mercoledì 30 novembre 2011

"Il sarto di Ulm" di Bertolt Brecht


"Vescovo, so volare",
il sarto disse al vescovo.
"Guarda come si fa!"
E salì, con arnesi
che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.

Il vescovo andò innanzi.
 "Non sono che bugie,
 non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse del sarto il vescovo.

"Il sarto è morto", disse
al vescovo la gente.
"Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte
e lui sta là, schiantato
sui duri, duri selci del sagrato".

"Che le campani suonino.
 Erano solo bugie.
 Non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse alla gente il vescovo.

martedì 29 novembre 2011

da" Ad occhi aperti" di Marguerite Yourcenar

L’uomo di sinistra, conformemente al suo credo, manifesta la sua fede non in un certo progresso, ma in un progresso certo, il che è più grave, e lo fa assomigliare ai primi cristiani che credevano a un prossimo ritorno del Signore in terra, alla parusía. In questa nostra epoca, in cui il progresso tecnologico si è costantemente accompagnato a catastrofiche calamità, sarebbe un atteggiamento fideistico alquanto ingenuo. Ma in che cosa è diverso l’uomo di sinistra, ottimista a ogni costo, dal capitalista di destra che anche lui sogna il progresso, o quanto meno lo sognava fino a ieri? Ogni volta che vado in un supermarket, cosa che del resto mi succede di rado, mi sembra d’essere in Russia. È lo stesso cibo imposto dall’alto, assolutamente uguale in ambedue i sistemi, con la sola differenza che qui i prodotti sono imposti dalle multinazionali e là da degli organismi statali. In un certo senso, gli Stati Uniti sono altrettanto totalitari dell’Urss, e in ambedue i paesi, come del resto dappertutto, il progresso (vale a dire l’incremento del benessere umano immediato), o semplicemente il mantenimento dello statu quo presente, dipende da strutture sempre più complesse e sempre più fragili. Come il beato umanesimo del borghese del 1900, il progresso a getto continuo è un sogno che appartiene al passato.

Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto diretto con le cose, rinunciare ai nostri dogmi di partito, di patria, di classe, di religione, tutti intransigenti e dunque tutti forieri di morte. Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, ai tecnocrati che ne hanno guastata la qualità - non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male, e che la maggior parte di esse sussiste solo in virtù di grandi concentrazioni di forze che sono piene di potenziali pericoli. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante. Mi sento idealista e materialista al tempo stesso. Il cosiddetto idealista non vede il pane, né il prezzo del pane, e il materialista, per un curioso paradosso, ignora che cosa significhi quella cosa immensa e divina che chiamiamo “la materia”.

domenica 27 novembre 2011

Considerazioni libere (260): a proposito di modelli e di un cambio di punti di vista...

In questi giorni chi - come me - ha nutrito e nutre grandi speranze per quel movimento di popoli che ci siamo abituati a chiamare "primavera araba", guarda con estrema ansia a quello che succede in Siria e in Egitto. Sappiamo che i governi occidentali - per timore delle conseguenze, ma soprattutto per non spendere altro denaro in questi tempi di crisi - non interverranno militarmente contro il regime di Assad, come hanno fatto in Libia contro Gheddafi, ma la Lega araba e soprattutto la Turchia - che si sta ritagliando un ruolo sempre più definito come arbitro del difficile scacchiere mediorientale – hanno detto chiaramente che il regime deve passare la mano e faranno sentire tutto il loro peso economico e militare. Nel paese intanto si combatte una violentissima guerra civile, di cui abbiamo scarse informazioni. Credo che alla fine anche Assad cadrà, ma allo stato attuale è impossibile intuire quale sarà l'esito di questa nuova rivolta araba. L'unica costante che finora abbiamo potuto registrare è quella che non ci sono costanti e in ogni paese la rivolta ha avuto un andamento e soprattutto uno sbocco diverso l'uno dall'altro. In Egitto i militari tentano di non cedere il potere, ma l’onda rivoluzionaria partita all’inizio di quest’anno non è più disponibile ad accettare una normalizzazione imposta dall'alto; anche qui si combatte e purtroppo ogni giorno dobbiamo contare i morti di questa nuova fase della rivoluzione.
Le vicende di questi ultimi giorni, che ho sintetizzato in maniera davvero troppo sommaria nel precedente paragrafo, mi spingono a riflettere ancora una volta su quanto sia paradossale la situazione in cui viviamo. Gli egiziani sono scesi in piazza perché vogliono votare, i siriani vogliono votare, gli yemeniti – ora che finalmente il presidente Saleh ha accettato di "abdicare" – vogliono votare, i tunisini sono andati in massa a votare per eleggere il nuovo parlamento, dopo la rivolta che ha costretto Ben Ali alle dimissioni. Questo succede dall'altra parte del mondo - anche se a pochissimi chilometri dal nostro paese - invece nel "nostro" mondo la situazione è completamente diversa. Gli indignados spagnoli - che sono stati i primi europei a scendere in piazza in maniera così forte e organizzata - pur al di fuori di ogni tipo di organizzazione politica e sindacale tradizionale - hanno platealmente e pubblicamente ignorato i dibattiti della campagna elettorale, dando un giudizio egualmente negativo sui due maggiori partiti iberici, e in parte hanno disertato le urne. Gli statunitensi che hanno voluto manifestare la loro rabbia verso un mondo che considerano profondamente ingiusto non hanno marciato davanti alla Casa Bianca o al Congresso – come avevano fatto invece negli anni Sessanta e Settanta – ma nel cuore di Wall street, facendo capire, anche attraverso questa chiarissima scelta simbolica, che il vero potere non è nelle mani dei politici di Washington, ma in quelle, molto più rapaci, dei banchieri, degli speculatori, dei grandi uomini d’affari. In Italia credo ci sia una sinistra minoritaria - di cui io mi sento parte - che avverte il disagio di non sapere cosa votare alle prossime elezioni politiche e che forse non voterà, perché non riesce a riconoscersi nei valori, prima ancora che nelle scelte, della principale forza politica del centrosinistra.
Per i popoli dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente la democrazia è l'obiettivo verso cui tendere; dopo decenni di regimi autoritari sono giustamente convinti che con questo sistema potranno far rispettare le loro scelte politiche, le loro libertà e i loro diritti. Noi "vecchi sinistri", che guardiamo con interesse – e con passione - a questo movimento, pensiamo – forse con qualche ingenuità, dettata dall’entusiasmo – che insieme alla democrazia arriverà finalmente per gli arabi anche la modernità, almeno come la intendiamo noi, che non siamo mai guariti del tutto dall'idea delle "magnifiche sorti e progressive". Al contrario per i popoli delle civilissime e antiche democrazie occidentali - ma su questo punto dopo voglio fare una digressione - è sempre meno chiaro chi abbia davvero il potere; ci sentiamo sempre meno rappresentati dalle persone che abbiamo votato e siamo sempre meno disposti a riconoscere deleghe. Dagli indignados spagnoli ai giovani di tanti paesi europei che sono scesi in piazza, passando per gli irriducibili di Zuccotti park, molti cittadini hanno la sensazione - spesso fondata - che le loro opinioni non abbiano valore. Il governo greco è caduto perché il primo ministro aveva proposto di fare un referendum tra i cittadini e questo è stato considerato uno sproposito dalle autorità finanziarie internazionali, che peraltro nessuno ha mai eletto. In Italia abbiamo un governo imposto da queste stesse autorità internazionali, il cui programma deve basarsi su una traccia scritta da due persone, Draghi e Trichet, che nessuno di noi ha mai votato. Sembra ormai prevalente l'opinione che in tempi di crisi le regole della democrazia possano essere sospese, con i cittadini che rimangono a guardare quello che viene deciso in altre sedi.
Giustamente ai nuovi governi che nascono dalle rivolte nei paesi arabi chiediamo di trovare meccanismi istituzionali e politici per bilanciare il rapporto tra stato e autorità religiose. Uno stato teocratico, qualunque sia la religione su cui si basa, non difende l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e quindi la religione islamica non deve imporre i suoi dogmi e le sue leggi a istituzioni democraticamente elette, che devono essere libere di esprimere la volontà della maggioranza, anche quando questa va contro i dettami imposti dalla religione. Quando lo scià è stato costretto ad abdicare i democratici di tutto il mondo hanno esultato per la fine di una dittatura molto dura, ma la festa è durata troppo poco, dal momento che da quella sacrosanta rivolta è nato un regime, il cui apparato repressivo non ha nulla da invidiare a quello precedente. Siamo tutti d'accordo sull'idea che i cittadini dei paesi musulmani dovrebbero liberarsi delle dittature, laiche o religiose che siano, e che l'unico sbocco possibile, dopo la fine di questi regimi, debba essere la nascita di un sistema democratico. Ma questa affermazione da sola non basta, dobbiamo farci delle domande sulla democrazia e sui suoi obiettivi. Per far questo però bisogna prima compiere un atto di umiltà, guardando al passato, anche recente, dei nostri paesi. Tanti "soloni" europei spiegano ai "poveri" arabi cosa sia la democrazia, dimenticando che nella civilissima Europa, nell'Europa occidentale - quella "buona", quella dalla parte "giusta" del Muro di Berlino - ci sono state due dittature fasciste fino alla metà degli anni Settanta; quando io sono nato - non troppi anni fa - in Spagna c'era Franco e in Grecia c'erano i Colonnelli. E non parliamo di quello che succedeva di "là", visto che le dittature comuniste sono crollate nell'89.
La democrazia non si accende con un interruttore - non c'è il tasto on/off come sui computer - la democrazia è un processo, che può richiedere molti anni. Francamente trovo un po' buffo che un italiano consideri scandaloso e preoccupante che in Tunisia abbia vinto le elezioni un partito islamista moderato, come Ennahda, dimenticando che nel 1948 in questo paese ha vinto le elezioni, le prime dopo una dittatura durata vent'anni e dopo una durissima guerra civile, un partito cattolico moderato, sostenuto in maniera determinante dalla chiesa cattolica, un partito peraltro che ha saputo, con saggezza, traghettare una parte consistente dei cittadini che avevavo sostenuto il vecchio regime nelle nuove istituzioni democratiche. Era l'Italia delle donne che andavano in chiesa con il velo sulla testa, che aveva nel proprio ordinamento il "delitto d'onore", e ancora negli anni successivi l'Italia in cui facevano scandalo le gambe delle Kessler alla televisione. Adesso non c'è più quell'Italia, fortunatamente - e anche per merito di una parte di quei cattolici moderati - ma ci abbiamo messo alcuni decenni. Un discorso analogo può essere fatto per gli Stati Uniti. Adesso quel grande paese è governato da un Presidente dalla pelle nera, ma nel 1957 - poco più di cinquant'anni fa - un altro Presidente, Eisenhower, fu costretto a mandare l'esercito federale a Little Rock per scortare nove bambini afroamericani in una scuola che, secondo il governatore dell'Arkansas doveva essere riservata soltanto ai bianchi.
Fatta questa riflessione preventiva sul modo in cui noi siamo arrivati alla democrazia, dobbiamo anche chiederci, visto il momento di crisi in cui ora ci troviamo, se sia giusto che i paesi arabi debbano seguire le orme dell’occidente. Negli Stati Uniti e in Europa molte persone pensano di aver perso una parte dei propri diritti, di godere di minori libertà, di essere giorno dopo giorno emarginate dai processi decisionali. La crisi economica ha messo in luce il senso di impotenza dei cittadini, che si vedono costretti a pagare debiti che non hanno contratto. Chi manifesta oggi negli Stati Uniti e in Europa lamenta prima di tutto il fatto che la capacità di prendere le decisioni è in mano a persone che non sono state elette e che non sono tenute a rispettare le regole democratiche.
Certo né negli Stati Uniti né in Europa la religione impone le sue leggi allo stato - anche se tenta di farlo; chi rappresenta le chiese agisce come una lobby tra le altre ed è più o meno efficace, a seconda del paese. In Italia ad esempio le gerarchie cattoliche sono una lobby influente e potente, ma nulla di più. Invece le istituzioni economiche, le grandi banche, le corporation impongono le loro decisioni agli stati, come vediamo ogni giorno, in cui processo che non né democratico né trasparente. Temo che in questo momento le nostre democrazie, così deboli, non possano essere un buon modello per quei popoli che cercano di uscire da dittature che - non dobbiamo mai dimenticare - noi, i nostri governi, abbiamo alimentato e sostenuto. Forse, cambiando finalmente l'ottica eurocentrica con cui siamo abituati a leggere il mondo, potrebbero essere quei paesi a essere modelli per noi. Dobbiamo imparare a guardare oltre i nostri angusti confini e tornare davvero a pensare in un'ottica internazionale - magari immaginando movimenti civili internazionali - anche perché il benessere del "nostro" mondo non può più basarsi sullo sfruttamento del "loro" mondo, come è avvenuto fino ad ora. O cresciamo insieme o insieme siamo destinati a soccombere sotto le forze della globalizzazione e del capitalismo di rapina che ha già tanto potere.

giovedì 24 novembre 2011

"Monologo per Cassandra" di Wislawa Szymborska


Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

E’ vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde -
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo -
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di -

E’ andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

mercoledì 23 novembre 2011

da "Quaderni del carcere" (XIII) di Antonio Gramsci

A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come propria espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure, rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici.
Come si formano queste situazioni di contrasto tra "rappresentati e rappresentanti" che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflettono in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa, e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua gran impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passate di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di "crisi di autorità" e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico, che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intiera classe, è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive); che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza della vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone.

martedì 22 novembre 2011

da "Quaderni del carcere" (XIII) di Antonio Gramsci

Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il "numero sia in esso legge suprema" e che "le opinioni di qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato esattamente quanto quello di chi allo Stato e alla nazione dedichi le sue migliori forze", ecc. Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia "legge suprema", né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia "esattamente" uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie, ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia "esattamente" uguale. Le idee e le opinioni non "nascono" spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica di attualità. La numerazione dei "voti" è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che "dedicano allo Stato e alla nazione le loro migliori forze" (quando sono tali). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi "nazionali" che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. "Disgraziatamente" ognuno è portato a confondere il proprio "particulare" con l’interesse nazionale e quindi a trovare "orribile", ecc., che sia la "legge del numero" a decidere: è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi "ha molto" intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo "qualunque" anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.
Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come "funzionari" dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al selfgovernment. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè un’avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento "volontarietà" nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere.

lunedì 21 novembre 2011

"Il pensiero" di Bertrand Russell


Gli uomini temono il pensiero più di qualsiasi cosa al mondo, più della rovina, più della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile. Il pensiero non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite e alle abitudini confortevoli. Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità, noncurante dell’approvata saggezza dell’età. Il pensiero può guardare nel fondo dell’abisso e non avere timore. Ma se il pensiero diventa proprietà di molti e non privilegio di pochi, dobbiamo finirla con la paura

venerdì 18 novembre 2011

Considerazioni libere (259): a proposito di una sconfitta...

Ero incerto sull'opportunità e soprattutto sulla necessità di scrivere questa "considerazione" e in un primo momento avevo pensato di soprassedere. A quello che è successo in questi giorni in Italia, ossia alle dimissioni di B. e alla nascita del governo Monti, ho dedicato qui già due interventi - le "considerazioni nr. 251 e 258 - oltre a diversi cinguettii: a questo punto francamente mi sembra inutile e anche stucchevole continuare a dire sempre le stesse cose. Poi ho deciso comunque di scrivere alcune righe per rispetto verso le amiche e gli amici che con una certa continuità - e con grande indulgenza - leggono questo blog: non siete tanti, ma mi fa davvero molto piacere sentire la vostra attenzione. Credo che - stante così le cose - per qualche tempo i miei interventi sulla politica italiana rimarranno confinati nella dimensione più ristretta dei 140 caratteri di Twitter. Dedicherò questo blog ad altro, anche se ovviamente la politica rimarrà uno dei temi ricorrenti - perché come ha detto un vecchio compagno di San Giovanni in Persiceto "la politica è come un virus" e quando ti prende non ti lascia più - ma cercherò di uscire dai confini un po' asfittici della politica italiana.
Per giustificare questo periodo di silenzio c'è prima di tutto un tema di "compagnia". Sono tra i pochi che pensano che questo nuovo governo non salverà l'Italia e soprattutto che la sua azione avrà effetti pesantissimi sulle classi più deboli del paese. Nel sostenere questa tesi, seppur partendo da posizioni molto diverse, mi ritrovo con una compagnia con cui davvero non riesco a stare: alcuni vecchi fascisti - come la rediviva Mussolini - alcuni nuovi fascisti - come l'europarlamentare inglese Nigel Farage - i leghisti e tutti i sostenitori delle "piccole patrie" europee, Giuliano Ferrara e compagnia cantante, praticamente la feccia della politica italiana ed europea. No, grazie; con questi non posso neppure prendere un caffè.
Al di là di questo, il motivo principale per cui ho deciso di sospendere per un po' i miei interventi sulla politica italiana è un senso di impotenza. E di sconfitta. In questi diciassette anni io sono sempre stato contro Silvio Berlusconi, ma non perché Berlusconi è B., ossia il più indecente rappresentante di un certo tipo di italiano, ma perché Berlusconi ha rappresentato in tutti questi diciassette anni la destra di questo paese. Non ho mai votato Berlusconi e ho sempre fatto campagna contro di lui perché è stato iscritto alla P2 e perché non ha mai accettato fino in fondo le regole della nostra Costituzione. Perché non ha mai festeggiato il 25 aprile. Perché è sempre stato sostenuto e votato da Confindustria e dai padroni, perché ha fatto con coerenza una politica di destra, contro i lavoratori, contro i pensionati, contro la scuola e la sanità pubbliche, contro la redistribuzione del reddito. Berlusconi è l'uomo più ricco d'Italia e ha sempre fatto l'interesse delle persone più ricche. Poi naturalmente Silvio Berlusconi è anche quel personaggio indegno che abbiamo imparato a conoscere e su cui c'è ormai una letteratura. La destra, con colpevole ritardo, ha capito che B., ormai pateticamente sul viale del tramonto, non era più in grado di tutelarne gli interessi e l'ha scaricato e ha repentinamente cambiato cavallo. Francamente potevano pensarci prima e non costringere l'intero paese a questi anni indecorosi, ma meglio tardi che mai. Adesso, con maggiore eleganza, il governo Monti continuerà la strada percorsa da Berlusconi: farà con coerenza una politica di destra, contro i lavoratori, contro i pensionati, contro la scuola e la sanità pubbliche, contro la redistribuzione del reddito.
Come sapete io ho fatto per tanti anni politica, ho militato e ho avuto qualche responsabilità nel Pds e nei Ds;  non ho aderito al Pd, anche se in quel partito ci sono tanti amici e tante persone che stimo, persone con cui ho condiviso un bel pezzo di cammino. Dal momento che loro sono convinti di aver fatto la scelta giusta nel sostenere la nascita di questo governo, penso che forse sto sbagliando io e quindi sto zitto, anche perché la mia voce rischia di essere scambiata per una velleitaria e anacronistica resistenza verso le idee nuove. Non riesco a capirle queste idee e con franchezza dico agli amici del Pd che ormai mi sarà impossibile votare per loro, così come mi è impossibile votare per la destra. Ho stima per Bersani, ma non riesco ad accettare che nel suo discorso alla Camera abbia sostanzialmente promesso i voti dei parlamentari del Pd senza porre alcuna condizione, mentre il Pdl ne ha poste e di precise, sapendo per altro che Monti le avrebbe naturalmente accolte. Non posso votare per un partito il cui vicesegretario considera un "miracolo" la nascita del governo Monti; e questa posizione non è affatto isolata nel Pd, anzi sta alla base della stessa nascita di quel partito. Sarebbe ingeneroso gettare la croce soltanto sulla cosiddetta sinistra italiana, la forza del pensiero unico liberista è pervasiva e purtroppo coinvolge molti altri paesi e molte altre forze politiche europee. Sono molto preoccupato, non so cosa succederà nei prossimi anni: temo che il mondo sarà più ingiusto e sarà anche per colpa nostra.

giovedì 17 novembre 2011

"Comunista a chi?" di José Saramago

Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: "se l'uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente". Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent'anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista "ormonale", mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel "non possumus" biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo - e a maggior ragione il comunismo - è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.

martedì 15 novembre 2011

"La stazione" di Wislawa Szymborska


Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire
all'ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.
E' scesa molta gente.

L'assenza della mia persona
si avviava verso l'uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L'insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.

E' avvenuto perfino
l'incontro fissato.

Fuori dalla portata
della nostra presenza.

Nel paradiso perduto
della probabilità.

Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.

sabato 12 novembre 2011

Considerazioni libere (258): a proposito di dimissioni...

Comincio a scrivere questa "considerazione" poco prima che B. salga al Quirinale per rassegnare le dimissioni, probabilmente la pubblicherò quando queste auspicate - o deprecate, a seconda dei casi - dimissioni saranno diventate effettive. Che B. lasci Palazzo Chigi è una buona notizia, a prescindere: B. - al di là del fatto che io non l'ho mai votato e anzi l'ho sempre, nel mio piccolo, contrastato - è stato probabilmente il peggiore Presidente del Consiglio della storia d'Italia e quindi prima se ne va, meglio è. Al di là del giudizio politico, penso non meriti rispetto neppure come persona e quindi non gli renderò certo un ipocrita onore delle armi: l'Italia senza B. sarà un paese un po' migliore di quello che è adesso.
Sul modo in cui è avvenuta questa anomala e rapidissima crisi di governo credo sia opportuno soffermarsi. In un certo senso è stata una vittoria - seppur postuma - di B.: provo a spiegarmi. Uno dei pochissimi tratti squisitamente politici di B. - la cui scelta di "scendere in campo" e la cui successiva condotta politica è stata sempre dettata da interessi economici molto concreti, i suoi e quelli delle sue aziende - è stato quello di considerare superata la democrazia parlamentare disegnata dalla nostra Costituzione, a favore di una supremazia del potere esecutivo e dell'uomo - lui in questo caso, che peraltro si considerava eterno - che lo incarnava. B. ha sempre considerato il Parlamento come un orpello o come una fastidiosa perdita di tempo, e infatti l'unica riforma istituzionale che è riuscito a compiere in questi lunghi 17 anni è stata quella di modificare la legge elettorale, cercando di trasformare gli eletti in nominati. Da questo punto di vista, la politica di B. è sempre stata eversiva, perché non ha mai riconosciuto le prassi di una democrazia parlamentare, come continua a essere quella italiana. Come sapete, io ho grande rispetto per Giorgio Napolitano, ma credo sia giusto sottolineare che in queste concitate fasi egli sia andato ben al di là delle prerogative previste dalla Costituzione e dalla prassi; in qualche modo l'ostinazione di B. a rimanere a Palazzo Chigi e la contemporanea richiesta dell'Europa e dei mercati di farlo andar via ha costretto il Presidente della Repubblica ad andare fuori dalle righe. Questa crisi di governo si è svolta ovunque, tranne che in Parlamento; ne sono stati protagonisti il Presidente Napolitano, le cancellerie europee, i grandi interessi economici, vi hanno avuto un ruolo secondario la stampa italiana e internazionale, una parte della magistratura, probabilmente qualche potere torbido - che in Italia non manca mai; la politica non ha praticamente toccato palla. Monti era già il presidente incaricato prima che B. rassegnasse le dimissioni e sarà presidente per una sorta di acclamazione europea, a prescindere dal voto di fiducia dei parlamentari italiani. Dal punto di rottura in cui siamo arrivati in questa crisi non sarà facile - e probabilmente non c'è neppure la volontà politica di farlo - tornare alla lettera della nostra Costituzione. Questa è una delle più pesanti eredità che B. lascerà a questo paese.
Sugli esiti di questa crisi ho già scritto, in una "considerazione" dello scorso 1 ottobre - la nr. 251 - che vi invito a leggere. Io rimango ostinatamente attaccato ad alcune vecchie idee di sinistra, continuo a pensare con le categorie del Novecento - come dicono quelli che parlano bene - uso termini desueti come "padroni" e "capitale". Per queste ragioni non sono tra quelli - la stragrande maggioranza degli italiani, a quanto sembra - che pensano che Monti salverà l'Italia; Monti farà Monti, ossia applicherà parola per parola quanto ordinato dalla famosa lettera scritta da Draghi e da Trichet all'inizio di agosto, un condensato delle ricette ultraliberiste della grande finanza occidentale. Monti è un uomo di destra e farà una politica di destra, altrimenti non lo avrebbero messo lì. Temo che la nascita di questo governo segnerà per molti anni la storia di tutto il paese, che sarà sempre più messo ai margini dall'Europa che conta: forse nascerà davvero l'Europa a due velocità e certamente l'Italia non sarà nel primo gruppo. Ma la cosa peggiore è che il prezzo del risanamento italiano sarà pagato quasi esclusivamente dai lavoratori e dai pensionati e che la sfera dei diritti economici e sociali sarà profondamente ristretta. Come si dice, chi vivrà vedrà; e di questo naturalmente continuerò a parlare. C'è poi un altro aspetto che mi sta particolarmente a cuore; per come la vedo io, la nascita del governo Monti e la decisione del Pd di sostenerlo segna una delle più grosse battute d'arresto per la crescita della sinistra in Italia, probabilmente molto più grave della scelta del Pci di sostenere i governi di solidarietà nazionale alla fine degli anni Settanta. Anche di questo - temo - torneremo a parlare.
Intanto, dopo qualche tentennamento di troppo e un certo scortese ritardo, B. si è finalmente dimesso - ho sospeso di scrivere questa "considerazione" per cenare e per seguire in diretta l'evolversi della situazione. Stasera - sabato 12 novembre 2011 - B. ha finalmente chiuso la sua troppo lunga carriera politica. Stasera possiamo finalmente tirare un respiro di sollievo. Festeggiamo pure - se vivessi a Roma, forse sarei andato anch'io a rumoreggiare felice sotto i palazzi della politica - sfoghiamoci pure, ma è importante che non ci raccontiamo delle balle. Non vorrei rovinare la festa proprio questa sera, con un po' di sano pessimismo, ma vorrei ricordare che B. non è stata una parentesi della storia d'Italia. Ho recuperato una mia "considerazione" del marzo 2010, scrivevo allora:
Ha vinto Berlusconi perché ha consolidato l'obiettivo che è sempre stato alla base del suo agire politico: offrire una rappresentanza politica alla parte maggioritaria di questo paese, che è insofferente alle regole, che non vuole pagare le tasse, che pensa unicamente agli interessi propri e della propria famiglia, a scapito degli interessi degli altri. Berlusconi non rappresenta l'Italia di destra, ma questa Italia, che va a puttane e manda le figlie a scuola dalle suore, che si lamenta dei torti subiti e che, appena ha un po' di potere, lo esercita con lo stesso arbitrio, che pretende i servizi pubblici e non paga le tasse. Berlusconi ha vinto e vincerà perché rappresenta al meglio questa parte dell'Italia ed è riuscito a far credere che questa Italia è l'Italia del centrodestra.

Continuo a essere convinto di queste frasi. Il berlusconismo è - è ancora, perché non è certo finito con le dimissioni di B. - la mancanza di etica della responsabilità civica, che è il male peggiore di questo paese. Il modello del perfetto berlusconiano non è - a differenza di quello che si potrebbe pensare - il rancoroso lettore di Libero e del Giornale, colui che accetta acriticamente tutto quello che fa e che dice B. e che vede dappertutto i comunisti; il perfetto berlusconiano è quello che ha sempre votato per B. senza mai dichiararlo e che adesso, per opportunismo, dice che la soluzione migliore è senz'altro quella di Monti, è il voltagabbana pronto a sostenere il nuovo padrone. Con questi B. ha avuto la maggioranza e sono ancora tutti lì. C'erano prima di B. e ci saranno dopo di lui e sono molti, forse ormai sono troppi.

"Tenendo le cose assieme" di Mark Strand


In un campo
io sono l'assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.

Quando cammino
divido l'aria
e sempre
l'aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.

Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
per tenere assieme le cose.

venerdì 11 novembre 2011

da "Vita activa" di Hanna Arendt

A far iniziare l'epoca moderna non fu l'antico amore degli astronomi per la semplicità, l'armonia e la bellezza, che fece guardare a Copernico le orbite dei pianeti dal sole anziché dalla terra, né il ridestato amore del Rinascimento per la terra e il mondo, con la sua ribellione contro il razionalismo della Scolastica; questo amore del mondo, al contrario, fu il primo a cader vittima della trionfale alienazione del mondo dell'età moderna. Fu piuttosto la scoperta, dovuta al nuovo strumento, che l'immagine copernicana dell'"uomo virile che ha preso posto nel sole... intento e contemplare i pianeti" era molto più di un'immagine o di una presa di posizione arbitraria, ma in effetti un'indicazione della stupefacente facoltà umana di pensare in termini di universo pur rimanendo sulla terra, e di quella forse ancor più stupefacente di servirsi delle leggi cosmiche come principi-guida per l'azione sulla terra. In confronto all'alienazione della terra che accompagna l’intero sviluppo delle scienze naturali nell'età moderna, l'allontanamento dalla prossimità terrestre promosso dalla scoperta del globo come totalità e l'alienazione del mondo prodotta dal duplice processo dell'espropriazione e dell'accumulazione della ricchezza sono fattori di minor rilevanza.
[...]
Cartesio divenne il padre della filosofia moderna per aver generalizzato l'esperienza della propria generazione e di quella precedente e averne elaborato un nuovo metodo del pensiero, diventando così il primo pensatore completamente educato a quella scuola del dubbio che, secondo Nietzsche, è la filosofia moderna. Il sospetto gettato sulle capacità effettive dei sensi rimase il nocciolo dell'orgoglio scientifico finché, ai nostri giorni, si è trasformato in una fonte di inquietudine. La filosofia moderna cominciò con il de omnibus dubitandum est di Descartes, con il dubbio, ma con il dubbio non come autocontrollo della mente umana, per guardarsi dagli inganni del pensiero e dalle illusioni dei sensi, non come scetticismo verso le morali e i pregiudizi degli uomini e dei tempi, e nemmeno come un metodo critico di ricerca scientifica e di speculazione filosofica. Il dubbio cartesiano ha una portata tanto più vasta ed è troppo fondamentale nel suo intento per essere determinato da tali contenuti concreti. Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumàzein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è. Descartes fu il primo a concettualizzare questo dubitare moderno, che dopo di lui divenne il motore evidente e dato per scontato che ha mosso tutto il pensiero, l'asse invisibile sul quale si è incentrato ogni pensare. Proprio come da Platone e Aristotele fino all'età moderna, la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è stata l'articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio.

mercoledì 9 novembre 2011

"Stazione" di Tomas Tranströmer


Un treno è entrato in stazione. È fermo, vagone dopo vagone,
ma nessuna porta si apre, nessuno scende o sale.
Ci sono veramente delle porte? Là dentro un brulichio
di uomini rinchiusi che vanno su e giù.
E scrutano dai finestrini immobili.
Fuori lungo il treno cammina un uomo con un martello.
Urta le ruote che debolmente risuonano. Tranne qui.
Qui il rumore aumenta incomprensibilmente: un fulmine,
il rintocco dell’orologio della cattedrale,
il rumore della circumnavigazione del globo
che solleva tutto il treno e le pietre umide dei dintorni.
Tutto canta. Ve lo ricorderete. Andate avanti.

domenica 6 novembre 2011

Considerazioni libere (257): ancora a proposito della definizione di democrazia...

Alla fine dello scorso mese di luglio - nella "considerazione" nr. 243, che vi invito a leggere - ho provato a riflettere sul significato che oggi ha nel mondo il termine "democrazia" e in alcune "considerazioni" successive mi è capitato di scrivere di quanto questo concetto oggi sia in discussione, ad esempio tra le persone che tra Madrid e New York, passando per tante altre città del pianeta, stanno animando il movimento degli indignati o del 99%, come io preferisco chiamarlo.
Nei giorni scorsi la notizia che il primo ministro greco aveva intenzione di sottoporre ai cittadini del suo paese, attraverso un referendum, la decisione di accettare o meno le misure imposte dalle autorità finanziarie internazionali ha scatenato una crisi dei mercati, un'ondata di panico in tutta Europa, tanto da costringere lo stesso Papandreou a ritirare questa proposta e alla fine a presentare le dimissioni. In pratica le autorità europee hanno impedito ai greci di esprimere la propria opinione su una questione rilevante riguardante il loro futuro. Lo stesso presidente Sarkozy, che pure è stato uno dei più decisi a premere affinché il governo greco non consultasse il proprio elettorato, ha ammesso che un qualche problema esiste: "Oggi siamo costretti a prendere delle decisioni per conto di paesi che non ci hanno eletto. Tutti possono capire che questo pone dei problemi di democrazia". In Italia sta avvenendo qualcosa di analogo. Ad agosto il governo ha sostanzialmente accettato le proposte contenute nella lettera scritta da Trichet e da Draghi, rinunciando de facto a parte della propria indipendenza in favore di un organo, la Bce, che non ha alcuna legittimazione democratica; al vertice G20 di Cannes Berlusconi ha accettato che il bilancio italiano sia sottoposto al controllo di un'autorità esterna, il Fondo monetario internazionale, un organo che naturalmente nessun italiano ha mai eletto.
Al di là di queste ultime vicende - che pure ci toccano da vicino e con cui noi italiani continueremo a fare i conti nei prossimi mesi, qualunque sarà l'esito della crisi politica di questi giorni - mi pare che le proteste di questi mesi, comprese quelle scoppiate nei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo e del Medio Oriente, esprimano un'insoddisfazione profonda verso il sistema capitalistico globale, che, pur assumendo forme diverse in luoghi diversi, ha ovunque mostrato il suo carattere più rapace; come se Mackie Messer non avesse più la prudenza di nascondere il coltello. Prima in maniera confusa e poi con sempre maggiore consapevolezza il movimento ha capito che quel fenomeno che chiamiamo in maniera un po' semplicistica globalizzazione mina nel profondo la legittimità delle democrazie occidentali. E questo è tanto più grave perché ci sono interi popoli, dalla Tunisia allo Yemen, passando per l'Egitto, che stanno provando a imboccare la strada - che sarà per forza di cose lunga e tortuosa - verso questo tipo di democrazia. Il tema allora è cercare di capire come è possibile espandere la democrazia oltre le sue forme attuali - basate su un sistema di stati nazionali in cui ci sono sistemi multipartitici - che, come ha dimostrato in maniera piuttosto evidente anche il recentissimo vertice di Cannes, sono incapaci di gestire le conseguenze distruttive del capitalismo; se non sono capaci di affrontare gli effetti della crisi, figurarsi poi se sono in grado di prendere decisioni per risolverne le cause. In sostanza l'economia globale non è alla portata del sistema democratico come noi lo conosciamo e lo pratichiamo.
Forse è venuto il momento di pensare a qualcosa di molto diverso. E mi sembra che il movimento abbia in sé questa consapevolezza, seppur con gli inevitabili limiti che un movimento come questo - per la sua struttura e la sua frammentazione - non può non avere. Il limite delle soluzioni proposte dalle più importanti forze politiche della sinistra europea - per non parlare di quelle di Obama e dei democratici statunitensi - è quello di stare completamente all'interno del "recinto" del pensiero liberaldemocratico. L'obiettivo finale di queste forze politiche è quello di estendere il controllo democratico sull'economia globale, con tutti i limiti che sono sempre più evidenti. Anche volendo - e non sempre i nostri governanti lo vogliono fare davvero - come possono i governi fermare gli speculatori che si muovono su un mercato internazionale, ormai fuori da ogni controllo legislativo nazionale? Ancora dopo la fine della seconda guerra mondiale nel programma del Partito Socialista francese - che riuscì a convincere della propria visione l'intero Conseil National de la Résistance - c'era la nazionalizzazione delle banche, delle compagnie assicurative e delle industrie strategiche, come quella dell'energia elettrica; il Labour party solo pochi anni fa ha tolto dal proprio statuto la clausola IV che prevedeva "la proprietà comune dei mezzi di produzione". Ora un governo socialista, anche volendolo, cosa potrebbe nazionalizzare? La finanza ha un'altra dimensione. Anche per questo, in sostanza nessuno mette più in discussione il quadro istituzionale dello stato democratico borghese.
Bisogna forse ritornare a Marx: 
L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è, bensì, la forma ultima dell'emancipazione umana in generale, ma è l'ultima forma dell'emancipazione umana entro l'ordine mondiale attuale. 
In sostanza il tema della libertà non può essere riferito esclusivamente alla sfera politica, ossia a principi fondamentali, come il rispetto dei diritti umani, le libere elezioni, l'indipendenza della magistratura, la libertà di stampa; questioni comunque fondamentali per gran parte delle donne e degli uomini del pianeta, che non hanno raggiunto neppure questi obiettivi, come ci insegnano le rivolte arabe. La vera libertà sta nel cambiamento radicale dei rapporti sociali di produzione:
Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria.[...] La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. 
Proviamo allora a pensare a una democrazia diversa, in cui le trasformazioni necessarie per promuovere i miglioramenti della condizione delle donne e degli uomini non passano soltanto attraverso le riforme politiche, ma coinvolgono anche gli stessi rapporti economici. Le persone che hanno occupato Zuccotti park hanno "svelato" non solo che c'è un 1% che prende le decisioni che coinvolgono direttamente anche il restante 99% - e questa sarebbe già un'ingiustizia in sé, anche se si dimostrasse che quell'1% è formato dai "migliori", secondo la definizione etimologica del termine aristocrazia - ma soprattutto che quell'1% non è mai stato eletto da nessuno. E non possiamo illuderci che aumentare quella ridicola percentuale possa risolvere il problema della democrazia.
A chi critica il movimento per la sua incapacità di dare risposte positive alla crisi economica mondiale, di offrire soluzioni, a chi gli chiede - più o meno provocatoriamente - di "passare dalla protesta alla proposta", credo che si debba rispondere che già la consapevolezza del rifiuto di questo sistema, il non accettare di giocare con regole e su un campo imposto da altri, sia già un atto politico importante. 

sabato 5 novembre 2011

da "Il capitalismo e la crisi ambientale" di Murray Bookchin

In una società basata sulla crescita in nome della crescita, senza costrizioni morali che la inibiscano, il mondo intero è soggetto a essere ricostruito e nel peggiore dei modi. La "prima natura", come la chiamava Cicerone (il mondo naturale che si è evoluto senza l’intervento della mano umana) e la "seconda natura" (la forma dell'evoluzione naturale guidata dal pensiero e dalle azioni umane) si trovano oggi in aspra contrapposizione al livello delle forme di vita complesse. La nostra "seconda natura" minaccia di semplificare drasticamente la "prima natura" dalla quale noi stessi come specie e tutte le altre forme di vita complesse siamo emersi. Eppure, ciò che è clamorosamente evidente è che nessuna delle due forme di natura può esistere senza l’altra. È un’idiozia dei moderni primitivisti quella secondo la quale dovremmo tornare totalmente al passato primordiale per evitare il suicidio della specie - anche se questo non è più possibile senza che si verifichi quello stesso suicidio che un tale ritorno produrrebbe. Non possiamo tornare alle caverne così come non possiamo creare il paradiso tecnocratico di Buckminster Fuller senza arrivare all’auto-annichilimento.
Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è una trascendenza o Aufhebung di entrambe le nature, la "prima" e la "seconda", per arrivare a una fusione e a un progresso oltre queste due in una "natura libera", in cui gli elementi migliori delle due diano vita a un’età guidata dalla spontaneità della "prima natura" e dalla razionalità della "seconda". Mi riferisco a una natura pensante che può percepire la realtà attorno a sé e scegliere in modo ragionato le alternative e le improvvisazioni insite nella creazione di un’evoluzione sapiente della vita. Questa nuova natura rifiuterebbe le grandi conurbazioni che hanno preso il posto della terra coltivabile, i rifiuti che inquinano vaste aree degli oceani, i veleni letali che infestano la catena alimentare umana, i cambiamenti climatici che causano il cancro della pelle e dei polmoni - eccetera.
Lasciatemi spiegare che questa nuova natura tenterà di armonizzarsi combinando le caratteristiche migliori e più razionali della prima e della seconda natura. Combinerà ciò che è strettamente umano, come ad esempio le macchine, con ciò che è strettamente non-umano, come la fotosintesi, in un sistema orientato in senso antropo-ecologico di ecologia sociale. Sarà allo stesso tempo restaurativo e creativo, facendoci ritornare a un tempo in cui l’umanità si trovava ancora sulla soglia tra la biologia e l’antropologia. Sarà una cultura creata in modo cosciente e costruita in modo spontaneo. E sarà una cultura che combina il gioco libero della "prima natura" con il progetto ragionato della "seconda", che risponde ai bisogni dell’istinto e della mente, dello spirito e del pensiero, del riconoscimento di una necessità e della conoscenza dell’universo aperto dell’incognito e delle contraddizioni.
E inoltre, formerebbe un unico tessuto della conoscenza appena distinguibile di un mondo remoto e del ricco discernimento di un mondo che è ancora in divenire. Come la filosofia, sarebbe la conoscenza di ciò che è stato assieme a ciò che è in via di realizzazione. L’umanità è sempre stata su questa soglia, ed è proprio questo che ha reso la nostra specie tanto particolare e creativa. La parola ecologia è essenzialmente un modo naturalistico per dire dialettica - un continuum in cui ciò che era, ciò che è e ciò che sarà è una presenza pulsante in mezzo a una realtà vera che è sempre un continuum. Proprio come la parola sociale in ecologia sociale è un altro modo per dire socialismo, così la parola ecologia è un altro modo per dire sviluppo dialettico e continuo .

giovedì 3 novembre 2011

"Cos'era" di Mark Strand

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l'ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l'oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un'alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, essendo stato, era...

II
Era l'inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l'ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz'altro era quello.
Era anche l'evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lasciò sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.

mercoledì 2 novembre 2011

"Il mio secolo non mi fa paura" di Nazim Hikmet


Il mio secolo non mi fa paura,
il mio secolo pieno di miserie e di crudeltà
il mio secolo coraggioso e eroico.
Non dirò mai che sono vissuto troppo presto
o troppo tardi.
Sono fiero di essere qui, con voi.
Amo il mio secolo che muore e rinasce
un secolo i cui ultimi giorni saranno belli:
il mio secolo splenderà un giorno
come i tuoi occhi.