della metropolitana, sui ponti e sui viadotti, i fedeli europei conservatori protestavano, Questi anarchici sono pazzi, è sempre così, si fa scontare tutto all’anarchia.
Ma la frase oltrepassò le frontiere e dopo che le ebbe oltrepassate ci si accorse che, alla fin fine, era già comparsa anche negli altri paesi, in tedesco Auch wir sind Iberisch, in inglese We are iberians too, in italiano Anche noi siamo iberici, e di repente fu come una miccia, ardeva dappertutto a lettere rosse, nere, blu, verdi, gialle, viola, un fuoco che sembrava inestinguibile, in olandese e fiammingo Wij zijn ook Iberiers, in svedese Vi ocksa ar iberiska, in finlandese Me myoskin olemme iberialaisia, in norvegese Vi ogsa er iberer, in danese Ogsaa vi er iberiske, in greco Eímaste íberoi ki emeís, in frigio Ek Wv Binne Ibearies, e anche, sebbene con evidente timidezza, in polacco My tez jestes’my iberyjczykami, in bulgaro Nie sachto sme iberiytzi, in ungherese Mi is ibérek vagyunk, in russo My toje iberitsi, in rumeno Si noi sintem iberici, in slovacco Ai my sme ibercamia. Ma il culmine, l’auge, l’acme, parola rara che non torneremo a usare, fu quando tra le mura del Vaticano, sulle venerabili pareti e sulle colonne della basilica, sullo zoccolo della Pietà di Michelangelo, sulla cupola, a enormi lettere azzurro chiaro sul pavimento di Piazza San Pietro, la stessa identica frase apparve in latino, Nos quoque iberi sumus, come una sentenza divina al plurale majestatis, un manete celfares delle nuove ere, e il papa, dalla finestra dei suoi alloggi, la benediceva con genuino sgomento, faceva in aria il segno della croce, invano, ché questo è uno tra i colori più solidi, non basterebbero dieci congregazioni al completo, armate di paglietta d’acciaio e di liscivia, di pietra pomice e raspini, con l’ausilio di diluenti, qui ci sarà da lavorare fino al prossimo concilio.
Dalla sera al mattino l’Europa si svegliò coperta di queste scritte. Ciò che, all’inizio, forse era stato solo il mero e impotente sfogo di un sognatore continuò a dilagare fino a diventare grido, protesta, manifestazione di piazza.

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