martedì 31 luglio 2012

Considerazioni libere (296): a proposito del 2 agosto...

E anche quest'anno sta per arrivare il 2 agosto. Arriva ogni anno, regolarmente come ogni altro giorno; per molti questa data segna l'inizio delle vacanze, per me e per Zaira il ricordo del gioioso - e faticoso - trasloco fatto lo scorso anno per venire qui a Salsomaggiore. Per alcune persone il 2 agosto è un giorno che ha segnato per sempre le loro vite, e a queste famiglie dobbiamo portare rispetto e solidarietà; sempre e non solo in occasione di un anniversario. Per molti di noi, che non abbiamo subito quell'attentato, il 2 agosto arriva così, all'improvviso, ce lo ritroviamo davanti, come un brigante di strada. Allo stesso modo ci ritroviamo davanti all'improvviso le troppe date, gli anniversari funesti di questo sfortunato paese, dal 12 dicembre al 9 maggio, dal 28 maggio al 27 giugno, in questo interminabile rosario laico.
A me il 2 agosto fa particolarmente male, perché a Bologna ci sono nato, anche se da due "2 agosto" sono fisicamente lontano dalla città e da qualche anno di più sono lontano con la testa da una città, che ho smesso - per ragioni tutte mie - di amare e non sento più come la mia città. Soprattutto il 2 agosto mi fa male, perché non riesco a capirlo, non riesco a inserirlo in nessuna delle "categorie politiche" che conosco e che ho studiato. La strage di piazza Fontana io la "capisco" - naturalmente capire non è sinonimo di giustificare - mi rendo conto dei motivi che hanno spinto una parte del "potere" di questo paese - politici, militari, industriali, mafiosi (perché allora la "trattativa" funzionava a pieno regime e gli interessi della mafia e dello stato coincidevano) - ad armare dei gruppi fascisti affinché in Italia ci fosse un clima tale da auspicare una svolta autoritaria o almeno da fermare la crescita di una cultura riformatrice. Ma il 2 agosto no, non lo capisco. Il 1980 era già profondamente diverso dal 1969. Gli Stati Uniti temevano che l'Italia potesse diventare troppo di sinistra? Era un timore infondato; poche settimane prima della strage avevamo già dato prova della nostra fedeltà all'alleanza atlantica, coprendo tutte le nefandezze che americani e francesi avevano commesso sui cieli di Ustica e gli euromissili a Comiso li avremmo messi comunque, nonostante le proteste del Pci di Enrico Berlinguer e di Pio La Torre. Volevano dare un segnale ai notabili democristiani? Sarebbe stato sufficiente ucciderne uno, come fece la mafia nel '92 con Salvo Lima; e poi Aldo Moro era già morto, ucciso da altri, ma con la benevola complicità di quei pezzi oscuri dello stato. Per fermare, per impaurire Nenni e quelli come lui, quelli che da giovani avevano combattuto in Spagna e avevano fatto la Resistenza, era servito il "tintinnar di sciabole", ma per fermare quelli venuti dopo bastavano un po' di soldi; e come abbiamo scoperto qualche decennio dopo ne sarebbero serviti pochi, perché quelli venivano via per poco.
Appunto nel 1980 il mondo era ormai cambiato: Margaret Thatcher era già primo ministro in Gran Bretagna e Ronald Reagan stava per diventare presidente degli Stati Uniti, dando inizio a uno dei più lunghi periodi di predominio culturale - prima ancora che politico - della destra, che peraltro non è ancora finito, dopo più di trent'anni. E la società italiana stava cambiando, non serviva una strage a spingere indietro la società, bastava la televisione; non lo sapevo, ma la concessionaria di pubblicità di Berlusconi non si chiama soltanto Publitalia, ma proprio Publitalia '80. Nasceva allora un disegno di controllo della società attraverso i consumi e attraverso la pubblicità per far crescere i consumi, che Pasolini aveva intuito con una precisione che spaventa.

Il regime è un regime democratico, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi – cioè il potere della realtà dei consumi – invece, riesce a ottenere perfettamente, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l'Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo, in realtà, l'Italia. E allora io posso dire senz'altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l'Italia. Questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto; è avvenuto tutto negli ultimi cinque, sei, sette, dieci anni; è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l'Italia intorno a noi distruggersi e sparire e adesso, risvegliandoci – forse – da quest'incubo, e guardandoci intorno ci accorgiamo che non c'è più niente da fare.
E proprio perché Pasolini aveva capito, lo avevano già ucciso, sempre loro, sempre gli stessi, quelli che avevano fatto mettere le bombe a Milano e a Brescia e che l'averebbero poi fatta mettere alla stazione di Bologna. Se bastava - come è bastato - Drive in, perché hanno fatto la strage, perché hanno fatto ammazzare 85 persone? A Bologna si è scatenato un odio contro questo paese, non so se per opera dei mandanti o degli esecutori di quella strage, o di entrambi. Per questo trovo insopportabili - fisicamente insopportabili - le parole di Fioravanti e di Mambro, che regolarmente, quando ci avviciniamo al 2 agosto, vogliono dire la loro, proclamare la loro innocenza. Odio Gelli, che non marcisce in galera come dovrebbe, ma parla anche lui, lancia segnali, come fosse ancora ai bei tempi della P2, mentre ormai altri hanno preso il suo posto. Non sono innocenti, nessuno di loro lo è; e non hanno il diritto di aprire bocca, proprio perché sono stati così inutilmente crudeli contro di noi, non meritano nulla. E non meritano nulla quei pennivendoli, quei gazzettieri fascisti - dal Giornale a Libero - che, rilanciando le parole di questi bastardi, sostengono che la bomba non fu fascista, immaginando trame fantasiose, fino all'errore, allo scoppio accidentale. Avete già vinto, perché ci volete anche prendere in giro? E non meritano nulla gli impuniti, quelli che magari si atteggiano a "padri della patria" e che sono stati complici - attivi e passivi - di quella strage così politicamente inutile.
Questo paese non ha futuro, perché non riesce a fare i conti con il suo passato. La pacificazione non ci sarà mai e io personalmente non la auspico: io "quelli" voglio continuare a detestarli, a odiarli; ma almeno dateci delle spiegazioni. Io credo che qualcuno ce le debba, per questi quarant'anni di menzogne. Forse il ricordo sarebbe meno doloroso. Ma, visto come vanno le cose, il 2 agosto ci farà male per molti anni ancora.

p.s. è difficile raccontare quella strage, io immodestamente - come tanti - ci ho provato; oggi Angela Fresu, avrebbe 35 anni...

sabato 28 luglio 2012

Considerazioni libere (295): a proposito di Siria e di una storia che ricomincia...

In Siria, nonostante tutto, sta succedendo qualcosa: in questa frase, e soprattutto nell'inciso, c'è - a mio parere - la notizia essenziale. Provo a spiegarmi. In questi giorni le rivolte che sono cominciate più di un anno fa in Siria, quasi contemporaneamente a quelle iniziate in Egitto, in gran parte dei paesi dell'Africa settentrionale e in alcuni stati mediorientali - ossia quella stagione che ci siamo abituati a chiamare la "primavera araba" - e che sono continuate, nonostante la repressione violentissima del regime di Assad, in tutti questi mesi con rinnovata intensità, sembra che possano raggiungere finalmente il risultato auspicato dalla maggioranza di quel popolo: ossia la fine di quel regime, uno dei più longevi della regione. Il 18 luglio in un attentato suicida sono stati uccisi a Damasco alcuni generali, tra cui il ministro della difesa e il potente capo dei servizi di sicurezza, cognato dello stesso dittatore. Si combatte nella capitale e da alcuni giorni si combatte duramente ad Aleppo, che, oltre a essere una delle grandi capitali dell'antichità - patrimonio dell'umanità dell'Unesco - è la città economicamente più importante del paese. La Croce rossa internazionale ha riconosciuto, nonostante i tentennamenti delle Nazioni Unite, che in Siria si sta combattendo una "guerra civile" e questo riconoscimento formale non è passato inosservato nel paese, sia tra i ribelli che tra i pretoriani del regime. Non si tratta soltanto di una questione lessicale; a seguito di questa decisione, se si verificheranno nuovi omicidi, oppure torture e stupri tra la popolazione, il governo siriano e l'esercito potrà essere giudicato sulla base delle norme internazionali sulla violazione del diritto umanitario e dei crimini di guerra. La cosa potrebbe interessare poco ad Assad, che troverà qualche forma di salvacondotto internazionale, ma potrebbe spingere i generali e i gerarchi del regime ad abbandonare la nave, come effettivamente sta avvenendo con maggiore intensità in questi ultimi giorni. Noi di quello che avviene in Siria sappiamo pochissimo, abbiamo i resoconti di parte del regime e degli insorti, che sono ovviamente strumenti di propaganda e servono a combattere la guerra su altri piani. Sono pochissimi i giornalisti che si avventurano nel paese, anche perché alcuni che lo hanno fatto hanno perso la vita. Lo ha fatto in queste settimane, per Rainews24 - credo occorra rendere merito a questa misconosciuta rete della nostra azienda pubblica - Salah Methnani.
La cosa nota è che nel resto del mondo c'è una paura folle di quello che potrebbe succedere in Siria. Dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all'Europa sarebbero in tanti a fare carte false purché in quel paese non succedesse nulla e rimanesse in piedi il regime di Assad, non amato, ma almeno conosciuto. La Siria è una potenza regionale, confina tra gli altri con Israele e con la Turchia e quindi le tensioni alle frontiere possono avere ripercussioni internazionali molto gravi; è il maggior alleato dell'Iran e gli ayatollah interverranno quando vedranno che il loro uomo a Damasco sta davvero per cadere. In Siria, anche sulla testa dei ribelli, si sta giocando una partita all'interno del mondo arabo, nello scontro tra sciiti e sunniti, che coinvolge, oltre a Iran e Turchia, anche Arabia Saudita e le altre potenze del Golfo Persico. In questo quadro è perfino comprensibile l'atteggiamento avuto dalle cancellerie degli Stati Uniti e dei paesi europei. La Siria non è un paese periferico come la Libia, dove la Francia di Sarkozy e dei suoi intellettuali engagè ha potuto esercitare il suo spirito di potenza "umanitaria", senza il rischio di pagarne un dazio troppo elevato. In Siria chi rischiasse di metterci le mani sarebbe certamente scottato. Anche per questo non solo non c'è stato un coinvolgimento diretto - come è avvenuto appunto contro il regime di Gheddafi - ma non c'è stato neppure un coinvolgimento "emotivo" dell'opinione pubblica. Durante la "primavera araba" le opinioni pubbliche dei paesi europei hanno fatto il tifo per chi si rivoltava, anche perché i mezzi di informazione si sono da subito schierati a favore dei ribelli, presentati di volta in volta con tratti positivi - "gli eroi", come dice il poeta, "sono tutti giovani e belli" - ricordate la retorica sul popolo ribelle di internet e balle varie, mentre gli esponenti dei regimi perdenti erano presentati tutti come vecchi e corrotti, fatto salvo dimenticare che solo fino a poche settimane prima quegli stessi regimi erano presentati come i tutori dei valori occidentali contro il montante islamismo radicale. Sulla Siria è calato il silenzio, si è preferito sorvolare sui passati commenti che esaltavano le "novità" del regime - quanti articoli elogiativi abbiamo letto sul giovane Assad e sulla sua bella moglie, entrambi educati nei migliori college inglesi - e non si è parlato neppure dei ribelli, che però - si fa capire tra le righe - non sono proprio "giovani e belli" come quelli delle altre "primavere".
La cosa importante è che di tutte queste rappresentazioni ai siriani non interessa nulla. Come non interessa nulla delle inconcludenti trattative tra Stati Uniti, Russia e Cina per arrivare a una risoluzione comune delle Nazioni Unite, destinata comunque a rimanere un ennesimo pezzo di carta, o del piano di pace preparato da Kofi Annan. Anche qui è mancato da parte nostra riuscire a capire qual era la vera molla che ha scatenato le "primavere" e che mantiene viva la rivolta in Siria: quei popoli non si battono tanto per valori democratici che non hanno mai conosciuto e di cui hanno un'idea vaga, ma perché sono disperati, sono alla fame e la povertà è sempre stata la benzina di ogni rivoluzione. In paesi, come quelli mediorientali, in cui la stragrande maggioranza della popolazione è formata da giovani che vivono con economie di sussistenza e senza alcuna prospettiva per il futuro, le rivolte sono inevitabili, contro quei regimi che prima di togliere loro la libertà, ha tolto ogni prospettiva. Per questo quello che sta avvenendo in Siria, nonostante il disimpegno del resto del mondo, dimostra che le volontà dei cittadini avranno sempre più effetto e valore di qualsiasi cosa possa fare la cosiddetta comunità internazionale. C'è un affrancamento di quei popoli. L'incapacità dei governi degli Stati Uniti e della Russia, ma anche di potenze vecchie e nuove come Europa e Cina, di influenzare in qualche modo quello che avviene in Siria è la conseguenza dell'incapacità storica di tutti questi attori di trovare una soluzione per il conflitto arabo-israeliano, di creare modelli di sviluppo che coinvolgessero davvero i popoli mediorientali e non solo l'élite politica ed economica di quei paesi. Ho l'impressione che dopo anni di stasi, le primavere arabe e soprattutto quello che sta succedendo in questi giorni in Siria, ma anche un rinnovato protagonismo di paesi come la Turchia - che non si muove più come una pedina della politica statunitense nell'area - quei popoli abbiano deciso che la loro storia non si decide più in Europa - come è successo nel 1916 con l'accordo Sykes-Picot o come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle sfere di influenza tra Usa e Urss. Finora la storia della Siria è sempre dipesa da decisioni di altri, forse questa rivolta ci dice che noi non possiamo più decidere per loro. Comprensibile che a molti di noi questo non piaccia.

giovedì 26 luglio 2012

Considerazioni libere (294): a proposito i soldi che vanno e che vengono...

Spulciando nella rete ho scoperto una "piccola" storia greca che, secondo me, merita di essere maggiormente conosciuta, anche perché spiega bene il funzionamento dei cosiddetti "mercati", questa anonima e potente entità, che regola le nostre vite molto più di quanto facciano o abbiano mai fatto i governi. Visto che con questi "mercati", e soprattutto con i mercanti, dovremo convivere a lungo, è meglio imparare a conoscerli.
E' una storia di qualche settimana fa, prima delle elezioni greche, quando il capo del governo era ancora il "tecnico" Papademos, messo lì dalle autorità finanziarie internazionali a commissariare il paese, con il beneplacito dei governi europei e il tacito atto di sottomissione dei partiti greci "responsabili". Il governo, che pure avrebbe annunciato qualche giorno dopo che a luglio non ci sarebbero stati i soldi per pagare le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici - un annuncio che, nell'imminenza delle elezioni, doveva servire a spaventare i greci affinché non votassero per i pericolosi "bolscevici" di Syriza - ha deciso di ripagare all'intero valore nominale 436 milioni di titoli del tesoro emessi dieci anni prima e che stavano per scadere. Tra chi ha beneficiato di questo pagamento ci sono alcuni fondi privati, quelli che di solito indichiamo sinteticamente all'interno della voce "mercati", ma che forse sarebbe ora di cominciare a chiamare con il loro nome e cognome: Elliot Associates del Regno Unito, Loomis Sayles e Blackrock degli Stati Uniti, la banca svizzera Julies Baer, il gestore di fondi francese Natixis, il tedesco StarCap e il lussemburghese Ethenea Independent Investors. Questi fondi fanno parte di quel 4% dei creditori greci che non ha accettato i termini dell'accordo di ristrutturazione del debito di 206 miliardi di euro, accordo stipulato nello scorso mese di marzo sotto l'egida della famosa troika, ossia Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Questi fondi - definiti "avvoltoi" - hanno fatto una scommessa, solo apparentemente rischiosa: l'accordo imposto dalla troika, che prevedeva la perdita di più della metà del valore nominale dei titoli del tesoro emessi dalla Grecia, sarebbe entrato in vigore soltanto se fosse stato sottoscritto da almeno i tre quarti dei creditori. Il 96% ha sottoscritto l'accordo, accettando che i loro titoli perdessero valore, e questo ha fatto sì che arrivassero nuovi soldi "freschi" ad Atene: dei 130 miliardi dati alla Grecia dall'Europa, 90 erano vincolati a pagare i debiti con le banche europee, con una sorta di partita di giro, per cui i governi europei hanno dato soldi alle loro banche. Con questi soldi, per avere i quali è stato cancellato ogni forma di stato sociale in Grecia, il governo ha pagato sia i creditori "buoni" sia gli "avvoltoi", che non avevano accettato gli accordi e quindi la riduzione del valore dei loro titoli, come è appunto avvenuto con i 436 milioni pagati da Papademos poche settimane fa.
Il punto fondamentale - che fa capire perché l'operazione non sia stato un "rischio", ma un saggio investimento - è che i titoli greci, a seguito delle valutazioni estremamente negative delle agenzie di rating, che avevano già condannato il paese al fallimento, non avevano più valore ed erano già stati considerati "persi" dai grandi investitori; in questa situazione incassare anche solo il 40% del loro valore nominale, come hanno fatto i creditori "buoni" - in primis le banche tedesche e francesi - era già considerato un guadagno, perché anche nell'alta finanza, vige l'adagio contadino, secondo cui "piuttosto che niente, è meglio piuttosto". Immaginate invece cosa ci hanno guadagnato gli "avvoltoi", che si sono visti ripagare il 100% di titoli che valevano ormai zero. Da notare che gli "avvoltoi", presagito il possibile guadagno, non si sono limitati a portare all'incasso i titoli comprati dieci anni prima, ma hanno rastrellato sui mercati secondari i titoli greci, che non valevano più niente e che quindi sono stati comperati a prezzi molto inferiori al loro valore; in particolare hanno comprato quei titoli i cui contratti di vendita erano registrati a Londra e non in Grecia e che quindi non potevano ricadere in possibili cambiamenti retroattivi della legge greca. Inoltre avendo in mano titoli registrati in Gran Bretagna, se il governo greco si fosse mai rifiutato di pagare, avrebbe potuto essere citato in giudizio di fronte a una corte internazionale, come successe dieci anni fa con l'Argentina. Papademos comunque non era il tipo per un'operazione del genere, il suo compito - quello per cui era stato messo lì da Draghi e "compagni" - era quello di "dare fiducia" ai mercati, ossia di pagare i debiti, senza fare troppe distinzioni tra creditori "buoni" e "avvoltoi". Il conto è stato pagato dai cittadini greci, ma questo per Draghi, per Lagarde e per gli altri protagonisti di questa storia è davvero l'ultimo dei pensieri.
Il vero problema è che la distinzione tra investitori "buoni" e "avvoltoi" è un'ipotesi di scuola, una distinzione che ho usato io per spiegare meglio quello che è successo nelle scorse settimane ad Atene. Come si sa, "di notte tutti i gatti sono bigi" e adesso è veramente scuro. Questi 436 milioni pagati dall'Europa, attraverso Papademos, agli "avvoltoi" sono soltanto una parte, neppure troppo significativa, della prima tranche di 4,2 miliardi che l’Europa ha appena erogato ad Atene. Gli "avvoltoi" per operare sul mercato prendono a prestito gran parte del denaro da banche private; molto probabilmente i titoli greci sono stati rastrellati con soldi presi a prestito da banche che avevano avuto accesso alla liquidità offerta a tassi bassissimi dalla Banca centrale europea negli ultimi mesi. Naturalmente non potremo mai saperlo, perché i soldi circolano molto velocemente e a un certo livello diventa impossibile seguirne i tortuosi percorsi. Non ne conosciamo i passaggi intermedi, ma sappiamo da dove sono partiti e dove sono arrivati: sono soldi nostri, soprattutto dei cittadini tedeschi - con buona pace della faccia feroce che frau Merkel fa in occasione di ogni vertice europeo - che diventiamo ogni giorno più poveri, anche perché viene man mano cancellata ogni forma di ammortizzatore sociale - avrete visto che negli ultimi dieci anni gli stipendi degli italiani sono rimasti fermi - mentre questo fiume di denaro va a beneficio dei pochissimi grandi investitori e dei manager delle società, sia le "buone" che gli "avvoltoi", che lucrano su queste operazioni finanziarie. I creditori, "buoni" e "avvoltoi", che aspettano di essere pagati dalla Grecia - e che alla fine pagheremo noi cittadini, greci, tedeschi, italiani, poco importa di che paese siamo, sempre dobbiamo pagare - possiedono titoli per 6,4 miliardi di euro.
Naturalmente tutte queste operazioni di rastrellamenti, di vendite, di speculazioni sono perfettamente legali; anzi, in questo tempo di pensiero unico ultraliberista, viene tendenzialmente considerato illegale chi osa criticare questi benefattori dell'umanità, questi campioni del capitalismo. Noi vediamo che la miseria in Grecia, in Spagna, in Italia - in tutta Europa - aumenta,  grazie agli "avvoltoi" che possono continuare a volteggiare indisturbati su di noi, perché né la Bce né i governi europei fanno davvero qualcosa per cacciarli. E se proviamo a lanciare un sasso contro di loro, rischiamo noi.

"Noi abbiamo bruciato i nostri vascelli" di Minas Dimakis


Noi abbiamo bruciato i nostri vascelli
E offerto al mare le loro ceneri
Noi abbiamo cambiato il mare
Con un pugno
Ahi! terra immobile
Noi abbiamo bruciato i nostri vascelli
E piantato gli alberi nella terra
Non ci resta che sognare.

mercoledì 25 luglio 2012

Considerazioni libere (293): a proposito di matrimoni e di diritti...

Voi però lo sapete, e io so che lo sapete, che cosa sfidate, ci saranno cento milioni di persone che si sentiranno disgustate, offese, provocate da voi due e dovrete conviverci. Magari ogni giorno, per il resto delle vostre vite. Potrete cercare di ignorarne l'esistenza o potrete sentire pietà per loro e per i loro pregiudizi, la loro bigotteria, il loro odio cieco e le loro stupide paure. Ma quando sarà necessario dovrete saper tenervi stretti e mandare al diavolo questa gente. Chiunque potrebbe farne un dannato caso del vostro matrimonio. Gli argomenti sono così ovvi che nessuno deve sforzarsi di cercarli. Ma siete due persone meravigliose, a cui è capitato di innamorarsi. E adesso io credo che, non importa qualunque obiezione possa fare un bastardo contro la vostra intenzione di sposarvi, solo una cosa ci sarebbe di peggio: se sapendo ciò che voi due siete, sapendo quello che avete, sapendo ciò che provate... non vi sposaste.
Penso che queste potrebbero essere le parole che un padre - o una madre - rivolgerebbe al proprio figlio omosessuale e al suo compagno - o alla propria figlia e alla sua compagna, naturalmente - nel momento dell'annuncio del loro desiderio e della loro decisione di sposarsi; sono le parole di chi vuol bene al proprio figlio e, proprio perché gli vuole bene, non vuole nascondergli la verità, per quanto dura. Uno dei vantaggi di essere adulti - e un genitore dovrebbe esserlo - è quello di sapere che il mondo non è il luogo che sogniamo da ragazzi, ma è molto peggiore, pieno di bastardi, di gente stupida e con molti pregiudizi. I miei lettori amanti del cinema sanno però che queste parole sono rivolte a una ragazza e a un ragazzo che hanno deciso di sposarsi e mi perdoneranno se ho fatto qualche lieve omissione e una piccola forzatura nella traduzione per  adattare il testo alla circostanza che ho immaginato. E' il celebre finale di Indovina chi viene a cena?: qui trovate l'intera scena nella splendida interpretazione di Spencer Tracy. Era il 1967 - meno di cinquant'anni fa, meno di una generazione - eppure il matrimonio tra due persone dalla "diversa pigmentazione" negli Stati Uniti era considerato un reato in diciassette stati e uno scandalo negli altri trentatré. Il mondo è cambiato, anche se meno velocemente di quello che avremmo sperato, e - anche grazie al cinema - non è più reato in nessuno degli Stati dell'Unione ed è uno scandalo per molti meno stupidi, che pure ci sono, a tutti i livelli della società. Ho fatto questa lunga citazione per dire che le ragioni del cuore sono sempre più avanti di quelle della ragione: al di là di quello che sentivano le persone che si amavano, c'era un'America migliore che sapeva che c'erano diritti su cui non si poteva discutere, e uno di questi diritti è l'uguaglianza delle persone, al di là del colore della loro pelle.
Nella mia precedente "considerazione" - tra l'altro vi ringrazio per l'attenzione che in tanti le avete dedicato (soprattutto lettrici a dire il vero, anche se avrei preferito una maggiore riflessione da parte dei lettori) - ho citato incidentalmente il tema delle unioni tra persone omosessuali. E' un tema importante che merita di essere approfondito. Partendo da una premessa fondamentale: il tema dei diritti delle persone omosessuali è una questione importante, a prescindere. Mi pare che in questi giorni troppe persone a sinistra abbiano discusso di questo argomento per parlare d'altro: le polemiche interne al Pd, le future e futuribili alleanze del centrosinistra, il destino del governo Monti e dell'alleanza che lo sostiene; con tutto il rispetto per questi temi, su cui pure sapete che io esercito spesso la mia polemica, nessuno di questi è così vitale da essere messo in ombra da un Casini o da una Bindi qualsiasi. Sulla questione è intervenuto con spirito oggettivo e molta precisione Stefano Rodotà. Cito un passo di un suo articolo di alcuni giorni fa.
Aveva cominciato il Trattato di Maastricht, vincolante per l'Italia, introducendo il divieto di discriminazioni basate sulle tendenze sessuali. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ha poi aggiunto una innovazione che muta profondamente il quadro istituzionale. Nel suo articolo 9 stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». La distinzione tra "il diritto di sposarsi" e quello "di costituire una famiglia" è stata introdotta per legittimare il ricorso a modelli diversi per disciplinare i rapporti tra le persone che decidono di condividere la propria vita. E la novità dalla Carta diventa ancor più evidente se si fa un confronto con l'articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950: «uomini e donne hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l'esercizio di tale diritto». Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento ad "uomini e donne". Non si parla di un unico "diritto di sposarsi e di costituire una famiglia", ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. Due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – ed una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni distinte dal matrimonio, riguardanti persone di sesso diverso o dello stesso sesso. Ma il punto essenziale è la cancellazione del requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per gli altri modelli di famiglia.
E' curioso come in Italia l'Europa venga invocata soltanto quando dice le cose che fanno comodo a chi comanda e quindi va bene cambiare in fretta e furia la Costituzione per introdurre l'obbligo del pareggio di bilancio, va bene ratificare - con la stessa fretta e la stessa furia - il trattato che prevede il cosiddetto fiscal compact e che condizionerà di fatto la nostra politica economica nei prossimi venti anni, a prescindere da chi vincerà le prossime elezioni. Sta avvenendo in Europa quello che avvenne negli anni Settanta in America latina, quando gli Stati Uniti esportarono con estrema energia - per usare un eufemismo, ne sanno qualcosa i cileni - le dottrine economiche ultraliberiste di Milton Friedman e della Scuola di Chicago, ma non fecero nulla per la diffusione delle leggi sui diritti civili e delle idee di progresso, idee che pure circolavano negli Stati Uniti, per cui erano stati uccisi Robert Kennedy e Marin Luther King e che animavano una parte importante della cultura di quel grande paese.
Allora proviamo ad ascoltare l'Europa anche in questa occasione invece di prestar orecchio soltanto a quello che dice quel club di uomini anziani che si riunisce ogni giorno all'interno delle Mura leonine. Se accettiamo l'idea che tutte le persone hanno gli stessi diritti - spero che su questo non ci sia qualcuno, a parte Giovanardi, che pensi seriamente di fare obiezioni - ne discende che tutti hanno, tra gli altri, il diritto di costituire una propria famiglia, come dicono i principi europei citati da Rodotà.
In questa nostra battaglia dobbiamo evitare degli errori, che a volte sono stati compiuti. Il tema del diritto delle persone omosessuali di costituire una famiglia non è qualcosa che interessa esclusivamente le persone omosessuali, ma è qualcosa che coinvolge tutti, a partire dagli eterosessuali. Questo anche per rispondere a una obiezione che in questi giorni sento crescere: "con tutti i problemi che ci sono in Italia, dobbiamo proprio occuparci di una questione che interessa una così esigua minoranza?". Prima di tutto non interessa una minoranza, ma coinvolge appunto tutti noi, perché il tema dei diritti di una minoranza è importante prima di tutto per la maggioranza. E poi in un tempo in cui tendono a restringersi così velocemente gli ambiti democratici, una battaglia, una grande battaglia sociale, per far crescere i diritti serve davvero a tutti, a prescindere dal fatto che siamo etero od omosessuali e dal fatto che ci vogliamo sposare o no. Proprio perché è un tema fondamentale, questa questione non dovrebbe diventare la bandiera di un singolo partito - anche se è singolare che un partito del centrosinistra non se ne faccia alfiere, ma questo ormai è l'ennesimo segno dell'allontanamento del Pd dalla sinistra - e dovrebbe perfino non essere vincolata alla scontro tra destra e sinistra. In Germania i liberali sono ultraliberisti - molto più di quella luterana della Merkel - ma riconoscono a pieno i diritti delle coppie omosessuali; molta destra in Europa è omofoba - come la destra italiana, da Casini a Maroni, da Rutelli al gran puttaniere - ma non è obbligatorio che la destra lo sia, anzi. la sinistra in Europa non lo è, spero che prima o poi succeda la stessa cosa anche in Italia. Al di là delle idee che ciascuno di noi ha, che possono anche essere molto diverse, per me questa è una battaglia di civiltà, su cui non è più tempo di perdersi in mediazioni. Temo che su questo le mediazioni ci facciano perdere tempo, perché ci fanno arrovellare su battaglie di retroguardia, come è avvenuto qualche tempo fa sui Dico. Il tempo di cambiare è arrivato.
Voglio chiudere questa "considerazione" con alcune parole di Adriano Sofri, che, come spesso avviene, rispecchiano le mie idee e le sanno esprimere meglio di come le saprei dire io.
Sono pieno di affetto e di nostalgia per tante cose che sono finite nel corso della mia lunga vita, o stanno finendo – sto finendo anch’io. Sapessi come mi fa tremare un mondo di figli unici per legge o per avarizia, in cui non si abbiano più sorelle e fratelli. Ad alcune cattive cose nuove mi opporrò fino all’ultimo. Non me la sento di considerare una cattiva cosa nuova il coraggio col quale persone che hanno vocazioni e scelte sessuali così differenti dalle mie rivendicano di realizzare desideri così simili ai miei. Non me la sento di ostacolare quei loro desideri. Che si tratti del suggello solenne e allegro del matrimonio, e più ancora di dare a una bambina o a un bambino la vita migliore possibile.
p.s. alcuni giorni dopo che ho scritto questa "considerazione", ho letto questo discorso di David Cameron, un politico che non voterei mai naturalmente, ma che dice cose su questo tema che andrebbero lette proprio da chi crede nel matrimonio...
Lo dico non solo perché credo nell’eguaglianza ma perché credo appassionatamente nel matrimonio. Credo che il matrimonio sia un grande istituto: penso che aiuti le persone a prendersi responsabilità e impegni, a dire che si prenderanno cura e vorranno bene a qualcuno. Penso aiuti le persone a mettere da parte l’egoismo e pensarsi come unione, insieme all’altro. Il matrimonio mi appassiona molto e penso che se funziona per gli eterosessuali come me, dovrebbe funzionare per tutti: per questo dovremmo avere i matrimoni gay e per questo li introdurremo.

lunedì 23 luglio 2012

"Ti ho sconfitto, morte" di Mahmoud Darwish


O morte, siediti e aspetta.
Prendi un bicchiere di vino e non trattare.
Una come te non tratta con nessuno,
uno come me non si oppone alla serva dell'invisibile.
Prendi fiato... forse sei spossata da questo giorno
di guerra astrale. Chi sono io perche tu mi faccia visita?
Hai tempo di esplorare il mio poema? No. Non è affar tuo.
Tu sei responsabile della parte d'argilla
dell'uomo, non delle sue opere o delle sue parole.
O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti.
Ti hanno sconfitta i canti della Mesopotamia,
l'obelisco dell'Egizio, le tombe dei Faraoni,
le incisioni sulla pietra di un tempio ti hanno sconfitta,
hanno vinto, ed e sfuggita ai tuoi tranelli
l'eternità…
e allora fa' di noi, fa' di te cio che vuoi.

sabato 21 luglio 2012

"Perché leggere i classici" di Italo Calvino

Cominciamo con qualche proposta di definizione.

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.
Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.

Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.

Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.

Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.

A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.

Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otiumumanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.
E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di morire”».

venerdì 20 luglio 2012

"La quercia del Tasso" di Achille Campanile

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.
Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”.
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.
Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

giovedì 19 luglio 2012

Considerazioni libere (292): a proposito di come vengono raccontate le donne...

Non so cosa succeda negli altri paesi, ma sicuramente in Italia non riusciamo a parlare di donne senza fare riferimenti, più o meno espliciti, più o meno volgari, al sesso. E non parlo delle cosiddette chiacchiere da bar, ad esempio quando ci si ritrova tra uomini e si millantano le conquiste degli anni ormai passati, ma mi riferisco proprio ai discorsi pubblici, agli articoli dei giornali, alle dichiarazioni rilasciate in televisione, insomma alle parole che riempiono la nostra sfera pubblica. Pensate a quello che è stato detto nei giorni scorsi in riferimento a due persone molto diverse tra di loro, come Nicole Minetti e Rosy Bindi, che però, ciascuna a modo suo, fa notizia.
Purtroppo per lei, il caso della Minetti è esemplare della condizione delle donne in Italia. Come è ormai noto, Nicole Minetti è una giovane donna che si è concessa a un uomo anziano dal "culo flaccido", ricevendone in cambio alcuni notevoli benefici, proporzionali alla ricchezza e al potere di questo personaggio. La storia in sé non è particolarmente originale: sono cose che sono successe e che succederanno, almeno finché esisteranno vecchi con quella sgradevole caratteristica. La novità - direi quasi eversiva - di questo caso è che tra i benefici concessi alla giovane c'è stata la carica di consigliere regionale della Lombardia, facendo diventare quella vicenda privata una questione pubblica. In altri tempi queste transazioni si risolvevano in maniera più discreta, attraverso denaro o regali, o al massimo con un'assunzione in un posto defilato nell'azienda di famiglia. La donna in questione, al di là dei problemi con la propria coscienza, doveva vedersela solo con la maldicenza di un numero ristretto di persone, quella gente che - per dirla con il poeta - "dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio". La povera Nicole invece se la deve vedere con la maldicenza - e l'invidia - di un intero paese. E in maniera altrettanto discreta si chiudevano questi rapporti. In questo caso invece si è fatto tutto in pubblico, compreso l'irrituale "licenziamento" della consigliera, demandato al fedele Angelino, lesto maggiordomo del principale. Io non sono cattolico e quindi penso che nessuno in questa storia abbia commesso un qualche genere di peccato, ma, anche ammettendo che qualche peccato sia stato compiuto, i peccati - come noto - si fanno e non si dicono. Concordo con voi che può essere un atteggiamento ipocrita, ma ci sono momenti in cui l'ipocrisia serve al vivere civile; almeno io ne ho nostalgia. Nessuno di voi - almeno quelli con un po' di buon senso - ha mai detto durante il pranzo di Natale cosa pensate davvero dei vostri parenti: è la stessa forma di "sana" ipocrisia, che ci permette di convivere in maniera decente con persone che detestiamo. Ho da sempre un giudizio negativo verso gli uomini che vanno a prostitute, come verso quelli che esibiscono le loro amanti come trofei, ma trovo ancora più preoccupante che siamo arrivati al punto che questa esibizione sia così plateale, sfacciata, volgare; lo considero un segno di grave scadimento etico, prima di tutto nei riguardi delle donne, che sono l'oggetto di questo mercimonio. La cosa che mi ha ancora più infastidito è stato leggere, su grandi quotidiani nazionali - non sul Vernacoliere - titoli a tutta pagina come "Trombata la Minetti", in cui si insiste gravemente sul gioco di parole tra il significato, già di per sé poco elegante, del verbo usato ormai sistematicamente per indicare i politici che non ce l'hanno fatta, e il suo significato per così dire "tecnico". Se poi vi prendete la briga di fare un piccolo giro nella rete, ad esempio in un social diffuso come Facebook, dove pure qualche forma di controllo c'è, le volgarità si sprecano e sono tutte naturalmente a sfondo sessuale; io la rete la uso e non sono di quelli che dicono "ci sono volgarità nella rete, chiudiamo la rete", è una stupidata, ci sono volgarità nella rete perché il nostro mondo è volgare, il nostro modo quotidiano di parlare è volgare, i giornali che leggiamo sono volgari, la televisione che guardiamo è volgare. Sarebbe curioso se la rete, che per di più gode di una qualche forma di anonimato - come il becero che nella folla poteva urlare il suo insulto, certo di passare inosservato in mezzo alla massa - non rispecchiasse il mondo che c'è fuori. Un mondo che sempre più non mi piace, a cui non mi voglio adeguare: invecchiare offre almeno questo vantaggio. E - ahi noi - la vicenda della Minetti non è ancora conclusa: leggo che una delle possibili contropartite per ottenere le sue dimissioni sarebbe la possibilità di condurre un programma televisivo. Capite che siamo all'apoteosi degenerativa di un modo di pensare e di vivere: al confronto la cena di Trimalcione ci appare davvero come una "cena elegante", sempre per citare un noto puttaniere italiano.
Alla Bindi è successa più o meno la stessa cosa, quando è incappata nel tema scivoloso del riconoscimento delle famiglie formate da persone dello stesso sesso. Non entro qui nel merito della vicenda, lo hanno fatto molto bene altri in questi giorni, a me interessa il contorno. Ora io non sono mai stato un sostenitore di Rosy Bindi, anche quando lei era di moda nello stesso mondo di sinistra che ora la dileggia. Uno dei motivi - ovviamente non il solo - perché non sono entrato e non entrerò nel Pd è perché è entrata e ci resta Rosy Bindi, con cui io sono politicamente incompatibile. Ovviamente è un problema mio e non certo della Bindi né degli amici del Pd, che l'hanno legittimamente eletta presidente del loro partito. Della Bindi mi spaventa il fatto che sia una persona dall'adamantino rigore etico e dalle convinzioni filosofiche e religiose molto nette: in una persona così l'integralismo è sempre in agguato, tanto più pericoloso perché ammantato di buoni sentimenti. Bindi - come succede alle persone come lei - vive in un proprio mondo ideale, che è ovviamente molto diverso da quello che c'è realmente là fuori e su cui chi fa politica dovrebbe esercitarsi, magari sbagliando. Per questi motivi da una persona come la Bindi io non mi aspetto arrivi una proposta sulle famiglie delle persone dello stesso sesso e mi stupisco quando qualcuno pensa il contrario. Ora io non sono d'accordo con Bindi, la critico, usando argomenti su cui voi potete dissentire, su cui certamente lei dissentirebbe - perché è convinta di essere una perfetta democratica - ma non mi verrebbe mai in mente di collegare le sue idee alle sue scelte personali e sessuali, come invece è successo nei giorni scorsi. Sono state volgari - come di consueto - le parole di Grillo - che si sta specializzando nel genere, come il Bossi dei giorni migliori - e sono volgari molte delle battute che circolano, ancora una volta, nella rete. A nessuno sarebbe venuto in mente di fare le stesse battute su Fioroni, se fosse stato lui a presiedere quella seduta e a prendere quella decisione, perché Fioroni è un uomo.
Quando c'è un problema culturale tutti noi portiamo una parte di responsabilità. A molti di noi è capitato di pensare - e di dire - che una nostra collega di lavoro che ci ha risposto male lo ha fatto perché era in "quei" giorni o perché non aveva avuto adeguate soddisfazioni la sera precedente. No, la risposta è molto più semplice: quella collega ci ha risposto male perché è una stronza, così come lo è un nostro collega maschio o anche un nostro collega omosessuale. Il sesso non c'entra. Se ci pensate di casi come questi ce ne sono di più di quanti ci piaccia ammettere. Le teste, come si sa, sono difficile da cambiare; però bisognerebbe provarci.

mercoledì 18 luglio 2012

"Bibliografia" di Hans Magnus Enzenberger


Questo è scritto per te.
Tortuosità sotto la corteccia,
scrittura tremolante dietro le tempie,
piste di formiche.

Questo non è un artificio.

Circuito stampato,
comunismo dei polipeptidi,
primule elettroniche,
allodole, secondo un programma.

Prendi e leggi, vecchio suicida.

Manifesti genetici,
permutazioni, gorgheggi.
Ogni cristallo un capolavoro.
Costruire occhi di libellula
non è un'artificio, ma le ricchezze
del mondo sono più semplici.

Questa ortica
potrebbe essere di Proust.
Feedback-system di secondo grado,
ultrastabile.

Finché questo libro ti arriverà in mano,
potrebbe essere per leggere
già troppo buio.

Se le libellule
se la caveranno senza di noi,
non lo sappiamo.

Bisogna accettarlo.

Butta via il libro e leggi.

sabato 14 luglio 2012

Considerazioni libere (291): a proposito di concertazione...

Non so cosa stesse facendo Monti nel '93, non voglio nemmeno prendermi la briga di cercare notizie nella rete, certamente era già un professore e probabilmente faceva analisi, preparava dossier, dava consigli, forse auspicava già quella svolta autoritaria di cui sarebbe stato protagonista - con la complicità di Napolitano - vent'anni dopo. Io il '93 me lo ricordo bene; studiavo all'università, ma la cosa che mi impegnava di più era la politica: ero iscritto al Pds e facevo l'assessore nel mio piccolo Comune, in provincia di Bologna. Ho l'impressione che la grande maggioranza dei miei sparuti e pazienti lettori siano miei coetanei e quindi rischio di ricordare fatti che vi sono noti, che anche voi - come me - avete vissuto, ma senza riandare a quelle vicende mi sembra molto difficile capire le polemiche di oggi. 
Nella primavera del '93 successe di tutto, i fatti si susseguivano in maniera caotica ed è sempre difficile capire cosa sta succedendo, mentre lo stai vivendo, specialmente quando tutto va così in fretta. Le inchieste giudiziarie procedevano senza tregua, in ogni parte d'Italia, a Milano in particolare si fece luce su quella che nella retorica giornalistica venne chiamata la "madre di tutte le tangenti", ossia il caso Enimont, mentre nelle procure del mezzogiorno si mettevano a nudo i rapporti tra politici e criminalità organizzata, così in quelle settimane ricevettero alcuni avvisi di garanzia sia Craxi che Andreotti. Si dimettevano uno dopo l'altro i segretari dei partiti di maggioranza - c'era ancora il pentapartito - e i ministri del governo Amato, il sistema si stava sgretolando con una rapidità a cui non eravamo pronti. Venivano arrestati imprenditori, piccoli e grandi, e importanti manager pubblici. A marzo Amato propose un decreto per depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti, con valore retroattivo; era un tentativo, comprensibile nell'ottica dell'allora presidente del consiglio, di uscire da quella situazione. Fu un'operazione suicida. Scalfaro non firmò il decreto e di fatto il governo, che non poteva più contare su una base parlamentare, fu sfiduciato. Negli stessi giorni di marzo si tenne il referendum sull'abolizione del sistema proporzionale per il senato: fu, comprensibilmente, un successo dei referendari, a quel punto il parlamento, votato con un sistema elettorale inviso alla stragrande maggioranza dei cittadini, era sempre più screditato. In quelle settimane di primavera di fatto finì la cosiddetta "prima repubblica". La fine nel giro di pochi mesi di un equilibrio durato per oltre cinquant'anni provocò scosse anche negli altri "poteri" italiani, specialmente quelli occulti che erano vissuti, prosperando, all'ombra del potere visibile. La mafia aveva fatto sentire tutta la sua forza solo un anno prima con le stragi di Capaci e di via D'Amelio, ma ora tornò in campo, in una pericolosa alleanza con i settori deviati dei servizi e con altre reti occulte. Il 14 maggio scoppiò un'autobomba in via Fauro a Roma, senza fare morti; l'attentato sembrava diretto contro Maurizio Costanzo, un personaggio che seppure si era rifatto una notevole verginità - verginità che tutt'ora resiste - aveva avuto trascorsi non democraticamente limpidi. Il 27 maggio ci fu la strage in via dei Georgofili a Firenze, in cui morirono cinque persone. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio ci fu la strage in via  Palestro a Milano - altri cinque morti - e scoppiarono le bombe a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro, nel centro di Roma. Questa è un pezzo della nostra storia recente che purtroppo non è mai stato chiarito - e i cui strascichi polemici continuano anche oggi - e questa mancanza di chiarezza segnerà, purtroppo negativamente, la vicenda, anche storica, del governo Ciampi. Non si seppero affrontare queste forze oscure, che si riorganizzarono e che trovarono rapidamente una nuova copertura politica, ma questa è un'altra storia.
Intanto era diventato presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi, il suo governo era solo nominalmente di espressione parlamentare, di fatto era un esecutivo di emergenza, voluto dal Presidente della Repubblica: una situazione analoga a quella che stiamo vivendo in questi mesi. La situazione finanziaria del paese era disastrosa: per evitare il fallimento dello stato il governo Amato nel luglio del '92 aveva fatto un prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari, a settembre decise la svalutazione della lira e in autunno varò una manovra finanziaria da 93.000 miliardi, fatta di tagli di spesa e crescita delle tasse, una manovra contro cui andammo più volte in piazza a manifestare. Spero di aver reso l'idea - a chi per ragioni anagrafiche non c'era o a chi si è dimenticato - di cosa era l'Italia nel '93, quando divenne presidente del consiglio Ciampi. 
Il primo atto politicamente significativo di quel governo - ministro del lavoro era Gino Giugni e ministro della funzione pubblica era Sabino Cassese - fu l'avvio di un tavolo tra le forse sociali, è la famosa concertazione di cui ora si parla a sproposito e che viene definita l'inizio dei mali italiani. Al di là del merito dell'accordo, è significativo il metodo: un governo che non era stato eletto, non aveva base parlamentare e quindi non aveva riconoscimento politico, per sanare in qualche modo quel vulnus democratico che si era prodotto, decise di cercare una legittimazione in un accordo che coinvolgesse tutti gli attori sociali, compresa la più grande confederazione sindacale, la Cgil, allora guidata da quell'uomo acuto che era Bruno Trentin. Anche i più scettici, non potranno negare l'evidenza dell'analogia con quello che è successo in questi mesi del governo Monti. L'accordo che fu sottoscritto il 3 luglio, ma poi definitivamente firmato il 23 - il giorno in cui si suicidò Raul Gardini (per ricordare come le storie in quei giorni si intrecciavano) - dopo una consultazione di massa tra i lavoratori, sanciva un nuovo sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione fra le parti e una nuova politica dei redditi. Veniva riconosciuta l'esistenza di un doppio livello di contrattazione; ai contratti nazionali di categoria veniva attribuita la funzione principale di tutelare il valore reale dei salari, mentre a livello aziendale spettava il compito di redistribuire gli incrementi di produttività registrati in ogni azienda. Il tasso di inflazione veniva programmato dal governo e le parti sociali si impegnavano a comportamenti coerenti sulla dinamica salariale, sui prezzi al consumo, sulle tariffe. L'accordo, su cui pure ci furono critiche, riuscì a facilitare la moderazione salariale e le ristrutturazioni industriali, fece aumentare le imposte solo a carico di lavoratori autonomi e imprenditori e permise di tener sotto controllo i conti pubblici. Senza quell'accordo - come senza la "cura da cavallo" imposta da Amato - l'Italia non avrebbe superato quella crisi economica e non sarebbe mai entrata nel sistema della moneta unica europea, permettendo quindi all'attuale presidente di pavoneggiarsi nelle più svariate sedi internazionali. A cavallo tra il '93 e il '94, con un'economia in recessione, scadevano i contratti di 11 milioni di lavoratori, di cui 3 milioni del pubblico impiego: fu il test dell'accordo del 1993. Le trattative furono rapide, senza episodi conflittuali, e registrarono una crescita del 7% delle retribuzioni; anche a causa del miglioramento del clima nel paese il biennio 1994-95 ha registrato una riduzione degli scioperi e del numero delle ore utilizzate per agitazioni sindacali. Anche grazie alla svalutazione della lira, per tre anni l'industria italiana crebbe, aumentarono le esportazioni e calò l'inflazione. Quell'accordo fu insieme una proposta di politica economica e di politica industriale, una costruzione per molti versi inedita della politica dei redditi, un sistema di regole e procedure contrattuali. L'accordo definiva l'esigenza di operare per lo sviluppo, la ricerca e l'innovazione, verso una politica di infrastrutture materiali e immateriali che erano richiamate dal Libro Bianco di Delors. Mancò questa spinta agli investimenti, anche perché al governo Ciampi seguì, con il ristabilirsi della normale dialettica democratica, il primo governo Berlusconi, con la storia che sappiamo. L'idea della concertazione fu sostituita da quella del conflitto permanente delle parte sociali: da una parte Confindustria, spalleggiata dal governo, e dall'altra la Cgil, con le altre confederazioni a fare da sponda spesso a B. e al nuovo presidente degli industriali, Amato. Il problema non fu la concertazione, ma il fatto che quel metodo fu programmaticamente rigettato. 
Perché Monti non prediliga il metodo della concertazione per me è abbastanza chiaro e penso di averlo esplicitato anche in questa "considerazione" - la concertazione è un metodo tendenzialmente democratico e il professore ha qualche problema a cercare accordi con tesi che non siano le sue - ma - come noto - io non mi iscrivo nel partito dei sostenitori del professore, perché altri - che non siano la Cgil - non abbiano difeso quel metodo rimane per me un mistero insondabile, su cui ormai smetto di sbattere la testa. Faccio solo notare che qualcosa che somiglia molto alla concertazione è il sistema che ha permesso alla Germania di superare la crisi legata alla riunificazione e di assestarsi alla guida dell'Europa. Poi il problema non è solo di metodo, perché bisogna anche capire su cosa bisogna concertare, con quali obiettivi e utilizzando quali strumenti, ma al punto in cui siamo arrivati, ricominciare a usare questo metodo mi sembrerebbe già un gran passo avanti. Sono abbastanza sicuro che non succederà.

venerdì 13 luglio 2012

"Lo dico in brutta copia" di Osip Mandel'stam


Lo dico in brutta copia, a voce bassa,
ché non è ancora venuto il momento:
il gioco del cielo irresponsabile
si attinge col sudore e l’esperienza.

E sotto il cielo dimentichiamo spesso
- sotto un purgatoriale cielo effimero -
che il felice deposito celeste
è una mobile casa della vita.

martedì 10 luglio 2012

"Per ora sommersi dall'antilingua" di Italo Calvino

Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L'interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po' balbettando attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo. "Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata". Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: "Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico, dichiara d'essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno dei detti articoli nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell'avvenuta effrazione dell'esercizio soprastante". Ogni giorno, soprattutto da cent'anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un'antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d'amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua. Caratteristica principale dell'antilingua è quello che definirei il "terrore semantico", cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se "fiasco" "stufa" "carbone" fossero parole oscene, come se "andare" "trovare" "sapere" indicassero azioni turpi. Nell'antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. "Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi svuotati della loro forza" come ben dice Pietro Citati che di questo fenomeno ha dato su queste colonne un'efficace descrizione. Chi parla l'antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso. La motivazione psicologica dell'antilingua è la mancanza d'un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per se stessi. La lingua invece vive solo d'un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d'una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l'antilingua – l'italiano di chi non sa dire "ho fatto" ma deve dire "ho effettuato" – la lingua viene uccisa. […] La nostra epoca è caratterizzata da questa contraddizione: da una parte abbiamo bisogno che tutto quel che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue; dall'altra abbiamo la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli: un polo di immediata traducibilità nelle altre lingue con cui sarà indispensabile comunicare, tendente ad avvicinarsi a una sorta di interlingua mondiale ad alto livello; e un polo in cui si distillerà l'essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l'argot popolare e la creatività poetica della letteratura. L'italiano nella sua anima lungamente soffocata, ha tutto quello che ci vuole per tenere insieme l'uno e l'altro polo: la possibilità d'essere una lingua agile, ricca, liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d'una varia gamma di ritmi nella frase. L'antilingua invece esclude sia la comunicazione traducibile, sia la profondità espressiva. La situazione sta in questi termini: per l'italiano trasformarsi in una lingua moderna equivale in larga parte a diventare veramente se stesso, a realizzare la propria essenza; se invece la spinta verso l'antilingua non si ferma ma continua a dilagare, l'italiano scomparirà dalla carta linguistica d'Europa come uno strumento inservibile.

lunedì 9 luglio 2012

"Manifesto per il disarmo nucleare" di Bertrand Russell ed Albert Einstein

Londra, 9 luglio 1955
In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione stessa dell'esistenza dell'umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai governi di tutto il mondo affinché si rendano conto e riconoscano pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse fra loro. Nella tragica situazione cui l'umanità si trova di fronte noi riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi in conferenza per accertare i pericoli determinati dallo sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere con una risoluzione nello spirito del progetto annesso. Parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella Nazione, Continente o Fede, ma come esseri umani, membri della razza umana, la continuazione dell'esistenza della quale è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti e, al di sopra di tutti i conflitti minori, c'è la lotta titanica tra il comunismo e l'anticomunismo. Quasi ognuno che abbia una coscienza politica ha preso fermamente posizione in una o più di tali questioni, ma noi vi chiediamo, se potete, di mettere in disparte tali sentimenti e di considerarvi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una storia importante e della quale nessuno di noi li può desiderare la scomparsa. Cercheremo di non dire nemmeno una parola che possa fare appello a un gruppo piuttosto che a un altro. Tutti ugualmente sono in pericolo e se questo pericolo è compreso vi è la speranza che possa essere collettivamente scongiurato. Dobbiamo imparare a pensare in una nuova maniera: dobbiamo imparare a chiederci non quali passi possono essere compiuti per dare la vittoria militare al gruppo che preferiamo, perché non vi sono più tali passi; la domanda che dobbiamo rivolgerci è: "quali passi possono essere compiuti per impedire una competizione militare in cui l'esito sarebbe disastroso per tutte le parti?". L'opinione pubblica e anche molte persone in posizione autorevole non si sono rese conto di quali sarebbero le conseguenze di una guerra con armi nucleari. L'opinione pubblica ancora pensa in termini di distruzione di città. Si sa che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che mentre una bomba atomica ha potuto distruggere Hiroshima, una bomba all'idrogeno potrebbe distruggere le città più grandi come Londra, New York e Mosca. È fuori di dubbio che in una guerra con bombe all'idrogeno le grandi città sarebbero distrutte; ma questo è solo uno dei minori disastri cui si andrebbe incontro. Anche se tutta la popolazione di Londra, New York e Mosca venisse sterminata, il mondo potrebbe nel giro di alcuni secoli riprendersi dal colpo; ma noi ora sappiamo, specialmente dopo l'esperimento di Bikini, che le bombe nucleari possono gradatamente diffondere la distruzione su un'area molto più ampia di quanto non si supponesse. È stato dichiarato da fonte molto autorevole che ora è possibile costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. Una bomba all'idrogeno che esploda vicino al suolo o sott'acqua invia particelle radioattive negli strati superiori dell'aria. Queste particelle si abbassano gradatamente e raggiungono la superficie della terra sotto forma di una polvere o pioggia mortale. Nessuno sa quale grandezza di diffusione possano raggiungere queste letali particelle radioattive, ma le maggiori autorità sono unanimi nel ritenere che una guerra con bombe all'idrogeno potrebbe molto probabilmente porre fine alla razza umana. Si teme che lei, qualora venissero impiegate molte bombe all'idrogeno, vi sarebbe una morte universale, immediata solo per una minoranza mentre per la maggioranza sarebbe riservata una lenta tortura di malattie e disintegrazione. Molti ammonimenti sono stati formulati da personalità eminenti della scienza e da autorità della strategia militare. Nessuno di essi dirà che i peggiori risultati sono certi: ciò che essi dicono è che questi risultati sono possibili e che nessuno può essere sicuro che essi non si verificheranno. Non abbiamo ancora constatato che le vedute degli esperti in materia dipendano in qualsiasi modo dalle loro opinioni politiche e dai loro pregiudizi. Esse dipendono solo, per quanto hanno rivelato le nostre ricerche, dall'estensione delle conoscenze particolari del singolo. Abbiamo riscontrato che coloro che più sanno sono i più pessimisti. Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile ed inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra? È arduo affrontare questa alternativa poiché è così difficile abolire la guerra. L'abolizione della guerra chiederà spiacevoli limitazioni della sovranità nazionale, ma ciò che forse più che ogni altro elemento ostacola la comprensione della situazione è il fatto che il termine "umanità" appare vago ed astratto, gli uomini stentano a rendersi conto che il pericolo è per loro, per i loro figli e loro nipoti e non solo per una generica e vaga umanità. È difficile far sì che gli uomini si rendano conto che sono loro individualmente ed i loro cari in pericolo imminente di una tragica fine. E così sperano che forse si possa consentire che le guerre continuino purché siano vietate le armi moderne. Questa speranza è illusoria. Per quanto possano essere raggiunti accordi in tempo di pace per non usare le bombe all'idrogeno, questi accordi non saranno più considerati vincolanti in tempo di guerra ed entrambe le parti si dedicheranno a fabbricare bombe all'idrogeno non appena scoppiata una guerra, perché se una delle parti fabbricasse le bombe e l'altra no, la parte che le ha fabbricate risulterebbe inevitabilmente vittoriosa. Sebbene un accordo per la rinuncia alle armi nucleari nel quadro di una riduzione generale degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, essa servirebbe ad alcuni importanti scopi. In primo luogo ogni accordo fra Est e Ovest è vantaggioso in quanto tende a diminuire la tensione internazionale. In secondo luogo l'abolizione delle armi termonucleari se ognuna delle parti fosse convinta della buona fede dell'altra, diminuirebbe il timore di un attacco improvviso del tipo di Pearl Harbour che attualmente tiene entrambe le parti in uno stato di apprensione nervosa. Saluteremo perciò con soddisfazione un tale accordo, anche se solo come un primo passo. La maggior parte di noi non è di sentimenti neutrali, ma come esseri umani dobbiamo ricordare che perché le questioni fra Est e Ovest siano decise in modo da dare qualche soddisfazione a qualcuno, comunista o anticomunista, asiatico, europeo o americano, bianco o nero, tali questioni non devono essere decise con la guerra. Desideriamo che ciò sia ben compreso sia in oriente che in occidente. Se vogliamo, possiamo avere davanti a noi un continuo progresso in benessere, conoscenze e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte perché non siamo capaci di dimenticare le nostre controversie? Noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se sarete capaci di farlo vi è aperta la via di un nuovo Paradiso, altrimenti è davanti a voi il rischio della morte universale.

domenica 8 luglio 2012

Considerazioni libere (290): a proposito di calcio (e non solo)...

Nei giorni scorsi, durante i campionati europei di calcio, sui giornali e tra i commentatori televisivi si sono sprecate le metafore per marcare le analogie tra il nostro paese e la nazionale. All'inizio del campionato le deludenti prove della squadra azzurra sono state viste come lo specchio di un paese con una guida incerta e ormai incapace di affrontare la crisi, nonostante il proprio brillante passato. Il pomeriggio precedente Italia-Irlanda, quando i più pensavano che la nostra squadra sarebbe stata eliminata per colpa del "biscotto" tra Spagna e Croazia - immaginavamo infatti che gli altri avrebbero fatto a noi quello che noi sicuramente avremmo fatto a loro (vero capitan Buffon?) - sono stati scritti decine di editoriali in cui si diceva che l'Italia-paese, come l'Italia-squadra, era ormai fuori dall'Europa, dandone la colpa al precedente governo - uno qualsiasi dal III Rumor a oggi - perché in Italia è sempre colpa di qualcuno prima di noi. Poi, visto che gli spagnoli hanno giocato come sanno fare, quei bei articoli sono stati cestinati. E' così arrivata la vittoria con l'Inghilterra e le penne hanno ricominciato a mettersi in moto: l'Italia, anche se all'ultimo minuto, ce la può fare, con il coraggio - e un po' di incoscienza - alla Pirlo insomma. E poi è arrivata l'ora di Italia-Germania, partita giocata contemporaneamente a Bruxelles e a Varsavia, e la retorica patriottarda si è scatenata, portando sugli altari i due super-Mario, che qualche giorno prima erano un affamatore del popolo, inventore di sempre nuove tasse, e un negro viziato, incapace di metterla dentro. L'avventura europea si è infine conclusa con la figuraccia di Kiev, ma la squadra, comunque inaspettatamente seconda, è stata benedetta dal presidente (la "p" minuscola non è un errore), con la spiegazione che l'Italia potrà farcela, proprio come hanno fatto gli azzurri, con unità e gioco di squadra: quindi tenetevi Monti, pagate e ringraziate. Con buona pace della retorica quirinalizia, le analogie tra la società e il calcio invece sono davvero tante, ma non sono sempre commendevoli.
Nei giorni scorsi è stato pubblicato su Il Sole-24 ore un articolo interessante di Gianni Dragoni sui conti del calcio; vi invito a leggerlo, perché fornisce dati precisi e in qualche modo illuminanti. Ne riporto un breve brano, per parlare del dato che mi ha colpito di più.
Nell'ultima stagione sportiva, secondo i bilanci al 30 giugno 2011, la perdita netta aggregata delle squadre di serie A, serie B e della Pro di prima e seconda divisione è stata di 428 milioni di euro, in aumento di quasi 81 milioni (+23,2%) rispetto alla stagione precedente. Un dato preoccupante, perché la perdita nella stagione precedente era rimasta pressoché stabile, solo sette milioni in più rispetto ai 340 milioni dell'esercizio chiuso al 30 giugno 2009.
In sostanza su un giro di affari complessivo di 2.477 milioni c'è stata una perdita di 428 milioni, pari al 17,2%. I dati sono molto chiari. Non restano molte spiegazioni: o gli imprenditori del calcio sono tutti incapaci e accettano di rimetterci o sono dei veri sportivi e mettono tutti i loro risparmi nel gioco che amano o questi conti non sono veri e le società di calcio servono per produrre utili in nero alle imprese. Per analogia con quello che avviene nel resto del paese, io tenderei a credere a questa terza ipotesi.
Sempre a proposito di quello che succede intorno al calcio voglio raccontarvi quello che è capitato due anni fa al Bologna FC, squadra a cui sono legato - come potete immaginare - da antico tifo adolescenziale. La squadra era stata acquistata da un noto costruttore bolognese, con lo scopo, non troppo celato, di costruire il nuovo stadio, con annessi e connessi. Quando si è accorto che questa opportunità diventava sempre più incerta, ha legittimamente messo in vendita il club. Nell'estate 2010 è comparso un imprenditore da fuori città, dicendo di avere i soldi: le carte sono state firmate ed è diventato il nuovo proprietario della squadra. Si è messo immediatamente all'opera per preparare il nuovo campionato, ha venduto qualche giocatore, ne ha acquistati altri, ha incassato i soldi degli abbonamenti, ma dopo pochi mesi ha smesso di pagare gli stipendi, perché in cassa non c'era più un soldo. A questo punto ha candidamente ammesso di non avere un euro e di non averci messo nulla; non aveva ovviamente neppure liquidato il precedente proprietario, che fino ad allora non aveva detto nulla per paura di fare la figura del fesso. Alla fine alcuni altri imprenditori hanno comprato il club, mettendoci questa volta soldi veri. Il nostro eroe se n'è tornato nella sua città con un po' di euro, concessi come buona uscita dai nuovi proprietari. Questa vicenda ha avuto una qualche notorietà perché ha riguardato la squadra di calcio di una grande città, nobile anche se decaduta - la squadra e la città - ma non si tratta di un caso isolato. Se avete fatto un mutuo per acquistare la casa o per aprire una piccola attività sapete che trafila si fa per ottenerlo e quante garanzie siano necessarie. Per grandi operazioni finanziarie, quelle che se falliscono rischiano di far fallire la banca, queste garanzie non vengono richieste, basta la parola, magari di un amico, o di un amico dell'amico.
C'è un'altra analogia importante tra il sistema-calcio e il sistema-paese: il totale disinteresse verso il bene comune, quando va a scapito del proprio interesse individuale. Prandelli lo ha detto con molta chiarezza: in Italia gli interessi delle squadre di Lega prevalgono sempre sul contributo che ciascuna di esse dovrebbe dare al movimento nel suo insieme, a partire dalla nazionale. La definizione del calendario della serie A, in cui non viene lasciato un minimo spazio per l'attività della nazionale, è un indizio fin troppo evidente che, nonostante la retorica di facciata - altro aspetto che il calcio condivide con la società nel suo complesso - le decisioni sono sempre dettate dagli interessi economici. Lascio a voi immaginare in quali altri campi avviene: non voglio allungare troppo questa "considerazione", abusando della vostra pazienza.
Ultima analogia è la capacità di autoassolversi: in Italia, come detto, la colpa è sempre di qualcun altro, al limite del destino cinico e baro. Ricordate le parole di Buffon prima di partire? E poi c'è la capacità italiana di assolvere tutti i peccati, a patto che i peccatori siano più forti di noi. Non so se vi ricordate, è passato molto tempo. Prima che gli azzurri partissero per la Polonia è scoppiato l'ennesimo scandalo scommesse. Se ne parlò a profusione, furono spese parole di fiera riprovazione, si aprì un dibattito a cui partecipò autorevolmente anche il professor Monti; di quelle parole si è spenta l'eco al primo gol dell'Italia e sono state sepolte all'indomani della storica vittoria sulla Germania nel "derby dello spread", riconsegnando al mondo del calcio una verginità che temo perderà assai presto.
Anch'io, immodestamente come il presidente dalla "p" minuscola, non so più se parlo del calcio o del paese: l'Italia non ce la farà.

"Il decimo sonetto del portoghese errante" di Manuel Alegre


Contro l'usura e l'interesse contro la rendita
contro un tempo di avere più che di essere
contro l'ordine fondato su una compravendita
contro la vita che logora fino a dolere

contro la forza che opprime - là io canto.
E dove amore si cerca e non si trova
dove la vita si misura a tanto e tanto
dove la menzogna impera - là io sono contro.

E perciò disturbo e sono malvisto.
Che se il tempo è di sbarre io resisto
e quando alcuni tacciono io non taccio.

Io sono il renitente il dissidente.
Perciò mi han guardato di mal occhio
e perciò persisto e canto e parlo.

venerdì 6 luglio 2012

Considerazioni libere (289): a proposito di spending review...

Come ho già ampiamente scritto nelle due precedenti "considerazioni", il vertice europeo si è formalmente concluso alcuni giorni fa con la "vittoria" di Mario Monti; ora i tecnici, quelli veri, quella della troika - gente notoriamente senza nome e senza volto - stanno scrivendo, in vista del prossimo incontro del 9 luglio, il vero accordo e probabilmente quando riusciremo a leggerlo, traducendolo dal tedesco, ci accorgeremo che la "nostra" vittoria non sarà poi così netta. Ci sarà sempre il cosiddetto "scudo salvaspread", ma probabilmente per farlo funzionare servirà il benestare della troika e sarà sottoposto a condizioni. Ieri intanto Draghi ha spiegato che per ora la Bce sospenderà l'acquisto di titoli di stato dei paesi in difficoltà, puntando una pistola alla tempia ai governi di quegli stessi stati: hic Rhodus, his salta. Intanto il "vincitore" è tornato in Italia e abbiamo cominciato a vedere subito gli effetti della sua vittoria. In Grecia i tecnici della troika lo hanno chiamato memorandum, in Italia Monti si è inventato la spending review, se non è zuppa, è pan bagnato; la ricetta è sempre quella: tagli, tagli, tagli. L'unica differenza con la Grecia è che a noi i tagli non ce li impongono, ma li abbiamo decisi noi, a stragrande maggioranza.
Come è noto, Monti ha cominciato la sua azione di governo riducendo la spesa previdenziale, sia abbassando le pensioni già erogate sia impedendo a chi ne aveva diritto di andare in pensione. Poi è intervenuto sul mercato del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti. Adesso chiude il cerchio con una serie di tagli lineari sulla spesa sociale, colpendo in particolare i lavoratori pubblici. Ho lavorato a vario titolo negli enti locali, da circa un anno e mezzo ho un contratto a tempo indeterminato - sono quindi, come ho già avuto occasione di scrivere, un privilegiato in questo paese - ho fatto per molti anni l'amministratore e quindi mi sono confrontato continuamente con dipendenti pubblici: qualcosa sul tema lo posso dire.
Prima di tutto bisogna fare un po' di storia, altrimenti rischiamo di non capire quello che sta succedendo. Per molti anni in Italia il lavoro pubblico è stato una forma di welfare: invece di dare sussidi economici o di avviare un piano di edilizia popolare lo stato ha preferito assumere le persone che avrebbe dovuto aiutare in altro modo. Naturalmente abbiamo il diritto adesso di non essere d'accordo con questo modo di procedere, possiamo pensare che sia stato uno sbaglio, ma non possiamo neppure far finta che non sia avvenuto. Negli anni Settanta le assunzioni nella scuola di tante ragazze e ragazzi che avevano partecipato a vario titolo al movimento studentesco ha rappresentato, più o meno tacitamente, uno dei modi con cui lo stato ha sopito la carica più rivoluzionaria di quei giovani, li ha istituzionalizzati, impedendo anche che alcuni di essi cadessero nello spirale del terrorismo. E' stato un errore? Forse sì, se si pensa unicamente alla tenuta dei conti pubblici. Bisogna anche dire con altrettanta chiarezza che attraverso la gestione delle assunzioni negli enti pubblici, a livello centrale e locale, sono cresciute le mafie di questo paese, nelle regioni del Mezzogiorno e non solo. Se si vuole davvero difendere la funzione pubblica bisogna avere il coraggio di dire queste cose, così come bisogna dire che tra noi dipendenti pubblici ci sono troppe persone che lavorano poco e male. Lo dobbiamo dire perché questi nostri colleghi sono, inconsapevolmente, i migliori alleati di quelli che pensano - come Monti  e quelli che sostengono le tesi ultraliberiste - che uno stato è tanto più forte quanto più è ridotto l'apparato dei dipendenti pubblici e striminzita la spesa pubblica. Io - come potete immaginare - penso che sia l'opposto: un'economia che funzioni ha bisogno di un apparato pubblico efficiente. Nel nostro piccolo, negli anni passati - troppa acqua anche qui purtroppo è passata sotto i ponti - l'Emilia-Romagna era il migliore esempio di questa tesi: l'economia della piccola e media impresa e degli artigiani funzionava, con punte di eccellenza a livello internazionale, perché gli enti locali garantivano una rete di servizi universali, ad esempio gli asili nido e il tempo pieno. Anni di liberismo non sono passati invano: la maggioranza di questo paese - paradossalmente anche tra gli stessi dipendenti pubblici - pensa che noi siamo un peso per la società e che quindi in fondo questi tagli ce li meritiamo.
Se non cambiamo passo, anche nel modo in cui spiegheremo le nostre ragioni contro questa manovra, la nostra lotta sarà destinata alla sconfitta e Monti la sua spending review la potrà esibire in Europa con il consenso dei cittadini. I sindacati - anche il mio sindacato, la Cgil - mi sembrano inadeguati per questo cambio di passo. Di fronte alla manovra tutti e tre i sindacati hanno già minacciato lo sciopero; quando a lottare per difendere i loro diritti erano i metalmeccanici, Cisl e Uil si sono defilati e la Cgil è apparsa attendista sulla parola d'ordine dello sciopero: come possiamo pensare che adesso le altre categorie, quelle del privato, ma soprattutto quelli che un lavoro non ce l'hanno, siano solidali con noi? Tra l'altro per noi dipendenti pubblici lo sciopero è un'arma in parte spuntata; rimane, come per tutti gli altri lavoratori, un sacrificio personale, perché perdiamo una giornata di stipendio, ma non arrechiamo un danno al nostro padrone. Se i metalmeccanici sciopero i loro padroni ci rimettono e questa è un arma che hanno i lavoratori, ma se noi scioperano, il nostro sindaco, il nostro ministro o il nostro presidente non ne ricevono alcun danno; sono i cittadini a subire le conseguenze del nostro sciopero e per questo dobbiamo essere cauti nel proclamarlo. Mi rendo conto che è una proposta paradossale, ma io vorrei che i sindacati del pubblico impiego proponessero al governo di aumentare a 40 le nostre ore di lavoro settimanali, a parità di salario, per essere nelle stesse condizioni dei lavorati privati. Poi bisogna fare uno sforzo per spiegare che un conto sono le funzioni e un conto sono le persone che le esercitano: quell'impiegato è un cretino - va bene - è uno che ruba lo stipendio - va bene - però la sua funzione, ossia quello che egli fa - o che dovrebbe fare - è importante. Questo è naturale che non lo facciano Monti e i "montiani" - compreso il Pd - perché loro devono sostenere la tesi che lo stato non serve e quindi che la spesa pubblica è una spesa che può essere in parte risparmiata; non è naturale che non lo faccia con coerenza la Cgil. Monti è un furbastro e infatti sta introducendo degli elementi di divisione tra i lavoratori pubblici e quelli privati; mentre ai lavoratori privati è di fatto impedito di andare in pensione, per i lavoratori pubblici si prospetta un piano generale di prepensionamenti. Questo naturalmente farà inc... i lavoratori privati, che non penseranno che comunque i pubblici si ritroveranno con pensioni modestissime. Il blocco dei concorsi non sarà certo ben visto dai giovani, oltre che essere un colpo mortale per la funzione pubblica. Se gli enti pubblici sono inefficienti qual è la ricetta migliore per renderli ancora più inefficienti? Lasciare al loro posto dipendenti incapaci, vecchi e per di più demotivati, bloccando l'ingresso a giovani, più capaci, più motivati, più in grado di adattarsi alle possibilità legate alle nuove tecnologie.
Se si voleva fare davvero una spending review non serviva chiamare Bondi, bastava capire per quali meccanismi chi vende un oggetto alla pubblica amministrazione lo fa a un prezzo maggiore rispetto a quando vende lo stesso oggetto a un'azienda privata o per quale motivo un'opera pubblica che dovrebbe costare 80, viene appaltata per 100 e finisce poi per costare 130. Su questo Monti non può e non vuole incidere, perché i suoi ministri sono tutti alti burocrati dello stato - ossia rappresentati della vera "casta" - che in questi ultimi vent'anni di crisi della politica hanno enormemente visto accrescere il proprio potere e i propri interessi e perché i mercati che lo sostengono, gli impersonali mercati senza nome e senza volto, un nome e un volto ce l'hanno e sono quelli che in questi anni hanno lucrato - in modo più o meno lecito, alleandosi spesso con la grande criminalità - sulle grandi opere pubbliche, sugli appalti di beni e di servizi, e hanno munto dallo stato tutto quello che potevano mungere. E lo hanno fatto alle spalle di noi lavoratori, pubblici e privati.