martedì 25 ottobre 2011

Considerazioni libere (255): a proposito dell'indignazione italiana...

Come sanno i miei lettori più attenti e pazienti, ho dedicato la mia ultima "considerazione" alle manifestazioni del 15 ottobre e al movimento del 99%. In quella riflessione non ho volutamente parlato di quello che è successo in Italia, perché mi sembrava che il tema meritasse un maggiore approfondimento. Ci provo adesso.
Il 15 ottobre a Roma è successo qualcosa di meno e qualcosa di più di quello che è successo in altre capitali europee, ad esempio Madrid, pur se ci sono molte analogie tra la situazione politica ed economica dei due paesi.
Cominciamo da cosa non c'è stato a Roma. In Italia il movimento degli indignati non ha registrato la stessa energia che abbiamo visto in Spagna né c'è stata la capacità di mobilitazione che ha portato migliaia e migliaia di persone a stare per settimane nella piazza Puerta del sol. In Italia non siamo arrivati all'indignazione, ci siamo fermati per mesi alla rassegnazione. I motivi per indignarsi - come noto - sono tanti, eppure in alcuni, in quelli che ne hanno avuto l'opportunità, ha prevalso l'idea di andarsene e tanti giovani hanno fatto questa scelta. C'è poi un aspetto che tocca le corde più profonde del nostro essere italiani, direi quasi un nostro "carattere originario". In Italia ci indignamo pubblicamente e platealmente e infatti ha un certo successo elettorale, specialmente nella parte più ricca del paese, un partito come la Lega, che è intrinsecamente indignato - provate ad ascoltare Radio Padania e ne avrete la riprova più evidente; ma poi sotto sotto cerchiamo il nostro tornaconto, ci adattiamo, accettiamo compromessi. Il caso classico: ci indignamo contro i grandi evasori fiscali e poi facciamo tutto il possibile per frodare, nel nostro piccolo, il fisco, non pagando il canone o dichiarando anche un metro quadro della casa per pagare meno imposte; oppure auspichiamo multe più severe per gli automobilisti indisciplinati e facciamo i furbi quando nessuno ci vede. Furbastri e vili, molto spesso le due cose vanno a braccetto.
Comunque, al di là della passione italica per il "particulare" - come diceva Guicciardini - per tornare al tema, in Italia il movimento è andato al traino dei modelli venuti dagli altri paesi. Ha dimostrato scarsa fantasia, non è riuscito ad andare oltre allo schema di manifestazione più tradizionale: corteo e grande concentramento finale, poi tutti a casa per la cena. Perfino nella scelta dei luoghi non ha dato un segno di originalità: piazza san Giovanni è la piazza di una storia molto gloriosa della sinistra italiana, ma forse a Roma ce ne sono anche altre dove cominciare una storia "nuova". Il problema di fondo però è che per molte delle persone giunte nella capitale domenica scorsa la scelta di manifestare e di andare in piazza è stata dettata soprattutto dall'antiberlusconismo. Intendiamoci: motivi per indignarsi contro B. e l'Italia peggiore che egli rappresenta ce ne sono moltissimi, tanti da organizzare una manifestazione ogni settimana, ma francamente ridurre i mali del mondo - e anche dell'Italia - alla permanenza di B. a Palazzo Chigi è sopravvalutare un personaggio verso cui l'atteggiamento migliore è la derisione, come hanno fatto con tempismo ed efficacia Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Gli indignati italiani - o almeno gran parte di essi - sbagliano quando pensano che dimessosi B. la situazione migliorerà. Il prossimo governo italiano - che sia guidato da Monti o da Montezemolo poco importa - ispirato alla lettera agostana di Draghi attuerà politiche ultraliberiste, che vanno nella direzione opposta a quanto chiede il popolo del 99%. Perfino un assai improbabile governo Bersani farebbe la stessa politica economica, un po' mitigata forse, un po' meno dura, ma sostanzialmente identica, perché la cultura politica del maggior partito del centrosinistra italiano ha volutamente ripudiato ogni idea di radicale trasformazione dei rapporti economici. La grande novità di questo movimento è il suo forte carattere anticapitalista, un elemento ormai profondamente estraneo alla politica; ed è questo il motivo di fondo per cui il movimento non trova sponde politiche, ma solo paternalistiche pacche sulle spalle.
Veniamo a cosa c'è stato in più a Roma. Alcune centinaia di giovani hanno letteralmente preso in ostaggio il corteo e provocato le violenze che abbiamo diffusamente visto nei servizi televisivi. I politici e i giornali che dipendono da B. hanno denunciato il clima di odio che si respira nel paese contro il presidente del consiglio, spiegando che la sinistra è intrinsecamente violenta e quindi che i "cattivi" di Roma non sono schegge impazzite, ma parte integrante del movimento. I politici e i giornali di destra hanno soffiato sul fuoco della paura e hanno rilanciato il messaggio che per far andare avanti il paese occorre di fatto anestetizzare ogni forma di conflitto sociale. I politici e i giornali di sinistra hanno sostenuto la tesi che i violenti erano dei provocatori infiltrati da qualche forza oscura e torbida, secondo gli antichi insegnamenti cossighiani. Nessuna di queste tesi regge a un'analisi seria.
Ho trovato illuminante un'intervista a uno di questi ragazzotti fatta da un inviato di Rainews 24. Questo giovane, che non ha ancora compiuto diciotto anni, in un italiano stentato, ha spiegato che lui e i suoi amici erano andati in piazza esclusivamente per alimentare degli scontri, che - cito a memoria, scusate l'imprecisione - "rossi o neri poco importa, importante è menà" e infine che il loro bersaglio erano i poliziotti, a prescindere. Le violenze successe domenica scorsa a Roma c'entrano poco o nulla con quello che sta succedendo da settimane in Grecia, dove da sempre c'è una parte del movimento dell'estrema sinistra e dell'anarchia che utilizza la violenza come strumento della lotta politica; i fatti di Roma hanno le stesse cause delle violenze successe a Londra all'inizio dello scorso mese di agosto.
Scusate l'autocitazione, ma riporto qui parte di una "considerazione" di qualche settimana fa su quella vicenda.
Cercare le ragioni della violenza non significa certo giustificarla, come recita un sillogismo caro a certa stampa moderata. Forse non è un caso che i tumulti siano cominciati a Tottenham, dove la chiusura di diversi centri sociali giovanili ha lasciato senza luoghi di aggregazione e attività sociali molti giovani disoccupati del quartiere. Gli scontri delle periferie inglesi dimostrano che una politica - indipendentemente dal colore del governo che la porta avanti - che non ritenga come sua centrale responsabilità l’attenuazione delle differenze di ricchezza e di classe, la creazione di opportunità per i più deboli e di posti di lavoro e occasioni di occupazione, che tagli indiscriminatamente le spese sociali, è una politica che si dispone a ignorare un problema enorme, o a pensare di affrontarlo solo con periodiche repressioni, buone soltanto a tranquillizzare i “bravi cittadini”.
Penso che questa riflessione si adatti bene anche a quello che è successo domenica a Roma. 

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