sabato 27 ottobre 2012

Considerazioni libere (315): a proposito di una sentenza e delle sue motivazioni...

Come hanno fatto tutti quelli che in questi giorni hanno commentato la sentenza del tribunale dell'Aquila, anch'io devo esordire con "aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza". Non so in quanti effettivamente leggeranno quelle motivazioni, immagino molti meno di quelli che negli ultimi giorni hanno espresso questo proposito. Per inciso, in casi rilevanti come questo, forse sarebbe più opportuno far conoscere contemporaneamente la sentenza e le motivazioni; francamente, visti i tempi della giustizia italiana, non credo che il problema della lunghezza dei processi sarebbe troppo aggravato dal prevedere fin da subito che la sentenza sia accompagnata dalla stesura delle motivazioni, che esige comprensibilmente alcuni giorni; far uscire tutto insieme non dovrebbe essere così complicato, anche perché quando la corte decide una sentenza deve aver ben chiare le motivazioni giuridiche che la giustificano. Penso che il nostro sistema giudiziario ne acquisterebbe in autorevolezza e che soprattutto eviterebbe molte discussioni fuorvianti. Naturalmente per chi ha un'opinione già definita, per chi ha già un'idea a prescindere, le motivazioni sono assolutamente ininfluenti, in qualunque momento vengano rese pubbliche. Sulla sentenza dell'Aquila, a di là della foglia di fico dell'attesa delle motivazioni utilizzata da tutti i commentatori, molti di questi avevano già definito le loro opinioni prima che la corte si pronunciasse.
Quindi, pur aspettando le motivazioni, mi permetto di esprimere qualche dubbio, a cui spero di trovare risposta nei prossimi giorni. Il processo che si è celebrato in questi mesi non ha riguardato tutte le vittime di quel terremoto, ma solamente trentadue casi, messi insieme sulla base di singole denunce. Nel processo si è discusso di questi singoli e la pubblica accusa - sulla scorta delle testimonianze dei familiari e degli amici di quelle trentadue persone - ha cercato di dimostrare che le dichiarazioni dei componenti della Commissione grandi rischi, con i loro toni eccessivamente tranquillizzanti, li avrebbero spinti a rimanere nelle loro abitazioni, che crollarono a causa del terremoto del 6 aprile. Come sappiamo, altre persone, non tranquillizzate da quei messaggi o trovandoli contradditorii, decisero di trascorrere quelle notti in auto, fuori dalle loro case, o di trasferirsi sulla costa e in questo modo si salvarono. Pur con il rispetto che è dovuto a persone che hanno perso in maniera così tragica i loro familiari e credendo nella loro assoluta buona fede e nella verità delle loro testimonianze, non credo sia facile ricordare gli stati d'animo, le incertezze, i dubbi di quelle settimane di tre anni fa; temo che i ricordi finiscano per essere distorti da quello che è successo, dal dramma che tttu loro hanno vissuto. Sono situazioni molto difficili, in cui temo non sia facile rimanere lucidi; succede qualcosa del genere alle persone malate e ai loro familiari. Proviamo a calarci noi in quella situazione. Credo sia difficile decidere di lasciare la propria casa, anche se siamo impauriti da continue scosse di assestamento; per me almeno sarebbe difficile prendere questa decisione e non so quanto mi influenzerebbero, in un senso o nell'altro, le dichiarazioni degli esperti. A quante altre cose si penserebbe in momenti come quelli? Che peso avrebbe la preoccupazione per mia moglie? Non lo so, spero non mi succeda, naturalmente, ma non so cosa farei. Anche nel recente terremoto che ha colpito l'Emilia, abbiamo saputo di persone, spesso anziane, che non avrebbero voluto lasciare le proprie case e magari sono state costrette a farlo, con la forza, per l'imminenza del pericolo. E casi analoghi li abbiamo visti in tutte le tragedie naturali - troppe - che hanno investito il nostro paese. Probabilmente c'è stata sottovalutazione da parte dei tecnici della Commissione - e su questo dirò dopo - ma forse qualcuno di quelli che ha deciso di rimanere in casa ha sentito quello che voleva sentire. Francamente mi sembra molto complicato, dal punto di vista strettamente giuridico, trovare un rapporto diretto di causa ed effetto tra le dichiarazioni di De Bernardinis e degli altri tecnici e la morte di quelle trentadue persone. La scossa distruttrice è arrivata sfortunatamente pochi giorni dopo quella riunione, ma non sappiamo cosa sarebbe successo se la scossa fosse arrivata - come poteva succedere, essendo quel fenomeno imprevedibile - un mese dopo: quanto avrebbero resistito a dormire in auto quei cittadini dell'Aquila? Per quanto tempo sarebbero rimasti fuori dalle loro case? E se la scossa fosse arrivata di giorno, magari quando anche i più prudenti sarebbero dovuti rientrare, magari per prendere qualche vestito? Non so se le motivazioni della sentenza dell'Aquila potranno spiegare più nel dettaglio questo rapporto di causa-effetto. Leggeremo e proveremo a valutarlo, nella maniera più serena possibile. Credo che lo dobbiamo all'esercizio della verità e anche a quelli che sono morti a L'Aquila.
Intanto, nell'attesa delle motivazioni, sono scoppiate le polemiche. Abbastanza prevedibili erano le critiche dei giornali "lepenisti": questi non potevano perdere un'occasione ghiotta come questa per attaccare la magistratura, che da sempre è nel mirino del loro proprietario. Altrettanto prevedibile era la critica del ministro Clini, che ha un conto aperto con i magistrati di Taranto, colpevoli di "lesa maestà" verso il ministero e l'Ilva, da lui parimenti rappresentati; magari era meno prevedibile la sciocchezza del paragone fatto da Clini tra il processo dell'Aquila e quello a Galileo. Era ancora meno prevedibile che si saldasse contro la sentenza dell'Aquila una strana alleanza tra costoro e Piergiorgio Odifreddi, di professione anticlericale più che matematico, che ha definito "demenziale" la sentenza, considerandola, al pari di altri belli spiriti suoi pari, come un attacco alla scienza, naturalmente con la "S" maiuscola.
Al di là di queste piccinerie, le persone condannate dal tribunale dell'Aquila hanno delle precise responsabilità e credo sia giusto che queste emergano. Immagino abbia pesato sulla decisione del magistrato ascoltare le parole di Bertolaso, nella telefonata in cui spiega all'assessore alla protezione civile della Regione che l'incontro dei "luminari del terremoto" servirà per "zittire subito qualsiasi imbecille" e per "tranquillizzare la gente", con la tesi che "cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male". Come succede troppe volte in Italia, c'è stata una miscela pericolosa di incompetenza, pigrizia, arroganza, accondiscendenza al potente di turno. Questa sentenza ha dimostrato una volta di più che in questo paese i cittadini non possono fidarsi delle istituzioni, non possono credere a uno stato che, per dolo e per negligenza - ma più spesso per dolo - li ha sistematicamente ingannati, ha negato la verità. Questo stato di cose non lo potrà risolvere una sentenza, per quanto coraggiosa - anche se temo sbagliata - di un giudice di provincia.
In Italia ogni terremoto rischia di trasformarsi in una catastrofe perché non c'è la cultura per affrontare questi eventi naturali, che sono sì imprevedibili - e chi dice il contrario è ignorante - ma sono allo stesso tempo affrontabili. Per non parlare di quegli eventi che, pur essendo prevedibilissimi - come le piogge - rischiano di trasformarsi anche loro in catastrofi. Manca nel nostro paese, che pure è altamente sismico, qualsiasi forma di educazione dei cittadini, anche perché troppo spesso le autorità - scienziati compresi - hanno sempre adottato lo stile di comunicazione messo in pratica in Abruzzo, teso a nascondere la verità e a rassicurare comunque i cittadini, che evidentemente non sono ritenuti abbastanza intelligenti da conoscere quello che succede. Per queste ragioni, secondo me, ci sarebbero stati tutti i motivi per condannare quei sette tecnici - e non solo loro - ma forse quella sentenza di omicidio colposo non è il modo migliore per rispettare lo stato di diritto. Ho l'impressione che si sia arrivati a una sentenza giusta attraverso una strada sbagliata, ma in un processo la strada non è una variabile indipendente.

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