mercoledì 30 gennaio 2013

"Suicidi ideali" di Kostas Kariotakis


Giran la chiave nella toppa, prendono
le vecchie lettere ben conservate,
le leggono con calma, e poi trascinano
i loro passi per l'ultima volta.

La loro vita - dicono - era un dramma.
Dio mio, il terribile riso degli uomini,
le lacrime, il sudore, nostalgia dei cieli,
solitudine dei luoghi.

In piedi stanno alla finestra, guardano
gli alberi, i bimbi, più in là la natura,
i marmisti che battono il martello,
il sole che per sempre sta calando.

Tutto è finito. Ecco il biglietto, breve,
semplice ma profondo, come è d'uopo,
pieno d'indifferenza e di perdono
per colui che piangendo leggerà.

Un'occhiata allo specchio, un'altra all'ora,
il dubbio che non sia follia, o uno sbaglio,
"tutto è finito" mormorano "adesso",
sicuri in cuore che rimanderanno.

martedì 29 gennaio 2013

Considerazioni libere (334): a proposito di finanza e di lavoro...

Ammetto che il dibattito politico-giornalistico di questi giorni sul Monte dei Paschi di Siena non mi sta particolarmente coinvolgendo: ho l'impressione che sia l'ennesima "arma di distrazione di massa", ossia un modo per non farci parlare di altri problemi. Meglio che l'opinione pubblica continui a parlare dell'Imu, meglio che continui a parlare di Mps, la cosa importante è continuare a non parlare del lavoro, di quello che c'è, precario e sottopagato, e di quello che con non c'è, e soprattutto non bisogna mai mettere in una qualche relazione le parole "lavoro" e "diritti". Comunque dell'ultimo caso non mi appassionano in particolare il balletto delle accuse, visto che ognuno dei tre schieramenti cerca di scaricare le responsabilità su gli altri due, e i toni sempre più enfatici di questa discussione; credo ad esempio che Bersani potesse risparmiarsi quel "li sbraniamo", mi pare che il segretario del Pd sia più a suo agio con le metafore contadine, come quella - finora insuperata - del tacchino sul tetto. Eppure la vicenda Mps è molto istruttiva e avrebbe potuto essere l'occasione per affrontare - almeno dalle parti della sinistra, a cui questo tema dovrebbe competere per statuto - una riflessione sull'economia italiana, e non solo italiana. Partiamo da un dato: il valore dei derivati sui mercati finanziari sta salendo costantemente - nonostante la crisi, provocata proprio da questi prodotti finanziari - ed è arrivato a superare di nove volte il pil mondiale. Con queste proporzioni - lo ripeto, nove a uno - è naturale che la finanza "malata" continui a inquinare l'economia reale. Molte volte ho già denunciato un sistema che produce ricchezza in gran parte attraverso il denaro, lo scambio del denaro, gli interessi sul denaro, le scommesse sul denaro e che di conseguenza poco si interessa delle cose prodotte, ossia della ricchezza che nasce dal lavoro. In una società se non c'è lavoro non può esserci benessere: sembra una regola elementare, quasi lapalissiana, eppure è in gran parte dimenticata.
Passando dal globale al locale, o meglio al municipale, è molto significativo quello che è successo in questi anni a Siena, e per qualche verso anche istruttivo. Il Monte dei Paschi è una realtà bancaria molto particolare, legata a filo doppio alla città in cui quell'istituto è nato, cresciuto e prosperato. Proprio perché il Monte è una realtà ecumenicamente cittadina, tutti, da sinistra a destra, hanno condiviso le sorti di quell'istituto: tutti i partiti dell'arco costituzionale della prima repubblica - a differenza del sistema delle casse rurali, feudo rigorosamente democristiano - tutti i partiti della seconda repubblica, la massoneria, la curia senese, i professionisti e gli industriali, l'università. E proprio per questo è significativo che in quel micro-laboratorio, in quello specchio dell'Italia, di un'Italia ricca, di un'Italia provinciale che funziona, che produce, che sa fare rete - da molte altre parti di questo paese non è così - non si sia levata per tempo una voce critica su quello che stava succedendo. D'altra parte era difficile che succedesse, che qualcuno si alzasse in piedi per dire che forse la strada era sbagliata, perché l'ultraliberismo è progressivamente diventato mainstreaming, come dicono quelli che parlano bene, o l'ideologia del pensiero unico, come continuiamo a dire noi vecchi "sinistri". L'idea che il mercato sia un'entità positiva - la sola positiva - che ha in sé la forza di correggere i propri errori è stata la base dell'ideologia reaganiana degli anni Ottanta ed è ancora oggi la tesi di fondo che anima un appuntamento come quello di Davos e soprattutto che influenza coloro che prendono le decisioni, chi guida le autorità finanziarie internazionali, da Draghi a Lagarde, e Trichet e Strauss Kahn prima di loro.
Come sia riuscita questa idea a permeare in maniera così pervasiva la sinistra europea è un tema su cui si dovranno esercitare gli storici, per ora dobbiamo accettare questo dato di fatto. Negli anni in cui tutti - faccio ammenda perché in quegli anni anch'io ho contribuito, nel mio piccolissimo, a questa deriva - ragionavamo della cosiddetta "terza via", in cui veniva prospettato il superamento della divisione novecentesca tra destra e sinistra, in cui si diceva che il centrosinistra avrebbe dovuto trovare il modo di coniugare i propri valori tradizionali con quelli del mercato, come potevano i compagni di Siena immaginare uno schema diverso. La banca cresceva e tutti erano contenti, perché gli unici numeri a cui si badava - e si bada purtroppo - sono gli utili finanziari. Progressivamente il Monte è diventata una banca tra le banche, né migliore né peggiore delle altre, e come le altre ha utilizzato tutti i sistemi per accrescere il proprio patrimonio. Nessuno si è più posto il problema se questi mezzi fossero più o meno leciti, perché il pensiero imperante spiegava - e spiega - che tutti i sistemi sono leciti, pur di ottenere il risultato. E anche adesso mi pare che si accusi Mussari non tanto di aver utilizzato i derivati, ma di averlo fatto male. Mussari si è dimesso perché, per imperizia o per eccesso di ambizione, si è fatto scoprire e molti suoi colleghi di questo lo accusano, non di un sistema che anch'essi quotidianamente utilizzano, su cui lucrano e che permette loro di ottenere ricchi dividendi e stipendi stratosferici. Naturalmente una banca per sua natura non produce "cose", ma dovrebbe avere come obiettivo di far crescere la ricchezza "reale", favorendo chi produce e chi lavora, prestando loro denaro; temo che questo obiettivo non sia tra le priorità di una banca, qualsiasi essa sia. Su questo dovremmo cominciare a interrogarci, al di là di qualche sparata propagandistica sui banchieri che sono tutti ladri o sulla banche da nazionalizzare.
In questi giorni la Cgil ha presentato il suo Piano del lavoro. E' un documento importante, ricco di spunti, a volte un po' involuto - perché il "sindacalese" ha fatto forse più danni del "politichese" - con qualche mancanza - ad esempio si dovrebbe ragionare di più, anche con i numeri, su qual è il giusto e degno stipendio - ma comunque è fondamentale che ci sia. Da qui dobbiamo partire adesso per una riflessione compiuta su questo tema. Ci sono proposte, ci sono numeri e tabelle, non è riassumibile in slogan o in tweet e quindi la sua presentazione non è riuscita a diventare una notizia. I giornalisti inviati alla conferenza programmatica si sono limitati a fare un po' di colore sugli interventi di campagna elettorale dei politici presenti, stilando una sorta di classifica su chi è più o meno vicino alle posizioni del sindacato di Susanna Camusso. Il problema, al di là della difficile comunicabilità del testo, è che per molti questo approccio è spiazzante, praticamente impossibile da recepire, perché, al di là delle singole proposte, il documento dice che il re è nudo, che non è più possibile accettare la logica ineluttabile del capitalismo e dei mercati; questo è per molti una cosa incomprensibile, è una cosa, ad esempio, che il Pd non riesce più - e temo non voglia - fare.
Sul lavoro e su qualcosa che si produce grazie al lavoro, in questi giorni c'è stata un'altra notizia, che non ha goduto di particolare attenzione, come invece avrebbe meritato. Per fortuna ne ha parlato Adriano Sofri, in uno dei suoi molti articoli, mai banali, sulla situazione di Taranto. La notizia è che all'Ilva, nonostante la produzione di acciaio si mantenga poco al di sotto di quanto previsto dall'Aia - ossia sui 7 milioni di tonnellate rispetto a 8 - i dati dell'inquinamento sono sotto controllo: da settembre dell'anno scorso non ci sono più stati superamenti nelle emissioni di pm10. Il merito di questo risultato è il rispetto delle regole. Infatti da quando l'azienda è diretta dai custodi nominati dal tribunale e non più dai manager dell'Ilva si rispettano le regole di produzione e questo comporta una decisa diminuzione dell'inquinamento. Questo risultato non dipende da quanto si produce, ma da come lo si fa: infatti nel 2009, quando la produzione è stata dimezzata, arrivando a 4,5 milioni di tonnellate, non c'è stata una significativa dimunizione delle emissioni delle polveri inquinanti, perché non si cambiarono i metodi di produzione. Nell'articolo di Sofri uno degli operai fa un esempio che chiarisce molto bene la situazione: 

Mettiamo che per svuotare un convertitore siano prescritti 4 minuti e tu lo faccia in 30 secondi. Immagina di versare birra in un bicchiere: se la versi velocemente, la schiuma cresce e finisce fuori. L'acciaio non è diverso dalla birra, a parte le conseguenze.
Questi dati dimostrano che non è un'utopia coniugare produzione e rispetto della salute e che non è necessario mettere i lavoratori dell'Ilva e le loro famiglie di fronte a una scelta netta: o il lavoro o la salute. Come ha rilevato lo stesso direttore dell'Arpa pugliese questa notizia - una buona notizia, finalmente - non è piaciuta ovviamente ai Riva, perché mette ancora più in luce le loro responsabilità, ma non è piaciuta neppure a chi ideologicamente pensa che l'acciaieria debba chiudere, senza se e senza ma. I custodi, per mancanza di tempo e soprattutto di risorse, non sono riusciti neppure ad avviare i grandi lavori strutturali - che pure rimangono necessari - come la copertura della cokeria, ma i dati dimostrano che basta rispettare le regole che ci sono e che gli industriali non vogliono accettare, perché una produzione più veloce significa un maggior guadagno per loro, a scapito della salute dei lavoratori e dei cittadini, che è un costo sociale di cui naturalmente non vogliono farsi carico. Come nella vicenda del Monte dei Paschi - per questo ho voluto mettere insieme queste due notizie - siamo di fronte a un esempio "normale" di ultraliberismo e non a un fenomeno patologico, come qualche commentatore interessato vorrebbe farci credere. Ancora una volta è da qui che dobbiamo partire, dal radicale e rivoluzionario cambiamento di questo stato di cose.

sabato 26 gennaio 2013

"Io non sono quello che vedi" di Titos Patrikios


Io non sono quello che vedi, quello che conosci
non sono solo quello che dovresti imparare.
Devo a qualcuno ogni brandello della mia carne,
se ti tocco con la punta del dito
ti toccano milioni di persone,
se ti parla una mia parola
ti parlano milioni di persone –
riconoscerai gli altri corpi che danno forma al mio?
ritroverai le mie orme tra miriadi di altre impronte?
distinguerai i miei gesti nella marea della folla?
Io sono anche quello che fui e che più non sono –
le mie cellule morte, le mie azioni
morte, i pensieri morti
di notte tornano a dissetarsi nel mio sangue.
Io sono quello che non sono ancora –
dentro di me martella l'impalcatura del futuro.
Sono quello che devo diventare –
Intorno a me gli amici esigono, i nemici vietano.
Non cercarmi altrove
cercami soltanto qui
soltanto in me.

mercoledì 23 gennaio 2013

Considerazioni libere (333): a proposito di una sconfitta...

Evidentemente i "nostri" governi non sono ancora riusciti a elaborare una strategia di risoluzione delle controversie internazionali che prescinda dall'utilizzo delle forze armate. Sarebbe interessante capire se questa elaborazione - di cui si trovano gli spunti più nobili nei discorsi di Wilson all'indomani della fine della prima guerra mondiale e nell'art. 11 della nostra Carta costituzionale - sia davvero mai cominciata. Buon ultimo, anche il presidente socialista Hollande ha iniziato la "sua" guerra, in Mali, dopo aver assicurato in più occasioni che la Francia non sarebbe più stata coinvolta in conflitti regionali. Naturalmente ci sono buone e perfino nobili ragioni per giustificare questo nuovo conflitto africano, i cui esiti sono ancora incerti e di cui sono molto dubbie le prospettive: i "ribelli" che stanno cercando di prendere il potere in quello stato africano sono integralisti islamici, alleati di al-Qaeda, che cercano di estendere la loro influenza in tutto il Sahel.
Al di là di questi nobili motivi, ci sono poi le ragioni dettate dalla Realpolitik - le ragioni politicamente comprensibili, anche se non sempre possibili da esplicitare - che hanno spinto il governo francese all'intervento. Il Mali è una ex-colonia di Parigi e un totale disinteresse francese per questo conflitto avrebbe rappresentato - al di là delle reali intenzioni di quel governo - una sorta di disimpegno totale verso tutta l'Africa francofona, dove peraltro la Cina è già molto più influente dal punto di vista economico e commerciale di quanto lo sia la ex potenza colonizzatrice. Poi dal confinante Niger arriva l'uranio che fa funzionare le centrali nucleari francesi e quindi una vittoria jihadista in Mali metterebbe in serio pericolo queste forniture strategiche. Inoltre, a ogni latitudine, un conflitto contro un nemico esterno è sempre una mossa dalle inevitabili ripercussioni di politica interna: forse a Parigi qualcuno ha pensato che questa guerra fosse uno strumento adatto per risvegliare l'attaccamento del paese verso la presidenza, specialmente da parte di quel settore più conservatore del paese che ha diversi motivi per non amare un uomo come Hollande, "colpevole" di voler sancire per legge le famiglie omosessuali.
Hollande naturalmente ci ha spiegato che questa guerra è un nuovo capitolo del confronto globale tra l'occidente e l'integralismo islamico e sulla base di questo assunto anche gli altri governi europei hanno timidamente seguito l'irruente alleato. Anche il nostro governo ha promesso di fare la propria parte, senza un preventivo confronto con il parlamento; ma a questo andazzo ormai ci dovremo sempre più abituare. C'è il rischio effettivamente che il Mali diventi una nuova Somalia, in un'area ben più strategica e ricca rispetto al Corno d'Africa. Certo proprio l'esperienza somala dovrebbe insegnarci qualcosa: l'intervento statunitense, così carico di buone intenzioni - erano gli anni del democratico e "globalizzante" Clinton - ha di fatto peggiorato la situazione in quello sfortunato paese. Adesso la Somalia, nonostante l'intervento internazionale, anzi proprio a causa di quell'intervento, è un paese senza un governo e una qualsivoglia struttura amministrativa, in cui comandano i signori della guerra e in cui sono molto attivi i movimenti jihadisti, che hanno lì basi e campi di addestramento. La popolazione è stremata da anni di guerre, con tutto quel che ne consegue in termini di distruzioni e carestie; anche per le organizzazioni umanitarie la Somalia è ormai "perduta". Ovviamente non è facile parlare della situazione in Somalia, senza citare le pesantissime responsabilità dei governi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, ma anche nostre, e quindi su questo argomento in Italia si preferisce sorvolare, dimenticare, far finta di niente: le sconfitte bruciano sempre. Comunque per avere un'idea di quello che è oggi la Somalia, basta leggere quello che è scritto nel sito Viaggiaresicuri, al netto del linguaggio burocratico e asettico dei tecnici della Farnesina.
Questo ennesimo intervento occidentale, al di là dei risultati militari che in una prima fase potrebbero anche essere dei successi - vista la sproporzione delle forze in campo - è destinato a far crescere in maniera inevitabile il movimento jihadista. Non ci vuole la sfera di cristallo: è successa la stessa cosa dopo ogni conflitto di questa natura, in Africa come in Medio oriente. I profughi di questa nuova guerra sono già stimati tra i 150 e i 200mila, anche se mancano cifre ufficiali e sono molti di più quelli che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi saranno costretti a lasciare i loro campi e le loro case; il turismo, che è una voce importante dell'economia maliana e degli altri paesi dell'area, subirà gravi danni da questa guerra, danneggiando ulteriormente, nel lungo periodo, un'economia già fragile. Tra questi nuovi poveri, tra le persone che hanno perso e perderanno ogni speranza è molto più semplice per gli esponenti dei movimenti più radicali trovare donne e uomini, spesso giovani e giovanissimi, disposti a tutto. Questi movimenti godono dell'appoggio politico e finanziario di stati potenti, come l'Arabia saudita - e anche su questo prima o poi dovremmo fare una riflessione su come scegliamo i nostri alleati - e quindi dispongono di risorse molto ingenti, che diventano di fatto l'unica forma di welfare per quelle comunità. In ogni parte del mondo il fanatismo si nutre della miseria e dell'ignoranza. Inoltre tutti questi interventi occidentali, pur con tutti i migliori obiettivi, finiscono sempre e comunque per favorire dei regimi - in Mali il governo "legittimo" sostenuto da Parigi è nato a seguito di un recentissimo colpo di stato - che si caratterizzano per una gestione autoritaria e antisociale del potere, per un elevato livello di corruzione, per l'accaparramento delle ricchezze dei loro paesi; è chiaro come tutto questo e la frustrazione di veder ancora una volta premiati i peggiori possa diventare terreno fertile per l'estremismo. Osservate una cartina del Mali - ne è pubblicata una nell'ultimo numero di Internazionale - praticamente tutto il paese - in particolare al nord, dove la guerra è scoppiata - è diviso in zone i cui diritti di esplorazione sono in mano a multinazionali occidentali, tra cui ovviamente anche la "nostra" Eni. Se ai giovani non si danno prospettive e se per loro l'Occidente è rappresentato da leader corrotti e antidemocratici e da grandi aziende che sfruttano le loro terre e che portano via le loro ricchezze, sarà difficile far crescere in loro uno spirito di collaborazione con noi.
E' una spirale che bisogna avere il coraggio di fermare, per non continuare ad alimentare un movimento integralista islamico che, al di là delle intenzioni, siano noi stessi i primi a sostenere. Anche in Mali occorre fermezza attraverso il dialogo politico. In quel paese c'è una moltitudine di gruppi che si trovano a condividere uno stesso territorio, alcuni dei quali - come i tuareg, che non sono mai stati inclini al fondamentalismo islamico - sono portatori di rivendicazioni legittime, dopo secoli in cui sono stati quasi sempre pacifici. Bisogna partire da queste rivendicazioni, cercare di rispondere ai problemi posti da questi popoli per togliere linfa alle formazioni terroristiche, che hanno tutto l'interesse a fomentare ogni tipo di revanscismo etnico. La prima vittima di questo conflitto è ancora una volta la popolazione, espropriata del diritto di decidere liberamente e autonomamente del proprio futuro, vittima a un tempo della violenza jihadista e degli attacchi - più o meno "intelligenti" - delle truppe occidentali.
Uno dei temi che manca in questa campagna elettorale - sono molti purtroppo - è la politica estera; questo nuovo conflitto sarebbe stata una buona occasione, ma mi pare che prevalga una certa tendenza a mettere la polvere sotto il tappeto. Non basta qualche velleitaria alzata di scudi e neppure il tardivo ripensamento bersaniano sull'incremento delle spese militari. Non è neppure questo in fondo il problema, è che servirebbe una diversa politica estera - o una politica estera tout court, vista la latitanza di questi anni - imperniata su alcuni principi chiari: agire in maniera preventiva per la stabilizzazione dei paesi del sud del mondo, investire sugli aiuti allo sviluppo, favorendo in particolare i progetti che riguardano le donne, sostenere i governi democratici e chi si batte per la democrazia e i diritti in quei paesi dove ci sono regimi autoritari, smettere di esportare armi, in particolare in qui paesi in cui non si rispettano i diritti umani, costruire forme di sviluppo alternativo, che non prevedano lo sfruttamento di altri paesi per garantire la crescita dei nostri. In Mali non stiamo seguendo questi principi e quindi questa guerra sarà l'ennesima sconfitta.

domenica 20 gennaio 2013

Considerazioni libere (332): a proposito di chi vincerà e soprattutto di chi perderà...

Le prossime elezioni sono destinate a cambiare il quadro politico italiano, come è avvenuto per quelle del '94; per questo è ancora più importante parteciparvi, per quanto sia difficile scegliere chi votare. Sicuramente saranno determinanti per i protagonisti di questa campagna elettorale. Alla fine, inevitabilmente, qualcuno vincerà e qualcuno perderà: il pareggio, come nella pallacanestro, non è un risultato contemplato. Bersani è quello che personalmente ha puntato di più su queste elezioni e quindi quello che rischia di più; lui deve vincerle e deve diventare il prossimo presidente del consiglio. Qualsiasi altra opzione sarebbe una sconfitta, per lui prima ancora che per il suo partito: in qualche modo il Pd sopravviverà comunque a queste elezioni - magari diventando definitivamente "montiano", come auspica l'ampia minoranza raccolta intorno a Renzi - Bersani se non vince è fuori. Per B. queste elezioni sono l'ultima occasione per stare sul palcoscenico della politica: probabilmente anche lui - in qualche raro momento di lucidità, concessogli dai farmaci che gli sono somministrati - si rende conto che non può vincerle, ma forse con la sua pattuglia di fedeli e "impresentabili" senatori - animali un po' meno nobili e blasonati del cavallo di Caligola - potrebbe ancora condizionare la prossima legislatura. Come mi è già capitato di scrivere, solo la natura potrà fermare il percorso politico di B.; i dati positivi sono che l'età avanza e che il suo egocentrismo ha fatto sì che si attorniasse, specialmente in questi ultimi anni del suo "regime", di personaggi ridicoli e inconsistenti e quindi non esisterà mai un berlusconismo senza di lui. Ci sarà un'altra forma di populismo fascista, ma adesso è difficile prevedere che forme prenderà. Anche per Monti queste elezioni sono una scommessa, anche se con un orizzonte un po' più lungo rispetto a quello di Bersani. Monti ha il compito di costruire in Italia il partito della destra "perbene", un partito che non c'è mai stato, perché la destra ha sempre delegato ad altri - spesso tutt'altro che "perbene" - la propria rappresentanza politica: oggettivamente sarebbe stato ingeneroso chiedergli di farlo in due mesi o poco più. Monti forse sperava di diventare il de Gaulle italiano, ma certe condizioni non si ripetono. A questo giro otterrà un risultato modesto, anche perché non ha seguito il consiglio di Passera di sbarazzarsi di Casini e di Fini, ma comunque alla fine la sua "agenda" sarà applicata e questo a lui e a quelli che lui rappresenta basta ed avanza.
Al di là di quello che succederà dopo il 25 febbraio e che cercherò di commentare con le mie "considerazioni", io so già che "perderò" le prossime elezioni perché, per chiunque voterò - naturalmente sempre nel campo del centrosinistra, visto che per me non ci sono altre scelte possibili - il mio non sarà un voto convinto. Non voglio che vinca né il fascismo di B. né il capitalismo rapace di Monti e quindi cercherò di capire nei prossimi giorni in che modo il mio voto sarà più utile per bilanciare il montismo "dal volto umano" di Bersani, che - nonostante tutto - mi auguro vinca. Credo che altre persone si trovino nella mia situazione - anche se naturalmente non so quantificarne il numero e il peso elettorale - perché manca tra le scelte possibili un'opzione decisamente e autenticamente socialista.
Proprio perché queste non saranno le "ultime" elezioni, le "elezioni fine-di-mondo" - come qualche commentatore sembra suggerire - credo che sia necessario, fin d'ora, darsi una scadenza più lontana e cominciare a pensare alle prossime elezioni - sì, proprio a quelle del 2018 - per non farsi trovare, ancora una volta, impreparati. Guardando a quello che è accaduto negli ultimi mesi nello schieramento che si colloca a sinistra del Pd, credo che uno dei limiti maggiori del mondo variegato che si è raccolto prima intorno all'appello per la creazione di un soggetto politico nuovo e poi ha dato vita ad Alba, sia stato proprio quello di partire troppo a ridosso delle elezioni. La fretta è stata una cattiva consigliera - lo si è intuito immediatamente nella confusione del passaggio repentino da Alba al manifesto Cambiare si può - tanto che sono bastati l'ennesimo Masaniello italiano - che ha fatto "carriera" ed è diventato finalmente sindaco della sua città - e un Ingroia qualsiasi per far abortire il progetto. Certamente la lista Rivoluzione civile rappresenta una novità a sinistra, avrà il merito di riportare in parlamento delle istanze autenticamente di sinistra che, a causa delle divisioni con cui i vari partiti si erano presentati nel 2008, erano rimaste fuori dall'assemblea legislativa, per la prima volta nella storia repubblicana. Io mi auguro sinceramente che Rivoluzione civile abbia un risultato significativo, spero che alcuni dei suoi candidati possano entrare in parlamento; non escludo di votare quella lista alla Camera perché nella mia regione è candidata Ilaria Cucchi, che è stata costretta a combattere una battaglia giusta, perché lo stato le ha ucciso il fratello. Non credo però che intorno a Rivoluzione civile potrà nascere un nuovo movimento socialista, perché - solo per fare il primo esempio che mi viene in mente - la presenza di Di Pietro va in una direzione molto diversa da quella da me auspicata.
Per questo io penso che, indipendentemente dal risultato delle elezioni del prossimo mese di febbraio, sia necessario mettersi da subito a fare qualcosa di diverso. C'è molto materiale su cui lavorare, provo a elencarne qualcuno, in ordine sparso, tra quello che a me interessa di più e di cui ho cercato di parlare in questo blog: ci sono le riflessioni teoriche di Latouche e Bauman, ci sono le proposte concrete della Cgil raccolte nel Piano del lavoro, ci sono gli studi di molte associazioni su una diversa forma di sviluppo, penso a Re:common o Smontaildebito, ci sono le riflessioni che hanno accompagnato la campagna referendaria sui beni comuni. Un programma socialista per un futuro partito c'è già, bisogna soltanto cercare di non far spegnere la fiaccola in questi tempi bui. Io provo a farlo da qui.

venerdì 18 gennaio 2013

"I passi cadenzati" di Manolis Anaghnostakis


I passi cadenzati sulle umide lastre di pietra
– i rintocchi dell'orologio nell'ora inappellabile –
Voci dietro il ricordo di brevi attimi di gioia
Le lettere invano incise sui muri
Oltre domattina non c’è più niente
Neppure per l'illecita gioia di un'illusione
Ritorno a un vuoto senza sbocco
Senza neppure un semplice indugio dell'ora irrevocabile.

mercoledì 16 gennaio 2013

"Disarmonia prestabilita" di Hans Magnus Enzenberger


Per ognuno di quelli che spaccano
la loro bottiglia di birra in testa a un tamil
al pronto soccorso c'è un chirurgo
che ricuce i crani.
E viceversa.

Per ogni cercamine
che rischia la pelle
un mercante d'armi.
E viceversa.

Per ogni stupratore una donna
con in mano il coltello da carne,
per ogni assistente sociale un neonazi,
per ogni stipendio alto
un'inchiesta tributaria, per ogni mostro
una soave madonna, e viceversa.

Ah, ha il suo bel daffare
ognuno di noi.
E non s'intravvede una fine.

martedì 15 gennaio 2013

"La poesia cerca risposte a domande non ancora fatte" di Titos Patrikios


Non ci aspettavamo che accadesse di nuovo
eppure è di nuovo nero come la pece il cielo,
partorisce mostri di oscurità la notte,
spauracchi del sonno e della veglia
ostruiscono il passaggio, minacciano, chiedono riscatti.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi...
non temere, diceva il poeta,
ma io temo i loro odierni simulacri
e soprattutto quelli che li muovono.

Temo quanti si arruolano per salvarci
da un inferno che aspetta solo noi,
quanti predicano una vita corretta e salutare
con l’alimentazione forzata del pentimento,
quanti ci liberano dall’ansia della morte
con prestiti a vita di anima e di corpo,
quanti ci rinvigoriscono con stimolanti antropòvori
con elisir di giovinezza geneticamente modificata.

Come una goccia di vetriolo brucia l'occhio
così una fialetta di malvagità
può avvelenare innumerevoli vite,
"inesauribili le forze del male nell'uomo"
predicano da mille parti gli oratori,
solo che i detentori della verità assoluta
scoprono sempre negli altri il male.
"Ma la poesia cosa fa, cosa fanno i poeti?"
gridano quelli che cercano il consenso
su ciò che hanno pensato e già deciso,
e vogliono che ancora oggi i poeti
siamo giullari, profeti o cortigiani.

Ma i poeti, nonostante la loro boria
o il loro sottomettersi ai potenti,
il narcisismo o l'adorazione di molti,
nonostante il loro stile ellittico o verboso,
a un certo punto scelgono, denunciano, sperano,
chiedono, come nell'istante cruciale
l'altro poeta chiese: più luce.
La poesia non riadatta al presente
la stessa opera rappresentata da anni,
non salmeggia istruzioni sull'uso del bene,
non risuscita i cani morti della metafisica.
Passando in rassegna le cose già accadute
la poesia cerca risposte
a domande non ancora fatte.

domenica 13 gennaio 2013

da "Centuria" di Giorgio Manganelli

Ottantasette

Che quell’uomo sia a disagio, lo si vede chiaramente. È irrequieto; cammina, si ferma, si regge su un piede solo, riparte di corsa; eccolo fermo ad un angolo di strada; si affaccia sulla strada successiva, peritosamente; sospira e si appoggia al muro. In realtà, egli è estremamente insoddisfatto della propria vita, ma delle origini di tale insoddisfazione ha idee assai confuse. Poteva essere, ha pensato, l’uso del tempo. Certi giorni i secondi corrono via come evasi da una clessidra adibita a prigione, ma spesso sono di ineguale grossezza e vivendo egli vi inciampa continuamente. Pensa che gli toccano ancora anni da vivere e non sa quanto saranno lunghi. Maneggia i bottoni mentali del tempo, ed ecco che quello si ferma del tutto; da un’ora all’altra passano dieci ore; i secondi sono lunghi quanto una strada, e la strada, si sa, è fatta sempre di quarti d’ora, ma quattro strade non fanno un’ora, fanno sei giorni. Il settimo è una piazza, e come l’attraversi, sbagli. Ha cercato di ammaestrare il futuro, e costringerlo a un ritmo meno defatigante. Ha comprato un grosso orologio, per insegnare il tempo al tempo, ma il tempo non impara se stesso. Se preme un altro bottone, il tempo corre, scappa, fugge. Le strade si accorciano, e se non frena subito, in una settimana la sua vita sarà finita e non avrà fatto niente per giustificare la propria nascita. Bisognerebbe inventare un orologio capace di catturare il tempo e costringerlo a tenere quel passo, sempre, tutti i giorni, tutta la vita. Ma un orologio così fatto, egli per primo farebbe a pezzi. Dunque, non può che cercare pattuizioni provvisorie, e infide, giacché il tempo non sta ai patti, non perché sia sleale, ma perché è a sua volta vittima del tempo. In realtà, come il signore scontento sospetta da qualche tempo, anche il tempo è scontento di sé, ma non riesce a risolvere il proprio disagio, perché non ha nessun modo, che non sia se stesso, per misurarsi; il risultato è, naturalmente, inutilmente giusto, e il tempo non sa mai se corre, se indugia, se sta fermo. Per questo il tempo chiede continuamente scusa a tutti, senza nemmeno sapere se è ragionevole che egli chieda scusa.

sabato 12 gennaio 2013

Considerazioni libere (331): a proprosito di debiti da pagare...

Come ho scritto più volte, temo che il prossimo governo sarà "montiano", indipendentemente da come andranno le elezioni. A tutt'oggi mi pare che ci siano solo due esiti possibili: o un governo Bersani (con un presidente della Repubblica "montiano"), se vincesse il Pd sia alla Camera che al Senato, o un governo Monti (con un presidente della Repubblica del Pd di "rito montiano") se il Pd vincesse solo alla Camera. Scenari evidentemente non entusiasmanti, ma comunque meno tragici di una situazione in cui dovesse rientrare in gioco la destra populista e lepenista guidata da B.: il pericolo non è ancora scongiurato - temo - perché c'è un'Italia che ha paura del nuovo e che preferirebbe ancora rifugiarsi nella conservazione sociale assicurata da questa destra antieuropea, razzista e omofoba.
Al di là dei nomi, il prossimo governo sarà "montiano", perché così è stato deciso a larga maggioranza nella fase finale di questa legislatura, che ha avuto davvero un carattere costituente. A partire dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014 entrerà in vigore il nuovo art. 81 della Costituzione, che impone il vincolo del pareggio di bilancio e l'impossibilità di contrarre debiti. Inoltre il parlamento ha ratificato il cosiddetto trattato sulla stabilità fiscale, imposto al nostro paese dalle autorità finanziarie internazionali e in particolare dalla Bce di Mario Draghi, in cambio dell'acquisto dei nostri titoli di stato e quindi della messa sotto controllo del debito pubblico, ossia il meccanismo che ha permesso a Monti di fingere di aver ridotto lo spread. L'art. 4 del trattato prescrive che "quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore del 60% [...] tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all'anno". Questo trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l'inizio della riduzione del debito comincerà soltanto nel 2015. Con queste premesse è chiaro su quale linea si dovrà muovere il prossimo governo.Facciamo due conti: il pil è circa 1.650 miliardi, per cui il 60% è intorno a 1.000 miliardi. Il nostro debito è poco più del doppio di questa cifra, miliardo più, miliardo meno. Quindi per far scendere il debito all'obiettivo del 60% del pil lo si dovrebbe ridurre di 50 miliardi l'anno per venti anni. L'obiettivo è forse raggiungibile, a patto di spingere nella miseria tre quarti della popolazione italiana e di assicurare la povertà ad almeno due generazioni. Come è evidente a ciascuno di noi che tiene i conti della propria famiglia e magari ha un mutuo, per ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è necessaria una condizione: il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, ogni anno - e per tutti gli anni previsti dal contratto di mutuo - deve avere delle entrate sufficienti per coprire ciascuna delle rate del debito. Nel caso dell'Italia questa condizione essenziale non esiste. Anche perché il debito non smette di crescere: al tasso medio del 4% gli interessi aumentano di circa 80 miliardi l'anno, in una spirale di cui è difficile vedere la fine.
Naturalmente gli apprendisti stregoni dell'ultraliberismo spiegano che non c'è nulla di cui preoccuparsi. Nella stessa agenda Monti è scritto che il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi. L'ulteriore riduzione dello spread, la dismissione di grosse quote di patrimonio dello stato, la drastica riduzione della spesa pubblica garantiranno la tenuta dei conti. E naturalmente non mancano gli astrologhi di corte pronti a prevedere che alla fine del 2013 arriverà la crescita. Al di là di queste fauste previsioni, la crescita non ci sarà, la vendita di beni pubblici sarà un flop (o almeno favorirà soltanto gli "amici degli amici" che potranno comprare a prezzi stracciati quello che il governo metterà in vendita) e quindi si dovrà continuare a tagliare, colpendo prima le fasce più deboli della società e quindi il ceto medio. In questo caso non occorre fare previsioni, basta vedere quello che sta già succedendo in Grecia, dove questo percorso "virtuoso" è cominciato da qualche anno.
Una famiglia in cui le uscite sono sistematicamente maggiori delle entrate è destinata a non sopravvivere, un'azienda nelle stesse condizioni fallisce, uno stato deve trovare una soluzione diversa. Bisognerebbe partire da una tesi alternativamente opposta a quella che sta alla base dell'agenda Monti: il nostro paese non è in grado di pagare un debito così alto.
A livello internazionale qualcuno comincia a pensarci, perfino in uno dei templi della finanza internazionale, il Fmi. Negli Stati Uniti il capitolo 11 del diritto fallimentare di quel paese prevede un meccanismo di bancarotta ordinata per gli enti locali nell'ambito del sistema federale. Il problema, sollevato dal Fondo monetario, è che manca un diritto fallimentare internazionale. Sul modello degli Stati Uniti bisognerebbe creare uno strumento attraverso cui il paese insolvente possa azionare in maniera unilaterale una qualche forma di moratoria e convocare tutti i creditori, pubblici e privati, per rinegoziare il debito.  
A dire il vero nel caso dell'Italia la soluzione potrebbe essere anche più semplice. La Bce ha prestato, in tempi diversi - ad esempio tra novembre 2011 e febbraio 2012 - migliaia di miliardi alle banche a un tasso favorevolissimo dell'1%. E queste ultime comprano i titoli del debito dagli stati, con interessi tripli o quadrupli. A questo punto è un meccanismo che deve essere interrotto: occorre abrogare l'art. 123 del trattato che vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Se la Bce prestasse i 1.000 milairdi che ci mancano a un interesse dell'1% si potrebbe cominciare a rimettere in sesto i conti pubblici; questo naturalmente provocherebbe una forte diminuzione di guadagni per le banche, ma probabilmente questo non dovrebbe essere una priorità per il governo di un paese sull'orlo del fallimento.
Naturalmente in campagna elettorale è più facile parlare di Imu, è più facile promettere di ridurla o di rimodularla o di toglierla del tutto, ma sarebbe molto più interessante per noi capire cosa propongono i partiti su questo tema cruciale del debito. Il resto è maquillage.

giovedì 10 gennaio 2013

"Gelsomino tunisino" di Muhammad Ibn al-Dheeb al-Ajami



Il poeta al-Ajami è stato condannato all'ergastolo dal "democratico" emiro del Qatar per questa poesia.

Oh signor primo ministro, oh Mohammad al-Ghannoushi
se guardiamo al tuo potere, esso non deriva dalla Costituzione.
Non piangiamo Ben Ali, nè piangiamo la sua epoca, che rappresenta solo un piccolo punto nella linea della storia.
La dittatura è un sistema repressivo e tirannico la Tunisia ha annunciato la sua rivolta popolare.
Se critichiamo, critichiamo solo ciò che è meschino e infimo,
se cantiamo lodi, lo facciamo in prima persona.
La rivolta è iniziata con il sangue del popolo, ribelle, e ha dipinto la liberazione sui volti di ogni essere vivo.
Sappiamo che faranno ciò che vogliono e sappiamo che tutte le vittorie portano con sé eventi tragici,
ma povero quel paese che fa dell'ignoranza il suo governante e crede nella forza delle forze americane
e povero quel paese che affama il suo popolo mentre il governo gioisce dei successi economici e povero quel paese i cui cittadini si addormentano con la cittadinanza e si svegliano senza e povero quel sistema che eredita repressione.
Fino a quando sarete schiavi di tanto egoismo?
Quando il popolo prenderà coscienza del suo vero valore?
Quel valore che gli viene nascosto e che presto dimentica?
Perché i governi non scelgono mai il modo per porre fine al sistema del potere tirannico che sa della sua malattia e insieme avvelena il suo popolo che sa che domani sulla sua sedia si siederà il suo successore.
Non tiene in conto che la patria porta il nome suo, e della sua famiglia, quella stessa patria che conserva la sua gloria nelle glorie del popolo, quel popolo che risponde con una voce sola ad un solo destino: siamo tutti tunisini davanti all'oppressore!
I governi arabi, e chi li guida, tutti, ugualmente, ladri.
Quella domanda che toglie il sonno a chi se la pone, non troverà risposta in chi incarna l'ufficiale.
Se possiamo importare ogni cosa dall'Occidente, perchè non importiamo anche i diritti e la libertà?

traduzione di Marta Ghezzi, dal sito OsservatorioIraq

mercoledì 9 gennaio 2013

da "Le città invisibili" di Italo Calvino

Ipazia
Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe.
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.
- Dov’è il sapiente? - Il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: - I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere -. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito ad intendere il linguaggio di Ipazia.
Ora basta che senta nitrire i cavalli e schiocchiate le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
E quando il mio animo non chiedo altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondo trilli di flauti, accordi d’arpe.
Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scender al porto, ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.

domenica 6 gennaio 2013

Considerazioni libere (330): a proposito di conservare...

Ha ragione Monti, lo ammetto: sono un conservatore. Ecco un elenco - assolutamente incompleto - di cose che voglio "conservare". L'ordine è rigorosamente casuale.
L'antifascismo. I libri, in particolare quelli che si possono ancora sfogliare. L'idea di funzione pubblica. L'orologio fermo alle 10.25 della stazione di Bologna e la lapide di Milano che ricorda Pinelli "ucciso innocente". La legge Basaglia. La solidarietà per coloro che lottano per difendere e per conquistare libertà e diritti. L'uso corretto del congiuntivo e della punteggiatura. Lo Statuto dei lavoratori, così come è scritto, senza i recenti "miglioramenti". Le manifestazioni per la pace. Le biblioteche di pubblica lettura. La chiusura domenicale dei negozi (e i barbieri chiusi il lunedì). Gli asili nido comunali. Le piazze - quelle vere e quelle virtuali - in cui le persone possono incontrarsi e parlare. I pensieri lunghi di Enrico Berlinguer e la sua idea di austerità. Le spiagge libere. Lo scrivere con la penna su un foglio di carta. Il Primo maggio. La 194. La lotta di classe. La ricetta tradizionale dei tortellini. Pier Paolo Pasolini. La laicità dello stato. I teatri pubblici. La Cgil. La tassazione progressiva. La scelta delle parole adatte per esprimere quello che si vuole dire. L'acqua pubblica. Il 25 aprile. Libera. La Costituzione, come l'hanno approvata nel '47 e quindi senza il pareggio di bilancio. La scuola pubblica. Una certa idea di socialismo.

sabato 5 gennaio 2013

"La cipolla" di Wislawa Szymborska



La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.

venerdì 4 gennaio 2013

Considerazioni libere (329): a proposito di un'opera lirica...

Knight crew è un'opera lirica contemporanea, andata in scena per la prima volta il 3 marzo 2010 a Glyndebourne, nell'Inghilterra meridionale. L'autore della musica è il compositore Julian Philips, nato nel 1969, mentre l'autrice del libretto è la scrittrice Nicky Singer; la regia è stata affidata a John Fulljames, nato nel 1976, e la direzione musicale a Nicholas Collon, nato nel 1983. Knight crew racconta la storia di re Artù, adattandola ai giorni nostri e ambientandola tra le gang di una periferia urbana degradata. Al di là del merito dell'opera, che comunque è stata un successo e ha avuto buone critiche sui più importanti giornali inglesi, a me interessano alcuni aspetti della produzione, che mi sembra utile sottolineare e su cui credo si possa avviare qualche utile riflessione e un confronto con quello che succede nel nostro paese.
Glyndebourne è un'istituzione teatrale privata inglese molto prestigiosa, per quanto relativamente recente, dal momento che il primo spettacolo è stato allestito nel 1934, per iniziativa di John Christie, il proprietario della villa, appassionato di opera e marito di una cantante lirica, che costruì il primo teatro e sostenne le spese di quell'allestimento e di quelli successivi. L'attività teatrale e concertistica culmina ogni anno nel Glyndebourne Opera festival,che si svolge dal 1994 in un nuovo teatro da 1.200 posti, realizzato dagli eredi di Christie, ancora proprietari della villa. Insieme a questa attività nel 1986 è stato istituito un dipartimento educativo, che lavora con le scuole del Sussex e del Kent, sia per far conoscere l'opera ai ragazzi sia per insegnare loro musica e canto. Il progetto di Knight crew si inserisce proprio in questo filone di attività. Per l'allestimento di questo nuovo spettacolo, commissionato ad hoc per questo progetto, la fondazione che presiede le attività di Glyndebourne ha investito 400mila sterline, arrivati in parte dal governo - attraverso l'Arts Council of England - e in parte da privati. Si è trattato evidentemente di un allestimento non certo "amatoriale", ma curato da professionisti del settore, tra artisti e tecnici, come nella consuetudine degli spettacoli di quel teatro, conosciuto per l'alto livello delle produzioni. L'orchestra che ha eseguito l'opera era composta da sessanta elementi: trenta professionisti e trenta giovani studenti. Il coro - che svolge un ruolo molto importante in questa opera, rappresentando appunto la "gang" del Cavaliere - è stato composto da cinquanta tra ragazze e ragazzi, dai 14 ai 18 anni, non professionisti, scelti nelle scuole e nei centri giovanili del territorio. La ricerca di questi ragazzi e successivamente la responsabilità di insegnare loro questa difficile partitura musicale è stata affidata a Gareth Malone, nato nel 1975, che da qualche anno collaborava con il dipartimento educativo di Glyndebourne, e che è diventato noto al pubblico televisivo attraverso una serie di programmi trasmessi dalla Bbc. In particolare il lavoro fatto per Knight crew è stato presentato nel documentario in tre puntate Gareth Malone goes to Glyndebourne. Per avere un'idea del suo lavoro potete guardare qualche filmato che trovate su Youtube; Rai5 ha recentemente trasmesso questo programma - e altri dedicati a Malone - con il titolo complessivo I ragazzi del coro: vi consiglio di guardarli, è un'altra televisione rispetto a quella a cui siamo ormai purtroppo assuefatti. Tra le ragazze e i ragazzi scelti per partecipare al progetto alcuni avevano storie personali difficili, in qualche caso al limite della legalità. Alcuni sapevano bene cosa significa far parte di una gang e quali sono le dinamiche che si instaurano tra i suoi membri, perché ne hanno avuto in qualche modo un'esperienza diretta; questa consapevolezza dei ragazzi è stata utilizzata sia da Malone sia dal regista per rendere ancora più efficace la rappresentazione. L'opera prevede anche un coro delle madri e anche in questo caso le audizioni hanno coinvolto donne non professioniste che vivono vicino a Glyndebourne, in qualche caso si è trattato proprio delle madri delle ragazze e dei ragazzi impegnati nel coro. Per molte di quelle famiglie Glyndebourne, per quanto fosse a poche miglia di distanza da casa loro, era un luogo sconosciuto, così come l'opera lirica.
Ecco, visto che non si perde un'occasione per farci autorevolmente notare che dobbiamo fare come l'Europa, a me, in questo caso, piacerebbe proprio fare come l'Europa. Come sapete, io vivo nelle terre di Verdi. Il dramma in cui si dibatte il Teatro Regio di Parma, una delle istituzioni culturali più blasonate del mondo per quel che riguarda il melodramma, è emblematico dello stato della cultura oggi in Italia. L'anno scorso nel cartellone del Regio ci sono state soltanto due opere, di livello modesto, e si è trattato comunque non di produzioni originali, ma di riadattamenti di allestimenti già presentati al pubblico negli anni passati. Il resto dei teatri d'opera italiani temo si trovi in situazioni analoghe, anche se non così drammatiche. Nella prima parte di questa "considerazione" ho volutamente calcato l'attenzione sull'età delle persone coinvolte nel progetto; anche il direttore di Glyndebourne, di cui non so il nome e che è comparso fugacemente nella prima puntata del documentario della Bbc, dimostrava una quarantina d'anni. Pensate all'età media di direttori di teatri, registi, direttori d'orchestra che lavorano in Italia e vedrete immediatamente una differenza. Come ho già scritto io non sono un "novatore" sempre e comunque, penso che in ogni campo sia necessaria l'esperienza e la capacità di chi da anni lavora in quel campo come la carica di novità che possono portare i giovani: in Italia spesso mancano l'una e l'altra, a favore di una mediocrità che purtroppo non ha connotazioni anagrafiche.
Il progetto portato avanti da Glyndebourne, sostenuto finanziariamente dal governo inglese, "pubblicizzato" attraverso una trasmissione popolare della Bbc - i programmi di Malone sono del genere reality, per quanto ben fatti, e non programmi cult per melomani relegati in orari notturni - ha molti meriti, ma soprattutto quello di provare ad educare un pubblico. Probabilmente nessuno dei cinquanta ragazzi del coro diventerà un "divo" della lirica - o almeno a nessuno di loro è stata data questa speranza, anche a chi è emerso per innegabili doti vocali - ma certamente tutti diventeranno ascoltatori più consapevoli di un genere musicale complesso. E' stata offerta la possibilità di salire sul palco di Glyndebourne da protagonisti a cinquanta ragazzi che da spettatori non avrebbero mai messo piede in quel teatro, perché in quel paese - forse ancora più che da noi - ci sono forti differenze di classe. In Italia dove questa differenza di classe è oggettivamente meno visibile, l'esclusione dall'accesso a certi eventi culturali è essenzialmente determinata dai costi proibitivi dei biglietti.
Se leggessi in maniera esclusivamente politica la storia di Glyndebourne sarebbe una bella metafora di cosa dovrebbe fare la sinistra, ma guardandola semplicemente per quello che è, si tratta della possibilità di fare cultura in un modo diverso. Ecco se dovessi chiedere qualcosa al prossimo ministro della cultura di un governo di centrosinistra, gli chiederei di istituire dei dipartimenti educazione nei teatri d'opera italiani e di tentare un'operazione simile a quella fatta a Glyndebourne. Sono convinto che i professionisti in grado di fare queste cose ci siano in Italia, come ci sono in Gran Bretagna e, con un po' di impegno, si potrebbero trovare anche i soldi, magari risparmiando un po' su certi progetti faraoinici in cui sono coinvolti i "soliti noti". Se poi qualche "tecnico" volesse prendersi la briga di fare due conti, pensate alla potenzialità economica e turistica che potrebbe avere per il nostro paese un rilancio a questi livelli della musica lirica, un patrimonio per cui siamo conosciuti in tutto il mondo, un'eredità enorme che abbiamo ricevuto e che abbiamo via via dilapidato. Magari sarebbe un modo un po' più sensato di celebrare il bicentenario del Cigno di Busseto e forse a quel "rivoluzionario" di Verdi potrebbe anche far piacere.