giovedì 24 maggio 2012

da "Le memorie di Adriano" (II) di Marguerite Yourcenar

La Villa era ormai abbastanza a buon punto da potervi trasportare le mie collezioni, i miei strumenti di musica, le poche migliaia di libri acquistati un po' dovunque nel corso dei miei viaggi. Offrii una serie di feste in cui ogni cosa era prevista con cura, la lista delle vivande e il numero ristrettissimo dei miei ospiti. Ci tenevo che ogni cosa fosse in armonia con lo splendore pacato di questi giardini e di queste sale, che le frutta fossero squisite quanto i concerti, e il funzionamento dei servizi perfetto quanto il cesello dei piatti d'argento. Mi interessai per la prima volta alla scelta delle vivande: volli che si provvedesse a far venire le ostriche dal Lucrino e i gamberi fossero pescati nei fiumi della Gallia. In contrasto con la negligenza pomposa che troppo spesso distingue la tavola imperiale, stabilii la regola che mi si mostrasse ogni piatto prima di offrirlo, sia pure all'ultimo dei miei commensali; insistetti per verificare personalmente i conti dei cuochi e dei trattori: a volte, ricordavo che mio nonno era stato avaro. Non erano ancora terminati né il piccolo teatro greco della Villa, né quello latino, un po' più vasto, ma vi feci egualmente rappresentare qualche commedia. Per mio ordine, furono recitate tragedie e pantomime, drammi in musica e atellane. Mi piaceva soprattutto la ginnastica sottile delle danze, e scoprii d'avere un debole per le danzatrici con le nacchere, che mi ricordavano il paese di Gades, i primi spettacoli ai quali avevo assistito quando non ero che un bimbo. Amavo quel suono crepitante, le braccia levate, quei veli spiegati o ravvolti, quella danzatrice che cessa d'esser donna per diventare nuvola o uccello, onda o trireme. Per una di queste creature, ebbi persino una passioncella di breve durata. Durante le mie assenze, non erano stati trascurati i canili e le scuderie, e ritrovai il pelo duro dei cani, il manto serico dei cavalli, la bella muta dei paggi. Organizzai qualche caccia in Umbria, sulle sponde del Trasimeno, o, più vicino aRoma, nei boschi di Alba. Il piacere aveva ripreso il suo ruolo nella mia vita; il mio segretario, Onesimo, mi serviva da fornitore, sapeva quando bisognava evitare certe affinità, quando, al contrario, ricercarle. Ma questo amante frettoloso e distratto non era troppo amato. A volte, m'imbattevo in un essere più tenero, più fine degli altri,qualcuno che valeva la pena di ascoltar parlare, fors'anche di rivedere; casi fortunati ma rari, per colpa mia, senza dubbio. Di solito, mi bastava placare, o ingannare, la mia fame. In altri momenti, mi accadeva di provare una indifferenza da vegliardo per quei giochi.
Nelle ore d'insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, a volte importunavo un artigiano intento a mettere a posto un mosaico; passando,esaminavo un Satiro di Prassitele; mi fermavo davanti ai simulacri del morto. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra. Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell'oscurità; a pochi passi da me, la lampada mi rivelava un'altra immagine; quelle grandi figure bianche non si distinguevano quasi dai fantasmi. Pensavo amaramente agli esorcismi mediante i quali i sacerdoti egizi avevano attirato l'anima di loro culto; avevo fatto anch'io come loro, avevo stregato pietre che mi stregavano a loro volta; non sarei sfuggito mai più a quel silenzio, a quel gelo che ormai mi era più vicino che non il calore, la voce dei vivi; guardavo quasi con rancore quel viso insidioso, dal sorriso sfuggente. Ma, poche ore dopo, nel mio letto, risolvevo d'ordinare a Papias di Afrodisia una nuova statua; avrei voluto un modellato più esatto delle gote, là dov'esse, insensibilmente, s'incavano sotto la tempia,un'inclinazione più lieve del collo sulla spalla; alle ghirlande di pampini e ai fermagli di pietre preziose avrei sostituito questa volta lo splendore dei riccioli nudi. Non dimenticavo mai di far scavare all'interno quei bassorilievi o quei busti per diminuirne il peso, e renderne più agevole il trasporto. Di queste immagini, le più somiglianti mi hanno accompagnato dovunque; non m'importa neanche più che siano belle oppure no.
[…]
Da semplice privato, avevo cominciato a comprare e mettere insieme pezzo per pezzo i terreni che si estendono ai piedi dei monti Sabini, al limitare delle sorgenti,con l'ostinazione paziente d'un contadino che amplia le sue vigne; tra un giro di ispezione imperiale e l'altro, avevo posto le tende sotto quei boschetti invasi da muratori e architetti, dove un giovinetto imbevuto di tutte le superstizioni asiatiche chiedeva piamente che gli alberi fossero risparmiati. Di ritorno dal mio grande viaggio d'Oriente, m'ero messo con una specie di sacra frenesia a completare lo scenario immenso di quell'opera già quasi terminata. Questa volta vi feci ritorno per terminare i miei giorni il più dignitosamente possibile. Tutto era predisposto per regolare il lavoro così come il piacere: la cancelleria, le sale per le udienze, il tribunale dove avrei giudicato in ultimo appello la cause difficili, m'avrebbero risparmiato faticosi andirivieni fra Tivoli e Roma. Avevo dotato ciascuno di quegli edifici di nomi evocanti la Grecia: il Pecile, l'Accademia, il Pritaneo. Sapevo bene che quella valle angusta, disseminata d'olivi, non era il Tempe, ma ero giunto in quell'età in cui non v'è una bella località che non ce ne ricordi un'altra, più bella, e ogni piacere s'arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi. Consentivo ad abbandonarmi a quella nostalgia ch'è la malinconia del desiderio. A un angolo particolarmente ombroso del parco, avevo persino dato il nome di Stige; a una prato costellato d'anemoni quello di Campi Elisi, preparandomi così a quell'altro mondo i cui tormenti somigliano tanto a quelli del nostro, ma le cui gioie nebulose non valgono le nostre. Ma, soprattutto, nel cuore di quel ritiro, m'ero fatto costruire un asilo ancor più celato, un isolotto di marmo al centro d'un laghetto contornato di colonne, una stanza segreta che un ponte girevole, così lieve che si può con una mano sola farlo scivolare nella sua corsia, unisce alla riva, o, piuttosto, segrega da essa. In quel padiglione feci trasportare due o tre statue a me care, e quel piccolo busto d'Augusto fanciullo che Svetonio m'aveva dato ai tempi della nostra amicizia;all'ora della siesta, mi recavo là per dormire, per pensare, per leggere. Sdraiato sulla soglia, il mio cane allungava innanzi a sé le zampe rigide; un riflesso di luce si riverberava sul marmo; Diotimo, per rinfrescarsi, posava la gota al fianco levigato d'una vasca. Io pensavo al mio successore.

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