domenica 30 dicembre 2012

Considerazioni libere (328): a proposito di una lista che non mi piace...

Non so come voterò alle prossime elezioni; so che voterò, perché voglio votare e perché è importante farlo, tanto più in un momento in cui gli spazi di democrazia si vanno via via restringendo - in Italia, come nel resto dell'Europa - ma davvero non so per quale partito. Naturalmente non voterò a destra, né per quella lepenista né per quella "perbene"; non l'ho mai fatto e non lo farò mai. Non voterò per Grillo, perché il suo populismo è tanto lontano da me quanto lo è quello di destra. Vorrei votare a sinistra, e qui cominciano i problemi.
Vorrei votare per un partito o un movimento radicalmente alternativo, da sinistra, alla cosiddetta "agenda Monti". Sono convinto che accettando i vincoli imposti da questa "agenda" non sia neppure possibile impostare una coerente politica di promozione e di sostegno dell'occupazione e del reddito per la maggioranza della popolazione italiana. Avere accettato il vincolo del pareggio di bilancio e condividere le scelte politiche ed economiche elaborate dalle autorità finanziarie internazionali rende impraticabile delle politiche di equità e di redistribuzione del reddito, di mantenimento della progressività contributiva, di lotta al precariato, di introduzione del reddito di cittadinanza, di difesa e potenziamento del welfare, a partire dalla scuola e dalle università pubbliche, di sostegno della ricerca e della cultura. E sappiamo che in "agenda" non c'è e non ci sarà un programma di conversione ecologica dei cicli produttivi, per contribuire al contenimento sempre più urgente dei mutamenti climatici e creare una base produttiva e occupazionale sostenibile in mercati e contesti ambientali che presto saranno radicalmente diversi da quelli a cui siamo abituati. E non ci sarà neppure una politica estera che veda come propri cardini l'estensione dei diritti - a partire da quelli delle donne - e, attraverso una nuova politica ambientale, il radicale cambiamento di una struttura economica, che è basata esssenzialmente sullo sfruttamento di quei popoli. Portare avanti in maniera coerente questi progetti è impossibile senza mettere radicalmente in discussione non l'euro, non l'Unione europea - che anzi andrebbe consolidata - ma quel quadro di vincoli che, con il pareggio in bilancio e il fiscal compact, imporrà all'Italia di sottrarre alle entrate fiscali 150 miliardi ogni anno per pagare gli interessi sul debito e le rate ventennali della sua riduzione.
Visto che questo è quello che vorrei, capite che diventa per me francamente difficile votare per il Pd, nonostante la stima personale che ho per Bersani e nonostante l'amicizia con tante persone che militano con onestà, coscienza e impegno in quel partito. Nelle liste di candidate e candidati a queste primarie ho visto tante persone che conosco e che so che faranno bene; mi auguro che vengano eletti, nelle primarie, come nelle "secondarie". Il giudizio sul partito però rimane quello che ho espresso molte volte e ancora nell'ultima "considerazione" di qualche giorno fa: nel Pd non c'è - e non ci vuole essere - quella radicalità di cui secondo me ora c'è bisogno. Il Pd al governo, anche se non fosse "ostaggio" dei voti montiani - cosa di cui fortemente dubito - non toglierebbe né il pareggio di bilancio dalla Costituzione né tornerebbe indietro sulla decisione di adottare il fiscal compact. Comunque non posso ancora escludere di votare per Bersani. Se nelle prossime settimane crescerà - come temo - il consenso verso B. e ci fosse il pericolo reale di un risultato significativo di questo schieramento eversivo non potrei non votare per impedire in ogni modo questo esito.
Nelle scorse settimane ho guardato con interesse a quello che si stava muovendo a sinistra del Pd e di Sel. Ho sottoscritto il manifesto di Alba, ho cercato di seguirne il dibattito, ho firmato l'appello Cambiare si può. Non sono riuscito a partecipare direttamente alle iniziative, per alcune difficoltà oggettive - gli spostamenti, le spese - ma soprattutto per una mia difficoltà a ricominciare con intensità la vita politica, dopo averla fatta per tanti anni, con grandi soddisfazioni e qualche delusione. Nel mio piccolo - come le formiche di antica memoria - ho questo blog. Al di là di queste note personali, mi pare che l'esito di quel travaglio, accelerato nella fase finale in maniera forse troppo brusca dalle dimissioni di Monti, ma comunque allungato nella parte iniziale dalla nostra tendenza "sinistra" a invilupparci nel dibattito, sia stato molto al di sotto delle aspettative. Mi piace il nome "Rivoluzione civile", mi piace molto che nel simbolo ci sia stilizzato il Quarto stato di Pellizza da Volpedo: stuzzica il mio animo notoriamente novecentesco. Non mi piace per niente, ma proprio per niente, il nome di Antonio Ingroia nel simbolo. Questo è uno di quei casi in cui la forma è sostanza. Conosco poco Ingroia, non so se è il miglior candidato possibile per questo nuovo schieramento, personalmente penso che sarebbe meglio che un magistrato che intende fare politica lasci definitivamente la magistratura e penso anche che sarebbe necessario prevedere un qualche, congruo, tempo di stacco tra le due attività. Non mi è particolarmente piaciuto questo tira e molla: vado in Guatamela, torno, mi candido, non mi candido, mi candido. Capisco però che Ingroia è un personaggio noto, uno che porta voti, ed ero comunque disposto a votarlo; come diceva Deng Xiaoping: "non importa se un gatto è bianco o nero, finché cattura i topi". La sua candidatura risolveva altri problemi che si sarebbero posti con candidati troppo connotati su questo o quel partito o davvero troppo poco noti, come quasi tutti i "capi" di Alba. Ma di qui a egemonizzare questo movimento in maniera così netta ce ne corre. Di liste personali ormai ne abbiamo avute e ne abbiamo troppe, è ora di cambiare in maniera netta questo modo di fare politica. Vedo che per una parte di quelli che hanno firmato l'appello uno dei problemi è la presenza nelle liste dei segretari dei partiti che hanno aderito alla costituzione di questa lista. Sinceramente per me questa non è una questione dirimente: quei partiti, pur con le loro debolezze, sono comunque necessari al movimento, hanno rinunciato al loro simbolo, è naturale che abbiamo bisogno di una qualche forma di visibilità. Semmai una questione dirimente è la presenza dell'Italia dei valori e di Antonio Di Pietro. Io, con tutta la mia buona volontà, non sono mai riuscito a considerare - e non considero tuttora - Di Pietro come una persona di sinistra. Basti sentire cosa dice a proposito della questione delle carceri: su questo la sua posizione è assolutamente assimilabile a uno di destra. Di Pietro usa strumentalmente questioni di sinistra, come il referendum sull'articolo 18, per avere visibilità; rischiando seriamente a questo giro di uscire dal parlamento, pensa di utilizzare questa nuova lista come un taxi. Ha fatto qualcosa del genere cinque anni fa con il Pd di Veltroni. Stavolta cerchi un altro taxi; io non voto Pd per non votare Bindi, Letta, Marini e Fioroni, sarebbe un paradosso che votassi una lista in cui ci sia Di Pietro, che è culturalmente e politicamente più a destra di questi. Mi pare che la lista Ingroia, soprattutto se imbarcherà Di Pietro, non uscirà dalla contraddizione in cui ci siamo dibattuti in questi anni, per cui andava bene tutto quello che strepitava contro B., e più forte strepitava meglio andava. Avendo firmato sia il manifesto per la costituzione di Alba sia l'appello Cambiare si può, mi è stato chiesto di votare a un referendum on line per decidere se questo gruppo deve entrare o meno nella nascente lista Ingroia. Io conseguentemente alle cose che ho scritto adesso, ho appena votato no. Naturalmente, visto che i tempi stringono, non ci sarà tempo per costruire un'altra cosa e quindi in campo, a sinistra del Pd, rimarrà soltanto questa nuova lista. Non mi pare un grande risultato per la sinistra radicale italiana.

sabato 29 dicembre 2012

"Dopo aver fatto..." di Charles Reznikoff


Dopo aver fatto tutto il giorno il lavoro con cui mi guadagnavo da vivere,
ero stanco. Ora il mio lavoro ha perso un altro giorno,
pensavo, ma iniziavo lentamente
e lentamente la mia forza tornava.
Certamente la marea viene due volte al giorno.

martedì 25 dicembre 2012

Storie (IX). "Il tallone di Achille..."

Strepsiade sarebbe arrivato a Tebe il giorno dopo e ancora non sapeva come avrebbe ucciso Achille piè veloce. L'aedo che aveva cantato la storia dell'ira di Achille - Strepsiade lo aveva conosciuto, vecchissimo e cieco, e aveva imparato da lui quei bellissimi versi - si era fermato al momento della morte di Ettore, facendo comunque capire che a quel punto sarebbe inevitabilmente arrivata la morte per il figlio di Teti. A sua volta l'aedo che aveva raccontato la presa di Troia - quello che aveva inventato la storia del cavallo - presupponeva la morte di Achille, tanto che tra i combattenti di quella notte fatale aveva inserito Neottolemo, il figlio dell'eroe. Quindi Achille era morto prima della caduta di Troia, ma non si sapeva come. Gli aedi della Tessaglia cercavano di far passare la versione secondo cui Achille sarebbe stato ucciso da una folgore di Zeus; il piè veloce era l'eroe della loro terra ed era naturale che vantassero per lui un uccisore divino. A Strepsiade questa storia non piaceva, la considerava troppo banale: un eroe invincibile poteva essere ucciso soltanto dal fuoco, ma quell'espediente lo avevano già usato con Eracle. Comunque sia, Strepasiade era stato a Tebe un anno prima e aveva promesso che la prossima volta avrebbe cantato la morte di Achille, ma si stava avvicinando alla città di Cadmo e non aveva idea su come risolvere il problema.
Prima o poi - rifletteva Strepsiade, mentre camminava da solo nel bosco - dovremo riunirci tutti noi aedi e definire una volta per sempre questi punti fondamentali. Certo ogni aedo poteva cambiare l'altezza del cavallo o il catalogo delle navi, tanto il pubblico non si ricorda mai i numeri. Non è necessario neppure definire esattamente l'ordine dei viaggi di Odisseo: al pubblico importa poco se ha incontrato prima Polifemo o Circe. Ma ci sono cose su cui bisogna trovare un accordo, ad esempio la morte di Achille.
Strepsiade pensava a queste cose, quando sentì una fitta improvvisa al tallone sinistro, si piegò e fece cadere la cetra. Mentre si toccava il tallone dolorante, all'improvviso uscì dai cespugli un ragazzo vestito di stracci: fu come un fulmine, afferrò la cetra caduta e cominciò a fuggire. L'aedo, superata la sorpresa e capita la situazione,  si mise a correre inseguendo il giovane ladro, che evidentemente non si aspettava quella reazione. Il ragazzo si voltò e così inciampò in un grosso tronco; Strepsiade ne approfittò e riuscì a prenderlo. "Ti prego, lasciami. Riprenditi questa e lasciami andare". L'aedo riprese la sua cetra, controllò che non si fosse rotta e si sedette ansimando sul grosso tronco. Il ragazzo stava per scappare, ma Strepsiade gli chiese di fermarsi e poi gli domandò: "Ragazzo, cosa mi hai fatto al tallone?". "Ti ho colpito con la mia cerbottana, ma tu come sei riuscito a rialzarti e a correre? Di solito quelli che colpisco cominciano a zoppicare e così io riesco a fuggire". "Ragazzo, sono molti anni ormai che cammino per la strade della Grecia, e sempre scalzo, così i miei piedi sono diventati duri e callosi", e mentre diceva così si toccava il tallone colpito. "E tu, ragazzo, vivi così, derubando i viandanti?". Il giovane abbassò lo sguardo e sembrò in quel momento ancora più giovane. L'aedo gli disse "Tieni questo pezzo di pane". Il ragazzo si sedette anche lui sul tronco e cominciò a mangiare, in silenzio; Strepsiade rimase in silenzio, continuando a toccarsi il tallone.
"Ragazzo, sai chi è Achille piè veloce?". "Certo, un giorno un cantastorie è venuto nel villaggio dove vivevo e ha raccontato che ha ucciso Ettore sotto le mura di Troia e che ne ha trascinato il cadavere, legato al suo carro, straziandolo. Ma poi il vecchio Priamo è andato da solo nell'accampamento degli achei e l'ha supplicato di rendergli il corpo del figlio e il piè veloce ne ha avuto pietà, vedendo in lui suo padre". "E sai come è morto Achille?". "No, questo non l'ha raccontato". "Già, non lo raccontano mai. Te lo dirò io. Un giorno, mentre gli eserciti si scontravano come al solito davanti alle porte Scee, Paride prese il suo arcò, si appostò e mirò al tallone sinistro di Achille, perché quello era l'unico punto vulnerabile del suo corpo. La madre Teti infatti lo tenne proprio per il tallone sinistro quando lo immerse nello Stige per renderlo invulnerabile ai colpi dei nemici.". Il ragazzo lo guardò stupito: "Lo hai inventato adesso?". Strepsiade sorrise: "Sì, grazie a te".
Poi continuò: "La tua memoria è buona quanto la tua mira?". "Sì". "Bene, allora ti insegnerò le storie di Achille e di Odisseo, diventerai un aedo. Verrai con me, anzi mi accompagnerai". Strepsiade prese dal suo sacco un pezzo di stoffa e si bendò. "Vedi ragazzo, un aedo cieco guadagna sempre di più, il pubblico pensa che sia più bravo. E adesso dobbiamo guadagnare di più, visto che siamo in due: e questo sarà il nostro segreto. Avanti, conducimi a Tebe, mentre ti racconto ancora come Paride caro agli dei uccise Achille piè veloce. A proposito, ragazzo, qual è il tuo nome?". "Al villaggio mi chiamavano Omero".  

sabato 22 dicembre 2012

dal Verbale della seduta dell'Assemblea Costituente di lunedì 22 dicembre 1947

Presidente
L'ordine del giorno reca: Votazione finale a scrutinio segreto della Costituzione della Repubblica italiana. Ha facoltà di parlare l'onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.

Ruini
Onorevoli colleghi, con la seduta di poche ore fa il compito dell'Assemblea Costituente può dirsi adempiuto. Ecco il testo definitivo della Costituzione, che mi appresto a consegnare al Presidente dell'Assemblea.
Era un compito difficile e faticoso. Il Comitato di redazione è apparso molte volte quasi una mitica unità; i suoi membri si sono divisi ed hanno combattuto fra loro; ma dopo tutto vi è stato, e si rivela oggi, uno spirito comune, uno sforzo di unità sostanziale; ed oggi il Comitato compatto sente la responsabilità e la solidarietà del suo lavoro, ed è orgoglioso di averlo portato a termine. Questo io devo dichiarare, a suo nome, all'Assemblea e ringraziarla di aver sanzionato l'opera nostra.
Questa è un'ora nella quale chi è adusato alle prove parlamentari, chi è stato in trincea, chi ha conosciuto il carcere politico, è preso da una nuova e profonda emozione. È la prima volta, nel corso millenario della storia d'Italia, che l'Italia unita si dà una libera Costituzione. Un bagliore soltanto vi fu, cento anni fa, nella Roma repubblicana di Mazzini. Mai tanta ala di storia è passata sopra di noi.
E ciò avviene in una congiuntura non ancora definita, in un processo di trasformazione ancora in cammino, in cui alcuni istituti vecchi non sono ancor morti, ed altri nuovi non sono ancora interamente vivi. Esistono due crepuscoli tra il giorno e la notte: questo che ora scorgiamo sarà per la nostra Italia crepuscolo di aurora e non di tramonto.
Dobbiamo darci la nostra Costituzione in una situazione tragica; dopo la disfatta; dopo l'onta di un regime funesto. Dobbiamo cercare di costruire qualche cosa di saldo e di durevole, mentre viviamo in piena crisi politica, economica, sociale. Ebbene, vi siamo riusciti. L'Italia darà un'altra prova di ciò che è stato il segno della sua storia e la rende inconfondibile con le altre nazioni: l'Italia è la sola che abbia saputo e saprà, risorgendo, rinnovare e vivere fasi successive ed altissime di nuove civiltà.
Questa Carta che stiamo per darci è, essa stessa, un inno di speranza e di fede. Infondato è ogni timore che sarà facilmente divelta, sommersa, e che sparirà presto. No, abbiamo la certezza che durerà a lungo, e forse non finirà mai, ma si verrà completando ed adattando alle esigenze dell'esperienza storica. Pur dando alla nostra Costituzione un carattere rigido, come richiede la tutela delle libertà democratiche, abbiamo consentito un processo di revisione, che richiede meditata riflessione, ma che non la cristallizza in una statica immobilità. Vi è modo di modificare e di correggere con sufficiente libertà di movimento. E così avverrà; la Costituzione sarà gradualmente perfezionata; e resterà la base definitiva della vita costituzionale italiana. Noi stessi - ed i nostri figli - rimedieremo alle lacune ed ai difetti, che esistono, e sono inevitabili.
Critiche sono venute anche da questo banco; ma non ci dobbiamo abbandonare ad un abito di auto-denigrazione, che sembra talvolta un tristo retaggio italiano. Nessuna Costituzione è perfetta. Tutte le volte che se n'è fatta una, sono risuonati lamenti e deprecazioni fra i costituenti. Ciò è avvenuto, anche subito dopo che a Filadelfia fu votata, un secolo e mezzo fa, la Costituzione nord-americana; che ora è giudicata la migliore di tutte!
Un giudizio pacato sui pregi e sui difetti della nostra Carta non può essere dato oggi, con esauriente completezza. Difetti ve ne sono; vi sono lacune e più ancora esuberanze; vi sono incertezze in dati punti; ma mi giungono ormai voci di grandi competenti dall'estero, e riconoscono che questa Carta merita di essere favorevolmente apprezzata, ed ha un buon posto, forse il primo, fra le Costituzioni dell'attuale dopoguerra. Noi, prima di tutti, ne riconosciamo le imperfezioni; ma dobbiamo anche rilevare alcuni risultati acquisiti.
I «principi fondamentali» che sono sanciti nell'introduzione, e che possono sembrare vaghi e nebulosi, corrispondono a realtà ed esigenze di questo momento storico, che sono nello stesso tempo posizioni eterne dello spirito, e manifestano un anelito che unisce insieme le correnti democratiche degli «immortali principi», quelle anteriori e cristiane del sermone della montagna, e le più recenti del manifesto dei comunisti, nell'affermazione di qualcosa di comune e di superiore alle loro particolari aspirazioni e fedi.
Nella enunciazione dei diritti e doveri del cittadini, se la Francia, che ha una tradizione superba di tali dichiarazioni, ha potuto rimettersi ad esse, noi, che non l'abbiamo, siamo tenuti a formulare noi, per la prima volta, questi diritti e doveri. Lo abbiamo fatto non senza vantaggi e passi avanti; e qui le esigenze etico-politiche hanno ceduto il posto alla tecnica più precisa e concreta. Nessuna altra Carta costituzionale contiene un sistema così completo e definì Lo di garanzie di libertà, ed alcuni istituti non sono privi di novità; mi hanno segnalato appunto la nullità delle misure di polizia non comunicate e convalidate subito dalla Magistratura, ed il diritto di associazione, inteso nel senso che chi ha diritto di svolgere singolarmente un'attività può farlo anche in forma costituzionale. Per il suo tecnicismo giuridico - costituzionale (e per la struttura e l'architettonica dell'intera Costituzione) la nostra Carta è una cosa seria.
Nessuno si deve scandalizzare se nei testi costituzionali è entrata - ormai da tempo - la nota dei rapporti economici. Le direttive che noi abbiamo formulato aprono, con la maggior adeguatezza possibile, la via a progressive riforme verso quella che deve essere ormai, lo abbiamo detto nel primo articolo, la democrazia basata sul lavoro; e nel tempo stesso escludono, proprio per lo sforzo di tracciare concreti istituti, i metodi rivoluzionari e violenti.
La seconda parte della Costituzione - ordinamento della Repubblica - ha presentato gravi difficoltà. Si tenga presente che nell'edificare la nostra Repubblica non abbiamo trovato, come in altri paesi, continuità di tradizione. Avevamo tutto da fare. Non abbiamo risoluto con piena soddisfazione tutti i problemi istituzionali. Ad esempio, per la composizione delle due Camere ed il loro sistema elettorale, rimesso del resto alla legge ordinaria. Ma in complesso si è seguita una linea media ed equidistante dai due estremi. Da un lato, dalle suggestioni, talvolta inconsapevoli, in cui cadono certuni che hanno sempre davanti agli occhi i congegni del passato, e non si sono ancora persuasi che il potere del re è per sempre caduto. Dallo opposto lato, dalle visioni degli estremisti che idealizzano un governo di assemblea e di convenzione, di cui tutti gli altri poteri sarebbero semplici commessi ed appendici. Ne ho parlato qui più volte; anche oggi confermo che le soluzioni adottate erano, dopotutto, le sole possibili, in attesa che l'esperienza indichi ulteriori processi ed adattamenti. Certo è che - pur non entrando nella via, almeno parziale, di alcuni poteri riservati al Capo dello Stato senza correlativa responsabilità ministeriale - il Presidente della Repubblica italiana è tutt'altro che un fantoccio. Certo è che, mantenendo la indeclinabile condizione della fiducia delle Camere, si è cercato di evitare le sorprese e la soverchia instabilità dei governi. E certo è - per ritornare alla parte tecnica - che più di ogni altra Costituzione la nostra definisce e precisa gli istituti del decreto legge, del decreto legislativo, della formazione e della gerarchia delle leggi.
Per quanto concerne la magistratura, vi possono essere rilievi e riserve; ma in sostanza si è fatto un passo decisivo, il solo possibile, non ancora raggiunto in molti altri paesi, verso la unicità della giurisdizione, con l'obbligo di trasformare in sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari le attuali giurisdizioni speciali, esclusi soltanto per necessità imprescindibili delle loro funzioni il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.
La nostra Costituzione affronta lo spinoso problema dell'ordinamento regionale. Molti sono i dubbi; e vi possono essere inconvenienti; ma non si poteva non andare incontro ad una irresistibile tendenza; vi sono riforme storiche che non si possono evitare; e si sono di fatto predisposti i nuovi istituti in modo che la prova concreta e l'adattamento della esperienza, consentirà di dare ad essi maggiore o minore ampiezza, salvaguardando in ogni caso la necessità suprema della unità ed indivisibilità della patria.
Perdonatemi se ho creduto necessario rivendicare non solo le ombre, ma le luci della Costituzione. Si è fatto il possibile: nessuna altra Carta ebbe una più minuta preparazione; nessuna fu più a lungo discussa; per nessuna si è fatto con maggior completezza il punto, e si è condotto quasi un esame di coscienza di tutti i problemi più gravi del momento. È un eccesso ? Sì; ma non è senza significato che un popolo, nell'accingersi ad un rinnovamento, abbia voluto compiere quest'esame di coscienza.
La formulazione della nostra Costituzione non poteva che svolgersi con metodi democratici. Noi abbiamo assistito - foggiandolo noi stessi- a ciò che è un processo di formazione democratica e cioè collettiva. Una Costituzione non può più essere l'opera di uno solo, o di pochissimi. Deve risultare dalla volontà di tutti i rappresentanti del popolo; e i rappresentanti del popolo non si conducono con la violenza; l'unico modo, in democrazia, di vincere è di convincere gli altri. Che cinquecentocinquanta individui prendano parte (e tutti credono di aver eguale competenza) nella formulazione degli articoli di una Costituzione, ha fortissimi inconvenienti; non si fa così per i codici; ma come si fa a delegare la stesura della Costituzione? Con molta pazienza la tecnica riesce a farsi comunque strada; ed a rimediare, se non a tutti, a molti inconvenienti. Ciò avverrà sempre più, con l'autolimitazione volontaria e la maggior educazione politica di domani. Intanto vi è anche un vantaggio: che tutti i rappresentanti del popolo, tutte le correnti del popolo da essi rappresentate possono dire: questa Costituzione è mia, perché l'ho discussa e vi ho messo qualcosa.
Onorevoli colleghi, l'esigenza dell'opera collettiva, della collaborazione di tutti, in democrazia è l'inevitabile, ed è la forza stessa della democrazia. E vi è un'altra cosa inevitabile, una conseguenza di questa stessa esigenza: la Costituzione, come ogni opera collettiva, non può che essere, come si dice in senso deteriore, un «compromesso». Preferisco dire con il purissimo Cattaneo che non può essere se non «una transazione», come è tutta la storia. Ed è «equilibrio»; questa è la caratteristica della nostra Costituzione; un equilibrio realizzato, come era possibile, fra le idee e le correnti diverse. Mi si dica in quale altro modo - forse con una prevalenza forzata, forse con un totalitarismo costituzionale - si sarebbe potuto fare una Costituzione democratica. Anche le altre Costituzioni storiche, che oggi ci sembrano monolitiche, furono sempre il risultato di transazioni e di equilibri.
Quando oggi voteremo, il largo suffragio che daremo alla nostra Costituzione attesterà che, malgrado i dissensi e le lacerazioni, è scaturita dalle viscere profonde della nostra storia, la convergenza di tutti in una comune certezza; il sicuro avvenire della Repubblica italiana.
(Vivissimi, generali applausi)
Con queste dichiarazioni mi onoro consegnare al Presidente dell'Assemblea Costituente il testo definitivo della Carta costituzionale.
(L'Assemblea sorge in piedi - Vivissimi, generali, prolungati applausi - Da una tribuna un gruppo di garibaldini intona l'Inno di Mameli, ripreso dall'Assemblea e dal pubblico delle tribune - Rinnovati, vivissimi applausi)

Presidente
Do atto all'onorevole Ruini della consegna del testo definitivo della Costituzione, al cui perfezionamento di forma e di sostanza egli ha dato opera diuturna ed appassionata fino, possiamo ben dirlo, a poche ore fa. Ancora stamane noi lo abbiamo udito mentre forniva a noi tutti gli ultimi chiarimenti che ci erano necessari per metterci in condizioni di procedere ora al voto definitivo.
Credo che non ci fossimo resi conto tutti, in un primo momento, della gravità e dell'importanza del compito che avevamo affidato al Presidente della Commissione dei Settantancinque. È certo che molti di noi forse ancora non conoscono la somma di fatiche che il suo assolvimento ha imposto all'onorevole Ruini.
Voglio esprimere la mia riconoscenza personale all'onorevole Ruini, senza la cui valida collaborazione io stesso non avrei potuto rispondere alla fiducia riposta in me dall'Assemblea. E credo che se esprimo all'onorevole Ruini anche il ringraziamento dell'intera Assemblea, questa darà alle mie parole plauso e consenso.
(Vivissimi generali applausi).
Indico la votazione a scrutinio segreto sulla Costituzione della Repubblica italiana.
Si procederà alla votazione a scrutinio segreto con appello nominale. Pertanto ogni singolo deputato, il cui nome sarà chiamato, verrà a deporre nell'urna il suo voto.
Si faccia la chiama per ordine alfabetico, cominciando dalla lettera A.

Molinelli fa la chiama.
(Segue la votazione - Quando il Presidente Terracini si reca a votare l'Assemblea sorge in piedi - Vivissimi, prolungati, generali applausi cui si associano i giornalisti delle tribune della stampa)

[...]
Presidente
Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto. Invito gli onorevoli Segretari a numerare i voti.
Proclamo il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti ... 515
Maggioranza ... 258
Voti favorevoli ... 453
Voti contrari ... 62

(L'Assemblea approva - L'Assemblea si leva in piedi - Vivissimi, generali, prolungali applausi cui si associano i giornalisti delle tribune della stampa - Si grida: Viva la Repubblica! - Nuovi, prolungati applausi)

giovedì 20 dicembre 2012

Considerazioni libere (327): a proposito di destra e sinistra...

Indubbiamente questi dodici mesi non sono passati invano: la politica in Italia è cambiata in maniera profonda dal novembre scorso, ossia da quando è nato il governo Monti. Certamente vedere ogni momento e su ogni canale televisivo la maschera grottesca di B. sembra riportarci indietro di quasi vent'anni e offre spunti inesauribili ai comici; l'altra sera per Benigni è stato fin troppo facile ironizzare sull'ennesima discesa in campo di B. e sulla ripetizione ossessiva dei suoi più collaudati "cavalli di battaglia", come fanno tutti i vecchi artisti in disarmo. Comunque al di là di queste note di colore, il governo tecnico segnerà uno spartiacque nella storia d'Italia di questi anni. Per la destra come per la sinistra.
In questi ultimi vent'anni la destra italiana, la destra vera - quella del potere economico e del mantenimento dei privilegi, quella classe fatta di industriali e di grandi burocrati, di banchieri e di alti prelati, di agrari e di rentiers, insomma di conservatori e di ricchi di ogni sorta - ha sostanzialmente delegato la propria rappresentanza politica a B. e ai suoi alleati - leghisti, post-fascisti, centristi di varia natura - ossia a un populismo fascistoide, maschilista e clericale, antieuropeo e individualista, che è riuscito, nel bene e nel male, a rappresentare gli umori profondi, e spesso non dichiarati, di una parte ampia del nostro paese - tendenzialmente maggioritaria - grazie anche all'influenza sui mezzi di comunicazione concessa a quello che è diventato il monopolista di fatto del sistema televisivo italiano. Questa alleanza tra la destra "perbene" e il populismo berlusconiano ha goduto anche dell'appoggio, elettoralmente decisivo nelle regioni del sud, della criminalità organizzata, che in questa fase, e grazie a questo accordo, ha visto crescere la propria influenza economica e imprenditoriale nell'intero paese.
Per la destra italiana non si tratta di una novità: la stessa manovra fu fatta subito dopo la prima guerra mondiale per arginare la crescita del movimento socialista. Allora - come è noto - lo strumento fu il fascismo mussoliniano e sappiamo purtroppo come è andata a finire e che conseguenze nefaste ebbe per il nostro paese la decisione della monarchia, dell'esercito, del Vaticano e dei grandi potentati economici di sostenere il fascismo. Nel secondo dopoguerra le cose sono cambiate, anche perché nel frattempo era profondamente cambiato lo scenario internazionale: il mondo era diviso rigidamente in due blocchi e l'Italia era stata "assegnata" agli Stati Uniti. La Democrazia cristiana garantiva questo equilibrio internazionale e naturalmente i conservatori italiani accettarono di delegare la loro rappresentanza politica a questo partito, che pure aveva caratteristiche anomale rispetto agli altri partiti del popolarismo europeo. Ormai sappiamo che in Italia si organizzò, oltre a questa destra "visibile" e istituzionale, una destra "invisibile" che in diverse occasioni mise sotto tutela le istituzioni, specialmente quando si registravano tentativi di riformare una società che si sarebbe voluta sempre più statica: le stragi - da piazza Fontana alla stazione di Bologna - l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, la connivenza con le Brigate rosse per favorire la morte di Aldo Moro sono tra le pagine più tristi di questa storia della peggiore destra italiana. In sostanza ogni tentativo di cambiamento, sociale prima che politico, fu immediatamente tarpato da questo potere oscuro. La fine dell'Unione sovietica e di quell'equilibrio internazionale basato su due superpotenze ha richiesto di trovare nuove soluzioni anche al sistema politico italiano. E' a questo punto che comincia l'avventura politica di B., finita come sappiamo, dopo quasi vent'anni, con l'allontamento forzato dello stesso B. dal governo e la nascita, al di fuori di ogni consolidata prassi costituzionale, dell'attuale governo. Da quel momento finalmente la destra imprenditoriale e finanziaria ha deciso di gestire da sé e direttamente la propria rappresentanza politica, senza delegarla ad altri: indubbiamente si tratta di un elemento di chiarezza. Bisogna dire che questo atto di coraggio, che ha richiesto una preparazione di circa vent'anni, vista la flemma democristiana di molti dei protagonisti della vicenda - il cui eroe è il manzoniano don Ferrer - è stato possibile perché ormai in tutto il mondo occidentale queste forze hanno ormai preso il sopravvento, da un punto di vista culturale prima ancora che politico. L'ideologia mercatista e ultraliberista è ormai diventata il comune sentire delle nostre opinioni pubbliche. Quante volte abbiamo sentito dire in uno dei telegiornali che vediamo ogni sera che la crescita dei mercati azionari è un dato positivo? Sarà un dato positivo per chi possiede delle azioni, per i padroni di quelle aziende, ma non è detto che sia un dato positivo per noi o per chi lavora in quelle stesse imprese. Il mondo si sta sempre più polarizzando tra i pochissimi che hanno molto e i moltissimi che hanno poco e i primi, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, controllano sempre più direttamente il governo, cercando naturalmente di conservare, e possibilmente di aumentare, le proprie ricchezze e i propri privilegi.
E questo spiega anche come questo anno di governo tecnico abbia cambiato in profondità la sinistra italiana. A dire la verità la trasformazione radicale della sinistra è cominciata prima, con la nascita del Partito democratico, la decisione di fare un unico partito unendo gli eredi del Pci e quelli della cosiddetta sinistra democristiana, e di conseguenza la mancata adesione al Partito socialista europeo. In Italia il Partito democratico è nato con l'obiettivo dichiarato di porsi al di sopra della contrapposizione destra-sinistra: naturalmente questa è stata un'ottima notizia per quelli di destra, che invece hanno continuato a perseguire i propri obiettivi, senza neppure l'intralcio di un'opposizione.
Quello che è successo in queste ultime settimane rende evidente questa dinamica. B., che ha capito finalmente di essere stato scaricato dalla destra "perbene" - immagino come si sarà sentito quando alla riunione del Ppe si è trovato davanti Monti: davvero uno "scherzo da prete" - ha deciso di giocare il tutto per tutto e di vendere cara la pelle. Facciamo attenzione: l'uomo è pericoloso, ormai non ha più nulla da perdere e potrebbe avere in serbo delle spiacevoli sorprese. E c'è un'Italia che intuisce che se non ci sarà più lui la musica potrebbe anche cambiare e cercherà di difendere i propri interessi: il voto a B. potrebbe essere molto superiore a quello che lasciano credere i sondaggi. E come reagirà la criminalità organizzata di fronte a un cambio così radicale? Tra il '92 e il '93 la mafia fece sentire la propria voce in maniera violentissima. Per ora pare che abbia scelto di tenere un profilo molto più basso, ma il rischio di un cambio di strategia, per quanto remoto, c'è sempre.
Mentre cresceva il disimpegno di B. aumentava l'impegno del Pd per sostenere il governo Monti e qui siamo a uno dei paradossi di questa svolta. Il centrosinistra ha permesso al proprio avversario di crescere, di svilupparsi. Senza il Pd ora Monti non sarebbe nelle condizioni di battere lo stesso Pd. Perché questo è avvenuto? Di preciso non lo so. Forse qualcuno non condivide la mia analisi - è naturalmente legittimo - e immagina che il sistema politico italiano si articoli in tre aree: la destra, presidiata da B., il centro montiano, la sinistra con il Pd e i cespugli e che per il Pd l'unico modo per vincere sia quello di unire centro e sinistra. Anche se non la condivido, c'è qualcosa di vero in questa ipotesi: in fondo le uniche volte in cui la sinistra è riuscita ad andare al governo è stato quando si è riusciti a stabilizzare - pur con molte incomprensioni e molti sospetti, che alla fine si sono rivelati esiziali - un'alleanza tra questi due poli. Probabilmente qualcuno pensava - e pensa - che sia necessario per l'Italia avere due schieramenti di tipo europeo, uno legato al Ppe e uno al Pse, così come avviene in tutti gli altri paesi europei e che per far questo sia necessario togliere di mezzo B., costi quel che costi. L'obiettivo in sé è naturalmente condivisibile - direi quasi sacrosanto - ma purtroppo ha avuto un costo altissimo, dal momento che il Pd ha rinunciato in partenza a essere il rappresentante della socialdemocrazia in Italia. In questi mesi il Pd ha accettato la riforma costituzionale che ha introdotto l'obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione, un atto simbolico, che insieme all'adesione convinta che Bersani fa ogni giorno ai principi della cosiddetta "agenda Monti", di fatto ha posto questo partito in una sorta di subalternità culturale al montismo di destra. Così l'opzione alle prossime elezioni non sarà tra una proposta rigorosamente di destra e una di sinistra o di centrosinistra o socialdemocratica - come la volete chiamare - ma sarà tra una proposta rigorosamente di destra e una di destra meno rigorosa, con qualche attenuazione, con gli angoli meno smussati. Per noi di sinistra non sarà una scelta facile.

martedì 18 dicembre 2012

Considerazioni libere (326): a proposito di concorsi...

Ho partecipato ai miei primi concorsi pubblici tra il '97 e il '98, subito dopo aver finito l'università. Gli altri partecipanti erano più o meno miei coetanei; io forse contribuivo ad alzare un po' la media, visto che mi ero laureato con "comodo". Nell'estate del '99 - quindi a 29 anni, avendo davanti anni molto produttivi - avrei potuto iniziare a lavorare in un Comune, ma rifiutai perché intanto avevo cominciato a fare un altro mestiere. Sono tornato a fare concorsi tra il 2009 e il 2010, più di dieci anni dopo le mie prime esperienze concorsuali. Con mia sorpresa, mi sono ritrovato ancora una volta tra coetanei, una masnada di "ex-giovani", in genere sposati, molti già con prole; anzi in questa nuova tornata ero tra i meno "vecchi" del gruppo. Ho ricominciato a lavorare in un Comune nel 2011; certamente a poco più di 40 anni sono ancora giovane e, grazie alle riforme del sistema previdenziale che si sono via via succedute, per me e per quelli della mia generazione l'orizzonte della pensione si è progressivamente allontanato - se non è già decisamente sfumato - eppure penso di essere, rispetto a dieci anni fa, un po' meno capace di apprendere cose nuove, in un momento in cui nella pubblica amministrazione questo è un elemento essenziale. L'esperienza è certamente importante, così come quella capacità di smussare gli angoli che si acquista con il passare degli anni, ma penso che lo sia altrettanto la freschezza dell'apprendimento e anche una certa irruenza e il desiderio di cambiare le cose che sono più tipiche di un giovane.
Al di là di queste note personali, in quei mesi di concorsi mi ha colpito questo brusco alzarsi dell'età media, che ho interpretato come un elemento negativo, il segnale che la crisi si stava estendendo e stava colpendo sempre più duramente la mia generazione. Mi ha colpito anche il fatto che molti, come me, erano disposti a spostarsi parecchio pur di riuscire a lavorare e naturalmente questo spostamento è tanto più un sacrificio se si ha una famiglia. Un altro segnale della crisi incombente, oltre all'età media dei partecipanti, è stato anche notare i titoli di studio dei concorrenti: nell'autunno del 2010, a Firenze, per un posto di categoria B, ci ritrovammo in tantissimi ed eravamo quasi tutti laureati.
Ho ripensato a questa mia esperienza e a queste personalissime constatazioni empiriche, leggendo che l'età media delle persone che hanno partecipato al concorso della scuola è 38 anni. Al di là di quello che avviene in questi giorni nel panorama politico - che francamente non presenta molte novità - credo che questo concorso sia il fatto più importante di questi giorni in Italia. Spesso ci sentiamo ripetere discorsi altisonanti sull'importanza della scuola: è certamente vero, purtroppo a queste dichiarazioni di principio non seguono i fatti. Gli articoli dei principali organi di informazione trattano del concorso della scuola come di un fenomeno di colore. Oggi ad esempio leggo sul Corriere che ha partecipato anche la moglie di Renzi, superando la prova selettiva; francamente non me ne importa nulla. Così come mi paiono poco rilevanti gli immancabili servizi su calciatori e miss che fanno l'esame di maturità.
Io non amo molto la retorica giovanilistica, non mi iscrivo al partito dei "rottamatori" - peraltro questa retorica si accompagna spesso al persistere della peggior gerontocrazia - ma penso che questo stato di fatto faccia perdere almeno dieci anni alla nostra società. Non sarebbe meglio che nella scuola e nella pubblica amministrazione ci fosse un'iniezione massiccia di persone di 30 anni piuttosto che di 40, come sta avvenendo ora? Perdere questi dieci anni di energia, di competenze, di gioventù non dovrebbe essere considerato uno scandalo da tutti? Poi so bene che questo concorso serve anche a dare una soluzione - lo speriamo vivamente - a una parte di quelle persone che da anni lavorano già nella scuola e che sono precari, ma credo comunque che una riflessione su questo tema andrebbe fatta. Pensate solo alla consuetudine con le nuove tecnologie: noi, anche se ci siamo adattati al nuovo mondo delle rete, non possiamo certo essere considerati dei "nativi digitali". I nostri figli, quelli che adesso cominciano la scuola, lo sono e sarebbe meglio che lo fossero anche i loro insegnanti, o almeno una parte di loro. Una riflessione sulla scuola deve partire prima di tutto dalla sua risorsa più importante, ossia gli insegnanti, ma mi pare che questo tema non sia all'ordine del giorno.
C'è poi un altro tema su cui mi piacerebbe che si aprisse un confronto. Capisco che per selezionare tante persone sia necessario trovare qualche sistema efficace e rapido e devo ammettere che sono rimasto piacevolmente stupito che il ministero sia riuscito a mettere in piedi un sistema come questo che sembra quasi quello di un normale paese occidentale. Ma siamo sicuri che i quiz siano il sistema giusto per selezionare i futuri insegnanti? Io non ne sono affatto sicuro. Certo chi risponde correttamente a cinquanta domande in cinquanta minuti dimostra una serie di qualità notevoli, una mente elastica, una capacità di cogliere al volo una questione, una certa trasversalità di competenze, una buona memoria, ma siamo certi che tutto questo basti a farne un insegnante capace? Naturalmente non esiste una ricetta del buon insegnante. Sappiamo che alcune persone che già insegnano non sono riuscite a superare questa prima fase. Un terzo dei partecipanti non è riuscito a passare: sono tutti inadatti all'insegnamento? O è il sistema incapace di selezionare le persone giuste? Francamente non lo so, ma temo che non lo sappiano molti altri.

lunedì 17 dicembre 2012

"Come te" di Roque Dalton


Io, come te,
amo l’amore, la vita, il dolce incanto
delle cose, il paesaggio
celeste dei giorni di gennaio.

Anche il mio sangue freme
e rido attraverso occhi
che hanno conosciuto il germinare delle lacrime.

Credo che il mondo è bello,
che la poesia è come il pane, di tutti.

E che le mie vene non finiscono in me
ma nel sangue unanime
di coloro che lottano per la vita,
l’amore,
le cose,
il paesaggio e il pane,
la poesia di tutti.

domenica 16 dicembre 2012

"Gli amici di Eraclito" di Charles Simic


Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.

Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.

Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l'ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.

sabato 8 dicembre 2012

Considerazioni libere (325): a proposito di una crisi...

C'è la crisi di governo. O forse non c'è. A essere sinceri la situazione è strana e costituzionalmente inedita: il partito che ha la maggioranza relativa in parlamento e che quindi è il maggior sostegno dell'attuale esecutivo ha pubblicamente annunciato che non voterà più la fiducia al governo - e si è coerentemente astenuto sia al senato che alla camera - ma il presidente del consiglio non si è dimesso, continuando anzi a preparare decreti che rischiano concretamente di non essere convertiti in legge. Siamo ormai al di là - e al di fuori - della lettera e dello spirito della Costituzione del '48, nonostante quel galantuomo del presidente della repubblica tenti di rassicurarci del contrario. D'altra parte già questo governo è nato in maniera anomala - per usare un eufemismo - e al di fuori delle regole costituzionali: il governo che c'era prima non è stato sfiduciato dal parlamento, eppure è stato costretto alle dimissioni, sotto la pressione delle autorità finanziarie internazionali e dei più importanti governi europei, e il presidente della repubblica ha deciso in una notte il nome del successore, al di fuori della prassi e delle dinamiche parlamentari.
Per un momento dimenticate che il precedente presidente del consiglio era B. e che tutti abbiamo tirato un respiro di sollievo quando lo abbiamo visto uscire dimissionario dal portone del Quirinale, dimenticate la gioia di poter dire che non era più lui il capo del governo; lo so è difficile dimenticare l'entusiasmo di quei giorni, ma dobbiamo fare uno sforzo. Quel passaggio è avvenuto in maniera irrituale, se non apertamente anticostituzionale, ed è inevitabile che anche la fine di un governo nato in quel modo avvenga sotto lo stesso segno. Questo per me è un problema molto grave ed è tanto più grave perché si fa finta di niente, pare che tutto sia normale, mentre normale non è: Monti avrebbe dovuto rimettere il mandato, Napolitano avrebbe potuto rifiutare le dimissioni, ma avrebbe comunque dovuto avviare le consultazioni. Adesso ci sono consultazioni senza dimissioni e probabilmente si troverà un accordo, al di fuori del parlamento, di cui i garanti saranno ancora una volta i governi europei e il presidente della Bce, per preparare le elezioni, una "crisi ordinata", secondo il neologismo inventato oggi da Alfano, per non spaventare i mercati. Sono sempre più convinto che la prima riforma costituzionale necessaria per questo paese sarebbe l'applicazione rigorosa della Costituzione, eliminando gli artifici e le prassi presidenzialiste di questi ultimi anni. Le vicende di questi giorni dimostrano ancora una volta che nel nostro paese - come nel resto d'Europa, anche se in forme diverse - c'è un deficit di democrazia; da qui io credo dovrebbe partire una radicale opposizione di sistema a questo stato di cose.
Naturalmente questi processi non avvengono mai per caso e se altri poteri hanno gradualmente preso il posto di quelli che c'erano prima la causa è prima di tutto l'insipienza di questi ultimi, la loro incapacità di offrire una reale prospettiva di governo, la loro incapacità di saper interpretare le aspettative di parti rilevanti della società e non solo quelle delle loro ristrette nomenclature e clientele. In politica, come in fisica, i vuoti si riempiono e quindi di fronte alla debolezza conclamata della politica italiana è stato naturale che altri abbiano svolto quel ruolo a cui negli anni le forze politiche hanno deliberatamente rinunciato.
Per tornare all'attualità, personalmente faccio fatica a pensare che quello che è avvenuto in questi giorni sia soltanto il frutto di un caso, non è "impazzita la maionese", come ho sentito dire da qualche commentatore, con scarsa fantasia. Io non amo molto quelli che si esercitano in analisi "dietrologiche", ma penso che le parole di Passera siano il frutto di un rischio calcolato, dette per alimentare una brace che covava da qualche tempo sotto la cenere. D'altra parte la situazione non poteva essere migliore: quando Passera ha parlato, lo spread era al minimo e difficilmente avrebbe potuto continuare a scendere, la vittoria di Bersani alle primarie ha capitalizzato intorno a quel leader e al suo partito un consenso vasto, esplicitato in questi giorni anche dalle dichiarazioni di voto - o almeno di interesse - di Squinzi e del direttore del Corriere, Napolitano è uscito - come'era prevedibile, vista l'evidente parzialità dei giudici - vittorioso dal confronto con la procura - almeno una parte della procura - di Palermo, sostenuta da una claque politica probabilmente troppo facinorosa e comunque decisamente "sinistra", le elezioni sono abbastanza vicine da rendere velleitario ogni tentativo di modificare la legge elettorale, che a tutti va bene così com'è. Quale migliore occasione che mettere il dito nella piaga e stuzzicare una persona come B., in cui purtroppo - per una serie di ragioni anagrafiche e cliniche prima ancora che politiche ed economiche - le ragioni del risentimento e del livore personale vengono prima di ogni altro interesse personale, per non parlare di calcolo politico. La reazione di B. era facilmente prevedibile, com'era prevedibile l'acquiescenza delle persone di cui si è circondato negli anni; era un'illusione pensare che Angelino diventasse un politico vero nello giro di un mese e comunque sempre con una tutela così ingombrante.
Adesso questa crisi-non crisi avrà un esito facilmente prevedibile, perché - come mi è capitato di scrivere "a caldo" l'altra sera - tutti i personaggi hanno finalmente ritrovato la loro parte in commedia e fanno quello che sanno fare. B. fa il rappresentante della destra eversiva e anticostituzionale, che comunque in Italia è molto più forte di quello che i "montiani" vogliono credere. Bersani fa l'uomo di centrosinistra pragmatico che può rassicurare sia i lettori del Corriere che quelli dell'Unità. E Monti fa Monti, continuando a difendere gli interessi di cui è legittimo e legittimato rappresentante. Nelle prossime elezioni ci sarà l'incognita Grillo - in democrazia peraltro qualche incertezza deve esserci, nonostante quello che spera l'uomo della Bce che vorrebbe evitare questi rischiosi passaggi elettorali; ma probabilmente Grillo sarà funzionale al risultato atteso, raccogliendo una parte di malcontento che altrimenti sarebbe andato alla destra rancorosa, senza rosicchiare troppo al centrosinistra "pulito", uscito vittorioso dalle primarie. Quindi, tutto bene madama la marchesa: Bersani a palazzo Chigi, Monti al Quirinale, il programma già scritto a Francoforte. Certo ci saranno un po' di diritti civili in più, ci saranno meno asprezze - non si ripeterà il pasticcio degli esodati - ma la linea è quella dettata dalla famosa lettera dell'agosto 2011, la linea che tanti positivi risultati sta portando in Grecia.
Io comunque, se fossi NapoMonti o DraMonti, starei attento a fare questi calcoli. In Italia "lorsignori" hanno troppo coccolato la destra berlusconiana, le hanno dato potere, denaro, le hanno permesso di avere giornali e di controllare gran parte del sistema televisivo, l'hanno usata per sconfiggere la sinistra, ma adesso quella destra lì - così tipicamente italiana - è cresciuta e, indipendentemente dalla sorte personale di B., sarà fatica toglierle lo spazio che la destra "perbene" le ha dato. E' una destra che conosciamo bene: sono quelli che si sono arricchiti grazie all'evasione fiscale, che dicono che le loro tasse sono troppo pesanti, ma che gli altri dovrebbero pagarne di più, sono quelli che non si vergognano a essere razzisti, ma che intanto fanno lavorare gli immigrati in nero o affittano loro casa - regolarmente senza contratto -, sono quelli che la domenica vanno a messa e difendono la tradizione e la sera vanno a puttane, quelli che si disperano se il loro figlio è omosessuale, perché è contro natura - come dice il papa - e non disdegnano i "servizi" dei trans, quelli che fanno affari con la malavita organizzata e quelli che ci guadagnano quando un loro amico diventa onorevole, sono quelli che difendono la famiglia, ma purché la donna stia al suo posto; tutti questi sanno che B. li rappresenta e che con lui la festa continuerà. E allora le prossime elezioni potrebbero riservare una sorpresa amara alla destra "europea" di Monti, di Montezemolo, di Draghi e - a quel punto - sarebbe una sorpresa amara per tutto il paese.

p.s. è l'8 dicembre: Leggo che Monti vuole dimettersi e che pare abbia deciso di far nascere la lista Monti; da un certo punto di vista credo sia un elemento di chiarezza, è giusto che anche lui conti le sue "corazzate"; ma, considerandolo da un'altra prospettiva, mi pare che le prossime elezioni saranno tutti contro B.: paradossalmente temo che questo finisca per aiutarlo.

lunedì 3 dicembre 2012

"Cosmologia di Caronte" di Charles Simic


Con solo una fioca lanterna
a indicargli dov'è
e ogni volta una montagna
di cadaveri freschi da caricare

portarli dall'altra parte
dove ce ne sono molti di più
direi che ormai dev'essere incerto
su quale sia la sponda

direi che non importa
nessuno si lamenta mai
guardar loro nelle tasche
in una qualche briciola di pane in un'altra una salsiccia

una volta ogni tanto uno specchio
o un libro che getta
fuori bordo nel fiume scuro
e rapido e freddo e profondo.

venerdì 30 novembre 2012

Considerazioni libere (324): ancora a proposito di un'attesa...

Qualche altra riflessione - dopo la nr. 323 - in questo tempo di attesa, tra le primarie e il ballottaggio, dopo il dibattito televisivo di mercoledì sera. Provando a essere il più oggettivo possibile - per quanto sia difficile, visto che si parla di politica - penso che sia stato un dibattito interessante. E anche utile. Provo a spiegarmi. Come ho ripetuto diverse volte - anche parlando delle presidenziali degli Stati Uniti - io penso che appuntamenti come questi servano molto più a motivare chi ha già deciso piuttosto che a convincere gli indecisi o a spostare i voti da una parte all'altra; a meno che non avvengano imprevedibili incidenti. E mercoledì sera tutto è filato liscio, Bersani ha fatto Bersani, con il passerotto e il tacchino, e Renzi ha fatto Renzi, con le maniche della camicia arrotolate; e lo hanno fatto molto bene. Leggendo i commenti in rete, sia quelli espressi immediatamente attraverso Twitter e Facebook sia quelli pubblicati "a freddo", gli estimatori di Bersani hanno detto che il vincitore è stato il segretario, così come quelli di Renzi hanno sostenuto che aveva vinto il sindaco di Firenze. Anche i commenti dei cosiddetti "esperti" erano in gran parte già stati scritti prima del dibattito. I commentatori del centrosinistra si sono divisi a seconda della loro personale preferenza o di quella del giornale in cui scrivono. I giornali "lepenisti" di cui è proprietario B. hanno detto che ha vinto Renzi, seguendo la linea dettata da Arcore. Anche gli "indipendenti" hanno detto che ha vinto Renzi, perché è di moda e più moderno dire così, perché dicendo così si fa la figura di quelli che capiscono le nuove forme di comunicazione, anche se molti di costoro scrivono ancora con la penna d'oca.
Il dibattito di mercoledì sera è stato utile non tanto al risultato finale delle primarie, ma a ribadire la centralità del Pd e del centrosinistra nel dibattito politico italiano. Anche grazie a questo appuntamento, a come si è svolto e a come è stato condotto, sembra che le primarie non servano a decidere, tra Bersani e Renzi, chi sarà il candidato alle prossime elezioni, ma già chi sarà il prossimo presidente del consiglio. A questo contribuisce lo stato confusionale in cui si trova la destra: per la prima volta da molti anni non è il centrosinistra a inseguire la destra, ma questa ad affannarsi dietro un avversario lanciato verso la vittoria. Ricordate come stavamo noi prima delle elezioni del 2001? Guardate quell'incredibile pezzo di satira in cui Guzzanti-Veltroni pensa a chi candidare e, scartati Leonardo Di Caprio, il nonno di Heidi, Topo Gigio e Amedeo Nazzari, annuncia sconsolato la candidatura di Rutelli. Noi avevamo già perso prima di cominciare, perché ci sentivamo perdenti e così ci hanno sentito gli elettori. Il fatto, ormai evidente, che B. attenda il risultato delle primarie per dire cosa farà è indicativo di questo clima, inusuale nel ventennio berlusconiano. Lo stesso Monti ha dato un segnale importante di questa attenzione dell'opinione pubblica verso il Pd: il giorno dopo la forte presa di posizione di Bersani a favore dell'ingresso della Palestina all'Onu, il presidente del consiglio ha deciso di cambiare la posizione del governo, in cui prevaleva il "neutralismo" atlantico e filoisraeliano dell'ambasciatore-ministro Terzi e della Farnesina. Adesso è il centrosinistra a tenere il banco e spesso il banco vince. Naturalmente il cupio dissolvi del centrosinistra è sempre dietro l'angolo: le polemiche di ieri sulle regole del ballottaggio e sull'acquisto di intere pagine sui quotidiani sono segnali potenzialmente inquietanti per un osservatore interessato alla vittoria di quello schieramento. Il rischio per il Pd di "andare ai materassi" c'è sempre.
Su questo punto delle regole permettetemi una riflessione ulteriore, perché mi pare illuminante. Le polemiche di questi giorni erano facilmente prevedibili perché erano già in nuce nella poca chiarezza con cui queste stesse regole erano state redatte e soprattutto perché ciascuno dei contendenti aveva già interpretato a proprio favore l'esito dell'estenuante mediazione allora raggiunta. I bersaniani volevano che potessero votare al secondo turno soltanto quelli già registrati per il primo turno, mentre i renziani volevano un secondo turno aperto; si decise allora il complicato meccanismo della registrazione con giustificazione, sotto il controllo del povero Stumpo. Non me ne vogliano gli amici renziani, ma questo atteggiamento di far finta di accettare una mediazione, con il retro pensiero che poi alla fine si farà in modo diverso è "dalemismo" puro, proprio quel vecchio modo di far politica che il loro leader vorrebbe rottamare. Purtroppo questo modo di fare è stato da sempre un carattere originario del Pd. Basti pensare alla questione dirimente dell'adesione del nuovo partito al Pse; gli ex-Ds pensavano che alla fine il Pd avrebbe aderito, gli ex-Margherita sostenevano che questa adesione non ci sarebbe mai stata, si decise di aspettare, e ciascuno pensava che alla fine gli altri avrebbero ceduto. E di esempi come questi, purtroppo, se ne possono fare molti altri, a volte - come nel caso dell'adesione al Pse - hanno vinto gli ex della Margherita, altre volte gli ex dei Ds e in molti casi - troppi - si è raggiunta una mediazione al ribasso. Su questo punto comunque dovrò tornare.
L'altra sera le differenze tra i due candidati sono emerse piuttosto bene, perché le differenze ci sono, nonostante i toni pacati del confronto. Per inciso questi toni, questa disponibilità a scherzare, è stata una componente del successo della serata e delle primarie in generale, dopo anni in cui il livello della discussione politica era costantemente fermo alla rissa, alle ingiurie, alle urla; credo che questo dovrebbe insegnare qualcosa anche a Grillo, che di questa cifra stilistica ha fatto una parte rilevante del proprio programma politico. Comunque l'altra sera agli elettori del centrosinistra e all'Italia è stata offerta la possibilità di scegliere tra due opzioni. Da una parte Renzi ha esplicitamente chiesto agli elettori di scegliere lui come futuro "sindaco d'Italia"; le sue proposte sono state più vaghe di quelle offerte da Bersani, i suoi programmi meno definiti. Scegliendo Renzi si sceglie una persona, un'idea di novità, una proposta di effettivo cambiamento generazionale e di - supposto - cambiamento di stile politico; Renzi non digerisce le alleanze - è il punto su cui è stato più chiaro - e immagina un governo dichiaratamente ed esclusivamente "renziano". Come questa idea si sposi con la Costituzione vigente è un problema che qualcuno dovrebbe porre al giovane candidato e questa è - al di là delle caricature o dei pranzi ad Arcore - la vera affinità tra Renzi e B.: la difficoltà a collocare se stessi all'interno della Costituzione del '48. Bersani è stato più possibilista sulle alleanze, prefigurando uno schieramento piuttosto ampio ed eterogeneo, che va da Vendola a Casini, che forse si tira dietro perfino Fini. Ma con altrettanta nettezza ha detto le cose che lui farà, dalla cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia all'introduzione delle unioni civili per gli omosessuali, temi su cui è pronto a scontrarsi anche con Casini. Naturalmente Bersani è anche quello  che ha votato per mettere il pareggio di bilancio nella Costituzione, che ha votato la riforma Fornero, che ha votato tutte le misure di destra presentate da questo governo di destra; e questi sono i motivi per cui io non sono andato a votare per lui alle primarie. Nonostante questo mio giudizio nettamente negativo - per quanto schiettamente settario - Bersani, a differenza del suo avversario, è tutto dentro la cornice istituzionale e politica della nostra repubblica e questo per me è ovviamente un punto importante.
C'è un problema però, molto grosso. Io credo che domenica vincerà Bersani, ma quasi la metà di chi sarà andato a votare si sarà espresso per Renzi. All'interno del Pd convivono e conviveranno - con sempre maggiore difficoltà - bersaniani e renziani, "noi" e "loro". Questa convivenza forzata sarà possibile soltanto attraverso una mediazione continua, estenuante, sulle piccole come sulle grandi questioni. Si amplificherà quel fenomeno di "doppiezza" che ho descritto prima a proposito del tema della regole: ciascuno continuerà a pensare che la propria posizione è non solo la migliore, ma quella legittima e soprattutto quella destinata a prevalere, quando la mediazione sarà arrivata alla corda. Quando potrà andare avanti il Pd in questo modo? Non lo so. Mi piacerebbe dire che non è un problema mio, dal momento che io ho scelto da tempo di non militare in un partito in cui si sentono legittimamente a casa loro persone come Renzi e Ichino. Se ci stanno loro non riesco a starci io. Eppure, come spesso ho ripetuto, è anche un problema mio. Perché noi della "sinistra dispersa" potremo avere un governo di cui non vergognarci soltanto se la maggioranza del centrosinistra vincerà e adesso la maggioranza del centrosinistra è questo strano animale a due teste.

mercoledì 28 novembre 2012

Considerazioni libere (323): a proposito di un'attesa...

Aspettando il ballottaggio, provo a condividere con voi, miei sparuti e fedeli lettori, qualche riflessione sulle primarie, e soprattutto i miei molti dubbi, sperando che i risultati di domenica prossima possano servirci a chiarire - e non a confondere ulteriormente - quello che succede in una parte rilevante, anche se non esclusiva, del centrosinistra italiano.
Il primo dato è che le primarie sono state un successo, per tutto il centrosinistra e in particolare per il Pd. Oltre tre milioni di cittadini che decidono di dedicare un po' del loro tempo - più prezioso dei due euro - per registrarsi e andare a votare sono un risultato importante, tanto più in un periodo come questo, in cui cresce una sfiducia diffusa - ampiamente meritata - per coloro che in questi anni hanno avuto il compito di guidare e rappresentare questo paese. Queste primarie fanno storia a sé e non ha molto senso confrontarle con quelle con cui sancimmo la leadership di Prodi nel 2005. Dopo le elezioni regionali della Sicilia rischiavamo che tutto il dibattito fosse incentrato sul legittimo timore dell'astensionismo - che comunque ci sarà e crescerà nelle prossime elezioni - e soprattutto sulla crescita impetuosa e inarrestabile del grillismo, anche perché la proverbiale pigrizia dei giornalisti e dei commentatori italiani aveva già spinto tutti costoro a considerare come ineluttabile la vittoria di questo nuovo fenomeno. E troppe volte in democrazia queste profezie rischiano di avverarsi o di autoavverarsi. I pigri, che non hanno voglia di approfondire le dinamiche profonde della società, hanno paradossalmente sempre voglia di cose nuove: per un po' Grillo e i grillini sono stati adattissimi alla bisogna, per questo in tanti di loro, al di là delle loro convinzioni politiche, tifano Renzi, aspettando già il prossimo "rottamatore del rottamatore". Comunque, al di là di queste piccinerie giornalistiche che lasciano il tempo che trovano e che muovono fortunatamente pochissimi voti, le primarie - in particolare queste primarie con questa accesa personalizzazione dei candidati - hanno contribuito a togliere visibilità mediatica - e quindi linfa vitale - a Grillo e questo penso sia un bene.
C'è poi un aspetto che in pochi hanno sottolineato, ma che io - che un tempo ho lavorato in fureria o in sala macchine o in cucina, come metaforicamente descrivevamo l'organizzazione politica - considero particolarmente importante. Il Pd è un partito che, pur con tutti i suoi problemi - e non sono pochi - riesce ancora a mettere in piedi una struttura così articolata come quella delle primarie, dal Piemonte alla Sicilia, fatta di un'organizzazione centrale - mi ha fatto piacere vedere sui giornali il solitamente ignorato Nico Stumpo - di una miriade di seggi gestiti da volontari, di un'organizzazione capace di portare tavoli, bandiere, urne, schede, penne in tutti i comuni italiani, dal più piccolo al più grande. In politica servono le proposte - anche se non dobbiamo sopravvalutare i programmi, che di solito si invocano quando non abbiamo nessun altro argomento - sono indispensabili i valori e le persone che fanno vivere quei valori - e per questo si fanno le primarie - ma è necessaria anche un'organizzazione. Qualcuno pensava che di questa si potesse fare a meno, fatto salvo poi invocarla in occasioni come questa o come la raccolta delle firme quando si devono presentare le liste o la gestione delle affissioni durante le campagne elettorali. Il Pd latita sui valori o comunque non sa bene quali siano, non sempre ci azzecca sulle persone, ma una qualche organizzazione resiste, anche se una parte rilevante del partito non ne riconosce il ruolo: e questo è un problema su cui loro dovranno riflettere, chiunque vinca, specialmente se dovesse prevalere quella componente che considera residuale e stantia l'organizzazione. Renzi la etichetta come "apparato" e quindi da rottamare tout court, ma questa struttura, tanto vituperata, alla fine serve anche a lui.
Dette le cose positive di domenica scorsa, provo a dire quelle che mi convincono meno. Spero di sbagliarmi, ma nelle rete mi è capitato di imbattermi in diverse persone che non considerano impegnativo il voto di domenica scorsa e suppongo neppure quello di domenica prossima. Quando io ho scritto che uno dei motivi per cui non sono andato a votare è che non trovo corretto votare alle primarie dal momento che non penso di votare per questo centrosinistra alle "secondarie" - e sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi - diversi mi hanno risposto che sono andati a votare non sentendo il peso di questo obbligo. Ho l'impressione che una parte di elettori - che non so quantificare, spero piccola, ma non ne sono certo - abbiano partecipato per la legittima voglia di partecipare, per il desiderio di esprimere la propria opinione su un tema rilevante per il futuro del paese, ma che da qui a primavera siano pronti a cambiare idea. C'è voglia di politica e dato che non ci sono altri mezzi per esprimerla qualcuno ha pensato di canalizzarla nelle primarie.
Non mi preoccupa il voto organizzato del centrodestra - non credo ci sia stato e penso sia una cretinata perfino evocarlo - ma ci sono elettori del centrodestra "in libertà" - anche questi non li so quantificare - che sono andati a votare alle primarie. Ad esempio nella mia cittadina c'è un blog piuttosto seguito che credo, senza essere smentito, di poter definire di centrodestra; alcuni di quelli che scrivono su quel blog sono andati a votare alle primarie, ma non penso che voteranno il centrosinistra alle elezioni "vere". C'è un elettorato di centrodestra che adesso è deluso, che forse non andrà a votare, ma non è detto che alla fine costoro non si lascino sedurre di nuovo da B. o in loro non prevalga l'atavica spinta a votare chiunque non sia di sinistra. Li capisco perché io ad esempio non voterei mai per uno di destra - neppure come capocondominio - e neppure se lo stimassi personalmente. Io rimango convinto, a differenza di quello che mi pare dica Renzi, che le prossime elezioni non si vinceranno prendendo i voti alla destra, perché da lì i voti non si spostano, come non si spostano da sinistra. Vincerà in Italia - così come è accaduto recentemente prima in Francia e poi negli Stati Uniti - chi sarà più capace di mobilitare i suoi, portandoli tutti a votare e sperando che quelli dell'altra parte non ci riescano altrettanto bene. E nella prossima primavera è realistico pensare che questo possa avvenire, a vantaggio del centrosinistra e a scapito della destra. Ed è più realistico pensare che avvenga se a guidare il centrosinistra ci sarà Bersani, e non Renzi.

domenica 25 novembre 2012

da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters


Amanda Barker
Henry mi mise incinta
sapendo che non potevo generare una vita
senza perdere la mia.
Quindi in gioventù varcai i portali di polvere.
Viandante, nel villaggio dove vissi credono
che Henry mi amasse con amore di consorte,
ma dalla polvere proclamo
che mi uccise per appagare il suo odio.

sabato 24 novembre 2012

Considerazioni libere (322): a proposito di un non-voto...

Una brevissima riflessione in vista dell'appuntamento di domani. Delle primarie del centrosinistra ho già scritto in una "considerazione" del 12 settembre scorso, a cui vi rimando. Avevo deciso allora che non sarei andato a votare e in questi due mesi non è successo nulla che mi abbia fatto cambiare idea.
E' una competizione vera e - sarò all'antica - per me questo è un problema. Non ho visto il confronto tra i candidati su Sky, ho letto che si è svolto in maniera civile e ne sono lieto. Purtroppo ho letto molti commenti tra i miei amici di centrosinistra - e sono tanti, naturalmente - su Twitter e Facebook e francamente molti di questi, soprattutto quelli dei bersaniani e dei renziani, sembrano scritti da persone che militano in partiti diversi. Servirà molta intelligenza e molta pazienza per sanare queste fratture e temo non sarà facile farlo, anche perché ci sarà da fare altro nelle prossime settimane, una campagna elettorale contro le due destre che ci sono in questo paese, quella di Monti e quella del redivivo B., già pronto a riscendere in campo.
Comunque io non voterò alle primarie, perché rispetto questo strumento e credo richieda lealtà: se partecipi alle primarie, qualunque sia il candidato per cui hai votato, ti impegni a sostenere il candidato che vincerà. Io oggi non so se voterò per il centrosinistra alle prossime elezioni, probabilmente no. Sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi e lui fosse il candidato del centrosinistra, perché - solo per citare un tema rilevante - non posso votare per un candidato che sostiene la riforma Ichino sul mercato del lavoro.
Da persona che continua ostinatamente a militare a sinistra e che voterà a sinistra alle prossime elezioni, sperando ci sia anche un'opzione diversa da quella di questo centrosinistra, spero che queste primarie siano un successo, che molti cittadini vadano a votare e che si svolgano con regolarità e senza polemiche. Mi auguro naturalmente che le previsioni siano rispettate e vinca Bersani - il candidato a cui per storia politica sono più vicino - e spero anche che Vendola ottenga un buon risultato, sarebbe un segnale utile anche per noi che abbiamo deciso di rimanere fuori da questo percorso. Nella prossima primavera il centrosinistra in Italia non vincerà senza le persone che domani parteciperanno alle primarie, spero che loro si ricordino che ci siamo - per quanto possiamo essere pochi - anche noi.

mercoledì 21 novembre 2012

Considerazioni libere (321): a proposito di una possibile pace...

Francamente speravo che la cosiddetta primavera araba, con la sua spinta potenzialmente rivoluzionaria, sarebbe potuta essere un aiuto alla risoluzione del problema palestinese, almeno per due ordini di ragioni. Prima di tutto pensavo che spostare l'attenzione da quel conflitto avrebbe permesso a quelli che sono seriamente impegnati per costruire la pace di lavorare meglio, perché in genere queste trattative si conducono meglio se non sono continuamente sotto l'occhio dei riflettori; pensavo poi che fino a quando la questione palestinese fosse rimasta al centro del dibattito politico mediorientale e soprattutto fosse continuata a essere il parafulmine per ogni altro problema - quante volte abbiamo sentito ripetere "questo aspetto potrà essere risolto solo quando lo sarà anche la questione palestinese", con l'obiettivo di rimandare anche la soluzione di quella singola questione - fino ad allora insomma, sarebbe stato più difficile trovare un accordo. Mi era sembrato che le varie "primavere" si fossero messe in moto indipendentemente da quell'annosa questione, quasi a prescinderne, a differenza di quello che era avvenuto negli anni precedenti, quando ogni sollevazione di piazza del mondo arabo metteva sempre al centro la rivendicazione dello stato di Palestina, con i conseguenti attacchi ad Israele; il fatto di non vedere bruciare in piazza né le bandiere degli Stati Uniti né quelle di Israele mi era parso un segnale incoraggiante in questa direzione. Il secondo motivo di ottimismo era legato alla caratteristica peculiare di quelle rivolte, l'elemento unificante, pur in un quadro molto diversificato: la volontà dei giovani manifestanti di affrancarsi dai loro vecchi leader, che erano legati agli schemi del passato e fautori di un rigido status quo. E bisogna ammettere che i capi palestinesi negli ultimi anni sono stati dei veri campioni di questo conservatorismo: si tratta di un gruppo dirigente chiuso nei propri privilegi e sempre più lontano dai bisogni e dalle aspettative del loro popolo. La reazione, ugualmente miope, di Netanyahu e di Abu Mazen di condanna delle rivolte di piazza Tahir e la loro comune solidarietà al regime di Mubarak aveva dato maggior solidità alla mia convinzione.
Evidentemente nessuna di queste condizioni si è verificata in questo modo, visto che in questi giorni guardiamo con il fiato sospeso a quello che succede a Gaza, contro cui il governo Netanyau ha sferrato una ritorsione significativamente più dura dell'attacco che ha colpito le città israeliane, compresa Tel Aviv. Forse ci sarà una tregua, speriamo ci sia, ma sarà solo una parentesi in attesa del prossimo bombardamento. A questo punto suona anacronistico e ipocrita il consueto appello delle Nazioni Unite e dei governi occidentali - a proposito Tony Blair ha ancora un qualche incarico diplomatico? se sì, sarà meglio richiamarlo a casa, visti i risultati - affinché israeliani e palestinesi si rimettano attorno a un tavolo per discutere dell'opzione "due popoli, due stati". A questa soluzione evidentemente non credono più né gli uni né gli altri, ma rimane la nostra foglia di fico, all'indomani di un attacco, da qualsiasi parte provenga. In questi anni i governi di Gerusalemme - con un ampio accordo del paese - ha lavorato in maniera metodica ed efficace affinché fosse impossibile anche solo pensare di tornare ai confini del '67: la politica degli insediamenti e delle colonie e la gestione delle risorse naturali, specialmente delle acque, ha segnato l'interruzione de facto del processo di pace basato sulla formula "due popoli, due stati", perché non c'è più un territorio su cui pensare di costruire il futuro stato palestinese o sarebbe così povero e malridotto da costringerlo in una posizione di sudditanza di fronte al suo ben più potente vicino. D'altra anche i palestinesi hanno ormai abbandonato il progetto "due popoli, due stati", visto che loro stessi si sono ormai organizzati in "due stati", si sono abituati a vivere come enclaves: da una parte Gaza e dall'altra i territori della Cisgiordania; se diventassero davvero un unico stato o Fatah o Hamas dovrebbe rinunciare al proprio piccolo pezzo di potere e ai loro - non troppo piccoli in questo caso - affari, dal momento che gli altri stati arabi mandano moltissime risorse economiche a queste fragilissime strutture.
Sono sempre più convinto che alla lunga questa soluzione, per quanto "politicamente corretta" e apparentemente giusta, finisca per essere irrealizzabile e comunque incapace di risolvere davvero il problema. Se anche arrivassimo alla soluzione "due popoli, due stati", il giorno successivo comincerebbe una guerra, ben più drammatica di quella che funestò gli appena nati India e Pakistan, all'indomani dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Penso che, come succede tutte le volte che ogni altra strada sembra preclusa, occorra fare la mossa del cavallo, anche se forse questa volta bisognerebbe proprio cominciare a giocare un nuovo gioco, con nuove regole. Io immagino una soluzione perfino più semplice di quella "due popoli, due stati", anche se probabilmente perfino più difficile da realizzare: ebrei e palestinesi devono vivere in quell'unico paese insieme, come stanno facendo bianchi e neri in Sudafrica o cattolici e protestanti in Irlanda del nord. La soluzione per quelle donne e quelle donne a cui dovremmo tutti noi democratici cominciare a pensare - e lottare affinché si realizzi - è "un popolo, uno stato". Fare una grande campagna per raggiungere finalmente questo obiettivo. Coloro che sostengono Israele - sia quelli che lo fanno acriticamente sia quelli che lo fanno ponendosi dei dubbi - hanno un argomento difficilmente oppugnabile: quel paese va difeso perché è l'unica democrazia della regione. Proprio perché questo è vero, qual miglior occasione di questa per espandere la democrazia? Pensate cosa succederebbe se ci fosse questo unico stato democratico, piccolo, ma dalla storia così significativa, in quella regione? Credo proprio che dovremmo cominciare a una pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto. E poi, ogni tanto, le rivoluzioni si riescono anche a fare.

sabato 17 novembre 2012

Considerazioni libere (320): a proposito di manifestazioni...

Lo ammetto: per antico pregiudizio - diventato ormai una sorta di riflesso pavloviano - tra manifestanti e forze dell'ordine parteggio sempre per i manifestanti; sarà che nella vita mi è capitato di partecipare a molte manifestazioni e che, a volte, ho anche contribuito a organizzarle. Sono sempre stato un manifestante pacifico e il massimo della mia trasgressione immagino siano stati alcuni slogan non proprio edificanti e inutilmente offensivi: comunque non ho mai picchiato nessuno né sono stato picchiato, anche se una volta mi sono trovato in una situazione molto tesa, a Roma, quando una parte dei manifestanti contestava la presenza del mio partito, e del suo segretario, nel corteo. Mi è stato insegnato che manifestare, protestare, scioperare è un diritto fondamentale che noi cittadini abbiamo in democrazia - uno dei più importanti che abbiamo - e proprio perché è così importante lo dobbiamo utilizzare nel rispetto dei principi democratici e dei valori che sono scritti nella nostra Costituzione. A volte la nostra protesta può anche prevedere di non rispettare una qualche legge, se riteniamo che quella legge non sia giusta e non sia rispettosa dei principi fondamentali in cui crediamo e per cui ci battiamo. A queste regole mi sono sempre attenuto e i miei giudizi si basano su questo, quindi non condivido in nessun modo e condanno quelli che partecipano alle manifestazioni soltanto per alzare il livello dello scontro, come si diceva una volta.
Ho rispetto per chi contribuisce, con il proprio lavoro, a far sì che le manifestazioni si svolgano in maniera ordinata e non faccio fatica a riconoscere che negli scorsi anni ho avuto l'opportunità di conoscere funzionari - e funzionarie, anche in questo c'è uno specifico femminile - della polizia molto capaci, dall'altissima sensibilità democratica; con alcuni di loro è stata una fortuna poter "lavorare", seppur con ruoli e compiti assolutamente diversi, per garantire la sicurezza di manifestazioni e iniziative politiche. Detto questo, il mio rispetto scende vertiginosamente man mano che si sale per le scale gerarchiche del Viminale. Pesa sulla storia dell'Italia repubblicana una notevole difficoltà - per alcuni di noi l'impossibilità - a fidarsi delle forze dell'ordine o quantomeno delle persone che in questi sessant'anni sono state chiamate a guidarle. Gli esempi positivi, le persone che hanno fatto e fanno il loro dovere, gli eroi che ci sono stati tra carabinieri e polizia non ci possono far dimenticare che per molto tempo la maggioranza di coloro che hanno guidato queste istituzioni si sono posti in modo ambiguo, se non apertamente conflittuale, nei riguardi della democrazia e delle istituzioni repubblicane. Negli anni sessanta i tentativi di colpo di stato che ci sono stati in Italia hanno sempre avuto come protagonisti comandanti dei carabinieri, negli anni settanta poliziotti e carabinieri, insieme a quelli dei servizi segreti, hanno avuto un ruolo determinante nella cosiddetta strategia della tensione, per molti anni i vertici delle forze dell'ordine hanno fatto parte di un'organizzazione eversiva come la P2: per tutti questi motivi, per un italiano come me non è facile fidarsi delle forze dell'ordine, perché questa storia pesa come un macigno sulla storia del nostro paese e soprattutto pesano le menzogne, i tentativi - spesso maldestri - di nascondere la verità. I maggiori pericoli per la democrazia in Italia sono venuti da una parte dello stato e questo è per me inaccettabile. Purtroppo questa frattura non è stata sanata in questi ultimi anni, in cui pure molte cose sono cambiate nel quadro politico e sociale del paese. Considero gravissimo che il capo della polizia che ha gestito nel modo che sappiamo il G8 di Genova non solo non sia stato allontanato da quel ruolo, ma anzi abbia fatto una così inarrestabile carriera, sostenuto, in maniera ugualmente ipocrita e vigliacca, da entrambi gli schieramenti che in questi anni si sono alternati alla guida del paese. Poi ci dobbiamo sempre aggiungere un po' della nostra tipica cialtroneria italica: le giustificazioni del questore di Roma per i lacrimogeni fatti cadere sul corteo dalle finestre del ministero della giustizia sono una perla di questa incompetenza, tipica purtroppo di troppi alti funzionari del nostro paese. Su quello che è avvenuto mercoledì scorso, un funzionario capace avrebbe dovuto cercare di spiegare quello che è successo in via Arenula, invece il questore Della Rocca ha avuto la bella pensata di tirar fuori la storia dei lacrimogeni rimbalzanti: questo rende sempre più lontani le forze dell'ordine e una parte del paese. Abbiamo bisogno di poterci fidare di chi è ha il compito di tutelare la nostra sicurezza e di chi ha la funzione di esercitare, in maniera legittima, la forza; è un tema questo che dovrebbe preoccupare prima di tutto chi fa questo lavoro, i bravi poliziotti e i bravi carabinieri - le cui condizioni di lavoro sono sempre più difficili - e mi auguro che su questo si apra una discussione ampia nel paese, a cui tutti dovremmo partecipare, liberandoci finalmente dei nostri pregiudizi, i miei compresi.
Al di là di questa particolarità tutta italiana, c'è un problema democratico che coinvolge non solo il nostro paese. Innegabilmente in questi ultimi anni i governi italiani - sia quello populista e di destra di B. sia quello conservatore ed europeo di Monti - hanno deciso di adottare una linea dura con i manifestanti, in Val di Susa come a Roma, con gli studenti come con gli operai. Si tratta evidentemente di un problema non solo italiano, ma di una tendenza che coinvolge i grandi paesi europei e gli Stati Uniti. Abbiamo visto con quali metodi la polizia di New York ha sgombrato i manifestanti di Occupy Wallstreet. In questi mesi la polizia spagnola e quella greca, sotto i governi guidati dal centrodestra, hanno mostrato un volto duramente repressivo che, per fortuna, in Italia non abbiamo ancora visto a questo livello. Anche per impedire questa deriva sarebbe necessario avviare quel dibattito pubblico di cui parlavo prima. Mi preoccupa che in paesi come questi - e come il Portogallo - dove la democrazia è una conquista recente e le dittature fasciste sono un ricordo ancora fresco, le forze di polizia stiano subendo questa involuzione; ad esempio dovrebbe far riflettere tutta l'Europa il fatto che Alba dorata stia diventando il primo partito tra i poliziotti di Atene. Ad ogni modo la linea dei nostri governi è chiara: al di là di una certa soglia - che tende a diventare sempre più bassa - il dissenso è scarsamente tollerato e quindi diventa necessario un "intervento" per far capire chi comanda. Di fronte a una parte del paese che protesta chi ha il potere non cerca di capire le ragioni, più o meno legittime, di queste proteste, ma si chiude a riccio; in questo Monti non è diverso dagli altri politici europei.
In Europa assistiamo così a questo doppio fenomeno: da un lato crescono e si rafforzano movimenti populisti, di deriva prettamente fascista - come in Grecia, in Francia o il berlusconismo in Italia - o di stampo neoqualunquista, con una forte base di sinistra, un radicamento locale e una notevole penetrazione nella rete - come il grillismo ancora in Italia, che evidentemente è sempre terreno fertile per questo tipo di fenomeni; dall'altro lato cresce la tentazione tra i governi e le classi dirigenti di una risposta autoritaria. In mezzo tra queste due pulsioni, che sono apparentemente - ma solo apparentemente - in contrasto, rimane schiacciata la protesta di sinistra, politica e sindacale, che infatti fa sempre più fatica a far sentire la propria voce. Mercoledì 14 novembre eravamo in piazza in molti, c'erano i lavoratori, più o meno precari - anche se ormai rischiamo di esserlo tutti, perfino noi pubblici, i "garantiti" per eccellenza - e c'erano i cittadini che pagano duramente gli effetti di questa crisi; c'era lo sciopero europeo convocato dalla Confederazione Europea dei Sindacati e in Italia dalla sola Cgil. Di questo sciopero, importante almeno dal punto di vista simbolico, perché il primo veramente europeo, non si è praticamente parlato. Nella mia città, Parma, abbiamo fatto un corteo, forse fin troppo silenzioso e senza slogan, fino alla sede dell'Efsa e contemporaneamente c'è stato un corteo, oggettivamente più vivo e animato, degli studenti. Francamente non ho capito per quali motivi - credo politici più che organizzativi - non sia stato possibile unire le due manifestazioni, ma comunque alla sera la televisione locale più seguita, controllata dalla locale Confindustria, ha dato soltanto le immagini degli studenti, in particolare di quelli che hanno imbrattato le vetrine di un paio di banche. Anche contro questa cultura dominante dobbiamo combattere e non è certo facile. Per l'Italia la giornata del 14 novembre è stata le manifestazioni violente degli studenti, le reazioni delle forze dell'ordine e le dichiarazioni roboanti del tribuno di turno, che ha inneggiato alla "guerra". Abbiamo bisogno di dire che un'altra opzione è possibile, un'opzione in cui manifestare sia legittimo e non solo tollerato, in cui sia possibile manifestare e far sentire la propria voce, senza dover neppure dar inizio a momenti di violenza - che in genere non si riescono né ad arginare né a fermare - e in cui sia possibile manifestare in maniera sicura.

giovedì 15 novembre 2012

"Cantando per le strade" di Mahmoud Darwish


Cantando per le strade, per i campi,
il nostro sguardo farà scaturire l`osservatorio
dal posto più lontano
dal posto più profondo
dal posto più bello,
dove non si vede che l`aurora,
e non si sente che la vittoria.
Usciremo dai nostri campi
usciremo dai nostri rifugi in esilio
usciremo dai nostri nascondigli,
non avremo più vergogna, se il nemico ci offende.
Non arrossiremo:
sappiamo maneggiare una falce,
sappiamo come si difende un uomo disarmato.
Sappiamo anche costruire
una fabbrica moderna,
una casa,
un ospedale,
una scuola,
una bomba,
un missile.
E sappiamo scrivere le poesie più belle.

martedì 13 novembre 2012

dal discorso di Enrico Berlinguer al teatro Eliseo del 15 gennaio 1977

Da che cosa è nata, da che cosa nasce l'esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l'avvio? Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell'occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L'austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l'austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
L'austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l'andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l'austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell'ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l'unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall'essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l'austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell'austerità.
Ma l'austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l'attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell'assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell'uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l'evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l'ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell'umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.
[...]
Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali - come afferma il Manifesto dei comunisti - per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.
Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.