lunedì 30 aprile 2012

"Il disoccupato" di Umberto Saba


Dove sen va cosí di buon mattino
quell’uomo al quale m’assomiglio un poco?
Ha gli occhi volti all’interno, la faccia
sí dura e stanca.
Forse cantò coi soldati di un’altra
guerra, che fu la guerra nostra. Zitto
egli sen va, poggiato al suo bastone
e al suo destino,
tra gente che si pigia
in lunghe file alle botteghe vuote.
E suona la cornetta all’aria grigia
dello spazzino.

sabato 28 aprile 2012

Considerazioni libere (282): a proposito di antipolitica...

Chi legge questo blog credo che ormai lo sappia: io e la cosiddetta "antipolitica" ci prendiamo poco. D'altra parte se io, a questo punto della mia vita, dopo aver dedicato tanti anni alla politica, dopo aver fatto anche il funzionario di partito, diventassi - così all'improvviso - un paladino dell'antipolitca, sarei poco credibile, e finirei anche per essere un po' patetico, come quei vecchi che si ostinano, con ogni possibile artificio, a presentarsi molto più giovani di quello che sono. Non voterò mai il partito di Grillo, perché fino a quando mi sarà possibile, voterò per un partito di sinistra e, se non troverò più un partito di sinistra dalle idee non troppo dissimili dalle mie, smetterò di votare. Qualche volta mi è già successo di lasciare la scheda in bianco, da quando è nato il Pd. Ma al di là di come la penso io - anche se mi sembra onesto mettere le carte in tavola con i miei lettori - di antipolitica si parla ormai in tutte le salse e quindi anch'io provo a dire la mia.
Adesso in Italia è quasi di moda parlare di antipolitica, ossia parlare di Grillo, anche se Grillo non è l'alfa e l'omega dell'antipolitica, come vorrei spiegare nel corso di questa "considerazione". Per inciso molti di quelli che adesso ci spiegano l'antipolitica non capiscono già niente di politica e quindi le loro analisi rischiano di essere quantomeno superficiali. Tutti parlano di antipolitica perché c'è stato l'indubbio successo del Front national al primo turno delle presidenziali francesi e soprattutto perché tutti si aspettano un buon risultato del movimento Cinque stelle alle prossime elezioni amministrative; i sagaci commentatori non vedono l'ora di dire, dopo lo scrutinio, "noi l'avevamo detto".
Partiamo dall'Italia. Quando io, qualche anno fa, ho smesso di fare politica intensamente è cominciato il fenomeno Grillo. Faccio questa premessa per mettere le mani avanti: non conosco molto quel movimento, non conosco nessuna delle persone che per quel movimento è stata eletta negli enti locali e conosco anche pochi loro elettori - direttamente una sola persona e forse alcuni altri attraverso Facebook e la rete - quindi il mio giudizio è giocoforza mediato da quello che leggo nei giornali. La mia impressione è che Grillo, gli eletti del movimento e gli elettori siano "entità" un po' slegate: in sostanza Grillo non c'entra molto con il suo movimento. La mia idea è che Grillo abbia cominciato questa cosa, senza rendersi ben conto delle conseguenze che poteva avere e che a un certo punto abbia perso il controllo di se stesso, prima ancora che del movimento: sinceramente adesso mi sembra prigioniero del suo personaggio e per questo continui ad alzare il tiro della sua polemica, anche al di là delle sue convinzioni personali. Francamente Grillo in sé mi interessa poco, è destinato a passare e di lui gli storici del futuro credo si dimenticheranno. Più interessanti sono gli elettori di Grillo: qui l'antipolitica non c'entra nulla, anzi, questi hanno fame e sete di politica, hanno voglia di essere militanti, mitizzano anche una certa idea di partecipazione politica che in questo paese c'è stata nei decenni passati. Non è un caso che fino ad ora i grillini abbiano sfondato più nel nord che nel sud di questo paese. Vedremo come andrà il candidato Cinque stelle alle elezioni di Palermo, ma sicuramente nelle regioni dove l'antipolitica c'è davvero e si chiama mafia, questo fenomeno attecchisce molto meno che ad esempio in Emilia-Romagna, dove invece cresce nelle pieghe di una sinistra che aveva fatto della partecipazione civica una delle sue più riconosciute virtù. Anche se Grillo e gli eletti grillini ripetono come un mantra che la distinzione tra destra e sinistra è superata e che il loro movimento non è né di destra né di sinistra - pagando quindi il loro pegno all'ideologia della fine delle categorie novecentesche - ho l'impressione che i loro elettori, in particolare nella mia regione, vengano tutti da una determinata area e lì vorrebbero tornare. Devo dire che non riesco a inquadrare chi guida localmente quel movimento, a capire chi sono i loro eletti; per antica abitudine sono diffidente verso organizzazioni che non hanno regole definite per scegliere i propri capi e che si basano su chi ha più tempo, su chi parla meglio, su chi la spara più grossa. In alcuni casi questi capi locali hanno dimostrato di essere ben refrattari alle critiche e soprattutto di essere autoreferenziali, cedendo quindi a quel difetto di cui accusano a ogni pie' sospinto i loro avversari della "vecchia politica". Al di là di Grillo e dei suoi vari epigoni locali, quelli che votano per loro non criticano la politica tout court, ma questa politica e in particolare questa politica di sinistra. Rischio di ripetermi, ma credo che questo sia un punto essenziale - almeno per me lo è - la decisione del più importante partito del centrosinistra italiano, quello che per storia, per organizzazione e per radicamento territoriale poteva aspirare al governo di questo paese e a catalizzare intorno a sé le altre forze della sinistra - come sta avvenendo in Francia con i socialisti - la decisione di rinunciare a questo ruolo storico per inseguire il chimerico passaggio verso la "terza via" e soprattutto l'ultima suicida scelta di appoggiare un esecutivo di destra ha lasciato a sinistra enormi macerie. In Italia non c'è alternativa alla destra e quindi è inevitabile che raccolga consensi chi dice che sono tutti uguali, perché adesso effettivamente i partiti si distinguono soltanto per le sfumature. Grillo esisterebbe anche se ci fosse un reale, credibile, partito di sinistra, ma non avrebbe i consensi di cui gode ora, sarebbe un fenomeno del folklore politico, come Cicciolina o Scilipoti.
Mi pare che in Francia la situazione sia un po' differente da quello che succede in Italia e più simile a quello che avviene nel resto dell'Europa. Per il Front national votano i fascisti convinti, gli antisemiti, i conservatori più retrivi che in Francia ci sono sempre stati e hanno una lunga tradizione che risale almeno alla Vandea e che hanno avuto alcuni momenti di "gloria", come durante l'affare Dreyfus o nella repubblica di Vichy. Si tratta però di una minoranza degli elettori di quel partito - anche se tutti i quadri ovviamente vengono da quelle esperienze - la maggioranza di chi vota Le Pen esprime davvero l'antipolitica, il rifiuto radicale della società come è adesso, il rifiuto dei cambiamenti e della modernità, una protesta fine a stessa, la voglia di ribellarsi , anche una certa tendenza alla violenza. Il voto a Le Pen non è un voto consapevolmente fascista, è l'espressione di una parte della società in crisi e che preferisce urlare piuttosto che parlare. Questa è per me effettivamente antipolitica. In Europa in genere si catalizza attorno ai movimenti della destra estrema: è successo con il movimento di Haider in Austria, con quello di Wilders in Olanda, in parte con la Lega in Italia - anche se il leghismo è un fenomeno più complesso del riposizionamento di una certa destra sociale - è successo con altri movimenti razzisti e xenofobi nell'Europa del nord e dell'est. Bisogna capire perché in un paese ci sono queste pulsioni, senza lisciare il pelo a questi movimenti, come fa invece - speriamo questa volta senza successo - Sarkozy. La povertà, l'esclusione sociale, la mancanza di istruzione sono i fattori che fanno aumentare queste pulsioni profonde e la crisi è destinata quindi a far crescere questi movimenti. I benpensanti liberisti non si possono scandalizzare se cresce il Front national in Francia, perché loro ne sono i primi responsabili, con le loro dissennate ricette economiche. Sinceramente credo che nessuno pensi di "usare" questi movimenti, come è avvenuto invece con i movimenti fascisti negli anni Venti del secolo scorso, ma è sempre meglio non giocare con il fuoco. Gli agrari, i padroni delle fabbriche, i gran borghesi si pentirono - forse - di aver pensato che Mussolini e i fascisti sarebbero stati utili per evitare che i socialisti crescessero nella società di quegli anni. Speriamo che ora non ci sia un errore di sottovalutazione, dato che si continua a pensare che il mercato alla fine regolerà nel bene ogni cosa.
Certo l'errore più grave che adesso ci inducono a commettere è quello di non fare distinzioni e di etichettare tutto come antipolitica. Come ho detto, una cosa è l'antipolitica fine a se stessa e tutt'altra cosa è l'antipolitica che è critica radicale a una politica, quella liberista oggi culturalmente dominante. In fondo anche il Pci era antipolitica - mi scusino i vecchi compagni, voglio fare una provocazione, ma penso di non dire un'eresia - perché presupponeva una critica di sistema alla società come era allora. I vari movimenti che in questi mesi hanno riempito le piazze europee e nordamericane, dagli indignados spagnoli al movimento OccupyWallstreet, sono una forma di antipolitica, così come le "primavere arabe" hanno espresso forme di antipolitica, perché criticano il sistema su cui si regge la nostra società, ossia l'idea che il potere sia in mano a quei pochissimi che detengono tutto il potere economico. Effettivamente il nostro paese non ha bisogno di altri demagoghi - ne ha avuti e ne ha tuttora fin troppi - ha bisogno di questa politica.

venerdì 27 aprile 2012

da "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci (IX)


19 dicembre 1929

Carissimo Carlo,
ho ricevuto la lettera del 4 dicembre della mamma e la tua del 13. Ti ringrazio per la sollecitudine con cui hai eseguito le mie commissioni. Tra gli oggetti di vestiario che avevo a Roma non ti fu consegnato anche un soprabito? Mi pare che fosse ancora passabile, se anche non più di primo pelo. Voglio parlare di un soprabito da inverno, perché un altro, di gabardine, era ormai diventato uno straccio. Ma forse l'hai ricevuto e ti sei dimenticato di scrivermene. – Delle due paia di scarpe non ricordo piú: credo però che debbano essere molto malandate e ormai inservibili. – Naturalmente ti prego di non mettere piú in testa a mammà che possa fare un viaggio fino a Turi: solo il pensiero di una simile eventualità mi spaventa. Mi pare che ella già abusi troppo della sua fibbra eccezionale lavorando cosí accanitamente alla sua età: avrebbe ormai diritto alla pensione, se esistessero pensioni per le madri di famiglia. Penso che il primo contatto col carcere abbia fatto persino una gravissima impressione a te: immagina quale impressione farebbe a lei. Non si tratta tanto del lungo viaggio, con tutti i suoi disagi, per una donna anziana che non ha mai fatto piú di 40 km. in ferrovia e non ha attraversato il mare (forse il viaggio in sé la divertirebbe): si tratta di un tale viaggio fatto per visitare un figlio in carcere. Mi pare che occorra evitarlo a tutti i costi. – Che cosa le hai poi raccontato? Spero che non abbia esagerato in nessun senso: del resto tu stesso hai visto che io non sono né abbattuto, né scoraggiato, né depresso.
Il mio stato d'animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell'esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese. La tua lettera e ciò che mi scrivi di Nannaro mi hanno interessato molto, ma anche maravigliato. Voi due avete fatto la guerra: specialmente Nannaro ha fatto la guerra in condizioni eccezionali, da minatore, sotto terra, sentendo attraverso il diaframma che separava la sua galleria dalla galleria austriaca il lavoro del nemico per affrettare lo scoppio della mina propria e mandarlo per aria. Mi pare che in tali condizioni, prolungate per anni, con tali esperienze psicologiche, l'uomo dovrebbe aver raggiunto il grado massimo di serenità stoica, e aver acquistato una tale convinzione profonda che l'uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai piú e non cadere piú in quegli stati d'animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d'animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l'intelligenza, ma ottimista per la volontà. Penso, in ogni circostanza, alla ipotesi peggiore, per mettere in movimento tutte le riserve di volontà ed essere in grado di abbattere l'ostacolo. Non mi sono fatto mai illusioni e non ho avuto mai delusioni. Mi sono specialmente sempre armato di una pazienza illimitata, non passiva, inerte, ma animata di perseveranza. – Certo oggi c'è una crisi morale molto grave, ma ce ne sono state nel passato di molto più gravi e c'è una differenza tra oggi e il passato. [...]. Perciò sono anche un po' indulgente e ti prego di essere anche tu indulgente con Nannaro, che, ho visto io stesso, sa anche essere forte. Solo quando è isolato, perde la testa e si accascia. Forse gli scriverò la prossima volta.
Caro Carlo, ti ho fatto un sermone in piena regola. Intanto dimenticavo di raccomandarti di fare tanti complimenti e tanti auguri a Teresina e anche a Paolo naturalmente, per la loro nuova figlietta. Poi devo fare gli auguri generali per il Natale e per tutte le altre feste che succederanno. Io farò il natale alla meglio, un po' come il famoso signor Chiu, di cui ci parlava la mamma quando eravamo bambini.
Abbraccia tutti affettuosamente e specialmente la mamma.

tuo Antonio  

da "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci (VIII)

20 maggio 1929

Caro Delio,
ho saputo che vai a scuola, che sei alto ben 1 metro e 8 centimetri e che pesi 18 chili. Cosí penso che tu sei già molto grande e che tra poco tempo mi scriverai delle lettere. In attesa di ciò, puoi già oggi fare scrivere alla mamma, sotto la tua dettatura, delle lettere, come facevi scrivere a me, a Roma, i pimpò per la nonna. Cosí mi dirai se a scuola ti piacciono gli altri bambini e cosa impari e come ti piace giocare. So che costruisci aeroplani e treni e partecipi attivamente all’industrializzazione del paese, ma poi questi aeroplani volano davvero e questi treni corrono? Se ci fossi io, almeno metterei la sigaretta nella ciminiera, in modo che si vedesse un po’ di fumo! Poi mi devi scrivere qualche cosa di Giuliano. Che te ne pare? Ti aiuta nei tuoi lavori? È anch’egli un costruttore, oppure è ancora troppo piccolo, per meritarsi questa qualifica? Insomma io voglio sapere un mucchio di cose e poiché tu sei cosí grande, e, mi hanno detto, anche un po’ chiaccherino, cosí sono sicuro che mi scriverai, con la mano della mamma, per adesso, una lettera lunga lunga, con tutte queste notizie e altre ancora. E io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola* che voglio educare.
Bacia Giuliano per conto mio e anche la mamma e tutti quanti di casa e la mamma bacerà te a sua volta per conto mio.

Toi papa

* Ho pensato che tu forse non conosci le lucertole: si tratta di una specie di coccodrilli che rimangono sempre piccini.

giovedì 26 aprile 2012

da "La vittoria di Guernica" di Paul Eluard



1
Bel mondo di tuguri
Di miniere e di campi

2
Visi buoni al fuoco visi buoni al freddo
Ai rifiuti alla notte agli insulti alla frusta

3
Visi buoni a tutto
Ecco il vuoto vi fissa
La vostra morte servirà d’esempio

4
Morte cuore rovescio

5
Vi hanno fatto pagare il pane
Il cielo la terra l’acqua il sonno
E la miseria
Della vostra vita

mercoledì 25 aprile 2012

per il 25 aprile...


- Tòrnaci. Se te la senti, tòrnaci. Ma sappi che ogni volta passeranno con camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire. Ora vai.
Abbraccio mia madre, non stretta, che non senta col petto la pistola che mi sforma una tasca. Scendo nel prestino, lo traverso. Alla porta il fornaio di Bellonuovo mi mette la mano nella mano e in tasca un cotechino incartato. Gli sono grato che non mi parla di rifletterci bene, pesto i piedi per aggiustarli negli scarponi, e vado.
É già buio e molto freddo. Non c'è la luna, ma spunterà? Risalgo la provinciale Alba-Acqui per un duecento metri, taglio in un prato in salita e sono sulla stradina di S. Rocco. Lì stacco il mio bel passo da campagna; paiono viaggiare con me le colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato. Se ora almeno non fossi innamorato...

Beppe Fenoglio, Appunti partigiani

lunedì 23 aprile 2012

"I sette fratelli" di Italo Calvino


articolo apparso su "l'Unità" il 27 dicembre 1953
I sette fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore, il primo di quarantadue anni, l'ultimo di ventidue; fittavoli d'una fattoria emiliana, furono fucilati il mattino del 28 dicembre 1943, al tiro a segno di Reggio Emilia, da un plotone d'esecuzione fascista.
Al ricordo di questo fatto, certamente uno tra i più tragici della nostra lotta di liberazione, la commozione si appunta su quel numero di sette, sulla tremenda strage familiare, sul dolore di quella madre e di quel padre. Ma non vorremmo che in questo primo spontaneo moto dell'animo si esaurisse la traccia lasciata dal sacrificio dei Cervi, cioè che si trascurasse soverchiati dalla pietà e dall'esecrazione, di conoscere chi realmente furono quei sette fratelli.
Ecco a pochi chilometri da Reggio, tra Campegine e Gattatico, il fondo di Fraticello. Una vasta casa colonica, tra verdi prati da foraggio era ed è la casa dei Cervi. Ci vivono ora le quattro vedove e gli undici figli dei Cervi; la vecchia famiglia patriarcale è unita oggi come allora, intorno ad Alcide Cervi, il vecchio Cide, il padre dei sette e intorno alla memoria dei fucilati e della madre, morta di dolore poco dopo.
Quando i Cervi presero in affitto questo fondo, nel 1934, erano una povera famiglia di Campegine, carica di debiti, di bocche da sfamare, con poche bestie; e questo era un terreno poco produttivo, accidentato e pieno di dislivelli. Ma i sette fratelli avevano braccia forti ed idee in testa. Per prima cosa decisero di spianare tutta la campagna. Si misero con dei vagoncini di quelli dei lavori stradali, a caricare terra a trasportarla e distribuirla per il podere. Anche dopo il tramonto i vicini li vedevano andare avanti e indietro con quei carrelli, un po' li prendevano in giro. Il livellamento dei terreni non era ancora diventato pratica comune, allora; i Cervi furono i primi. Appianato, percorso da canali di irrigazione, il loro fondo cambiò faccia in poche stagioni.
"Teste nuove" erano considerati i Cervi nei dintorni; cioè gente che viene fuori ogni momento con qualche idea mai sentita, come quella stalla modello, quell'abbeveratoio razionale, cose imparate sui libri; però la fattoria dei Cervi con tutte quelle idee nuove e tutte quelle schiene sempre al lavoro prosperava di bene in meglio, e l'allevamento di bestiame che misero su in pochi anni faceva invidia a tutti. A casa Cervi i contadini dei dintorni ci capitavano sovente, sempre diffidenti e pronti a criticare ma pur sempre curiosi, e pronti ad imparare quando vedevano che c'era del buono. Frequentarli troppo poteva anche essere pericoloso, perché i Cervi erano "rossi" e non facevano mistero con nessuno della loro avversione per duce, fascio, impero e tutto il resto, ma anche nella previsione degli avvenimenti politici (e, quindi anche dei prezzi dei prodotti e dei concimi e delle merci) pareva impossibile ci azzeccassero sempre. Segno che quella loro mania di leggere i libri, alla sera invece di andare all'osteria, o ai balli, piantati coi pugni sulle tempie a cavarsi gli occhi tutti e sette intorno a un tavolo, qualcosa serviva.
Erano una famiglia fuori dal comune; che i sette fratelli fossero così uniti e in buon accordo era già un fatto fuor dall'ordinario. E ancor più che quest'accordo non si basasse su una disciplina rigida come nelle famiglie patriarcali di campagna simili alla loro (poche ormai ne restavano). Gelindo, il fratello maggiore, era quello che aveva più autorità, ancor più del padre; ma i Cervi erano come una repubblica, e prima di decidere qualcosa ne discutevano tutti insieme, e ognuno diceva la sua, il padre e la madre insieme ai figli, come due di loro.
La coscienza politica era stato Aldo a portarla in famiglia. Aldo da soldato era stato condannato a tre anni di Gaeta, per aver obbedito troppo fedelmente alla consegna. Era di sentinella ad una polveriera, e aveva fatto fuoco verso un'ombra che non aveva risposto al "chi va là"; quell'ombra era di un tenente colonnello che restò ferito ad un dito e lo mandò sotto processo. A Gaeta come in ogni carcere d'Italia, a quel tempo era facile incontrare i comunisti, e Aldo li incontrò. Passò anche per lui "l'Università del carcere"; lesse molti libri, discusse di storia, d'economia, di politica. Tornò a casa, amnistiato, dopo due anni con in testa un sistema di idee ben preciso. Con i fratelli gli fu facile continuare le discussioni del carcere, e procurarsi libri per approfondire i problemi. L'unione tra fratelli diventò anche un'unione tra compagni; e anche il padre - che pure un tempo votava per il Partito Popolare - li seguì nelle nuove idee.
Studiavano la storia d'Italia in cinque grossi volumi d'un popolare testo illustrato; e leggevano Gorki e Anatole France, ma anche Dante e Omero e Virgilio. E' la figlia di Antenore una ragazza di diciannove anni che mi mostra i libri del padre e degli zii.
Sto aspettando il vecchio Cide che non è in casa; è a Reggio a una riunione della cooperativa. "E' sempre in movimento il vecchio - si lamentano le nuore, - a settantasei anni suonati, con qualsiasi tempo, in autobus, a piedi, in bici, al Consiglio comunale, alla cooperativa, o per la campagna…"
Aspettando la Irnes, la vedova di Agostino, mi guida nel tinello che raccoglie i pochi cimeli di quelle vite, i mobili che costruiva Antenore, provetto falegname, i diplomi vinti nelle esposizioni agricole, i libri, le fotografie… Ecco i loro sette volti, magri, ostinati, seri.
Su una delle credenze fatte da Antenore troneggia un mappamondo. Era stato Aldo a comprarlo, il giorno che era andato a Reggio a prendere il trattore. Era un gran giorno per la famiglia; l'azienda andava bene, erano riusciti finalmente a comprarsi un trattore, e Aldo tornò guidando la macchina nuova fiammante, con a bordo quel mappamondo anch'esso nuovo nuovo.
Dopo l'8 settembre casa Cervi diventò un rifugio di soldati sbandati e di prigionieri stranieri fuggiaschi. Ci passarono un centinaio di persone in quei mesi, sovietici, inglesi, un aviatore americano, un tedesco disertore.
L'attività partigiana era agli inizi. Di squadre di pianura non ne esistevano ancora, furono i Cervi ad avere la prima idea. Era Aldo, il più impegnato nella lotta, andò in montagna con una delle prime bande, ai piedi del monte Ventasso, e Agostino col cavallo faceva il trasporto d'armi. Dopo aver disarmato il presidio fascista di Toano, la formazione, isolata e priva di rifornimenti, dovette sciogliersi. Aldo scese a casa e animò le azioni di pianura, il disarmo del presidio di S. Martino in Rio, l'abbattimento di un pilone per l'alta tensione per le fabbriche militari di Reggio, e girava per i paesi trasportando bombe a mano nella cesta delle verdure, eludendo con astuzia contadina le perquisizioni degli sbirri. Che la fattoria fosse un luogo segnalato e pericoloso, era ormai chiaro. Quel via via di fuggiaschi stranieri non poteva non dare nell'occhio. Aldo, che s'era votato nella lotta anima e corpo, non voleva che i fratelli s'esponessero; c'era la campagna da mandare avanti; a far la guerra ai tedeschi e ai fascisti pensava lui, ed era pronto a pagare di persona. Ma era un momento in cui sistemare in un altro posto quei sovietici e quegli inglesi che dormivano nella loro stalla, era un affar serio. Chi se li sarebbe presi, col rischio di farsi bruciare le case dai tedeschi?
Alla fattoria la notte si montava la guardia, fino all'alba. Ma il 25 novembre la guardia era appena smontata, perché era gia chiaro. I fascisti arrivarono a piedi, facendo un gran giro per i campi, con uno spiegamento di forze come dovessero circondare un paese. Quando i Cervi, le donne e i prigionieri sentirono i primi spari, la fattoria era già circondata. Credevano di poter resistere e cominciarono a rispondere dalle finestre con qualche bomba a mano e qualche raffica d'una mitragliatrice che presto s'inceppò. I fascisti diedero fuoco ad un'ala della casa. Il capitano Pilati intimò la resa. Non c'era scampo, i fascisti erano troppi, la casa bruciava. I Cervi uscirono a mani alzate. Furono portati a Reggio, al carcere dei Servi, i sette figli e il padre.
Negli interrogatori Aldo prese su di sé tutte le responsabilità: "Io solo sapevo dei prigionieri, venivano di notte, li facevo entrare io e al mattino se ne andavano; i miei fratelli non sospettavano di niente". Il suo calcolo era quello di salvare i familiari, d'essere fucilato lui solo.
Intanto c'era sempre la speranza di riuscire tutti a scappare, perché tenere in prigione sette, anzi otto tipi della razza dei Cervi non era facile. La serie di tentativi di evasione falliti è troppo lunga da raccontare. Prima con un cucchiaio, poi con un mattone, poi con la connivenza di un secondino, poi collegati ai partigiani che dovevano assaltare la prigione… L'ultimo tentativo era predisposto per il 30 dicembre, quando una parte delle guardie sarebbe stata in licenza per il capodanno. Ma il 27 dicembre. in un'azione partigiana, venne giustiziato il segretario del fascio di Bagnolo in Piano; a notte si riunì il Tribunale Speciale di Reggio; il 28 mattina i sette fratelli insieme al giovane Quarto Cimurri, un disertore dell'esercito repubblichino che era tra i rifugiati nella loro fattoria, furono passati per le armi. Morirono da "cinici" dissero i fascisti; il che in bocca al nemico, è quanto dire:"da eroi".
Ecco l'ala della casa che bruciò quella notte, ecco la finestra da cui i Cervi risposero agli spari, ecco la stalla in cui si nascondevano i fuggiaschi… . E in quella stalla, appena arrivato di città, mentre senza neppur cambiarsi d'abito ha già afferrato il forcone e rivolta un mucchio di fieno, incontro il vecchio Cide. E' un ometto basso, nodoso, di parola calorosa e pronta.
"I miei figli? - dice - scrivete questo; che dire uno era come dire sette, e dire sette era come dire uno".
Vorrei dirgli che sotto i suoi occhi, in questa casa, sono avvenuti fatti di importanza storica enorme; lo sviluppo politico e culturale e tecnico d'una avanguardia contadina in pieno fascismo, la nascita di un nucleo di fraternità internazionale in piena guerra, le prime esperienze di nuove forme di lotta partigiana che dovevano poco dopo propagarsi a tutta l'Italia occupata. Ma forse il vecchio Cide non mi intenderebbe. E' una storia familiare, questa, per lui; è un lutto familiare il suo, come quello di tanti che hanno perduto i figli in guerra. Ma tra le vicende che studiavano i suoi figli la sera coi pugni sulle tempie intorno al tavolo nei volumi della vecchia storia d'Italia, questa storia familiare deve trovare il suo posto.

domenica 22 aprile 2012

"La primavera hitleriana" di Eugenio Montale


Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a san Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropo nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
                                    Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi
fino a che il cieco sole in te porti
si abbacini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

sabato 21 aprile 2012

"A galla" di Eugenio Montale


Chiari mattini,
quando l'azzurro è inganno che non illude,
crescere immenso di vita,
fiumana che non ha ripe né sfocio
e va per sempre,
e sta - infinitamente.

Sono allora i rumori delle strade
l'incrinatura nel vetro
o la pietra che cade
nello specchio del lago e lo corrùga.
E il vocìo dei ragazzi
e il chiacchiericcio liquido dei passeri
che tra le gronde svolano
sono tralicci d'oro
su un fondo vivo di cobalto,
effimeri...

Ecco, è perduto nella rete di echi,
nel soffio di pruina
che discende sugli alberi sfoltiti
e ne deriva un murmure
d'irrequieta marina,
tu quasi vorresti, e ne tremi,
intento cuore disfarti,
non pulsar più! Ma sempre che lo invochi,
più netto batti come
orologio traudito in una stanza
d'albergo al primo rompere dell'aurora.
E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.

giovedì 19 aprile 2012

Considerazioni libere (281): a proposito di un film che non è solo un film...

Aspettavo con passione civile e con curiosità cinefila il film di Marco Tullio Giordana sulla strage di piazza Fontana. Questa attesa non è stata delusa: Romanzo di una strage è un bel film, ben girato e interpretato con intensità da tutti gli attori; dopo questo film sarà quasi impossibile non associare Giuseppe Pinelli al volto di Pierfrancesco Favino. Al di là di ogni possibile riserva - io ne farò qualcuna nel corso di questa "considerazione" - dobbiamo essere grati al regista di aver accettato questa questa sfida e di aver raccontato una storia che allo stesso tempo - e paradossalmente - è troppo lontana e troppo vicina. Per una parte di questo paese, in particolare per tutti quelli che sono nati dopo la strage, si tratta di un episodio lontano, dai contorni confusi, un fatto con nessuna conseguenza e nessun legame con quello che succede ai nostri tempi. Nelle interviste in cui ha presentato il film, Giordana ha giustamente ricordato che, durante una ricerca svolta alcuni anni fa tra i ragazzi che frequentano le medie superiori a Milano, il 43% ha detto che la strage è opera delle Brigate rosse, il 38% della mafia, il 25% degli anarchici. Speriamo che questo film possa servire almeno a evitare gli errori più grossolani e anacronistici. Per la maggioranza della nostra cosiddetta classe dirigente - intesa nel senso più largo possibile e quindi politici, funzionari dello stato, imprenditori, giornalisti - la strage di piazza Fontana è un episodio ancora vivo, perché, nella nostra società sclerotizzata e gerontocratica, la classe dirigente in questi quarant'anni è cambiata davvero ben poco. Io ho cominciato a riflettere su quell'episodio attraverso le parole di Pier Paolo Pasolini, quel celebre articolo che comincia con "Io so". Grazie a Pasolini anche noi abbiamo potuto dire che sappiamo chi sono i responsabili di quella e delle altre stragi.
Giordana e i suoi sceneggiatori tentano un'operazione ambiziosa, di fornire una versione di quella vicenda che possa servire a pacificare e unire il paese. Su questo obiettivo si è speso con grande autorevolezza il presidente Napolitano, con parole importanti e non retoriche e soprattutto con il gesto di invitare alla giornata dedicata alle vittime del terrorismo Gemma Calabresi e Licia Pinelli, riconoscendo quindi che i loro mariti sono stati le ultime due vittime di quella strage. Il film, fin da una delle prime scene, mostra quelli che poi si cominciarono a chiamare gli "opposti estremismi". Poco prima che venga ucciso l'agente Annarumma il giornalista Marco Nozza dice a Luigi Calabresi - cito a memoria e quindi scusate se le parole non sono esatte: "oggi c'è una brutta aria, tutti troppo eccitati, voi e loro". Nelle scene successive sia Pinelli che Calabresi mostrano di non voler accettare questo clima di violenza; su questo idem sentire si costruisce il loro rapporto di reciproca stima. Per la cronaca lo scambio di libri tra i due c'è stato, anche se non si è svolto a Natale né in una libreria Feltrinelli. Calabresi regalò a Pinelli Mille milioni di uomini, quando ancora in questura a Milano speravano di "coltivare" un possibile informatore, e l'anarchico ricambiò con l'amato libro di Edgar Lee Masters*.
Nel film ci sono molti personaggi positivi: Aldo Moro, il colonnello dei carabinieri Alferano che conduce le "indagini parallele", il giudice Paolillo, i magistrati veneti Calogero e Stiz, perfino Saragat che, in uno dei sottofinali, pare pentirsi della tentazione di voler accettare - se non di aver auspicato - una svolta autoritaria, in nome della superiore fedeltà democratica. Visto che i "buoni" sono tanti si fatica a capire come mai abbiano perso. L'insistenza sulla figura di Moro è una delle forzature del film; appare fin dall'inizio, già presago delle sventure che capiteranno all'Italia e anche della sua tragica morte. Non è mai una persona, ma sempre un personaggio, lo sguardo dolente, gli occhi rivolti al cielo; eppure ben immerso nelle cose terrene, lo si vede ricevere rapporti segreti dei carabinieri - a che titolo un ministro degli esteri ha una sorta di servizio segreto personale? - e soprattutto, nel sottofinale già citato del pentimento di Saragat, è Moro che elabora e giustifica la teoria che a quel punto occorra coprire tutto con una coltre d'oblio, profezia che peraltro si è perfettamente avverata.
Il film cade nei dialoghi di fantasia, mentre è perfetto quando racconta episodi veri, come la conferenza stampa del questore Guida dopo la morte di Pinelli, un episodio da vedere e rivedere. L'altro dialogo di fantasia, oltre a quello tra Moro e Saragat, che non regge è quello tra Calabresi e Federico Umberto D'Amato, il "capo" dell'ufficio affari riservati del ministero dell'interno. Qui c'è la riserva più forte che ho da fare al film; siamo praticamente alla fine, Calabresi sta per essere ucciso - e noi lo sappiamo - dopo aver svolto delle indagini private che lo hanno portato a elaborare una teoria: quel 12 dicembre sarebbero scoppiate due bombe, una messa dagli anarchici a scopo dimostrativo, che sarebbe dovuta esplodere nella banca chiusa senza fare vittime, e una messa dagli estremisti di destra, con la complicità di uomini dei servizi, per uccidere, facendo ricadere la colpa sugli anarchici. Il film quindi finisce, chiudendo il cerchio sulla tesi degli "opposti estremismi". Giordana e i suoi sceneggiatori devono questa tesi - che è avallata nel film dal fatto da essere pronunciata da un "eroe" in un momento drammaturgicamente saliente - da un libro di Paolo Cucchiarelli. Il giornalista sostiene tre tesi: l'ipotesi delle due bombe di diversa matrice, il coinvolgimento di Giuseppe Pinelli negli attentati degli anarchici, anche precedenti a piazza Fontana, la presenza di Calabresi nel suo ufficio quando morì l'anarchico. Giordana, per rispettare l'idea di fondo del film, ossia la pacificazione, accoglie solo la prima ipotesi. Adriano Sofri ha scritto un libro, una sorta di istant e-book, intitolato 43 anni, pubblicato in rete e scaricabile gratuitamente. Spero lo leggerete e che leggerete anche La notte che Pinelli edito da Sellerio; la tesi del raddoppio delle bombe, degli attentatori, dei due taxi, è una forzatura che sfida logica e buon senso.
Il film, al di là di questo punto specifico, è prezioso per molte ragioni, ma soprattutto perché ci offre alcuni immagini "illuminanti" di quei mesi. Dà i brividi vedere la faccia di Marcello Guida e pensare che quella persona, già vicedirettore della colonia penale fascista di Ventotene, nel '69 era questore a Milano. Dà i brividi vedere che in quella questura si muoveva con un'autorità indefinita un emissario dell'ufficio affari riservati, un'assoluta anomalia istituzionale. Dà i brividi vedere un uomo dei servizi segreti, Guido Giannettini, che va a organizzare le azioni dei gruppi neofascisti veneti. Dà i brividi vedere Junio Valerio Borghese, persona che in un altro paese sarebbe stata in carcere, aspettare che il governo decreti lo stato d'emergenza, perché evidentemente qualcuno glielo aveva garantito. Dà i brividi vedere quanti fascisti e quanti uomini dei servizi erano infiltrati nei gruppi anarchici.
Il 12 dicembre non fu un episodio drammatico dello scontro tra destra e sinistra. L'Italia stava crescendo, stava cambiando in profondità, socialmente e culturalmente, prima ancora che politicamente; certo erano significativi i progressi elettorali del Pci, così come la crescita della coscienza operaia all'interno delle fabbriche, ma ancora più importanti erano i cambiamenti e i progressi della società. All'inizio del film Borghese arringa un'adunata fascista e significatrivamente proclama che il pericolo non viene tanto dai rossi quanto dalle donne che vogliono il divorzio, dai preti che vogliono sposarsi, dai giovani che contestano l'autorità dei loro insegnanti. Allora sì il paese era più avanti delle classi dirigenti, i notabili democristiani come Rumor, i relitti del fascismo come D'Amato e Guida; ora purtroppo il paese non è più avanti, ma cammina testa a testa, in una continua sfida al ribasso, con la propria classe dirigente, ma questa è un'altra storia. Questo straordinario cambiamento sociale era ormai avviato, sembrava inarrestabile, toccava larghi settori della società, e allora forze potenti si misero in moto per fermare questo cammino. C'era chi voleva tornare del tutto indietro, chi pensava che in Italia potesse succedere quello che era avvenuto in Grecia e fecero tutto quello che era in loro potere per farlo. In diverse momenti fummo vicinissimi al colpo di stato, ma in Italia il Pci era troppo forte e, in fondo, i vecchi democristiani, con tutto i loro difetti, non vollero davvero arrivare fino in fondo e preferirono fermarsi prima dell'abisso, perché c'erano valori in cui credevano con sincerità, al di là di ogni retorica. E poi c'era una società, fatta di donne e di uomini, di persone più o meno impegnate in politica, di vecchi e di giovani, che sapeva mobilitarsi: tra le immagini più belle del film ci sono quelle, vere, del funerale delle vittime. Scrive, con un po' di retorica, il cronista del Corriere il il 16 dicembre 1969, ma in simili occasioni anche la retorica è importante:
Fra le decine di migliaia di persone che gremivano il sagrato e la piazza gelida bagnata, c’erano gli operai in tuta blu con il nome della ditta cucito sul petto, fraternamente accanto ad altri uguali operai, in uniforme, agenti e carabinieri. C'erano studenti colmi di questa e quella dottrina, c'erano vecchine e ragazze vestite come vuole la buffa moda, contestatori e borghesi, poveri e ricchi, moderati ed estremisti di tutte le frange di destra e di sinistra. C'erano gli avversari di ieri e forse di domani. Non di oggi. Oggi era giorno di dolore, di preghiera, non di passioni.
Si lottò ancora molto, e molti morirono, a Milano e in tutta Italia. Ma la cosa peggiore non successe, anche perché ci fu quella risposta popolare.

* L'Antologia di Spoon river ritorna drammaticamente nella vita di Pinelli. Il pomeriggio del 12 dicembre Pinelli, dal circolo Ponte della Ghisolfa, scrive una lettera a un compagno trentino, Paolo Faccioli, in carcere per gli attentati di quell'anno. E' una sorta di "testamento" di Pinelli:
Caro Paolo,
rispondo con ritardo alla tua, purtroppo tempo a disposizione per scrivere come vorrei ne ho poco: ma da come ti avrà spiegato tua madre ci vediamo molto spesso e ci teniamo al corrente di tutto. Spero che ora la situazione degli avvocati si sia chiarita. Vorrei che tu continuassi a lavorare, non per il privilegio che si ottiene, ma per occupare la mente nelle interminabili ore; le ore di studio non ti sono certamente sufficenti [sic] per riempire la giornata.
Ho invitato i compagni di Trento a tenersi in contatto con quelli di Bolzano per evitare eventuali ripetizioni dei fatti. L’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: essa è ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese, ora speriamo che lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a comprendere il comportamento dei magistrati nei vostri confronti.
Siccome tua madre non vuole che ti invii soldi, vorrei inviarti libri, libri non politici (che me li renderebbero) così sono a chiederti se hai letto Spoon River, è uno dei classici della poesia americana, per altri libri dovresti dirmi tu i titoli. Qua fuori cerchiamo di fare del nostro meglio, tutti ti salutano e ti abbracciano, un abbraccio in particolare da me ed un presto vederci.
Sulla tomba di Pinelli c'è una poesia di Masters, l'epitaffio di Carl Hamblin.


martedì 17 aprile 2012

"Cambi di abitudine" di Sinan Gudzević


All'obitorio principale di Belgrado
Ogni giorno vado già da mesi

Mi rassicura questa consuetudine
Con le bare e le croci

Ma non ci andrò più

Col venditore di candele all'ingresso
Sono entrato tanto in confidenza
Da chiacchierare ormai di sciocchezze
Che con la morte niente hanno a che fare

lunedì 16 aprile 2012

domenica 15 aprile 2012

Considerazioni libere (280): a proposito di bisogno di giustizia...

Chi legge con qualche assiduità queste mie "considerazioni" - ma anche un lettore occasionale - sa bene che non ho alcuna simpatia verso la Lega nord, un partito di destra e xenofobo, il cui leader ha dato un grande contributo alla scadimento della vita politica italiana. Detto questo mi stupisce un fatto: praticamente ogni giorno una diversa procura italiana apre un nuovo fascicolo su un qualche esponente di quel partito; ormai abbiamo perso il conto delle indagini in corso. Provo a fare due ipotesi. O quei fascicoli erano già "pronti", magari istruiti a seguito di denunce ed esposti di qualche ex-militante, ma venivano prudentemente tenuti "chiusi", perché la Lega era al governo e leghista era il ministro dell'interno. O quei fascicoli sono stati frettolosamente aperti, per seguire un facile consenso, perché una caratteristica dell'Italia, un vero e proprio "carattere originario" del nostro paese, è quello di essere ossequiosi verso il potente di turno, per poi maramaldeggiare quando questo sia caduto. Propendo per la prima ipotesi, visto che da tempo, almeno qui in Emilia-Romagna, terra di recente "conquista" per il Carroccio, si rincorrevano voci su una cattiva gestione del partito, tanto da esserci continue espulsioni e commissariamenti. Ad ogni modo, questo non getta una buona luce sulla presunta indipendenza della magistratura inquirente italiana e sull'obbligatorietà dell'azione penale.
Ieri è stata emessa la sentenza - a questo punto quella definitiva, mi pare di capire - sulla strage del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia. Gli imputati sono stati tutti assolti, anche chi ha da tempo preferito una più sicura latitanza, e le parti civili, ossia i familiari delle vittime, sono state condannate al pagamento delle spese processuali. Non ci sono ormai più parole per descrivere lo sdegno civile per queste sentenze che si susseguono nella storia di questa, come di tutte le altre stragi italiane. In questa sede non posso addentrarmi in una storia processuale così complicata e probabilmente a questo punto la sentenza non poteva essere che di assoluzione. Le forze che hanno lavorato, fin da subito, per impedire di raggiungere una verità processuale erano potenti e ben ramificate all'interno delle istituzioni, dalla politica alle forze dell'ordine, passando per i servizi segreti. Certamente molti magistrati, alcuni per dolo, altri per incompetenza, molti altri per pedissequa accettazione dell'opinione dominante, hanno contribuito con efficacia a questa opera di sistematico depistaggio, aiutati da un sistema bizantino e cavilloso che favorisce ogni tipo di abuso.
Concludo con una notizia di un paio di settimane fa. La procura di Milano ha accusato, con prove schiaccianti, un magistrato calabrese di essere sostanzialmente a disposizione della 'ndrangheta. Pochi mesi prima lo stesso magistrato, su cui anni fa c'erano state altre indagini conclusasi con un provvedimento disciplinare, aveva avuto una promozione, in pratica automatica e poi ratificata dal Csm, legata unicamente alla sua anzianità di servizio.
Riportando queste notizie non voglio alimentare il qualunquismo ormai dilagante - e che temo sarà premiato alle prossime elezioni - ma mettere alcuni punti fermi su una questione centrale per la democrazia italiana. Nel ventennio che ci siamo lasciati alle spalle, dominato dalla figura di B., la polemica sulla giustizia è stata un elemento caratterizzante del dibattito politico: l'imputato B. ha cercato in ogni modo di limitare l'indipendenza del potere giudiziario, cercando in particolare di separare magistratura giudicante da magistratura inquirente e sottoponendo quest'ultima al potere esecutivo, e naturalmente i magistrati hanno cercato in ogni modo di resistere a questi attacchi, anche uscendo in qualche caso dalle prerogative e dai limiti costituzionali. Nel clima manicheo di quegli anni o si stava con B. o si stava con i magistrati. Io - che non sono mai stato con B.  - devo ammettere che questa polemica, così accesa, non ha aiutato la causa della magistratura. In Italia la giustizia non funziona e continuare a negarlo è un problema. Peraltro gli investitori internazionali seri - e non quelli che parlano per compiacere Monti & Co - spiegano che uno dei motivi per cui non investono in Italia è proprio il cattivo funzionamento della giustizia, molto più che i presunti limiti ai licenziamenti imposti dall'art. 18. Di fronte a qualunque critica i magistrati si limitano, in maniera corporativa - come fanno i taxisti - ad alzare le barricate, mettendo tutti a tacere citando Falcone, Borsellino e tutti gli altri magistrati che per questo paese, e per la giustizia, hanno sacrificato la vita. Fanno come quelli che impediscono si critichi la politica israeliana, sbandierando la Shoa. Se vogliono essere la coscienza critica di questo paese - e sa il cielo quanto bisogno di coscienza abbiamo bisogno noi italiani - i magistrati devono cominciare a riconoscere gli errori di una parte di loro. Dovrebbero fare lo stesso i giornalisti, i professori universitari, i medici, gli avvocati, ma francamente non siamo pronti per una tale rivoluzione, ma dai giudici abbiamo il diritto di pretenderlo con maggior forza. Io capisco bene che c'è una parte del paese - non minoritaria - che non ama le regole e quindi non ama chi quelle regole è chiamato a farle rispettare e soprattutto che c'è ancora chi - magari in maniera meno rozza di B. e dei suoi avvocati - cerca di limitare il potere autonomo della magistratura, ma finché non ci sarà da parte dei magistrati questa opera di verità, finché continueranno su questa strada, non troveranno molti alleati, saranno sempre una delle tante "caste" italiane, in perenne conflitto con le altre. Tanto più in questi tempi in cui tanti diritti sono sotto attacco, noi abbiamo bisogno di una magistratura seria, credibile e autorevole, perché da sempre sono gli ultimi ad avere più bisogno della giustizia, ad avere bisogno che i loro diritti vengano difesi.

sabato 14 aprile 2012

"Il punto interrogativo" di Gianni Rodari


C'era una volta un punto
interrogativo, un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per il rimorso
un punto esclamativo.

giovedì 12 aprile 2012

"La bomba di Hiroshima" di Roberto Roversi


La bomba di Hiroshima
bruciò troncando le ultime parole.
L’ossa calcinate
riverberano il cielo senza fiato.
L’erba per sempre ha il verde rovesciato,
l’albero ha il suo tronco congelato
per sempre, la natura scompare
per sempre, nell’orrore dell’uomo
dentro un fuoco di morte.
File di carri cercano le frontiere,
appena cadute le barriere
di filo spinato
la gente beve nelle mani screpolate
e corre forte sperando lontano
per la pianura, macerie a frugare
macchie nere di lava paura;
nel sole la guerra è seppellita
con gli ultimi soldati in pietra dura.
Nel Giappone una città nuova
cresce adesso funebre violenta
Sopra uomini esanimi che al sole
si scuoiano nei fossi.
E qua è l’Italia, non intende, tace,
si compiace di marmi, di pace
avventurosa, di orazioni ufficiali,
di preghiere che esorcizzano i mali.
Ma nel mondo le occasioni perdute
sono i sassi buttati dentro il mare;
nei luoghi devastati dalla lebbra
o accucciati nell’ombra a imprecare
Non un granello di polvere nel fondo
dell’occhio incantato che li domina.
Tutti i morti ormai dimenticati.
Il ventre della speranza è schiacciato
Nella polvere da una spada antica;
anni interminabili, senza amore,
inchiodano col fuoco alla fatica.

mercoledì 11 aprile 2012

"Le pratiche inevase" di Primo Levi


Signore, a fare data dal mese prossimo
voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l'ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all'altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l'ho fatto;
costruirmi una casa, forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro meraviglioso, caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti, alleviato dolori e paure,
sciolto dubbi, donato a molta gente
il beneficio del pianto e del riso.
Ne troverà traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla.
È peccato, sarebbe stata un'opera fondamentale.

martedì 10 aprile 2012

"Canto dei morti invano" di Primo Levi


Sedete e contrattate
a vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
purché trattiate e contrattiate
le vite dei nostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
converga a benedire le vostre menti
e vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
l'esercito dei morti invano,
noi della Marna e di Montecassino,
di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
e saranno con noi
i lebbrosi e i tracomatosi,
gli scomparsi di Buenos Aires,
i morti di Cambogia e i morituri d'Etiopia,
i patteggiati di Praga,
gli esangui di Calcutta,
gl'innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
finché la lingua vi si secchi:
se dureranno il danno e la vergogna
vi annegheremo nella nostra putredine.

lunedì 9 aprile 2012

"Felicità" di Jack Hirschman


C’è una felicità, una gioia
nell’anima che è stata
sepolta viva in ciascuno di noi
e dimenticata.

Non si tratta di uno scherzo da bar
né di tenero, intimo umorismo
né di amicizia affettuosa
né un grande, brillante gioco di parole.

Sono i superstiti sopravvissuti
a ciò che accadde quando la felicità
fu sepolta viva, quando essa
non guardò più

dagli occhi di oggi, e non si
manifesta neanche quando
uno di noi muore – semplicemente ci allontaniamo
da tutto, soli

con quello che resta di noi,
continuando ad essere esseri umani
senza essere umani,
senza quella felicità.

Considerazioni libere (279): a proposito di internazionalismo...

Perfino i provincialissimi giornali italiani - di solito impegnati nella complicata esegesi delle dichiarazioni dei nostri politici - si sono accorti che da qualche anno si riuniscono i Brics, ossia i capi di stato e di governo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Questi cinque paesi rappresentano da soli il 26% del territorio e il 42% della popolazione mondiali; hanno abbondanti risorse naturali strategiche, ingenti riserve valutarie e producono il 14% del pil mondiale e tutti gli analisti concordano sul fatto che questo dato è destinato a crescere, a danno dei paesi del cosiddetto G7.
Quarant'anni sono un periodo di tempo piuttosto breve - tanto più per me che ora di anni ne ho ormai 42. Al di là di questo dato anagrafico non fondamentale, proviamo a ricordare come erano questi cinque paesi nel 1970. La situazione era completamente diversa e il mondo si divideva in maniera piuttosto netta tra chi stava con gli Stati Uniti e chi con l'Unione Sovietica, secondo una rappresentazione geopolitica uscita direttamente dalla fine della seconda guerra mondiale e dagli accordi di pace tra le potenze vincitrici. Brasile e Sudafrica erano senza dubbio nella sfera di influenza americana, mentre l'India, pur essendo tra i fondatori dei cosiddetti "paesi non allineati", guardava con maggior simpatia verso l'Unione Sovietica; la Cina era un regime comunista e quindi, pur essendo in qualche modo in competizione con il potente vicino, era d'ufficio inserito nella sfera sovietica. Dal punto di vista istituzionale, in questi quarant'anni Cina e India non hanno subito cambiamenti: sono rimasti rispettivamente un regime con un partito unico e una democrazia parlamentare. Naturalmente tra la Repubblica Popolare Cinese della rivoluzione culturale e la Cina di oggi ci sono differenze enormi - che credo siano evidenti a ciascuno di voi - ma la continuità del regime è un elemento altrettanto evidente. La differenza più vistosa tra il 1970 e oggi è il fatto che nel fatidico '89 è sparita l'Unione Sovietica: al suo posto sono nati diversi stati, di cui la Russia è il più grande e potente. Come noto solo in alcuni di questi stati ci sono oggi vere democrazie, simili a quelle dei vicini paesi europei; in Russia ad esempio c'è un regime formalmente democratico, ma il potere è di fatto concentrato nelle mani di un solo uomo, Vladimir Putin, che peraltro nella metà degli anni Settanta era un ufficiale del Kgb. In Brasile nel 1970 era al governo il generale Garrastazu Médici, la cui giunta militare è stata una delle più repressive negli anni della cosiddetta dittatura dei gorillas, che durò dal 1964 al 1984; attualmente è presidente del Brasile Dilma Rousseff, che nel '70 era in carcere perché era una guerrigliera socialista, che aveva partecipato alla lotta armata contro il regime. In Sudafrica c'era il regime segregazionista della minoranza afrikaner; nel '70 l'attuale presidente sudafricano, Jacob Zuma, era in carcere, per la sua attività politica nell'African National Congress, il partito dei neri, un'organizzazione che era considerata terrorista anche dal governo degli Stati Uniti. Letto così, con soltanto queste poche notizie, il bilancio di questi quarant'anni è decisamente positivo e io credo, da uomo di sinistra, che dobbiamo essere felici di questi risultati che abbiamo raggiunto, che sono costati lotte, sacrifici personali e collettivi molto forti.
Eppure non possiamo fermarci qui. Nel nr. 943 di Internazionale è pubblicato un breve saggio che la scrittrice indiana Arundhati Roy ha scritto per il settimale Outlook; si intitola Capitalism. A ghost story; è un testo molto denso, che vi consiglio di leggere. L'analisi che Arundhati Roy fa della situazione indiana è molto interessante, anche perché questo paese, come abbiamo visto, è una repubblica dal 1950 ed è, con 1 miliardo e 173 milioni di abitanti, la più grande democrazia del mondo. Le cento persone più ricche possiedono l'equivalente di un quarto del pil dell'intero paese; 800 milioni di persone vivono con meno di venti rupie al giorno e le persone che si sono suicidate perché non erano in grado di pagare i debiti sono già 250mila. In questo blog ho dedicato diverse "considerazioni" all'India; ve ne segnalo tre che spero avrete il tempo di rileggere: la nr. 102 sullo sfruttamento delle miniere di bauxite nella zona di Niyamgiri, che mettono in crisi l'ecosistema di quella regione - che le tribù considerano sacro - e la stessa sopravvivenza di quelle popolazioni; la nr. 105 sulle donne che vivono facendo le madri surrogate per le coppie occidentali che non possono avere figli; la nr. 111 sui ragazzi che vivono e lavorano nelle grandi discariche di prodotti tecnologici che arrivano in India dagli Stati Uniti e dall'Europa. Si tratta di problemi particolari che offrono però un esauriente quadro d'insieme sulla situazione complessiva di quel paese.
Come spiega in maniera efficace Roy, "il rapporto tra crescita del pil e occupazione è un mito", tanto è vero che dopo vent'anni di costante crescita il tasso di disoccupazione è aumentato - siamo adesso al 10,8% - e sul totale della popolazione attiva il 90% si guadagna da vivere nel cosiddetto settore informale. Secondo la definizione degli economisti, il settore informale è tutta quella parte dell'economia che non è regolamentata da norme legali e contrattuali; si tratta di lavoratori formalmente indipendenti, ma che in effetti sono strettamente vincolati alle decisioni di quelli che li pagano e quindi sfruttati; sono lavoratori a domicilio, venditori ambulanti, collaboratori domestici, contadini senza terra e costretti a lavorare sulle terre di altri per sopravvivere.
Arundhati Roy spiega come lo sfruttamento passa attraverso la realizzazione di grandi opere, spesso di dubbia utilità; racconta il progetto del "corridoio industriale Delhi-Mumbai"; ne riporto un passo.
Dholera sarà collegata al corridoio industriale Delhi-Mumbai (Dmic), lungo 1.500 chilometri e largo trecento, con nove enormi zone industriali, una linea ferroviaria ad alta velocità, tre porti, sei aeroporti, un'autostrada a sei corsie e una centrale elettrica da quattromila megawatt. Questa speculazione nasce da un accordo tra i governi di India e Giappone, e tra i loro rispettivi partner privati, su un'idea del McKinsey global institute.
Sul sito del Dmic si legge che il progetto "interesserà" circa 180 milioni di persone, ma non specifica in che modo. Si costruiranno nuove città e la popolazione passerà dagli attuali 231 milioni di abitanti a 314 milioni entro il 2019. In appena sette anni. Quand'è l'ultima volta che uno stato o un dittatore ha ordinato il trasferimento di milioni di persone?
La scrittrice indiana dedica gran parte del suo saggio a spiegare come il grande capitale riesce a influenzare la cultura, l'informazione, il sentire diffuso, in sostanza a plasmare l'opinione pubblica, e questo è probabilmente l'aspetto che più merita di essere approfondito e per questo vi rimando al testo che è chiaro e molto documentato.
A me interessa riflettere su un altro aspetto. Come dice giustamente Arundhati Roy i diritti umani - e aggiungo io, la stessa democrazia - "sono importanti, ma non sono la lente adatta per capire le grandi ingiustizie del mondo in cui viviamo". Luciano Gallino in un suo saggio recente dice che la guerra di classe c'è ancora, ma adesso è il capitalismo finanziario che attacca le residue conquiste ottenute dai lavoratori o che impedisce - come avviene in India - che alcuni diritti che a noi paiono scontati possano essere raggiunti in quel paese. In questi quarant'anni, come ho detto, c'è stato - e per fortuna - uno sviluppo della democrazia: un intero popolo, come è avvenuto in Sudafrica, ha avuto l'effettivo accesso al voto; in tanti paesi - ad esempio dell'America latina - siamo passati dalla dittatura alla democrazia; anche nell'Europa occidentale in questi ultimi quarant'anni sono finite le dittature portoghese, spagnola e greca; e poi c'è stato il movimento delle donne, che è stata la grande novità politica degli ultimi decenni del secolo scorso. Molte di queste conquiste però sono più formali che sostanziali, perché il potere effettivo è sempre più di un oligarchia vera e propria e sempre con le parole della Roy "mentre i miliardari fanno piroette sulla nostra testa, enormi quantità di denaro corrompono le istituzioni democratiche (i tribunali, il parlamento, i mezzi di informazione), che non funzionano più come dovrebbero".
Come ho avuto modo di scrivere altre volte, queste grandi ingiustizie che ci sono nel mondo aprono una grande prospettiva alla sinistra, che dovrebbe avere la capacità, l'intelligenza e la voglia di coglierle. Abbiamo perso qui - in Italia come negli altri paesi occidentali - tra i valori fondanti della sinistra, l'abitudine a volgere lo sguardo verso il mondo. Io sono convinto che se ricominceremo a guardare cosa avviene fuori dai nostri paesi - e oggi è anche  più facile, viste le possibilità che ci offre la tecnologia - la sinistra potrebbe avere un'opportunità nuova, perché le cose che non vanno sono davvero troppe.

domenica 8 aprile 2012

"Il manico" di Marko Vesovic


Noi che abbiamo vissuto l’assedio di Sarajevo,
di tutto ciò, certamente, non avremo nulla da approfittare.
Quell'esperienza non ci servirà a nulla:
come se avessi perso le mani e guadagnato il violino,
come avrebbe detto Rasko.
Non la puoi trasmettere agli altri.
È possibile restaurare una brocca antica
avendo solo il manico conservato per i tempi nostri?
Bisogna dimenticare tutto
e poi dimenticare il dimenticato. Ma d'ora in poi, spero,
che noi avremo un po' più di rispetto verso noi stessi,
come il pugile che riceve 1.000.000 di colpi
e rimane in piedi,
e la sua faccia massacrata gli dice nello specchio chi è lui in verità.
Abbiamo conosciuto i nostri limiti.
Perché sapere chi sei è sempre stato
il privilegio della vittima. Sapere quanto puoi sopportare senza andare
in pezzi – questo è l'unico potere
che avrai, se sopravvivrai,
dopo questa guerra infinita come
il fazzoletto che un prestigiatore tira fuori dal cilindro.
Quest'esperienza è la spada che non tireremo
spesso fuori dal fodero. Però, almeno io, terrò la mia mano
sul suo manico.

sabato 7 aprile 2012

Considerazioni libere (278): a proposito di partiti...

Le vicende di questi ultimi giorni richiedono un aggiornamento di quello che ho scritto nella "considerazione" nr. 277. Francamente pensavo che le indagini su alcuni esponenti della Lega - importanti, ma non di primo piano, come il presidente del consiglio regionale della Lombardia - servissero a tenere sotto scacco quel partito, così come le indagini su Lusi e su molti altri politici sono funzionali a tenere in piedi lo strano ibrido istituzionale inventato da Napolitano e da Monti e sostenuto dalla totalità del cosiddetto establishment. Certo c'è anche questo, ma le dimissioni di Bossi, arrivate pochi mesi dopo quelle di B., chiudono definitivamente una stagione e quindi meritano qualche riflessione in più.
Non so se si farà una riforma - piccola o grande - del sistema del finanziamento pubblico ai partiti, come adesso tutti invocano. Ci vorrebbe la sfera di cristallo o doti almeno pari a quelle del mago Otelma. Comunque vada questo passaggio lascerà conseguenze, perché i partiti si sono infilati, con un candore che raggiunge l'insensatezza, nella trappola perfetta. Se non faranno la riforma, saranno accusati di continuare a pensare soltanto ai propri interessi e quindi tutti i professionisti dell'antipolitica - da destra a sinistra, da Travaglio agli editorialisti del Corriere - tuoneranno contro di loro e Monti e i "montiani" potranno continuare a fare i salvatori della patria. Se la faranno, dovranno ovviamente limitare al massimo ogni tipo di finanziamento pubblico, per quanto mascherato da rimborso, per affidarsi soltanto ai contributi dei privati, che però non arriveranno, perché i professionisti dell'antipolitica - vedi sopra - hanno già avvelenato i pozzi; poi c'è anche la crisi: figurarsi se gli italiani daranno soldi ai partiti. In conseguenza i partiti saranno sempre più deboli e Monti e i "montiani" potranno continuare a fare i salvatori della patria. Intendiamoci bene; io non voglio difendere questi partiti: faccio perfino fatica a trovarne uno da votare, ma vorrei difendere l'equilibrio istituzionale disegnato un po' di anni fa da persone non perfette, ma assennate, che provarono a scrivere la nostra Costituzione. Come noto, in uno di quegli articoli si parla dei partiti e del ruolo che devono avere. Un ruolo che hanno svolto nella prima parte della storia dell'Italia repubblicana, a volte bene e a volte male - forse più male che bene - ma almeno sono riusciti a garantire il mantenimento della democrazia - in Grecia, ad esempio, non ci sono riusciti - nonostante ci siano state molte forze che hanno cercato di rendere meno democratico il nostro paese. Forse rimpiangeremo - o rimpiangiamo - la Dc e il Pci; credo onestamente che nessuno rimpiangerà mai il Pdl e il Pd, se non gli eletti di questi partiti.
I soldi e i beni di un partito non sono pubblici, ma sono di una comunità circoscritta e definita e ci sono persone che vengono scelte per gestire quei soldi e quei beni. Poi quelle persone possono commettere errori, possono sprecare i beni a loro affidati, possono usarli male: e in molti abbiamo sbagliato facendo quel lavoro - lo so, ho fatto quel lavoro e mi è successo di sbagliare. Ma chi amministra i soldi di una comunità deve avere sempre la consapevolezza che quei soldi non sono suoi e se li usa per sé deve avere la consapevolezza che sta rubando e sapere a chi li sta rubando. Nei partiti come sono diventati non è facile individuare la comunità, anche perché le iscrizioni, quando si fanno ancora, disegnano legami sempre più tenui, quasi inesistenti. Forse mi sbaglio, ma ho l'impressione che questi ultimi lestofanti presi con le mani nella marmellata non siano così consapevoli di rubare a una comunità; sanno di aver fatto un reato ovviamente, ma forse non contro chi. Hanno ragione i militanti della Lega, che hanno fatto volontariato per quel partito, a essere arrabbiati contro chi ha rubato i "loro" soldi: sono loro i primi e unici truffati di questa triste vicenda. Per paradosso, a me non militante leghista potrebbe anche non fregare di come quel partito spende i suoi soldi, anche se vengono dal finanziamento pubblico, perché penso che sia giusto dare un contributo alla vita dei partiti.
In sostanza il problema non è soltanto trovare il modo per rendere più trasparenti i bilanci dei partiti, magari delegando a soggetti esterni la loro certificazione. Si potrebbero chiamare gli esperti di Goldman Sachs che sono stati così bravi a certificare i bilanci della Grecia, ad esempio: di tecnici è pieno il mondo. Il problema è capire che partiti immaginiamo e di conseguenza anche che società immaginiamo. Lo so che adesso uno dei soliti furbetti mi direbbe: "il mondo è cambiato, il Novecento è finito, la rappresentanza degli interessi non ha più senso, non ci possono più essere partiti come quelli del secolo scorso"; io - lo sapete ormai - voglio essere ricordato come "l'ultimo del Novecento" e quindi penso che abbiamo un bisogno disperato di partiti che rappresentino pezzi di società, appunto etimologicamente parti definite di essa e le rappresentino, ne tutelino gli interessi legittimi.
Facciamo un esempio. Non servirebbe un partito che rappresenti i lavoratori? Tra l'altro i lavoratori sono tanti e non sono rappresentati tutti dal sindacato, che comunque fa un altro mestiere. Un artigiano è un lavoratore e non è rappresentato dalla Cgil, un commerciante è un lavoratore e non è rappresentato dalla Cgil. Mi verrebbe da ricordare il Togliatti di "Ceto medio ed Emilia rossa", ma poi direste che sono il solito nostalgico novecentesco e quindi tralascio. Facciamo a capirci: Marchionne fa il suo lavoro, ma non è un lavoratore, infatti non è rappresentato dalla Cgil. Secondo me c'è spazio per un partito che metta al centro il tema del lavoro, consapevole che non può rappresentare tutta la società, ma deve rappresentare una classe, un blocco sociale, un interesse diffuso, come meglio lo volete chiamare.
La Lega ha rappresentato un blocco sociale, che l'abbia fatto bene o male mi interessa poco, almeno per questa riflessione, perché non è il mio blocco sociale. Per me la Lega ha rappresentato sempre altro da quello che io penso ed è sempre stato un avversario, anche quando a sinistra qualcuno occhieggiava a quel movimento. Al di là di questo, francamente non mi fa piacere che stia per crollare l'ultimo partito che, seppur confusamente, faceva questa cosa, aveva questa idea di rappresentanza.
Capisco che il mondo sta andando da tutta un'altra parte, ma io non ho voglia di abituarmi.

venerdì 6 aprile 2012

da "Le città invisibili" di Italo Calvino


Eusapia
Non c’è città piú di Eusapia propensa a godere la vita e a sfuggire gli affanni. E perché il salto dalla vita alla morte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra. I cadaveri, seccati in modo che ne resti lo scheletro rivestito di pelle gialla, vengono portati là sotto a continuare le occupazioni di prima. Di queste, sono i momenti spensierati ad avere la preferenza: i piú di loro vengono seduti attorno a tavole imbandite, o atteggiati in posizioni di danza o nel gesto di suonare trombette. Ma pure tutti i commerci e i mestieri dell’Eusapia dei vivi sono all’opera sottoterra, o almeno quelli cui i vivi hanno adempiuto con piú soddisfazione che fastidio: l’orologiaio, in mezzo a tutti gli orologi fermi della sua bottega, accosta un’orecchia incartapecorita a una pendola scordata; un barbiere insapona con il pennello secco l’osso degli zigomi d’un attore mentre questi ripassa la parte scrutando il copione con le occhiaie vuote; una ragazza dal teschio ridente munge una carcassa di giovenca.Certo molti sono i vivi che domandano per dopo morti un destino diverso da quello che già toccò loro: la necropoli è affollata di cacciatori di leoni, mezzesoprano, banchieri, violinisti, duchesse, mantenute, generali, piú di quanti mai ne contò città vivente.L’incombenza di accompagnare giú i morti e sistemarli al posto voluto è affidata a una confraternita di incappucciati. Nessun altro ha accesso all’Eusapia dei morti e tutto quello che si sa di laggiú si sa di loro.Dicono che la stessa confraternita esiste tra i morti e che non manca di dar loro una mano; gli incappucciati dopo morti continueranno nello stesso ufficio anche nell’altra Eusapia; lasciano credere che alcuni di loro siano già morti e continuino a andare su e giú. Certo, l’autorità di questa congregazione sull’Eusapia dei vivi è molto estesa.Dicono che ogni volta che scendono trovano qualcosa di cambiato nell’Eusapia di sotto; i morti apportano innovazioni alla loro città; non molte, ma certo frutto di riflessione ponderata, non di capricci passeggeri. Da un anno all’altro, dicono, l’Eusapia dei morti non si riconosce. E i vivi, per non essere da meno, tutto quello che gli incappucciati raccontano delle novità dei morti, vogliono farlo anche loro. Cosí l’Eusapia dei vivi ha preso a copiare la sua copia sotterranea.Dicono che questo non è solo adesso che accade: in realtà sarebbero stati i morti a costruire l’Eusapia di sopra a somiglianza della loro città. Dicono che nelle due città gemelle non ci sia piú modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti.

giovedì 5 aprile 2012

"Tracce del mezzodì nella Erzegovina" di Slavko Santic


F i a c c o l a d i a r i e p o l v e r o s e
e ragazze infocate
aleggia sulle piazze del mezzodì,
nelle quali profuma
la luce erzegovese.
Per questo la morte è
così lontana e invana,
anche se sulla vita
si sparge come oro
e stilla attraverso l'ansia umana
come la sabbia tra le dita.
M a s u l l e p i a z z e d i m e z z o d ì
e sulle labbra delle ragazze
frettolose e mosse
bianche e ventose passioni
seducono la calura del mezzodì
e la chiamata intenzionata.
Nell'aria
e nelle camicie leggere
mansueto come ricordando
si sveste l'ombra pudica
delle visioni turbate.
L e p i a z z e d i m e z z o d ì v i b r a n o
sul cielo infuocato
e sulle pancie tese
delle ragazze assetate e pudiche.
I venti del sud,
tuffati segretamente
nei timori chiari
e vasti dei corpi giovani,
si fecondano pazientemente
nelle onde inesauribili
delle acque vive e delle amare disdette.
Nella Erzegovina si spargono
la salute e i doni,
e nelle piazze di mezzodì
albeggia appena il rumorio della smania cresciuta.
I l t e m p o d e i c h i a r o r i b i a n c h i
e delle immagini roventi
incorniciano le piazze di mezzodì
nell'Erzegovina.
E non servono più a nulla
né le parole, né le malattie segrete
in viaggio e nel ricordo,
ma per opporsi
alla morte e alla bellezza.

mercoledì 4 aprile 2012

"Mia madre che lucidava di continuo le posate" di Josip Osti


Mia madre che lucidava di continuo le posate, adesso
sola in mezzo a Sarajevo, malgrado che in una città
senz’acqua, cibo ed elettricità i cucchiai, le forchette e
i coltelli e tante altre cose abbiano perso il significato di
una volta, continua a farlo. Scopa le schegge delle finestre
in frantumi e la polvere dalle pareti sgretolate dagli shrapnel,
si mette in grembo il nostro gatto siamese, vecchissimo
ormai, e lustra le posate. Le lucida fino a quando il loro
splendore non l’acceca, assopendola anche, stanca morta
delle lunghe veglie passate. Ridestandosi, a uno sparo
reale o sognato, intravede nel cucchiaio lucente il suo viso
sfigurato, esausto e troppo presto invecchiato. Un viso
che per giorni metteva insieme, quando in ginocchio sul
pavimento come in chiesa raccoglieva i frammenti dello
specchio rotto. E continua a lustrare le posate. Le posate
che nella guerra precedente lucidava allo stesso modo sua
madre, convinta che verrà il giorno in cui nello specchio
del metallo scorgerà le facce sorridenti dei famigliari, riuniti
tutti fino all’ultimo come il giorno del suo matrimonio.

domenica 1 aprile 2012

Considerazioni libere (277): a proposito di un piano inclinato...

Tento di fare il punto sulla situazione politica italiana; i più pazienti di voi avranno già letto alcune di queste idee nei numerosi cinguettii che dedico all'argomento, voglio provare qui a essere un po' più organico, visto che non ho vincoli imposti dal numero dei caratteri e soprattutto sono meno arrabbiato di quando mi capita di aggiornare il profilo di Twitter. Leggendo gli editorialisti del Corriere e di tutti gli altri quotidiani allineati alla tesi che Monti sia stata la più grande fortuna che poteva capitare al nostro paese, c'è una cosa - forse l'unica - su cui sono d'accordo con loro: dopo Monti il quadro politico è decisamente cambiato e non è possibile tornare indietro. Come la precedente fase della storia della repubblica, quella che dal '94 porta al 2011, è stata segnata - nel bene e nel male, a seconda da come la si vede - da Berlusconi, questa nuova è condizionata dalla figura di questo sobrio professore di economia, che parla così bene inglese e che ci fare bella figura quando va all'estero.
Pensavo che Monti avesse più coraggio e alla fine la smettesse con la finzione del governo tecnico, ma capisco che qualcosa debba pur concedere al presidente Napolitano, che sa bene, essendo un politico molto intelligente e di lunga esperienza, a quali forzature istituzionali è stato costretto per ottenere le dimissioni di B. e per far nascere questo nuovo governo. Francamente Monti potrebbe risparmiarci un po' della retorica sulla distinzione tra tecnici e politici, in cui si è incartato in questi giorni, anche perché credo che in Cina e in Giappone facciano una bella fatica a seguire i bizantinismi di questo dibattito. Personalmente troverei più onesto che Monti spiegasse - come avrebbe fatto la Thatcher - che persegue una chiara politica a difesa dei mercati, anche quando questa penalizza i lavoratori e le classi più deboli della popolazione, invece che continuare a fare fumosi discorsi sull'interesse nazionale: caro presidente, ci vuole anche un po' di coraggio per essere di destra, non è che basta solo il paternalismo. In Italia c'è un esecutivo assolutamente politico, di chiara impronta liberista - di destra per usare una chiara categoria novecentesca, di quelle che piacciono a me - che poggia su una base parlamentare molto ampia, simile alla cosiddetta grossekoalition che ha governato in Germania negli anni passati. E questo governo sta facendo chiare scelte: con la riforma del mercato del lavoro, così come con quella delle pensioni e le liberalizzazioni, i provvedimenti di Monti si scaricano sempre e soltanto sui lavoratori, dimostrando un'idea quantomeno squilibrata della coesione sociale; come dice giustamente Camusso "l'attenzione che questo governo dedica al mercato non ha altrettanta attenzione alla coesione sociale e alla condizione dei lavoratori". Nell'azione del governo Monti ci sono, a mio parere, alcuni problemi, di metodo e di merito.
Partiamo dal metodo. Solo adesso, e molto timidamente a dire il vero, Pdl, Pd e Udc - faccio notare per inciso che Fini è ormai fuori dai giochi, è stato un ballon d'essai, alla faccia di tutti i commentatori che prevedevano che avrebbe incarnato la nuova destra - ammettono di far parte organicamente della stessa maggioranza; per alcune settimane hanno giocato di rimessa, dicendo che il loro voto di fiducia era condizionato dall'emergenza economica, dal rischio della crisi: tutto pur di non finire come la Grecia. Adesso che siamo apparentemente un po' più lontani dal paese ellenico, nonostante i tre partiti tentino di alzare un po' la testa, provino a spiegare che il loro voto è determinante, il governo non manca occasione per ricordare che devono stare al loro posto. Finora - e questa, con buona pace di Napolitano, è un'assoluta anomalia - il governo è andato avanti con un mix di decreti legge e di voti di fiducia; è stata riscritta, come mai prima - neppure nei sogni più sfrenati di B. - la costituzione materiale della nostra repubblica, con il passaggio del potere legislativo dal parlamento al governo. I partiti non si possono permettere di far cadere questo esecutivo e quando sono messi alle strette, seppur con molti e ripetuti mal di pancia, sono costretti ad ingoiare l'amara medicina. Immagino accadrà qualcosa di analogo anche con il provvedimento sul mercato del lavoro. Le avvisaglie già ci sono. Napolitano e Monti non perdono occasione per dire che non siamo ancora usciti dalla crisi e quindi serve senso di responsabilità, gli investitori internazionali fanno sentire il loro peso e, non appena vedono che c'è una qualche opposizione contro il tentativo di limitare i diritti dei lavoratori, vendono titoli di stato e fanno alzare lo spread, dato subito enfatizzato dai giornali: un meccanismo perfetto e ormai assolutamente rodato.
Credo sia facile prevedere che nei prossimi giorni i dati economici saranno negativi e quindi i partiti - e soprattutto il Pd - dovranno accettare di votare l'abolizione di fatto dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nonostante le proteste dei cittadini e dei lavoratori, che spero saranno convinte e partecipate: almeno cerchiamo di cadere con onore. Già in questi giorni Monti ha spiegato che i cinesi non investono in Italia perché c'è una legislazione troppo severa che limita i licenziamenti: è naturalmente una bugia. Gli investitori cinesi cominceranno a comprare in Italia quando la crisi sarà ancora più grave, come stanno facendo in queste settimane in Grecia. Il porto del Pireo, ad esempio, è stato acquistato dai cinesi e lo stesso avverrà con grandi infrastrutture italiane, non appena i prezzi crolleranno e comincerà la svendita: occorre solo un po' di pazienza, ma si sa che gli orientali - perfino i capitalisti orientali - hanno questa dote. Non mi stupirei inoltre se nei prossimi giorni uscissero sui giornali nuove rivelazioni su scandali che coinvolgono uomini politici. In questo caso bisogna dire che Monti tiene i partiti - di maggioranza e di opposizione - per le palle - scusate l'eufemismo, ma l'immagine rende bene la situazione - ed è pronto a stringerle: il "caso Lusi" è lì, pronto a schizzare fango - meritato per altro - sul maggiore partito di centrosinistra e sul modo poco trasparente in cui è nato, da due sposi molto sospettosi che hanno optato per una rigida divisione dei beni. Casini, nonostante il beau geste di rinunciare ai benefici da ex presidente della Camera, deve far dimenticare qualche parente acquisito un po' troppo disinvolto e dirigenti locali ancora più disinvolti. Nel Pdl c'è solo l'imbarazzo della scelta, così come nel ramo lombardo e di governo, della Lega. Con questi partiti è chiaro che Monti ha mano libera per fare sostanzialmente quello che vuole e quello che vogliono i mercati internazionali a cui egli risponde.
Sorvolo sul fatto che gli stessi tre partiti stanno preparando una riforma della legge elettorale destinata inevitabilmente - visti questi chiari di luna - a far proseguire anche nelle prossima legislatura l'esperienza del cosiddetto governo tecnico. Permettetemi su questo un piccolo spunto polemico. Leggo dichiarazioni allarmate di più o meno autorevoli esponenti del Pd, da vecchi soloni come Parisi a giovani rottamatori come Civati, che lamentano che questa nuova legge farà naufragare il bipolarismo italiano, sono le "vedove delle primarie" che piangono per il caro estinto; questi autorevoli esponenti sono gli stessi che poche settimane fa elogiavano il Pd perché aveva avuto il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo e di sostenere Monti. Sono sempre quelli che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: con Monti è finito il bipolarismo italiano, come giustamente enfatizza Casini. L'obiettivo finale, a cui sono ormai vicini, è il forte indebolimento del Pd - se non la sua chiusura tout court, partito che peraltro, grazie anche ai buoni uffici di queste prefiche, si è suicidato gettandosi con passione tra le braccia di Monti.
E veniamo al merito. E' chiaro ormai dove ci vogliono portare: pensioni sempre più basse e destinate a una platea sempre più esigua di cittadini, salari sempre meno certi e soprattutto sempre più in balia di scelte che c'entrano poco con le dinamiche imprenditoriali, progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori. E su questo la battaglia è culturale prima ancora che politica. Fino a quando valuteremo il progresso di un paese in base alla crescita del pil e all'aumento complessivo della ricchezza, saremo destinati a non uscire da questo circolo vizioso. Il problema non è come rispondere alle domande che ci pongono i mercati internazionali, ma semplicemente rifiutare la logica di quelle domande. Non è possibile affrontare temi importanti, come l'introduzione di un reddito di cittadinanza o l'aumento dei finanziamenti alla scuola e alla ricerca o ancora l'avvio di un piano nazionale di lavori pubblici per mettere in sicurezza il territorio, ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un'altra di fondi in gran parte "virtuali". La crescita intesa astrattamente non può essere un obiettivo; il vero obiettivo deve diventare l'autogoverno dei processi economici. La conversione ambientale nei settori decisivi dell'efficienza e dell'approvvigionamento energetico, dell'uso razionale delle risorse, dell'agricoltura e dell'alimentazione, della gestione del territorio, dell'educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. La conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e del concorso delle forme attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva.
Monti spiega - e su questo giustifica il suo governo - che la sue riforme sono finalizzate al fatto che l'Italia non fallisca. Al punto in cui siamo questa prospettiva non è eludibile. Il problema è se ci arriveremo dopo aver spolpato i lavoratori di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile; oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare avrà imposto un cambio di rotta. Come sapete, io non sono ottimista e credo che siamo ormai su un piano inclinato che ci porterà verso la prima opzione.