giovedì 30 agosto 2012

"Ipotesi su Barabba" di Zbigniew Herbert


Cosa ne è stato di Barabba. Ho chiesto nessuno lo sa
Libero da catene uscì sulla bianca via
poteva svoltare a destra proseguire dritto svoltare a sinistra
girare in cerchio erompere in un canto di festa come un gallo
Egli Imperatore delle proprie mani della propria testa
Egli Governatore del proprio respiro

Lo chiedo perché in certo modo ho preso parte all'affare
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
così come gli altri libera Barabba Barabba
Acclamavano tutto se io solo avessi taciuto
sarebbe accaduto esattamente quello che doveva accadere

E forse Barabba è tornato alla sua banda
Sulle montagne uccide rapido saccheggia per bene
Oppure ha messo su un negozio, fa ceramiche
E monda nell'argilla della creazione
le mani macchiate dal delitto
E' portatore d'acqua mulattiere usuraio
proprietario di navi - su di una Paolo faceva vela per Corinto
oppure - cosa da non escludersi
è diventato una spia preziosa al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il gioco da vertigine del destino
su possibilità potenza sorriso della forma

E il Nazareno
è rimasto solo
senza alternativa
con uno scosceso
sentiero
di sangue

mercoledì 29 agosto 2012

Considerazioni libere (302): a proposito di linguaggi...


Presa in sé la polemica di questi giorni - naturalmente rovente, secondo una delle più viete e abusate metafore giornalistiche - tra Bersani e Grillo non è particolarmente significativa, si tratta di un normale episodio di campagna elettorale, sopravvalutato dalla stampa cosiddetta "indipendente", pigra e incapace di guardare oltre alla polemica di giornata, e ovviamente enfatizzato dai giornali "lepenisti", di proprietà di B. e degli amici di B., che, essendo perennemente in un clima di "guerra civile", devono criticare sempre e comunque quello che avviene nel campo dei "comunisti". Al di là della polemica, dei suoi protagonisti e delle loro intenzioni, però ci sono due aspetti della questione che meritano un po' di attenzione e stimolano una qualche riflessione.
Partiamo dalle cose che ha detto Bersani, da quelle che ha detto davvero - come al solito Rainews ha svolto questo servizio, a differenza degli altri "grandi" mezzi di informazione nazionali - e non da quelle che gli hanno fatto dire nella vulgata dei giorni successivi. Secondo me il segretario del Pd ha detto una cosa giusta e una cosa sbagliata; spero per questo di non essere considerato un "cerchiobottista", uno alla Pierluigi Battista per intenderci: come sapete ormai, questo non è proprio il mio "stile".
Comincio dalla cosa - secondo me - sbagliata, facendo contenti i miei amici e lettori a Cinque stelle. Nel corso del suo intervento Bersani ha invitato quelli che lo criticano - anche se criticare, come vedremo poi, è un eufemismo - a "uscire" dalla rete e ad esprimere le stesse cose in confronti faccia a faccia. Questo tipo di atteggiamento va bene con quelli - e ci sono ancora purtroppo - che scrivono di notte sui muri delle sezioni, strappano i manifesti o bruciano le bandiere delle feste. Si tratta spesso di giovani teppisti, più ignoranti che altro, che scimmiottano atteggiamenti squadristici che hanno imparato nelle curve degli stadi. In rete ci sono anche questi, ci sono gli ultras anonimi che se ne approfittano e si nascondono, lanciando insulti e volgarità gratuite, così come ci sono i pedofili e i criminali che usano internet per i loro scopi; il problema, come ho sempre detto, non è la rete, ma chi la usa. La pedofilia, come la criminalità, come l'ignoranza, non sono invenzioni della rete: c'erano ben prima. Bersani però non si riferiva ad anonimi contestatori, ma a persone ben definite, con nomi e cognomi, persone che conosciamo, persone che utilizzano la rete in maniera molto diversa da come la usano, almeno in Italia, i politici che potremmo definire "tradizionali". Qui c'è un problema non solo riferito a quel che si dice - e di questo voglio parlare dopo - ma anche riferito a come si dice e a dove si dice. In questo caso, le questioni di metodo diventano questioni di merito.
Bersani, dal suo punto di vista, può dolersi del fatto che una parte del discorso politico avvenga in sedi così diverse rispetto a quelle che lui conosce bene, secondo schemi e con modalità altre rispetto a quelle con cui lui e molti altri hanno cominciato a fare politica. Questo lo capisco bene, è difficile anche per me, che pure essendo un po' più giovane di Bersani, ho avuto una formazione molto simile alla sua, fatta di incontri in sezione, dove prima ascoltavi e solo dopo un qualche tempo parlavi, fatta di un apprendistato nei livelli locali delle istituzioni e così via, dove il tuo punto di vista si esprimeva attraverso un discorso o un pezzo scritto, più o meno lungo. Anche queste "considerazioni", pur essendo ospitate nella rete, sono figlie di quell'apprendistato e risentono di questo modo - chiamiamolo "tradizionale" - di fare politica. La rete ci imporrebbe un linguaggio più schematico, più diretto, più semplice, anche se a volte rischia di essere semplicistico. Personalmente affianco a questi pezzi, a volte anche troppo lunghi - ma ormai dovete sopportarmi così, son troppo vecchio per cambiare "stile" - le frasi di Twitter e in genere faccio fatica a dire quello che voglio dire in 140 caratteri: a volte ci riesco, a volte no. La concisione è difficile, ma è un esercizio utile, soprattutto per noi che non siamo stati educati a praticarla. Scrivere per la rete non è la stessa cosa che scrivere per un giornale o peggio ancora per un intervento in un congresso: bisogna imparare a farlo e bisogna valorizzare il fatto che se se hai poco tempo e poco spazio devi essere chiaro, molto chiaro. In un discorso lungo, se sei bravo, puoi anche riuscire a non dire nulla, in una sola frase qualcosa devi dire, sempre, e devi riuscire a farti capire.
Poi c'è una questione di luoghi; io per un pezzo non irrilevante della mia vita ho fatto politica e avevo quindi luoghi per poter parlare: l'aula del consiglio comunale, gli incontri di partito, i comizi alle feste, gli articoli sulla stampa. Non voglio enfatizzare: si trattava del consiglio comunale di un piccolo Comune della pianura bolognese, di comizi in paesi sperduti della montagna o della bassa con pochi e fedeli ascoltatori, di articoli sulla stampa a tiratura rionale, eppure erano occasioni utili, anche di formazione politica. Ora queste occasioni non le ho più, per diversi motivi, ma principalmente perché non ho più un partito a cui far riferimento e mi rendo conto che tanti sono in questa condizione; devo ammettere che me ne rendevo conto meno quando facevo politica, all'interno di un partito e di questo mi dispiace: temo sia un difetto intrinseco della politica su cui dovremo riflettere. La rete per me è un'occasione importante, posso continuare a esprimere un'opinione senza dover partecipare alla vita di un partito e posso confrontarmi con persone che la pensano più o meno come me su molti temi. E sono in gran parte persone che non conosco, che probabilmente non conoscerò personalmente perché abitiamo in città diverse, in alcuni casi anche in paesi diversi. Scusate questa digressione personale, ma mi è sembrata l'unico modo per spiegarmi in maniera efficace. Si sta affermando, grazie alla rete, un modo diverso di fare politica, che è in parte simile a quello che c'era prima, ma in parte è anche diverso. Ora io parlo a una quarantina di persone, che leggono con abnegazione questo blog, ma ci sono altre persone che hanno le capacità - e forse le competenze - per parlare a molte più persone. Questo mondo esiste, sono persone che hanno idee, opinioni, che hanno voglia di parlare, i partiti non possono continuare a far finta di nulla, perché un pezzo della politica si agita anche qui e soprattutto alla fine le persone che parlano sulla rete vanno a votare e il loro voto conta. Da un lato si restringono i campi della democrazia perché le istituzioni sono sempre più chiuse, perché nei paesi occidentali  la democrazia si indebolisce - come ho scritto molte volte - e anche i partiti tendono a chiudersi a riccio di fronte a forme vere di partecipazione; nella rete, forse in modo confuso, forse in modo velleitario, forse in modo narcisistico, si fa comunque politica e Bersani più di altri lo dovrebbe capire. Con il suo intervento rischia di dare un ruolo maggiore a soggetti che nella rete si muovono con più competenza e con più agilità rispetto a lui, ma soprattutto dà il senso di essere lontano da un mondo che esprime, in larga maggioranza - lo si è visto su un tema essenziale come quello dei beni comuni e lo si vede in generale sul tema dei diritti - una possibilità di dialogo con pezzi del centrosinistra. Bersani non dovrebbe chiedere con tono minaccioso ai suoi interlocutori della rete di partecipare ai dibattiti, dovrebbe invece cominciare davvero a frequentare la rete; secondo me ci guadagnerebbe, anche in termini elettorali.
Veniamo ora alla seconda affermazione, che, a dire il vero, è stata pronunciata per prima da Bersani ed è quella su cui si è maggiormente animato il dibattito ed è quella - incidentalmente - su cui sono d'accordo. Così faccio contenti i miei lettori del Pd: ultimamente mi capita poche volte di essere d'accordo con il loro segretario e lo segnalo. Secondo i giornali, Bersani avrebbe detto che Grillo, Di Pietro, Travaglio e quelli che scrivono gli editoriali sul Fatto quotidiano sono fascisti. Bersani non l'ha detto, anche perché sa che non è vero. Ha detto che ci sono persone - e quelli citati sono tra questi - che usano "linguaggi fascisti", facendone alcuni esempi piuttosto efficaci. Basta fare un giro tra le bacheche di "faccialibro" per farsene un'idea sufficientemente chiara. Naturalmente i giornali, e molti politici dopo di loro, hanno voluto semplificare: se Grillo usa un linguaggio fascista è tout court fascista. Il segretario del Pd poteva supporre che questa semplificazione sarebbe stata fatta, probabilmente l'aveva messa nel conto, ma evidentemente gli interessava marcare il concetto. Non è inutile ricordare che qualche giorno prima Ezio Mauro, il direttore di un altro "partito" del centrosinistra, aveva scritto un editoriale sul tema della cosiddetta "seconda destra", riferendosi sempre a questi stessi interlocutori, colpevoli a suoi occhi di attaccare Napolitano e quindi Monti. E' Mauro che sbaglia, perché effettivamente in Italia due destre esistono, ma non sono quelle messe in fila dal direttore di Repubblica: una destra - non so se è la prima o la seconda - è quella guidata da Monti, la destra "tedesca" insomma, l'altra destra è quella guidata da B., il "lepenismo" in salsa italiana, antieuropeo, omofobo e razzista.
Bersani, più sottilmente, si è soffermato sui "linguaggi" e purtroppo su questo ha ragione. Ripeto io non ho particolare simpatia per il Pd, lo critico spesso, probabilmente anche più duramente di quanto critichi la destra, perché, essendo un fazioso, dalla destra non mi aspetto nulla, mentre dalla sinistra - ossia dalla parte in cui ho militato, milito e militerò - mi aspetto molto di più; ma un conto è criticare la politica, un conto è cominciare a definire qualcuno "uomo morto".
Il termine fascista ha molti significati, c'è naturalmente il significato storico riferito al regime dittatoriale che c'è stato in Italia dal '22 al '45, ma c'è anche un significato più ampio che precede e segue quel drammatico episodio storico. E' un linguaggio fascista quello che si ascolta ogni domenica negli stadi italiani per denigrare con ogni tipo di insolenza le tifoserie avversarie; c'è un linguaggio fascista che si legge nelle scritte sui muri delle nostre città contro gli omosessuali e gli stranieri; c'è un linguaggio fascista che si è fatto larga strada nella politica. In Europa gli anticorpi contro questi linguaggi sono diventati sempre più deboli, tanto che movimenti fascisti sono riusciti, sfruttando proprio questi linguaggi e questa semplificazione estrema e violenta del discorso politico a diventare centrali nella vita politica dei loro paesi. In Ungheria un partito sostanzialmente fascista è al governo e ha modificato la Costituzione in senso nazionalista e autocratico; in Austria e in Olanda movimenti fascisti hanno avuto ruoli nei governi di centrodestra; in Francia è una parte rilevante della destra di quel paese, che pure è un movimento complesso, che si è forgiato nella lotta contro il nazifascismo; in Grecia c'è un partito nazista che organizza le ronde notturne contro gli immigrati; in Italia è stata una delle componenti culturali di fondo dei governi di B. e della Lega, costituendone uno dei legami forti per tenere unita una coalizione che avrebbe avuto molti altri motivi per dividersi. In molte delle cose che si leggono sui giornali e che si leggono in rete c'è un di più di violenza che dovrebbe far preoccupare, perché uno dei caratteri fondanti del fascismo culturale, oltre al razzismo e al maschilismo, è l'idea che la violenza sia l'elemento principale della risoluzione dei conflitti. Proprio perché le parole sono importanti e lo sono tanto di più - come ho cercato di spiegare prima - perché hanno il pregio di essere chiare e hanno l'opportunità di arrivare a una platea molto vasta, chi le usa lo dovrebbe fare con attenzione. Perché le parole poi viaggiano da sole, prendono forza e non si sa bene dove si possono fermare.

venerdì 24 agosto 2012

Considerazioni libere (301): a proposito di una legge elettorale...

Ogni estate ha la sua pena, e non mi riferisco ovviamente al caldo che, da che mondo è mondo, è molto più intenso e fastidioso in estate che in inverno, con gran stupore di coloro che lavorano nei telegiornali, che ogni anno rimangono basiti di fronte a questa naturale evidenza. Per inciso quest'anno i meteorologi sono venuti in soccorso dei poveri giornalisti che lavorano in agosto - già in ambasce per la mancanza dell'efferato delitto dell'estate - con l'artificio di nominare, in modo non troppo fantasioso, gli anticicloni che hanno imperversato sul paese; questo ha dato loro un po' di sollievo e la possibilità di fare qualche servizio in più.
Se vi ricordate abbiamo passato l'agosto dell'anno scorso a interrogarci su cosa ci fosse scritto nella misteriosa lettera che Trichet e Draghi avevano fatto recapitare al nostro governo proprio all'inizio del mese. Si è poi scoperto che quella lettera, scritta in italiano e poi firmata in francese, altro non era che l'avviso di sfratto per B.; umanamente comprensibile che questi abbia voluto tenerla segreta, per non rovinarsi le vacanze, ma politicamente si è trattato di un errore: proprio quella segretezza così a lungo celata ne ha enfatizzato l'impatto, una volta svelata. E così a novembre il presidente-ufficiale giudiziario ha potuto consegnare il vero e proprio sfratto, fingendo anche l'aria compunta: "mi spiace, ma le ho dato anche tre mesi di preavviso, cosa vuole di più?". Come vedete è in agosto che si preparano le cose per l'inverno.
Questa estate invece la discussione verte sulla riforma della legge elettorale. In sé l'argomento non è propriamente una novità, se ne parla ciclicamente da tempo, almeno da quando è stata approvata la legge elettorale attualmente vigente, chiamata con un eufemismo "porcellum". Adesso però qualcosa bisogna fare, perché il tema non è più rinviabile, visto che al più tardi nell'aprile dell'anno prossimo si voterà. Fino ad ora la discussione sulla legge elettorale si è arenata perché ogni partito era impegnato a escogitare un meccanismo in grado di favorire sé e danneggiare gli altri. Già questo non era proprio il massimo di senso civico, adesso però siamo a un paradosso inedito: stiamo studiando una legge elettorale che sia in grado di far vincere l'unico che non parteciperà alle elezioni, come vedete un unicum istituzionale assolutamente impensabile fino a qualche mese fa.
Ormai lo schema è chiaro: Monti deve governare anche nella prossima legislatura, costi quel che costi. Che sia lui il prossimo presidente del consiglio o che sia un suo delegato, mentre lui diventa presidente della repubblica poco importa. Il Corrierone dedica al tema un editoriale sì e uno pure. Altri fingono di non pensarlo, ma lo dicono, magari non volendo. Qualche giorno fa Paolo Savona, non esattamente un rivoluzionario, ha fatto la proposta di congelare il debito per cinque anni, ossia di non pagare i nostri titoli in scadenza per tutta la durata della prossima legislatura; in sé una proposta anche interessante, se non fosse che Savona ha omesso di spiegare chi garantirebbe i creditori del fatto che al termine della legislatura vedranno i loro soldi con in più gli interessi maturati e un piccolo aggio per il "disturbo". Naturalmente lo garantirebbe Monti, peccato che ad aprile si debba votare per rinnovare il parlamento e Monti debba -ipoteticamente - lasciare Palazzo Chigi. E' chiaro che a tutti questi, a partire da Draghi, piacerebbe uno schema per cui l'incarico di Monti venisse prorogato di cinque anni; ma è oggettivamente impossibile, c'è perfino una Costituzione che nega questa comoda eventualità. In fondo hanno rischiato di far votare anche i greci, nonostante ci fosse là un'opposizione di sinistra. In Italia questo pericolo non c'è. Purtroppo in Italia non c'è uno come Samaras che le elezioni le può perfino vincere da solo, anche se con qualche "aiutino". In Italia la stragrande maggioranza del centrodestra è B., ontologicamente prima ancora che politicamente: Monti prenderebbe poco più di Casini, non arriverebbe al 10%. Impossibile farlo partecipare alle elezioni: bisogna trovare un qualche marchingegno. Come noto non è difficile truccare le elezioni durante o dopo, ne abbiamo avuto anche qualche esempio in Italia nella prima metà nel Novecento, e succede ancora oggi regolarmente in molti paesi, ad esempio nella Russia dell'"amico" Putin. Un po' più complicato farlo prima, perché la gente quando vota un po' ci pensa, un po' lo fa per dispetto, un po' fa una cosa per farne un'altra, in una serie di variabili difficilmente prevedibili. Il rischio che una legge elettorale pensata ad hoc per ottenere un determinato risultato non funzioni è altissimo.
Allora non sarebbe meglio fare una bella dichiarazione comune? Non sarebbe meglio dichiarare che le attuali forze politiche pensano che la soluzione migliore per l'Italia sarebbe la prosecuzione di questo governo, sorretto da questa maggioranza? Per me naturalmente non è così, ma io sono uno e comunque non voterò comunque per uno di questi partiti neppure se si presenterà con un proprio candidato e un proprio programma - ho scritto in un'altra "considerazione" quello che penso dello sforzo di Bersani e di Pd di definire un proprio programma - non voterò per questo che mi è più affine figurarsi per uno per cui non c'è neppure questa affinità. Al di là di quello che farò io e che farà una minoranza, che non è neppure organizzata, e non lo sarà da qui a pochi mesi, sarebbe più onesto per il paese dire la verità. E sarebbe anche più onesto verso la politica nel suo insieme, verso cui c'è una non immeritata sfiducia. Nella loro ottica - che non è la mia - sarebbe anche un segnale forte verso quei mercati e quelle cancellerie di cui temono il giudizio: candidare da subito Monti o Passera metterebbe a tacere molte illazioni. Vincerete comunque, almeno cercate di farlo con più dignità.

Palmiro Togliatti parla all'Assemblea Costituente il 25 marzo 1947

Presidente
Ha chiesto di parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.
Togliatti
(segni di attenzione) Signor presidente, signore, onorevoli colleghi. Siamo giunti al termine non di una lotta, ma di un dibattito, di una discussione elevata, ardente, appassionata, la quale ha profondamente interessato non soltanto questa Assemblea, ma tutto il Paese.
Arrivati a questo punto, una dichiarazione, non direi di voto, ma tale che precisi la posizione politica dei differenti partiti, è doverosa, e noi ringraziamo il nostro presidente di averci permesso di fare questa dichiarazione in questo modo, affinché essa possa essere abbastanza ampia e motivata, tale da non lasciare nessun dubbio in nessuno.
Doverosa è la dichiarazione di voto, da parte nostra, di fronte all’Assemblea, doverosa di fronte al nostro partito, doverosa di fronte alle masse di lavoratori e cittadini che ci seguono, che ci hanno dato la loro fiducia, mandandoci qui come rappresentanti della nazione.
L’articolo che sta davanti a noi consta di tre parti. A proposito della terza, il nostro gruppo ha presentato degli emendamenti, anzi un emendamento, il quale potrà essere concordato e posto ai voti insieme con l’emendamento presentato da altri autorevoli colleghi.
Non abbiamo avuto nessuna difficoltà, sin dall’inizio, ad approvare la prima parte dell’articolo, quella nella quale si dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
Non solo non abbiamo avuto difficoltà, ma i colleghi della prima Sottocommissione ricordano senza dubbio che questa formulazione è stata data da me stesso.
E qui permettetemi un ricordo.
L’onorevole Dossetti, riferendosi a questa prima parte dell’articolo che stiamo discutendo, cercando di darne una giustificazione dottrinaria, diceva che questa si può trovare in un corso di Diritto ecclesiastico, tenuto precisamente nel 1912, all’Università di Torino, dal senatore Francesco Ruffini.
Voi mi consentirete di ricordare all’onorevole Dossetti che sono stato allievo di quel corso, che l’ho frequentato quel corso, che ho dato l’esame di Diritto ecclesiastico su quelle dispense che egli ha citato e lodato. È, forse, per questo che non ho trovato difficoltà a dare quella formulazione. Ricordo però anche che quelle lezioni non erano frequentate soltanto da me. Veniva alle volte e si sedeva in quell’aula un uomo, un grande scomparso, amico e maestro mio, Antonio Gramsci, e uscendo dalle lezioni e passeggiando in quel cortile dell’Università di Torino, oggi semidistrutto dalla guerra, egli parlava con me anche del problema che ci occupa in questo momento, del problema dei rapporti fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Eravamo allora entrambi giovanissimi, entrambi all’inizio della nostra vita politica e ci sforzavamo di individuare quali erano le origini e quali avrebbero potuto essere le sorti future di quel contrasto tra lo Stato e la Chiesa che allora era ancora per gran parte in atto in Italia, ma che in parte era superato o si stava superando, e ricordo che Gramsci mi diceva che il giorno in cui si fosse formato in Italia un governo socialista, in cui fosse sorto un regime socialista, uno dei principali compiti di questo governo, di questo regime, sarebbe stato di liquidare completamente la questione romana garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica.
Ripeto che la prima parte di questo articolo non offre per noi nessuna difficoltà.
E vengo alla seconda parte, che è quella a proposito della quale hanno avuto luogo i più ampi dibattiti ed avrà luogo lo schieramento più importante in quest’aula. Qui si tocca il fondo del problema dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ora, di questo problema noi non ci siamo interessati soltanto oggi né soltanto nel corso delle discussioni della prima Sottocommissione e della Commissione dei settantacinque. Fin dall’inizio del 1946, quando si tenne in Roma il V Congresso del nostro partito, dedicammo una parte non trascurabile dei nostri dibattiti all’esame di questo problema, e la nostra posizione venne allora definita così nel rapporto che io tenni al congresso. Permettetemi di citare. "Poiché l’organizzazione della Chiesa" dicevo io allora "continuerà ad avere il proprio centro nel nostro Paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica. Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come le libertà democratiche fondamentali, che devono essere restaurate e difese contro qualunque attentato da qualunque parte venga. Oltre a questo, però, esistono altre questioni che interessano la Chiesa e sono state regolate coi Patti del Laterano. Per noi la soluzione data alla questione romana è qualcosa di definitivo, che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al Trattato del Laterano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale, oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l’una parte o l’altra a denunciarlo. Questa nostra posizione è chiara e netta. Essa toglie ogni possibilità di equivoco e impedisce che fondandosi sopra un equivoco si possano avvelenare o intorbidare i rapporti fra le forze più avanzate della democrazia, che seguono il nostro partito e la Chiesa cattolica".
Come vedete, vi sono qui alcune affermazioni fondamentali, alle quali abbiamo il dovere di rimanere coerenti, alle quali ci siamo sforzati di rimanere coerenti, alle quali credo che siamo rimasti coerenti fino ad ora.
Prima affermazione fondamentale: la rivendicazione delle libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Il progetto di Costituzione, per questa parte, ci soddisfa. Noi appoggeremo tutte quelle proposte le quali tenderanno a rendere sempre più tranquille le coscienze di tutti i credenti di tutte le fedi, garantendo loro tutte le libertà di cui hanno bisogno per esplicare il loro culto e svolgere la loro propaganda.
Seconda affermazione: consideriamo definitiva la soluzione della questione romana, e non vogliamo in nessun modo riaprirla.
Terza affermazione: riteniamo che il Concordato sia uno strumento bilaterale e che solo bilateralmente potrà essere riveduto.
Nel corso dei dibattiti della prima Sottocommissione e della Commissione dei settantacinque, ci siamo costantemente attenuti a questi principi, e anche nel mio intervento, e negli interventi degli altri colleghi del mio gruppo, nel dibattito generale sulla Costituzione e nel dibattito su questa parte della Costituzione stessa, queste sono le posizioni che noi abbiamo affermate.
Abbiamo, però, sollevato, in pari tempo, alcune questioni che ci preoccupavano e che ci hanno incominciato a preoccupare particolarmente – e in questo concordo col giudizio dato dal collega Nenni – quando ci si chiese di inserire come tali, e il Trattato e il Concordato, nella nostra nuova Costituzione attraverso un esplicito richiamo.
Precisamente, le questioni che ci preoccupavano erano quella della firma e quella di alcune determinate norme, sia del Trattato sia del Concordato, in cui trovavamo un contrasto con altre norme della Costituzione, da tutti noi insieme volute e approvate preliminarmente nelle commissioni. Questa contraddizione apriva un problema; poneva un interrogativo. Mai abbiamo parlato di una denuncia o dell’uno o dell’altro dei due strumenti diplomatici che sono legati insieme in quel complesso che viene chiamato “Patti del Laterano”. Le stesse preoccupazioni nostre, del resto, in maggiore o minore misura, abbiamo sentito esprimere da tutti, anche dai colleghi di parte democristiana, quando sono intervenuti nel dibattito. Tutti hanno riconosciuto, credo senza eccezioni, per quanto con maggiore o minor vigore, la fondatezza almeno di una parte delle esigenze presentate sia da noi che da altri colleghi di questa parte. In pari tempo abbiamo affermato sin dall’inizio, raccogliendo un appello venuto dal presidente Orlando, il nostro desiderio che si trovasse di tutta questa questione una soluzione attorno alla quale potesse venire realizzata, se non l’unanimità, per lo meno la grande maggioranza di questa Assemblea.
Questo infatti ritenevamo fosse necessario, anzi quasi indispensabile, per consolidare la pace religiosa del nostro Paese. In questo senso ci siamo mossi nelle conversazioni e trattative che hanno avuto luogo negli scorsi giorni tra noi e i rappresentanti di altri gruppi dell’Assemblea. Diverse formule sono state presentate e vagliate nel corso di queste conversazioni. Una di esse, la quale aveva l’autorevole appoggio dell’onorevole Orlando, passava dall’affermazione: "I rapporti ecc. ecc. sono regolati" all’affermazione: "La Repubblica riconosce e conferma i Patti lateranensi". Questa formula, pur essendo per degli aspetti più tassativa, direi anche più impegnativa dell’altra, pure soddisfaceva una delle nostre esigenze, quella del cambio della firma. Al posto di quella del fascismo, subentrava la firma della Repubblica. Non siamo però riusciti a venire all’accordo su questa formula, così come non eravamo riusciti precedentemente a trovare un accordo sopra altre formule le quali tenevano conto di esigenze affacciate, come ho detto, da tutte le parti, anche dalla parte democristiana.
Ho sentito testé l’onorevole De Gasperi affermare che per lo meno una di queste formule, quella sostenuta dall’onorevole Basso, avrebbe potuto essere accettata, se non si fosse impegnata su di essa una discussione impegnativa prima che la cosa venisse davanti all’Assemblea. Mi permetta, onorevole De Gasperi, ma ciò che ella ha detto è una svalutazione diretta dell’Assemblea. I dibattiti che precedono preparano i dibattiti nell’Assemblea; ma qui si decide ogni questione, qui ogni formula deve essere pesata, valutata, accettata o respinta. In questo sta la sovranità della nostra Assemblea. (applausi)
Da ultimo, quando vedemmo che nessuna delle formule presentate era tale che, essendo accettata dalla parte democristiana, ci consentisse di avere quella larga maggioranza o di raggiungere anche quell’unanimità che avremmo voluto si raggiungesse nell’interesse del Paese, si discusse della possibilità di presentazione di un ordine del giorno il quale, a conclusione del dibattito, mettesse in valore l’importanza, il peso di esso nella vita nazionale, pur non dicendo in sostanza nulla di più e nulla di meno di quanto diceva l’articolo 7 e di quanto nel corso del dibattito quasi concordemente era stato detto da tutti.
L’ordine del giorno venne formulato da un autorevole parlamentare e soddisfaceva molti di noi. Anche esso, però, alla fine venne respinto. Nemmeno in quella direzione trovammo quella via di uscita che stavamo cercando, e ciò nonostante avessimo affermato – e tutti lo riconoscevano insieme con noi – che l’approvazione di un simile ordine del giorno, pur non aggiungendo e non togliendo nulla all’articolo, sarebbe stata un atto politico importante, che avrebbe facilitato l’opera necessaria a raggiungere i più larghi consensi possibili e forse l’unanimità.
In nessun modo, dunque, siamo riusciti a metterci d’accordo. Perché? Perché ci siamo trovati a un certo momento e ci troviamo ora in una specie di vicolo cieco? Perché il nostro dibattito è arrivato a questo punto di evidente drammaticità?
Onorevoli colleghi, qui si pone un problema profondo, che io formulerei a questo modo: in sostanza con chi è il dibattito? Fra noi e i colleghi di parte democristiana? Non credo.
I colleghi di parte democristiana alle volte parlano presentandosi come unici difensori della libertà della coscienza religiosa delle masse cattoliche. Non credo che alcuno dei partiti di sinistra voglia lasciare loro la esclusività di questa funzione.
Anche nel nostro partito esistono, e credo per la maggioranza degli iscritti, i cittadini cattolici e noi siamo assertori e difensori della libertà della loro coscienza religiosa. È vero, noi difendiamo questa libertà come partito democratico, moderno, progressivo, comunista, se volete; ma, a ogni modo, la difendiamo. Non lasciamo a voi l’esclusività di questa funzione.
Anzi, mi pare che il dibattito sia stato un po’ viziato dal fatto di esser diventato un dibattito con voi, colleghi democristiani, mentre non lo è. In fondo, il dibattito è tra l’Assemblea costituente italiana e un’altra parte, l’altra parte contraente e firmataria dei Patti del Laterano. Questa è la realtà, che dobbiamo guardare in faccia se vogliamo comprendere bene di che si tratta e quello che dobbiamo fare.
Qui è avvenuto però un fatto spiacevole. È avvenuto che da tutti i settori dell’Assemblea, compreso il vostro, si è detto che un determinato ritocco di alcune norme dei Patti, in un momento determinato, con le forme opportune, sarebbe desiderabile e dovrebbe potersi fare. Ecco una voce unanime, o quasi, che esce dal luogo dove siedono i rappresentanti della nazione. Questa voce, però, non è andata più in là.
Onorevole De Gasperi, qui è mancato qualcosa, è mancato, più che l’intermediario, il rappresentante autorizzato di questa voce, che è la voce della nazione, che si sia presentato all’altra parte, le abbia significato quello che qui si pensa e sia in grado ora di significare a noi quello che da noi quest’altra parte richiede. Non siamo infatti autorizzati a credere che la vostra opinione di partito sia opinione autorizzata dall’altra parte.
In questo dibattito, insomma, abbiamo sentito l’assenza, quell’assenza che lamentava anche l’onorevole Orlando, del governo. La democrazia italiana in questa occasione non è stata guidata da un governo, il quale si sentisse legittimo rappresentante di quella opinione democratica e repubblicana, che qui in modo unanime espresse una stessa esigenza, pure con sfumature diverse riguardo all’intensità. E forse questo è il male che succede in tutti i Paesi, quando si agitano questioni di questa natura e il partito dirigente è il Partito democristiano. (commenti)
L’onorevole De Gasperi ha parlato, e io mi aspettavo parlasse come capo del governo. Se avesse parlato come capo del governo dicendoci: "Così si pone il problema; questo è da farsi nell’interesse nazionale", lo avrei applaudito. Egli ha avuto invece, come uomo di governo, un unico accenno alla necessità di consolidare il regime repubblicano. Onorevole De Gasperi, questo accenno l’abbiamo compreso; l’avevamo anzi già compreso prima.
Ripeto: avremmo voluto che l’onorevole De Gasperi non parlasse qui, come ha parlato, quale esponente del Partito democristiano o, ancora di meno, come esponente della coscienza cattolica, la quale non si estrinseca né si può estrinsecare in un solo partito; ma che, per tramite suo, tutto il nostro dibattito fosse guidato da un rappresentante autorizzato di tutta la nazione, cioè dal nostro governo, democratico e repubblicano.
Questo non è avvenuto; e dobbiamo dolercene. Siamo dunque costretti, per conoscere la posizione dell’altra parte, a leggere il suo organo autorizzato ufficiale L’Osservatore Romano.
L’onorevole Nenni ne ha parlato come di un giornale tra gli altri. No, questo non è esatto, e questo non basta. Permettetemi di parlare dell’Osservatore Romano come dell’esponente autorizzato dell’altra parte. Esso è l’unica voce, l’unico mezzo che abbiamo per conoscere che cosa pensa la Santa Sede, la quale è firmataria, insieme con i rappresentanti di allora dello Stato italiano, degli atti di cui stiamo discutendo.
Orbene, le affermazioni a questo proposito dell’organo ufficiale autorizzato della Santa Sede non sono equivoche. Prendo soltanto quattro degli articoli consacrati, in date diverse, alla trattazione di questo problema dall’Osservatore Romano e vi trovo le stesse affermazioni.
Il 13 di marzo: "Simile omissione [l’omissione del richiamo al Trattato e al Concordato nella Costituzione] significherebbe nella realtà... non un silenzio, non una lacuna, ma una minaccia, un pericolo. La minaccia alla pace religiosa, il pericolo di vederla turbata per la possibilità che lo sia".
Il 19 dello stesso mese: "Questo eventuale diniego [si tratta sempre del diniego del richiamo esplicito ai Patti], il sostenerlo necessario, il presagirlo possibile, turba già la pace e l’unità spirituale del popolo, il quale può ben pensare fin d’ora che tale pace, tale unità è minacciata per l’avvenire, se al suo unico fondamento si vuol... togliere la sicurtà costituzionale".
Il 20 e il 21 dello stesso mese: "Per quanto si protesti fin d’ora di non voler cadere nell’anticlericalismo di maniera, né in una lotta contro la religione, tuttavia [se si esclude dall’articolo 5 il richiamo costituzionale ai Patti lateranensi], pace religiosa... certissimamente non sarà, purtroppo".
Il 22 di marzo: "Se realmente si vuole che nessuna lotta a carattere religioso turbi il faticoso rinnovamento della patria, perché mai così manifesto timore di riaffermare, in un momento e in un documento solenne, l’efficacia di Patti sottoscritti non soltanto tra un governo e altro governo, tra uno Stato e altro Stato, bensì tra il popolo italiano e la sua fede e la sua Chiesa?".
Non vi è dubbio che ci troviamo di fronte a un’esplicita manifestazione di volontà dell’altra parte, della Chiesa cattolica, della Santa Sede. Ed è questo il punto da cui dobbiamo partire, onorevoli colleghi, nel determinare la nostra posizione. Questo è il punto da cui dobbiamo partire, dal momento che tutte le questioni da noi precedentemente sollevate sono state sempre subordinate a una esigenza fondamentale, quella di non turbare la pace religiosa del nostro Paese.
Esisteva o no la pace religiosa prima di oggi, prima del crollo del fascismo, prima della disfatta? Si può discutere, si può vedere come sono andate le cose storicamente.
Nel 1929, quando i Patti lateranensi furono firmati, non c’è dubbio che, nonostante tutto il precedente lavorio preparatorio compiuto da uomini politici di marca democratica e di fede liberale, non c’è dubbio che quell’accordo, concluso in quel momento, fece veramente pesare sul nostro Paese – permettetemi l’espressione romantica – l’ombra funesta del triste amplesso di Pietro e Cesare. Lo sentimmo chiaramente noi, che dirigevamo la lotta antifascista della parte avanzata del popolo italiano. Sentimmo che, nonostante oggi si interpreti l’espressione “uomo della Provvidenza” dicendo che si trattava di riferirsi a quella virtù che la Provvidenza ha di mandare uomini buoni e uomini cattivi, allora “uomo della Provvidenza” fu inteso come uomo “provvidenziale”.
Poi le cose cambiarono, senza dubbio. Questa prima impressione si attutì; qualche posizione fu conquistata e consolidata da noi; qualche posizione fu perduta dal fascismo; la nostra lotta per la democrazia, per la libertà contro la tirannide si sviluppò; gli uomini si svincolarono da quella primitiva impressione. Arrivammo così alla guerra di liberazione, nella quale avemmo profonda l’impressione che la pace religiosa veramente ci fosse. Vedemmo infatti nelle nostre unità partigiane operai cattolici affratellati con militanti comunisti e socialisti; vedemmo nelle unità comandate dai migliori tra i nostri capi partigiani, i cappellani militari, sacerdoti, frati, accettare la stessa nostra disciplina di lotta. Tutto questo ci permetteva di ritenere che la pace religiosa fosse stata raggiunta. Per questo chiudemmo quella pagina; né avevamo alcuna intenzione di riaprirla. Non solo, ma arrivammo a quel grande successo, a quella grande vittoria che è stata l’unità sindacale, giungemmo alla conclusione di un patto di unità sindacale fra le grandi correnti tradizionali del movimento operaio italiano: la corrente comunista, la corrente socialista e la corrente cattolica. Poi ci fu il 2 giugno, che segnò senza dubbio un passo addietro, per gli episodi di cui tutti fummo testimoni; per i motivi che tutti sappiamo. E ora siamo di fronte all’avvenire e a difficoltà nuove per il nostro Paese: siamo di fronte a problemi economici e politici che si stanno accumulando e intrecciando l’uno con l’altro. In questa situazione, abbiamo bisogno della pace religiosa, né possiamo in nessun modo consentire a che essa venga turbata.
Ora, il contrario del termine “pace” è “guerra”. È vero che per fare la guerra bisogna essere in due e che una delle parti può sempre dichiarare – come fai tu, compagno Nenni – "noi la guerra non la vogliamo"; ma per dichiararla, la guerra, basta uno solo. Di questo bisogna tener conto.
Questa è la situazione reale, di fatto, che oggi esiste, e noi, Partito comunista, che dal momento in cui abbiamo incominciato ad agire legalmente nel Paese, sempre abbiamo avuto tra i nostri principali obiettivi quello di mantenere la pace religiosa, non possiamo trascurare questa situazione, anzi dobbiamo tenerne conto e adeguare ad essa la nostra posizione e, di conseguenza, il nostro voto.
E qui la mia dichiarazione di voto potrebbe trasformarsi in un appello: potrei rivolgermi ai colleghi socialisti, ai colleghi di altre parti, invitandoli a votare con noi, a votare come noi voteremo. (interruzioni-commenti)
Essenzialmente però noi votiamo tenendo conto della nostra responsabilità; e comprendiamo benissimo che la responsabilità nostra è più grave forse di quella di qualsiasi altro membro di questa Assemblea: è certamente più grave di quelli che posso considerare come degli isolati, dell’onorevole Lussu, dell’onorevole Crispo, o dell’onorevole Condorelli, che non sono a capo di grandi partiti; anche, vorrei dire, dell’onorevole Benedetto Croce, che è passato in quest’aula come un’ombra, l’ombra di un passato molto lontano! La nostra responsabilità è più grande, in sostanza, anche di quella dei colleghi socialisti, perché non siamo soltanto partito della classe operaia, ma siamo considerati come il partito più avanzato dei lavoratori, e in sostanza la maggioranza della classe operaia orienta la sua azione a seconda del modo come il nostro partito si muove.
Per questo non è soltanto alla nostra coscienza e convinzione personale, individuale che noi ci richiamiamo, come si richiamano altri colleghi, nel decidere il nostro voto. Essenzialmente facciamo appello a questa nostra responsabilità politica, e al modo come noi realizziamo la linea politica che ci siamo tracciata nella attuale situazione del nostro Paese. La classe operaia non vuole una scissione per motivi religiosi, così come non vuole la scissione fra noi e i socialisti. Noi siamo dunque lieti, anche se voteremo differentemente dal Partito socialista, che questo fatto non apra un contrasto fra di noi. In pari tempo però sentiamo che è nostro dovere fare il necessario perché una scissione e un contrasto non si aprano tra la massa comunista e socialista da una parte e i lavoratori cattolici dall’altra.
Abbiamo avuto stamane i risultati della votazione svoltasi in preparazione del congresso confederale alla Camera del lavoro di Milano. Si sono avuti 327mila voti per i comunisti, 152mila per i socialisti e 106mila per i democristiani. Orbene, vogliamo noi che tra questa massa di 106mila operai che segue la Democrazia cristiana e la rimanente massa di tre o quattrocentomila operai che non seguono la Democrazia cristiana, ma di cui molti sono cattolici, si apra un contrasto proprio oggi, in un momento in cui questioni così gravi sono poste davanti a noi, in cui è soprattutto necessario che le forze del lavoro siano unite? (commenti). Non solo, ma io ritengo che la classe operaia, che noi qui rappresentiamo, o almeno quella parte di lavoratori che è rappresentata da noi, sia interessata a che sia mantenuta e rafforzata l’unità morale e politica della nazione, sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo. Anche di questo interesse e di questa esigenza noi teniamo conto.
E qui avrei finito, onorevoli colleghi; avrei finito se la posizione assunta dal nostro partito in questa discussione, e soprattutto nelle conversazioni che hanno avuto luogo nei giorni scorsi, non fosse stata al centro di una particolare attenzione e nella stampa e nell’assemblea.
Forse mi permetterete di dedicare qualche minuto ancora all’esame delle critiche e delle obiezioni che ci sono state fatte, tanto più in quanto ciò mi permetterà di chiarire ancora meglio la nostra posizione e trarne tutto il succo.
Lascerò da parte le volgarità, gli articoli come quelli che scriveva l’altro giorno un illustre camaleonte, il signor Mario Missiroli, domandandosi che cosa c’è sotto all’atteggiamento dei comunisti, eventualmente favorevole al voto dell’articolo 5 o dell’articolo 7, nella forma in cui questo articolo viene presentato. L’autore di questo scritto argomenta lungamente e argomenta, naturalmente, in termini di hegelismo. Ma l’hegelismo l’abbiamo studiato anche noi, anche noi ce la sappiamo cavare con queste formulette, e soprattutto sappiamo come molte volte esse vengano adoperate esclusivamente per coprire una specie di cinismo, come quello di cui dà prova questo signore che accusa noi di non avere una coscienza etica dello Stato, perché saremmo disposti anche ad accettare la formula dell’articolo 5 così come ci è stata presentata: proprio lui che, per esaltare i Patti del Laterano, scrisse un intiero volume che, si dice, ebbe il personale plauso di Mussolini!
È evidente che lezioni di etica da un camaleonte non le prendiamo.
Ma eleviamoci in un’atmosfera superiore: paullo maiora canamus. Anche in quest’aula, la questione del nostro atteggiamento è stata posta, e prima di tutto dall’onorevole Orlando, il quale ha detto: "Non vorrei collocarmi più a sinistra dei comunisti". Che cosa è destra e che cosa è sinistra non sempre è facile dirlo in politica, onorevole Orlando. A ogni modo, non ho ben capito se, quando ella usava quella espressione, intendeva esprimere una perplessità sua circa la posizione che ella doveva prendere, oppure se avesse voluto che noi ci collocassimo un po’ più a sinistra per far posto a lei. (si ride). Insomma, vi è qualcuno che avrebbe voluto ad ogni costo che fossimo noi a condurre questa battaglia. No, signori: noi conduciamo le battaglie che sembra a noi debbano essere combattute e, quando riteniamo che per consolidare l’unità politica e morale della nazione debba essere presa una determinata posizione, la prendiamo, lo diciamo chiaramente e ci assumiamo tutte le responsabilità che ne derivano.
Ma anche l’onorevole Nitti ci ha fatto oggetto della sua critica e delle sue benevole osservazioni. L’onorevole Nitti si è lusingato di darci una piccola lezione di interpretazione del marxismo. Onorevole Nitti, siamo sempre disposti ad accogliere tutte le lezioni. Però, quando si tratta di una interpretazione del marxismo, diretta allo scopo di determinare la nostra politica, questa lezione ce la diamo fra noi. La sede di essa è il nostro comitato centrale, sono gli organi dirigenti del nostro partito. Se ella crede di entrare nel nostro partito (Ilarità), forse potrà anche collaborare alla elaborazione della dottrina marxista nei riflessi e nelle applicazioni che questa comporta nella vita politica di oggi. La porta non è chiusa per nessuno, e non è detto che ella non possa rapidamente superare i gradini che portano anche alle più alte cariche del partito, in modo che ella possa dare il suo contributo alle direttive di azione di un partito che si sforza di applicare alla situazione attuale precisamente i principi del marxismo. (si ride)
Ma lasciamo gli scherzi, onorevole Nitti, ella ha detto una cosa che io non accetto: ella ha detto che i regimi socialisti non si conciliano con l’esistenza della religione. Non è vero: e questo è il punto che desidero chiarire meglio, perché illumina nel modo migliore la nostra posizione di oggi.
Vi è una sola esperienza in proposito, l’esperienza dell’Unione Sovietica. È evidente che nel corso della sua esistenza, l’Unione Sovietica ha dovuto attraversare differenti periodi, anche per questo riguardo. Ma che cosa avvenne in quel Paese? Avvenne che la Chiesa cristiana ortodossa, l’unica Chiesa ivi esistente, per il suo orientamento politico e per il tipo stesso della organizzazione, era strettamente vincolata al vecchio regime zarista, a quel regime di oppressione economica, politica e sociale, a quel regime di tirannide che era uno dei più arretrati, inumani e barbari di quei tempi.
Gli esponenti della Chiesa ortodossa ritennero di dover prendere la difesa del regime zarista e delle forze sociali che esso esprimeva, contro le masse di operai, di contadini, di intellettuali avanzati, che volevano rinnovare profondamente, su una base socialista, il loro Paese, e adempivano questo compito edificando un nuovo Stato, uno Stato socialista. Ebbene, il nuovo Stato accettò la lotta e vinse. Vinse, e non poteva non vincere, come non possono non vincere tutti i regimi che attuano profonde trasformazioni politiche e sociali, quando queste sono mature nella coscienza popolare e nello sviluppo stesso delle cose. Vinse, e la Chiesa ortodossa ne subì, per un periodo di tempo abbastanza lungo, le conseguenze.
Però noi vedemmo, già prima dell’ultima guerra, che la situazione era cambiata; e nel corso della guerra non soltanto funzionarono regolarmente, liberamente le istituzioni religiose, ma il sentimento religioso agì come stimolo alla lotta eroica delle grandi masse della popolazione di tutte le parti della Russia per la difesa della patria socialista minacciata nella sua esistenza dalle orde dell’invasione tedesca e fascista. Oggi esiste in Russia un regime di piena libertà religiosa (commenti), e il regime socialista si rivela perfettamente conciliabile con questa libertà.
Questo, colleghi democristiani, è il punto al quale io volevo arrivare, perché da esso traggo due insegnamenti: il primo è che non vi è contrasto fra un regime socialista e la coscienza religiosa di un popolo; il secondo è che non vi è nemmeno contrasto fra un regime socialista e la libertà religiosa della Chiesa, e in particolare di quella cattolica.
Questa è la posizione di principio più profonda, che non solo giustifica, ma spiega la posizione che noi prendiamo in questo voto. Vogliamo rendere sempre più evidente al popolo italiano questa verità. Quindi è inutile che vi poniate delle domande superflue: è inutile vi domandiate cosa c’è sotto. Non c’è sotto nient’altro che questo: il nostro voto sarà dato secondo convinzione e per disciplina: per disciplina a una linea politica, secondo la convinzione che questa politica è quella che meglio corrisponde agli interessi della nazione italiana.
Si dice che verrà chiesto un voto segreto, oppure che voteremo pubblicamente per appello nominale. Il nostro voto non cambierà, sia che si voti in segreto, sia che si voti apertamente. Non vi sono in noi preoccupazioni elettorali se non nel senso di tener fede alle assicurazioni che abbiamo dato agli elettori che hanno votato per noi... (commenti animati-interruzioni)
una voce
Non ci crediamo.
Togliatti
Onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, la vostra intolleranza è utile. (commenti). Essa serve a dimostrare la validità delle argomentazioni dei vostri contraddittori. Ho cercato di dimostrare prima che è stato un inconveniente per noi aver dovuto trattare con voi e non direttamente con altre parti. Voi mi state dando la prova che ho ragione. Sono convinto che in un consesso di prelati romani sarei stato ascoltato sino alla fine con più sopportazione di quanto voi non mi abbiate ascoltato. (commenti prolungati al centro)
Presidente
Mi sembra che i commenti siano già stati troppo lunghi. Permettano che l’onorevole Togliatti riprenda il suo discorso.
Togliatti
Si è anche parlato di una eventuale minaccia di un appello al Paese, attraverso un referendum, o un plebiscito, minaccia che determinerebbe il nostro atteggiamento. Anche questo non è vero. Qualora noi ritenessimo che vi è una questione o un dissenso che bisogna portare dinanzi al popolo, noi stessi chiederemmo il referendum. E del resto, colleghi di parte monarchica, abbiamo vinto già una volta un referendum: siamo disposti a vincerne un altro. (commenti)
una voce a destra
Bene, si faccia il referendum!
Condorelli
Ne prendiamo atto.
Togliatti
I motivi per i quali, visti fallire i nostri tentativi per arrivare attraverso una modificazione delle formule presentate o attraverso la presentazione di un ordine del giorno successivo al voto dell’articolo, i motivi per i quali, visti fallire questi tentativi, il gruppo parlamentare comunista ha deciso di votare per la formula che viene presentata, sono dunque motivi profondi, che investono tutto l’orientamento politico del nostro partito.
La nostra lotta è lotta per la rinascita del nostro Paese, per il suo rinnovamento politico, economico e sociale. In questa lotta noi vogliamo l’unità dei lavoratori, prima di tutto, e, attorno a essa, vogliamo si realizzi l’unità politica e morale di tutta la nazione. Disperdiamo le ombre le quali impediscono la realizzazione di questa unità! Dando il voto che diamo, noi non sacrifichiamo, dunque, nulla di noi stessi; anzi, siamo coerenti con noi stessi sino all’ultimo. Siamo oggi quello che siamo stati in tutta la lotta di liberazione e in tutto il periodo di profonda crisi e di ricostruzione apertosi dopo la fine della guerra. Siamo oggi quel che saremo domani, nella lotta che condurremo insieme a voi, accanto a voi – se volete – o in contrasto con voi, per la ricostruzione, il rinnovamento, la rinascita d’Italia.
Siamo convinti, dando il nostro voto all’articolo che ci viene presentato, di compiere il nostro dovere verso la classe operaia e le classi lavoratrici, verso il popolo italiano, verso la democrazia e la Repubblica, verso la nostra patria! (vivi applausi all’estrema sinistra -commenti animati)

mercoledì 22 agosto 2012

da "Centuria" di Giorgio Manganelli

Settantanove

Il signore che l’ha condannato, per un delitto indicato in modo estremamente impreciso e insieme minaccioso, l’ha fatto relegare in una dimora assai decorosa, con tende e musicanti, e in vetrine di delicata fattura e foggia fantastica si allineano guastade di vini delicati, e confetture. Il condannato legge libri rari custoditi in una preziosa biblioteca, e contempla opere d’arte – statue neoclassiche e quadri impressionisti – che vengono mutati spesso, così come mutano gli effetti di luce e le fontane del giardino ricco di nobili fiori, forse un poco severi; ma, si sa, egli è un condannato. Ignora per quale delitto sia stato condannato, e non può non stupirsi di quella prigione, dalla quale non può uscire, ma che è spaziosa, elegante, solo un poco solitaria. Veramente, non è assolutamente detto che egli non possa in nessun modo uscire: giacchè il sovrano ha le sue bizzarrie. Esiste una porta, ed in primo luogo egli deve trovarla. Nella dimora vi sono decine di porte che danno su una parete; altre decine danno su stanze deserte, senza adito ad altri luoghi, altre, su stanze che danno, per altra porta, su stanza che, per ulteriore porta, riconduce alla porta iniziale; così che si disegna un breve labirinto. Ogni porta è chiusa a chiave, ed egli non ha la chiave; ma esistono anche porte che non si aprono con la chiave, ma solo con ordini verbali, pronunciati ad alta voce. Anche queste porte hanno una serratura, ma illusoria. Non gli è stato detto se la porta che conduce alla libertà sia chiusa a chiave o apribile per virtù di parole. Se fosse questo secondo caso, egli dovrebbe trovare la formula che spalanca la porta. Se lo chiede, gli viene consegnata una busta, contenente una serie di domande, e dalle risposte dovrà dedurre la formula liberatrice. Le domande cambiano ogni giorno, e sono apparentemente agevoli: mitologia greca, non la più ovvia, vite di santi, ricordi d’infanzia del condannato, numeri e loro significato, versi latini palindromi da tradurre senza alterarne la forma, anamorfosi criptiche, citazioni classiche. E’ un gioco. Il prigioniero si sente lusingato e quasi si compiace che la sua libertà dipenda dal capriccio di un principe colto. Non fosse il fatto che il suo corpo lussuosamente vestito brulica di parassiti, egli rinuncerebbe a cercare quella porta.

martedì 21 agosto 2012

"Non per la prima volta nella vita" di Egon Bondy


Non per la prima volta nella vita
sono costretto a scrivere poesie
che non sono poesie
Quando quarant’anni fa
volevo comunicare ai giovani rincretiniti della gioventù
comunista
che il regime sovietico era fascismo
allora ho dovuto dirlo chiaro e tondo
La poesia è compito grave
e non sempre può portare solo bellezza
Deve anche dare per tempo
un calcio in culo alla gente

lunedì 20 agosto 2012

"Paura" di Raymond Carver


Paura di vedere la macchina della polizia fermarsi davanti casa.
Paura di addormentarsi la notte.
Paura di non addormentarsi.
Paura del ritorno del passato.
Paura del presente che fugge.
Paura del telefono che squilla nel cuore della notte.
Paura delle tempeste elettriche.
Paura della signora delle pulizie con un neo sul viso!
Paura dei cani che mi hanno detto che non mordono.
Paura dell'ansia!
Paura di dover identificare il cadavere di un amico.
Paura di finire i soldi.
Paura di averne troppi, anche se a questo non ci crederanno mai.
Paura dei risultati dei test psicologici.
Paura di essere in ritardo e paura di arrivare prima degli altri.
Paura della calligrafia dei miei figli sulle buste.
Paura che muoiano prima di me e che mi sentirò in colpa.
Paura di dover vivere con mia madre anziana, anziano anch'io.
Paura della confusione.
Paura che questo giorno finisca su una brutta nota.
Paura di svegliarmi e scoprire che te ne sei andata.
Paura di non amare o di non amare abbastanza.
Paura che quel che amo risulterà letale per quelli che amo.
Paura della morte.
Paura di vivere troppo.
Paura della morte.
          L'ho già detta.

domenica 19 agosto 2012

da "Lamento per Ignacio Sànchez Mejìas" di Federico Garcìa Lorca


Anima assente

Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.

Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.

Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.

Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.

Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.

Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.

sabato 18 agosto 2012

"L'attimo sospeso" di Jorge Enrique Adoun


Quando il marinaio di Triana, con la bocca tra le mani,
gridò: "Terra!", e l’Ammiraglio credette terminata la sua avventura,

l’astronomo che spiava molti secoli la morte di una stella,
il copista sul punto di trovare la pagina in cui aveva perso il suo destino,
il geometra che tirava i dadi per calcolare la superficie esatta della terra,
il contadino che scavava il solco con i denti per sentire vicino al labbro il seme,
la ragazza che sollevava ad ogni istante la sua gonna per vedere se la donna era già arrivata,
il pastorello impegnato al crepuscolo con un agnellino tra le gambe,
il poeta attonito senza sapere dove erano andate le parole che lo abbandonarono,
la sarta che conservava le sue lacrime imbastendole nell’orlo della tunica,
la sentinella che aspirava a custodire l’alcova della regina perché sognare non basta,
la monaca che cercava negli avanzi sillabe di conversazione per non passare la vita da sola,
il confessore sul punto di invidiare la colpa di peccati che altri gli inventavano,
il soldato avido alla cui lussuria territoriale il Papa provvedeva,
la tessitrice che si dissolveva negli occhi disegni come polvere, come pianto, come sfilacciatura,
il muratore di fronte alla parete in cui aveva mescolato ruzzoloni di bambino con cadute dell’anima,
il carceriere che non capiva perché il prigioniero volesse uscire se fuori piovigginava,
la partoriente che espiava con grido altissimo la colpa di quell’appuntamento,
il neonato che cominciava a morire tutta la vita contandosi gli anni,
il chirurgo che con il trapano voleva accertare cosa pensava la sua signora,
il cavaliere che misurava il tempo impiegato dal nitrito ad arrivare al nuovo mondo,
e l’indovino che andava a predire questa sventura,
sospesero di colpo quello che ognuno faceva,

ma quando il capitano dopo lo schiaffo alla ragazza india la fece gettare ai cani
per non essersi lasciata convincere a conoscere altro maschio che suo marito,
ripresero le loro occupazioni abituali nel punto
in cui quelle gesta di mare le avevano interrotte.

giovedì 16 agosto 2012

Considerazioni libere (300): a proposito di una città e di una fabbrica...

E così l'Italia, in questa complicata estate - stretta tra la siccità e la crisi - ha scoperto Taranto e l'Ilva. A dire la verità Taranto è lì da un bel pezzo, c'era quando ancora non c'era l'Italia o meglio quando questa lunga penisola era a tutti gli effetti una parte della Grecia. Anche l'Ilva è lì da un po' di tempo: un'inezia rispetto alla storia di Taranto, ma un tempo significativo rispetto alla breve storia dell'Italia unita; lo stabilimento Italsider di Taranto fu costruito nel 1961, l'anno del centesimo anniversario dell'unità. Quella grande acciaieria fu uno dei simboli del cosiddetto "boom economico". Anche la magistratura c'è a Taranto da qualche tempo; non mi riferisco ai magistrati che amministravano la giustizia nella polis antica, ma a quelli che all'inizio degli anni Ottanta hanno cominciato a indagare sui danni che la fabbrica ha provocato a Taranto. La prima sentenza contro i padroni della fabbrica risale infatti al 1982, ma è rimasta - come succede a volte in Italia - lettera morta. Chissà se succedeva lo stesso anche nella Taranto antica?
Chi vive a Taranto, chi lavora all'Ilva, conosce bene i fumi che escono ogni giorno e ogni notte dalle ciminiere, conosce bene la polvere nera e rossastra che ricopre ogni cosa, sa che a causa di quei fumi e di quelle polveri a Taranto è più probabile morire di tumore che in altre città; tutto questo lo sa da anni e non da pochi giorni, come sembra credere l'opinione pubblica, che adesso ha appunto "scoperto" Taranto e l'Ilva. Dobbiamo ringraziare i magistrati di Taranto - e in particolare Patrizia Todisco - per averci costretto a far diventare finalmente Taranto una questione nazionale. Patrizia Todisco è andata oltre i propri poteri? Ha valicato i limiti della legge? Non lo so; forse; so comunque che senza di lei adesso parleremmo di altre cose, magari di un bel delitto. Incidentalmente è curioso notare come questa sentenza abbia risvegliato gli "spiriti animali" di chi vorrebbe limitare le prerogative della magistratura; esiste in questo paese un problema democratico e le reazioni stizzite dei ministri, che lamentano una sorta di lesa maestà rispetto ai poteri del governo fanno parte ormai di questa emergenza. 
Personalmente ci sono domande a cui non so rispondere e invidio chi in questi giorni sembra avere così inoppugnabili certezze; spero che queste convinzioni siano suffragate da dati e da prove e non dall'idea che tanto funziona tutto così e non ci sono altre possibili alternative. Non so se le malattie che adesso, in questi giorni, stanno colpendo e stanno uccidendo le persone che vivono e lavorano a Taranto dipendano solo dall'inquinamento prodotto negli anni passati o anche da quello prodotto ora dalle lavorazioni dell'acciaieria. La questione è piuttosto ininfluente per quelli che adesso sono malati e per i loro familiari - moriranno comunque - ma è rilevante, con tutta evidenza, sul piano del diritto. Naturalmente l'attuale padrone tende a scaricare la responsabilità su quello precedente - che poi era lo stato, in quel sistema complicato che erano le partecipazioni statali, figlie del corporativismo fascista - e altrettanto naturalmente gli attuali amministratori locali tendono a valorizzare quello che hanno fatto loro in questi ultimi anni. Anche il governo spiega che le attuali malattie dipendono soltanto dalla vecchia gestione. Pur ammettendo che gli attuali cicli produttivi abbiano di molto migliorato la situazione rispetto agli anni passati, il problema rimane tutto.
Per risolvere la questione della superiorità degli antichi e dei moderni, a favore di questi, Francis Bacon ammetteva che i primi potevano essere paragonati a giganti e i secondi a nani, ma dal momento che questi stavano seduti sulle spalle di quelli, il loro sguardo era capace di raggiungere e di cogliere un orizzonte più vasto. Sul caso dell'Ilva si può utilmente usare una metafora simile: le responsabilità degli "antichi" sono probabilmente maggiori di quelle dei "moderni", ma dato che questi sono saliti sulle spalle dei primi, adesso la responsabilità finale è molto aumentata e ricade su di loro. C'è un episodio che racconta Adriano Sofri, in uno degli articoli più interessanti scritti in questi giorni sulla vicenda, sulla continuità tra le gestioni dell'azienda. Poco dopo aver acquistato la fabbrica, Emilio Riva fu accusato di comportamento antisindacale per aver cercato di allontanare alcuni lavoratori; ammise che si trattava di quelli giudicati "facinorosi" nelle schedature, ovviamente illegali, fatte durante la precedente gestione, quando il padrone ero lo stato. Immagino che occorrano investimenti enormi per risanare davvero l'area o per spostare il quartiere Tamburi - come qualche esperto dice, ammettendo in questo modo che quell'area non sia più bonificabile - ma qualcuno questi soldi li deve mettere, in primis chi ha guadagnato in questi anni e pensava di farlo nei prossimi. Temo che questi costi ricadranno sullo stato, anche perché questa è la regola di sopravvivenza del cosiddetto capitalismo italiano, uno dei più parassitari del mondo: gli utili ai privati, i debiti al pubblico.
La seconda domanda a cui non so rispondere è se si possa risanare l'Ilva senza spegnere l'impianto e quindi interrompere la produzione. In questi giorni tutti dicono che l'impianto non può essere spento e anzi che il risanamento deve svolgersi mentre prosegue la produzione. Ripeto, non ho le competenze per dire qualcosa di certo su questo punto delicato, ma temo che non le abbiano neppure molti di quelli che sono chiamati a prendere questa importante decisione. Ho l'impressione che questa convinzione nasca dall'idea, tutta ideologica, che la produzione viene prima di tutto: business über alles.
Viste le cose che non so - e spero che qualcuno sappia - provo a dire la cosa che so. Il dato incontrovertibile è che a Taranto si muore. L'incidenza dei tumori nell'area del sito dell'Ilva di Taranto è maggiore del 15%, con un picco del 30% in più per quelli al polmone, rispetto al resto della regione.
In una vicenda come quella dell'Ilva inevitabilmente uno finisce per schierarsi. Come potete immaginare io - per antico pregiudizio - fatico a mettermi dalla parte dei padroni. Non ho neppure particolare simpatia per gli attori istituzionali, che sia il governo nazionale - cosa penso di loro l'ho scritto molte volte - o che sia il presidente della Puglia, che mi pare utilizzi questa vicenda per accreditarsi come interlocutore nazionale affidabile per il governo "montiano" che nascerà la prossima primavera, indipendentemente da chi sarà il nominale presidente del consiglio. Io - per antica consuetudine - sto dalla parte dei lavoratori dell'Ilva, che sono anche i cittadini di Taranto. Questo è un punto importante: non c'è una contrapposizione tra lavoratori e cittadini, perché sono le stesse persone, le stesse famiglie; chi fa nascere e alimenta questa contrapposizione - al di là dei propri scopi - è in cattiva fede. Se vivessi a Taranto io mi batterei perché l'Ilva continuasse a produrre acciaio; capisco quelle persone, il lavoro all'Ilva rappresenta il loro futuro, la possibilità di poter continuare a pagare le rate del mutuo, di far crescere e far studiare i propri figli, di curare i propri genitori anziani. Chi vive a Taranto legge i giornali come noi, vede la televisione e sa che crisi c'è in Italia e in Europa, sa che i progetti di riconversione in Italia non riescono a decollare, sa cosa è successo - o meglio, cosa non è successo - a Bagnoli. Sulla crisi di Taranto, sulle donne impiegate nel grande call center, che è la seconda "industria" della città, e sul fatto che il porto mercantile è ormai tutto in mano - come il Pireo - ai cinesi, vi rimando alla lettura dell'articolo di Sofri.
La chiusura dell'Ilva a Taranto non significherebbe soltanto la miseria per quelle famiglie che perderebbero il lavoro, ma un danno per qualche altra città del mondo. Se chiudessero gli impianti di Taranto dove nascerebbe una nuova acciaieria, in grado di sopperire a quella rilevante quota di mercato? Probabilmente in Cina o in qualche altro paese, dove non esiste la democrazia e dove i lavoratori non hanno diritti. E in Cina pensate che i nuovi padroni si preoccuperanno dei livelli di diossina emessi nell'aria o delle polveri? Probabilmente per il Gruppo Riva sarebbe un affare trasferirsi in Cina: costa molto meno corrompere il governo che deve dare l'autorizzazione e i funzionari incaricati dei controlli piuttosto che fare una vera politica industriale di risanamento. A leggere i giornali pare che si stiano allenando in Italia, per capire come si fa. Sarà che sono un vecchio internazionalista, ma i diritti di un lavoratore del Guangdong mi stanno a cuore come quelli di un lavoratore della Puglia. In questi anni troppo spesso le riconversioni in occidente sono andate a discapito di quello che è successo in altri paesi. A Pittsburgh, a Bilbao, nella Ruhr non ci sono più le acciaierie - come ripetono incessantemente quelli del Fatto quotidiano a sostegno della loro tesi - ma qualcuno l'acciaio lo sta ancora producendo, in situazioni peggiori per i lavoratori, per la salute e per l'ambiente.
Io la penso come i tarantini: non voglio scegliere tra il lavoro e la salute, voglio il lavoro e la salute. Una volta chiedevamo "il pane e le rose, il necessario e il superfluo"; alle rose possiamo anche rinunciare, ma al necessario non rinunceremo. Una volta a sinistra ragionavamo di modelli, adesso abbiamo smesso - a dire il vero, molti hanno anche smesso di essere di sinistra - però la vicenda dell'Ilva dovrebbe costringerci a riflettere un po' sui modelli di sviluppo. In questi giorni ho sentito molte sciocchezze. Ho sentito che qualcuno auspica la chiusura dell'Ilva, non solo per tutelare la salute dei tarantini, ma perché l'acciaio sarebbe un materiale vecchio e di conseguenza un'acciaieria il residuato di un sistema di produzione finito con la fine del secolo. Altri, per contro, misurano ancora la forza di un paese sui dati della produzione industriale e quindi dicono che l'Italia ha bisogno di sempre più acciaio. Questa idea valeva probabilmente per la prima metà del Novecento; ricordo che all'esame di maturità, per spiegare la crescita dell'Italia nell'età giolittiana, citai i dati, imparati a memoria, su quanto era cresciuta la produzione di carbone e di acciaio nel nostro paese. E crebbero tanto in tutta Europa che fu necessaria la prima guerra mondiale per smaltirne le scorte. Se qualcosa ci hanno insegnato le tragedie del secolo scorso è che lo sviluppo di un paese non si misura con i parametri della ricchezza, anche se in questi ultimi anni hanno fatto di tutto per farcelo dimenticare. C'è la quantità, ma c'è anche la qualità. Non è un valore positivo produrre ancora più automobili, occorre invece produrre nuove automobili, in grado di diminuire, fino ad annullare, l'emissione di gas inquinanti; non è un valore positivo continuare a costruire case - come ci ha insegnato la storia recente della Spagna - occorre invece costruire case ecologicamente compatibili e ristrutturare con questi criteri le case esistenti; non è un valore positivo produrre più acciaio, sempre di più, per superare ogni record di produzione - aspettiamo un'altra guerra per smaltire le scorte? - occorre invece produrre quello che serve e produrlo in modo che non ci siano danni irreparabili alla salute delle persone e all'ambiente. Trovo naturale che i padroni delle fabbriche e i governi che sono espressione della classe di cui fanno parte i padroni delle fabbriche - e naturalmente tutti quelli che sono a loro servizio - continuino a pensare in termini di quantità, dal momento che loro in questo modo guadagnano di più. I lavoratori e quelli che difendono i loro diritti - avete presenti i sindacati? i partiti di sinistra? qualcosa c'è ancora, altrimenti potete leggerne sui libri - devono pensare alla qualità, perché sono i lavoratori - che sono anche i cittadini - che in questo modo ci guadagnano.

lunedì 13 agosto 2012

"Avviso della mutua" di Han Magnus Enzenberger


Animuccia, più leggera dell'aria,
più pesante che pietra su una tomba -
con te è impossibile trattare,
impolitica come sei
e variabile come le previsioni del tempo!

Ogni volta vorresti avere un lifting.
Nessuno ti capisce,
o mimosa egoista,
meno che mai tu stessa.
Hai di che far pietà.

Ma sarebbe un errore.

domenica 12 agosto 2012

Storie (VIII). "L'anniversario..."

X arrivò in città quando ormai era buio: il treno partito dalla capitale aveva impiegato otto ore per fare quel viaggio, invece delle sei previste. Quando il capotreno gli annunciò, con un mezzo inchino, che il treno stava per entrare in stazione, X ringraziò, pensando agli enfatici discorsi del ministro dei trasporti sull'efficienza delle ferrovie dopo la rivoluzione. Sul binario lo attendeva il comitato di benvenuto organizzato da B, che però non era venuto di persona ad accogliere X. Certo questo era un funzionario inviato dalla capitale, uno che in pochi anni era salito in alto nel partito, ma era troppo giovane per essere così potente da meritare che B andasse ad accoglierlo in stazione; B pensava che X era nato dopo la rivoluzione, che l'aveva letta soltanto nei libri, mentre lui l'aveva fatta davvero, seppur in quell'angolo sperduto del paese. X salutò uno per uno quelli che lo aspettavano da ore sulla banchina, annuì quando uno di loro lodò la puntualità delle ferrovie, prese un piccolo mazzo di fiori da una bambina assonnata, mentre il fotografo scattava le foto di rito. Non era prevista una cena ufficiale, X ne era contento, aveva voglia soltanto di dormire, dopo quel viaggio.
La mattina dopo si svegliò presto, si lavò e si vestì con cura. La sera prima, la facciata dell'albergo dove lo avevano portato gli era sembrata piuttosto cadente e appena entrò nella sua camera sentì un forte odore di vernice: evidentemente era stata tinteggiata il giorno prima. Quando uscì dalla stanza, vide davanti alla sua porta un agente della polizia politica che sonnecchiava; questi davanti a X scattò sull'attenti in maniera piuttosto goffa e lo accompagnò nella piccola sala dove era servita la colazione. Li precedeva l'odore della vernice fresca, capì che l'agente doveva seguire all'interno dell'albergo un percorso ben preciso e pensò che per tutto quel giorno avrebbe dovuto seguire un percorso definito in ogni suo spostamento in città, seguendo probabilmente l'odore di vernice. Controllò di avere nella tasca interna della giacca gli appunti dei due discorsi che avrebbe dovuto pronunciare quel giorno. Finita la colazione, vide avvicinarsi un nuovo comitato di accoglienza, erano circa il doppio rispetto alla sera precedente e quindi i saluti richiesero un tempo maggiore, anche perché i maggiorenti del partito erano più importanti e quindi le presentazioni richiedevano più tempo. Il fotografo, sempre quello della sera prima, continuava a scattare.
X fu caricato in un'automobile scura, lucidissima; notò le strade deserte dove sventolavano le bandiere del partito, mentre la guida gli indicava alcuni palazzi che risalivano ai tempi precedenti la rivoluzione e un brutto monumento dedicato ai caduti della guerra. Finalmente arrivarono nella piazza centrale, X capì di essere a meno di un isolato dall'albergo, ma certo all'autista era stato ordinato di fare un giro più lungo. Vide la folla, il grande palco dove sedevano già tutti i capi locali del partito, la grande bandiera che copriva la statua che lui era stato chiamato a inaugurare. Mentre scendeva dall'auto, X vide B che si avvicinava, lo conosceva già, lo aveva incontrato alcune volte nella capitale, in occasione delle riunioni semestrali del parlamento. Si scambiarono un bacio formale, secondo il protocollo.
B era un vecchio rivoluzionario, aveva poco meno di trent'anni durante i combattimenti di maggio, prima era stato in carcere e poi era stato protagonista di una rocambolesca evasione, insieme a molti altri compagni di lotta. Aveva il volto bonario, i modi spicci e gentili di un contadino, un'aria che trasmetteva una certa idea di timidezza, ma X vide anche una luce feroce nei suoi occhi e sapeva che in quei cinquant'anni aveva governato quella lontana provincia con grande durezza. A B non piacevano quelli della capitale, specialmente quei giovani professorini che non avevano conosciuto l'asprezza della battaglia, non voleva che mettessero il naso negli affari della sua provincia e così era stato, anche perché da lì non erano mai venuti problemi. In quell'occasione B aveva ceduto un po' alla vanità, aveva sempre celebrato la festa della rivoluzione senza chiamare nessuno dalla capitale, ma quell'anno si trattava del cinquantesimo anniversario e poi c'era da inaugurare la grande statua di A, l'eroe della rivoluzione in quella città, il combattente valoroso, che era morto proprio cinquant'anni prima, il giorno della vittoria, ucciso nel palazzo del governatore, lì sulla piazza - quel palazzo che sarebbe diventato la sede del nuovo potere rivoluzionario. A guidava il piccolo gruppo di ribelli che assaltarono il palazzo, insieme a B entrò nell'ufficio del governatore per prenderlo prigioniero, ma questi, in un atto di estrema fedeltà al regime che stava finendo, gli sparò un colpo di pistola, B a sua volta uccise il governatore e mostrò al popolo raccolto in piazza il corpo di A. In quel momento, la folla eccitata dalla vista del corpo di A si gettò all'assalto delle truppe del regime, che capitolarono in poche ore all'interno della loro caserma, sotto la pressione del popolo inferocito. B allora assunse il potere per conto del partito, prendendo il posto che sarebbe toccato ad A.
I discorsi di B e di X si svolsero secondo i canoni della retorica della rivoluzione. La folla applaudiva ogni volta che veniva citato il nome di A. L'esercito era schierato sotto il palco. Infine la banda intonò l'inno del partito e venne scoperta la brutta statua dell'antico capo rivoluzionario. La giornata proseguì con il pranzo ufficiale offerto da B all'ospite e ai maggiorenti del partito: anche in questa occasione il saluto di B e il discorso di ringraziamento di X non uscirono da quanto previsto in queste occasioni protocollari. X citò le capacità di B, ma senza quelle lodi che questi avrebbe sperato di ascoltare. I capi del partito colsero l'amarezza di B e capirono che ormai quelli della capitale avevano deciso che al prossimo congresso B non sarebbe stato ricandidato e sarebbe quindi cominciata la sua lenta discesa nella gerarchia del partito. Terminato il pranzo, gli agenti della polizia politica riaccompagnarono X all'albergo; il solito agente lo condusse attraverso i corridoi verniciati da poco e finalmente X si ritrovò da solo nella propria stanza. Sapeva che B vi aveva messo dei microfoni: una cosa piuttosto sciocca visto che era solo e non c'era neppure un telefono. Il treno sarebbe ripartito tra poco meno di due ore. X preparò le sue poche cose da sistemare in valigia, insieme al regalo che gli era stato fatto da B a nome della città. Notò che la sua valigia era stata mossa, non ci fece molto caso: immaginò che un qualche poliziotto di fiducia di B fosse stato incaricato di controllare il suo bagaglio. Si stupì di trovare tra la sua biancheria un biglietto, scritto a mano, con grafia un po' incerta, con un inconsueto inchiostro violetto. Lo lesse rapidamente, lo mise nella tasca interna della giacca e uscì.
Alla stazione lo aspettava il solito comitato, X cercò di guardarsi intorno, come cercando qualcuno. Posò per le ultime foto del solito fotografo e infine salì sul treno che all'indomani lo avrebbe portato di nuovo nella capitale. Chiusa la porta del suo scompartimento, tirò fuori un libro dalla sua valigia e riprese il biglietto. Era raccontata una storia di cinquant'anni prima.
Poco prima dell'attacco finale dei ribelli, quello che sarebbe stato chiamato nei libri di storia come i combattimenti di maggio, A, che non credeva nella vittoria o che forse aveva capito con troppa lungimiranza cosa sarebbero diventati i rivoluzionari una volta preso il potere, decise di tradire i suoi compagni di lotta; incontrò segretamente il governatore e gli disse dove si nascondeva ciascuno dei ribelli. La notte successiva la polizia del regime arrestò A, B e tutti i responsabili della rivolta. Il governatore però aveva capito che quel regime era destinato a soccombere e decise di incontrare B. I due uomini fecero un patto: il governatore spiegò a B che A li aveva traditi e si offrì di rendere possibile la loro evasione; in cambio, una volta preso il potere, B doveva garantire che non ci sarebbero state vendette contro la sua giovane figlia. A quel punto ci fu la grande evasione, quella ricordata nei libri di storia locale, A non si oppose, non voleva far capire che aveva tradito la fiducia dei suoi compagni e della rivoluzione. Poi i ribelli, incalzati dalle notizie che arrivavano dalla capitale dove i capi avevano deciso di forzare la mano e di prendere finalmente il potere, decisero di conquistare il palazzo del governatore, per poi attaccare l'esercito nella caserma. A tentò il tutto per tutto, fece sapere al governatore che quel giorno avrebbero superato i controlli delle guardie del palazzo e sarebbe scoppiata la rivoluzione; se all'interno del palazzo avesse schierato una guarnigione ben armata, la rivolta poteva ancora essere fermata. A e B, correndo davanti agli altri, entrarono nell'ufficio del governatore, quando A vide che non c'erano soldati e il governatore era lì solo, capì di essere finito. B chiuse la porta e disse ad A che la decisione adesso spettava soltanto a lui: A, senza dir nulla, si sparò un colpo di pistola. Invece il governatore chiese a B che fosse lui a ucciderlo, ricordandogli il patto che avevano siglato qualche notte prima. B mantenne la parola e la figlia del governatore visse in città, senza subire alcuna ritorsione, abitando in un piccolo villino della periferia. Dopo cinquant'anni le era sembrato giusto raccontare quella storia, anche se a una sola persona, sapendo che nessun altro avrebbe mai saputo la verità.
X rilesse per l'ultima volta il biglietto. Accese un fiammifero e lo bruciò nel piccolo portacenere dello scompartimento, mentre il treno procedeva lento nella pianura.

sabato 11 agosto 2012

Considerazioni libere (299): a proposito di retorica e di sport...

La vicenda è nota: durante le olimpiadi le autorità sportive internazionali hanno segnalato il caso di un atleta italiano, già campione olimpico, risultato positivo ai controlli antidoping; il giovane che, colto in flagrante, ha ammesso la sua colpa, è stato sospeso dalle gare. Si tratta di una brutta vicenda, che merita qualche riflessione in più - non solo di carattere sportivo - perché non è soltanto la storia di un giovane debole, ma racconta qualcosa del nostro paese, dove è sempre così difficile capire dove stanno le responsabilità.
Il giovane pratica - a questo punto praticava - uno sport "minore" come la marcia. In Italia si definisce "minore" ogni sport che non sia il calcio. Per verificarlo basta sfogliare uno qualsiasi dei tre quotidiani sportivi pubblicati nel nostro paese: una ventina di pagine dedicate al calcio contro le due - quando va bene - dedicate agli altri sport. Questa sproporzione aumenta se si prendono in considerazione soltanto i servizi televisivi. Gli sport "minori" escono da questo cono d'ombra ogni quattro anni, in occasione delle olimpiadi: questa è ormai la vera "tregua olimpica". Nei giorni delle olimpiadi i giornalisti sportivi italiani ripassano velocemente le regole degli altri sport, raccolgono informazioni e tabellini e si fingono esperti; in televisione poi si recuperano "vecchie glorie" di quegli stessi sport, affidando a loro i cosiddetti commenti tecnici. Poi, visto che ogni quattro anni si scopre che in qualcuno di questi sport l'Italia può vantare campioni da medaglia - che si allenano in silenzio e con costanza - scatta l'orgoglio nazionale per questi sportivi, solitamente ignorati. I giornalisti importanti, quelli che di solito scrivono nelle prime pagine, perfino i direttori, si esercitano in panegirici su questi atleti, facendo sempre notare quanto le loro gesta debbano essere da esempio per i giovani, sottintendendo - da perfetti farisei - un giudizio negativo sul calcio e sui ricchi calciatori. I politici di tutti gli schieramenti vibrano di orgoglio nazionalista, vedendo il tricolore salire sull'asta più alta, accompagnato dalle note dell'inno di Mameli. I burocrati che comandano sullo sport nazionale approfittano di una medaglia in più o in meno per definire le loro gerarchie all'interno del Coni e delle federazioni, con bizantinismi simili a quelli del potere cinese. Poi, spento il braciere olimpico, tutto tace fino alle prossime olimpiadi, specialmente le promesse di sostenere e finanziare questi sport "minori".
Alex Schwazer era uno di questi sportivi "a gettoni". Anzi no, Schwazer era diventato - forse suo malgrado - anche un personaggio minore del "circo". Intanto perché è un italiano atipico, di confine, della più significativa e potente minoranza del nostro paese, un giovane che, nell'esibire il tricolore, sembrava ricucire una frattura sempre presente tra "loro" che non si sentono italiani e "noi" che non li consideriamo tali. Poi Alex era - spero sia ancora - fidanzato con un'altra campionessa di uno sport "minore": la loro storia d'amore era perfetta e serviva, di volta in volta, a spiegare i loro successi o le loro sconfitte. Alex era talmente perfetto da diventare - e non lo sarà più - il testimonial di una nota multinazionale dolciaria. Temo anche che il "circo" voglia recuperare Alex e spero che lui resista: il dopato pentito e piangente sarebbe l'ospite ideale di ogni reality.
Con questa "considerazione" non ho nessuna intenzione di assolvere Schwazer: ha commesso un errore molto grave, era consapevole di farlo ed è giusto che paghi. Francamente non mi sembra giusto che paghi solo lui. La marcia è certamente uno sport individuale, ma nessun atleta, tanto più se è un campione olimpico, raggiunge certi risultati da solo. Nessuno di quelli che lavoravano con lui si è mai accorto di nulla? Nessuno ha notato che, nonostante gli allenamenti, non si sentiva sicuro di sé e delle proprie prestazioni? Non hanno capito la sua fragilità? Nessuno ha notato dei risultati altalenanti o troppo regolari? Immagino che un atleta come Schwazer sia seguito da un'equipe di medici; gli dicevano soltanto quanti snack al cioccolato doveva mangiare? Io non sono un esperto, ma sinceramente mi pare che in questa storia ci siano o complicità o incompetenze e davvero non so cosa sia peggio, pensando che queste persone dovranno allenare altri giovani. All'indomani della scoperta - poi non ho visto la televisione per alcuni giorni - ho sentito un'intervista, piuttosto disgustosa, del presidente della Fidal, la cui unica preoccupazione evidente era quella che qualcuno approfitti di questa storia per toglierlo di lì. Se davvero la federazione volesse combattere il doping farebbe propri controlli, ma non mi pare che questa sia una sua priorità.
Ripeto non ho simpatia per Schwazer e condanno quello che ha fatto, ma mi disturba la retorica cresciuta intorno al caso. Schwazer è stato additato di volta in volta come il traditore dello spirito olimpico, il traditore della fiducia che l'Italia ha riposto in lui, il traditore dei sani valori dello sport. Balle. A nessuno di quelli che scrive, a partire dai vertici della politica sportiva, importa un fico secco dello spirito olimpico e dei sani valori dello sport, quanto all'Italia, Schwazer le ha dato esattamente quello che ne ha ricevuto.
Disturbano i toni roboanti della retorica antidoping nell'atletica e negli altri sport, tanto più perché sono fatti negli stessi giornali - e a volte dagli stessi giornalisti - che usano parole concilianti con i calciatori e le squadre che hanno truccato gli ultimi campionati italiani di calcio. Schwazer è un traditore, un infame, mentre Conte - che con la richiesta di patteggiamento ha ammesso l'illecito sportivo - è l'allenatore di una delle squadre più importanti d'Italia e l'ospite coccolato di tutte le trasmissioni sportive. D'altra parte di atletica non si parlerà più per quattro anni, mentre di calcio e con il calcio ci campano tantissime persone. Va bene così, ormai il mondo abbiamo rinunciato a cambiarlo, almeno rispamiateci le lacrime.

venerdì 3 agosto 2012

Considerazioni libere (298): a proposito di polemiche e di informazioni (e anche di polpette)...

Non sono uno sportivo, non lo sono mai stato, non sono sufficientemente atletico e non ho spirito agonistico. Ma siccome ho ormai una certa età, ho deciso di tenermi in forma e quasi tutte le mattine faccio un piccolo giro a piedi sulle colline di Salsomaggiore. Naturalmente non tutte le mattine sono uguali, alcune mi sento meglio, la camminata procede spedita e arrivo a casa senza essere troppo stanco, mentre altre impiego più tempo e faccio più fatica. Se una di queste ultime mattine un giornalista della Gazzetta di Parma, appostato davanti alla porta di casa, mi chiedesse le ragioni del ritardo, gli risponderei nervoso, gli ricorderei comunque che la mattina precedente avevo fatto lo stesso percorso in meno tempo e alla fine probabilmente accuserei della mia scarsa prestazione il fatto che la sera prima avevo mangiato le polpette con i peperoni, con una conseguente cattiva digestione. A questo punto il solerte giornalista intervisterebbe Zaira, responsabile della preparazione delle polpette, e lei, seccata di essere stata svegliata così all'improvviso, direbbe che forse non le avevo digerite perché ne avevo mangiate due razioni e si aprirebbe quindi una polemica dagli esiti imprevedibili; io nell'intervista potrei ricordare le polpette di mia madre, che Zaira invece ha sempre trovato indigeribili e così via. Dato che nessun giornalista segue le mie gesta atletiche, io arrivo a casa, sveglio Zaira, lei mi chiede come è andata, io bofonchio qualcosa, lei capisce che non è andata bene e non mi chiede più niente, poi facciamo colazione e tutto procede normalmente. Al di là del fatto che digerisco benissimo la cucina di Zaira, penso che avrete capito il motivo per cui ho scritto questo breve apologo.
Non ho una particolare simpatia per Federica Pellegrini e per Filippo Magnini, ne apprezzo le indubbie capacità atletiche, sono contento quando vincono, ma ho l'impressione che si siano fatti un po' prendere la mano dai loro personaggi. Detto questo, credo che un atleta che partecipa alle olimpiadi abbia una certa carica nervosa, tanto più se è un campione da cui ci si aspettano risultati di un certo livello; se poi questi risultati non arrivano, alla fatica si somma la rabbia. Se si fa una domanda a questa persona appena è uscita dalla piscina è abbastanza naturale che le sue parole non siano meditate, per usare un eufemismo. Immagino che se i giornalisti avessero intervistato Magnini due ore dopo la fine della gara le sue parole sarebbero state più ragionate e probabilmente la polemica, se fosse comunque nata, sarebbe stata un po' più costruttiva. Magari avremmo potuto parlare del fatto che mentre in altri paesi il movimento sportivo nasce nelle scuole e nelle università, in Italia gli atleti degli sport "normali" devono appoggiarsi alle forze armate; ci saremmo chiesti come mai nel corso di questi dieci anni non siamo riusciti ad "allevare" nuotatori in grado di sostituire - anche se non con gli stessi invidiabili risultati - i campioni che oggi faticano, per forza di cose, a tenere il passo. Invece tutto il dibattito di questi giorni, amplificato dai mezzi di informazione, è fatto di recriminazioni, pettegolezzi, reciproche accuse: questa discussione non serve nell'immediato a rendere più sereno il clima della squadra italiano di nuoto né servirà a capire come in futuro dare nuova spinta a questo sport. Serve unicamente a dare nuova popolarità extrasportiva ai due protagonisti, ormai pronti a intraprendere la carriera dei reality show.
Al di là di quello che è successo a Londra, che dopo tutto non è molto importante, credo che questa vicenda sia il segno di cosa è diventata l'informazione nel nostro paese. E' davvero necessario raccogliere ogni minima dichiarazione di Federica Pellegrini? E' necessario raccogliere ogni minima dichiarazione di una serie di politici che in ogni luogo vadano sono inseguiti da almeno una decina di giornalisti? Se il fantomatico cronista della Gazzetta mi seguisse ogni giorno e chiedesse continuamente la mia opinione su ogni argomento, anche su quelli di cui non so nulla, finirei per dire una montagna di stupidate. Succede la stessa cosa a Bersani, ad Alfano e a tutti gli altri: non possono avere cose intelligenti da dire ogni dieci minuti; qualcuno fatica a dire una cosa intelligente ogni due giorni, ma questo è un altro problema. E allora perché dobbiamo subire questa pioggia di dichiarazioni, in cui per lo più tutti questi intervistati si citano addosso l'uno con l'altro? E' giornalismo questo? Io credo di no, eppure adesso gran parte dell'informazione è fatta così. Ti danno perfino l'impressione di farti entrare nel vivo delle cose, ma alla fine non è così; sappiamo meno cose, anche se siamo ingozzati di informazioni. Non ci sono analisi, non ci sono approfondimenti, perché queste cose costano fatica, bisogna studiare, capire, confrontare; è molto più facile mettere il microfono davanti alla bocca di X e sperare che quello dica che Y è uno stronzo. Allora sicuramente Y dirà che il vero stronzo è X e così si possono scrivere alcune decine di articoli e confezionare altrettanti servizi televisivi, tra cui quello immancabile in cui si deplora lo scadimento dei costumi. Infatti nella vicenda di Pellegrini e di Magnini le migliori penne si sono esercitate proprio su questo tema, ossia sull'inopportunità di rilasciare dichiarazioni di quel genere. Siete davvero di un'ipocrisia farisaica: siete stati voi, con il vostro pressapochismo, a provocare le dichiarazioni che ora condannate.
Poi, come è noto, la stupidità è contagiosa e la rete è un terreno fantastico per diffondere ogni tipo di stupidaggini. Così le persone che prima si limitavano a fare dei commenti idioti al bar, avendo al massimo un'audience di dieci persone - che peraltro li ascoltavano con sufficienza perché sapevano benissimo di ascoltare un idiota - ora hanno la possibilità di diffondere le loro idiozie in rete e i soliti pigri e incapaci che scrivono sui giornali e parlano in televisione danno voce a queste stupidate, spacciandole come la voce dell'opinione pubblica. Alcuni teorizzano perfino che sia un esercizio di democrazia: no, sono sempre le stesse stupidate dette nei bar e che lì avrebbero dovuto rimanere. La rete ha contribuito non poco allo scadimento dell'informazione, anche se come al solito il problema non è nel mezzo in sé, ma nell'incapacità di chi lo usa. Quante volte vi è capitato di leggere su un sito una breve di cronaca e poi leggere quello che dovrebbe essere un approfondimento, in cui si ripetono alla lettera le stesse cose dette nel lancio precedente, senza aggiungere nulla? Sono state aggiunte solo delle parole, ma nessuna informazione. La velocità dell'informazione è un altro di quei terreni su cui si misura l'ignoranza di chi fa questo mestiere. Non è necessario essere i primi a dare una notizia, se poi quella notizia non è vera. In Italia ancora si discute se Tito Stagno diede in anticipo di qualche minuto la notizia dell'allunaggio; forse sì, ma stiamo parlando di un avvenimento unico - unico davvero - e comunque l'allunaggio ci fu. E' proprio necessario essere i primi a mettere sul proprio sito la fotografia dell'attentatore di Burgas, anche se fosse stato lui?
Mi rendo conto che quando si critica l'informazione il terreno è scivoloso, perché ci sono quelli sempre pronti ad approfittarne. In questi giorni autorevoli esponenti politici hanno sostenuto che la crisi è responsabilità dei giornali che l'hanno raccontata e ci ricordiamo ancora che qualcuno diceva che la mafia esisteva perché c'erano artisti e giornalisti che la raccontavano. La crisi e la mafia esistono per conto loro e per fortuna che ci sono giornalisti che ne parlano, in maniera non omologata. Purtroppo c'è tanta informazione - la maggioranza - sciatta, fatta male, che non cerca la notizia, ma solo la polemica. Uno dei motivi della crisi italiana - e non tra i secondari - è proprio questo modo di fare informazione che, quando va bene è inutile, ma che il più delle volte è dannoso. Ci sarebbe poi da aprire un capitolo sull'incapacità di scrivere in corretto italiano dei giornalisti, ma francamente questa mi pare ormai una battaglia perduta.