giovedì 28 febbraio 2013

Considerazioni libere (342): a proposito di domani e di dopodomani...

Grillo non mi piaceva prima e non mi piace adesso: di lui non mi fido. Lo dico in premessa, perché non voglio iscrivermi ai due partiti che in questi giorni stanno diventando maggioritari: "quelli che... l'avevamo sempre detto che Grillo vinceva" e "quelli che... Grillo in fondo dice anche cose condivisibili". Come diceva Ennio Flaiano: "gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori". Io mi metto tra quelli che queste elezioni le hanno perse non una, ma due volte. La prima - e più dolorosa - sconfitta è stata l'impossibilità di votare per un partito davvero socialista, che avesse come punto centrale del proprio programma il superamento dell'imperante modello ultraliberista. Vista la mancanza di tale alternativa ho votato per il Pd, che - come noto - mi ha fatto perdere le elezioni una seconda volta. In fondo ci sono abituato: nella mia vita sono più quelle che ho perso che quelle che ho vinto.
Chi ha letto le altre due "considerazioni" che ho scritto in questi giorni, sa che, smaltita la delusione, ho provato a mettere in fila le mie riflessioni. Con questa di oggi concludo per il momento la mia personalissima analisi del voto. Adesso è il momento della politica; bisogna decidere cosa fare domani, in senso letterale, e cosa fare dopodomani, ossia tra qualche settimana, un paio di mesi forse, ma non possiamo dormirci troppo sopra.
Parto da cosa bisogna fare domani, almeno secondo me. Bisogna cominciare a camminare, un passo alla volta, senza strappi, ma avendo chiara la direzione verso cui si vuole andare. Dico subito che spero che questa fase complicata sia gestita da Pierluigi Bersani, perché di lui mi fido e penso abbia il buon senso che ci vuole in condizioni come queste, per molti aspetti inedite. Affidarsi ad altri sarebbe un rischio troppo alto.
Bersani ha di fronte due alternative: proporre al Pdl la riedizione di un governo di emergenza, ossia un governo Monti senza Monti - dato che questo è ormai screditato, visto il brillante risultato elettorale, di cui sono estremamente felice - oppure presentarsi davanti al parlamento alla guida di un governo autorevole - autorevole davvero, e quindi senza i nomi che sono già usciti sui giornali, che stavolta devono star fermi un giro - con un programma preciso e definito. In questo programma deve esserci una nuova legge elettorale uninominale con doppio turno, la riduzione del numero dei parlamentari e la contestuale riduzione dei loro "rimborsi", l'introduzione di un tetto per gli stipendi e le pensioni degli alti funzionari di stato, una riforma organica e severa contro la corruzione, una legge sul conflitto di interessi. Può bastare; in questo programma difficilmente potranno esserci altre leggi, soprattutto non potrà esserci la riforma fiscale, che pure sarebbe indispensabile. Non c'è il tempo: aspetteremo, abbiamo aspettato anni, possiamo resistere ancora qualche mese. E non c'è neppure la possibilità di trovare un accordo decente con Grillo su questi temi; quindi mettiamoci l'anima in pace. Non sarà il prossimo governo a salvare l'Italia.
La prima ipotesi è quella a cui stanno lavorando B., una parte del Pd, naturalmente Monti e quelli che stanno dietro a Monti - a partire da Mario Draghi - e temo che ci stia lavorando anche l'uomo che adesso ha in mano il pallino, ossia Giorgio Napolitano, uno di cui non mi fido assolutamente. A proposito, bisogna finalmente eleggere anche un nuovo Presidente della Repubblica e questa volta deve essere di tipo nuovo, uno che non risponda alle logiche della vecchia politica; sconteremo l'inesperienza, fa lo stesso. Questa soluzione è quella verso cui ci spingono tutti i grandi giornali, è la soluzione auspicata dall'Europa, dal Fondo monetario e compagnia cantante. E' la soluzione che ci porterà in meno di un anno a stare come in Grecia: non mi pare una grande prospettiva. Perché questa sia l'opzione preferita da B. e dai suoi accoliti l'ho spiegato nella mia precedente "considerazione": loro hanno tutto da guadagnarci dalla crisi. Perché sia l'opzione preferita da una parte del centrosinistra è la contraddizione di fondo di questi anni difficili, ma di questo ho parlato a lungo in altre "considerazioni" e diventa perfin noioso tornarci.
La seconda ipotesi ha i numeri in parlamento, anche se per metterla in atto richiederà un qualche bizantinismo, che meglio si sarebbe adattato ai tempi della prima repubblica, come il governo della "non-sfiducia", una formula che richiama purtroppo una pagina buia della nostra storia recente. Togliamo subito un alibi per non fare queste leggi: le riforme non si devono fare con tutti, come abbiamo detto in questi anni, in cui infatti non le abbiamo fatte. Quelli che sono politicamente corretti dicono che le regole del gioco devono essere accettate da tutti i giocatori. Balle. Visto che uno dei giocatori è B. le regole le dobbiamo fare noi, senza di lui e, se possibile, anche contro di lui. Bersani vada in parlamento e proponga questo pacchetto di leggi. B. non le accetterà, griderà che siamo di fronte a un colpo di stato e noi lo lasciaremo urlare, insieme ai suoi servi. Poi vediamo cosa farà Grillo. Proprio perché io ho una pessima opinione di quell'uomo, penso che lui non vorrebbe accettare questo schema, perché sa bene che se ci fosse il governo Pd-Pdl, lui sarebbe il trionfatore delle prossime elezioni. Trionferebbe sulle macerie, ma a lui poco importa. Ma siccome l'uomo è meno ingenuo di quello che vuol farci credere, credo che alla fine accetterà, anche perché il suo movimento è meno ingenuo di quello che lui e Casaleggio credono. Ci vorranno un po' di mesi. Ci vorrà pazienza, come già è evidente da quello che succede in questi giorni. Poi si andrà al voto e ci si conterà. B. continuerà ad avere i suoi voti, perché anticomunisti, reazionari, fascisti, disonesti, profittatori in questo paese ce ne saranno sempre. Pd e Movimento 5 stelle avranno il merito di aver cambiato un po' questo paese e questo dovrebbe premiarli. E poi chi ha più filo tesserà.
Il dopodomani è più complesso e oggettivamente quello che succederà non sarà in capo a Bersani e neppure a questo Pd. O almeno decideranno loro cosa vorranno fare. Io sapete cosa spero, l'ho scritto più volte, l'ho scritto l'ultima volta, in maniera abbastanza compiuta, in questa "considerazione" del 20 gennaio scorso, che vi invito a rileggere. Ho scritto, tra l'altro:
Proprio perché queste non saranno le "ultime" elezioni, le "elezioni fine-di-mondo" - come qualche commentatore sembra suggerire - credo che sia necessario, fin d'ora, darsi una scadenza più lontana e cominciare a pensare alle prossime elezioni - sì, proprio a quelle del 2018 - per non farsi trovare, ancora una volta, impreparati.
Mi ero evidentemente sbagliato: le prossime elezioni ci saranno prima del 2018, molto prima, e rischiamo ancora una volta che il tempo non ci sia. Vedremo cosa succederà. Bisogna mettersi lì a fare un programma socialista, partendo dai temi che conosciamo: il lavoro, la scuola, i beni comuni. Stavolta però abbiamo un vantaggio: sappiamo che i voti contro questo sistema che ci governa da decenni ci sono - ci avevano detto che erano spariti, inghiottiti dalle "magnifiche sorti e progressive" - bisogna soltanto offrire una prospettiva, che sia un po' più articolata di un semplice "vaffanculo" e soprattutto che stia nuovamente a sinistra.

mercoledì 27 febbraio 2013

Considerazioni libere (341): a proposito di una scelta di fondo...

La prima regola della democrazia è che bisogna accettare il fatto che non ci sono elettori che sbagliano. Naturalmente questo non significa che non si possano definire alcuni cittadini stupidi o in malafede, ma questa è evidentemente un'altra storia. Se accettiamo - come spero - questa tesi, al netto di fenomeni di corruzione e di condizionamento del voto - un problema molto grave ed esteso in maniera sempre più allarmante, non solo nelle regioni meridionali - dobbiamo accettare che un terzo di italiani ha votato, ancora una volta, per B. e lo ha fatto, essendone pienamente consapevole e convinto della propria scelta.
Tra quelli che votano convintamente per B. ci sono prima di tutto quelli che definisco conservatori a prescindere. Questi non amano B., soffrono a vederlo in televisione e si vergognano di votare per un personaggio del genere - e infatti non lo ammettono nei sondaggi - ma continuano a votarlo perché sanno che finché lui avrà la maggioranza, in questo paese non si farà mai un passo avanti a favore dei diritti civili. Sono quelli che vorrebbero abolire le leggi che hanno introdotto il divorzio e l'aborto e che sono disposti a tutto purché non vengano garantiti nuovi diritti alle persone omosessuali. Dobbiamo rassegnarci che c'è una parte del paese così, che ha paura della modernità; ci sono negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei; temo che in Italia siamo molti, sicuramente molti di più di quei pochi che hanno il coraggio di ammetterlo.
C'è poi la grande massa di italiani che vota per B. perché si comportano esattamente come lui o si comporterebbero come lui, se avessero la possibilità di farlo. Ne conosciamo tutti a decine: quelli che affittano in nero a stranieri delle case ormai in rovina, gli artigiani che fanno il minimo possibile di fatture, le coppie che fingono di abitare in case diverse per pagare meno tasse, i commercianti che fanno i furbi in occasione dei saldi, aumentando i prezzi per poi dimezzarli, i medici che accettano un regalo per accelerare una visita o un intervento, quelli che entrano in auto nelle zone ztl, perché fotunatamente hanno uno zio invalido, i padri che mandano le figlie dalle suore e la sera si "divertono" con i trans. Naturalmente questi non votano soltanto per il centrodestra, ma certamente, per la prima volta nell'offerta politica italiana, hanno trovato in B. chi esplicitamente dice che questi comportamenti sono non solo leciti, ma perfino lodevoli; hanno trovato in B. il loro modello ed è naturale che esprimano verso di lui una preferenza, il simile si riconosce.
Tra gli elettori di B. ci sono quelli che in questi vent'anni ci hanno guadagnato e la lista è piuttosto lunga e altrettanto nota: gli evasori fiscali condonati - soprattutto i grandi evasori - i palazzinari e quelli che si sono arricchiti con le speculazioni edilizie e i condoni, gli industriali che hanno guadagnato a scapito dei salari dei lavoratori e degli investimenti, i burocrati che hanno visto crescere il loro potere - al di là della retorica della semplificazione del federalismo; e naturalmente bisogna aggiungere tutti quelli che in qualche modo hanno beneficiato delle ricchezze di costoro. Come ho scritto in una "considerazione" del dicembre 2012 il problema vero non è che Fiorito è un ladro - anche perché in genere i ladri di polli si fanno beccare - ma che lo stesso Fiorito è stato per alcuni anni un fondamentale elemento del "welfare state" per le famiglie del Frusinate.
Infine ci sono quelli che questa volta con ancora maggior convinzione hanno votato per B.; si tratta per lo più di quegli stessi di cui ho parlato adesso. Questi sapevano benissimo che a questo giro B. non avrebbe potuto vincere, ma hanno scommesso sull'ingovernabilità, perché hanno visto quello che è successo in Grecia e sperano che presto succeda lo stesso anche in Italia. Hanno già portato i loro soldi all'estero e sono pronti a comprare non appena lo stato sarà costretto a svendere il patrimonio pubblico e le famiglie, strozzate dai debiti, dovranno vendere le loro case.
Ecco qui c'è un discrimine, un'altra delle fratture su cui dovrà essere reinterpretato e ricategorizzato il sistema politico, dopo le elezioni dello scorso fine settimana, che hanno stravolto - come ho scritto nella "considerazione" che precede questa - gli schemi della politica italiana. Lo dico ora per allora. Bersani e il Pd hanno avuto a disposizione il mio voto, possono anche utilizzarlo per fare un governo a termine con il Pdl o con un pezzo del Pdl. Devono sapere però che non lo stanno facendo in mio nome, ma contro la mia volontà. Io credo di avere il diritto di non voler avere nulla a che fare con le persone che ho descritto prima. Non c'è principio di responsabilità che tenga, non mi interessa se lo chiede l'Europa, Obama o la United Federation of Planets. Personalmente con questa Italia, che sopravviverà a B. - nonostante le speranze e le attese di molti - non voglio averci nulla a che fare, umanamente prima ancora che politicamente. Se il Pd commetterà questo errore, come qualcuno nel Pd immagina e come molti corifei del liberismo chiedono apertamente, io sarò certamente uno dei nuovi elettori del Movimento 5 stelle.
Questo per immaginare un futuro che speriamo di non dover vedere. Per l'oggi e per il domani, bisogna tornare alla politica e dovremo pensare a come convivere con Grillo e soprattutto con chi ha l'ha votato, ma questo sarà oggetto della prossima "considerazione".

martedì 26 febbraio 2013

Considerazioni libere (340): a prosposito del voto (ancora con troppo scoramento)...

Francamente è piuttosto difficile scrivere oggi qualcosa di lucido; lo scoramento prevale ancora. Però vale la pena di provarci. Naturalmente queste "considerazioni" - queste molto di più delle altre, comunque - non pretendono di essere esaustive. Immagino che su queste elezioni torneremo diverse volte. E molto presto. Da questa crisi, che è prima di tutto, politica, si deve uscire con la politica, altrimenti ci moriremo sotto (così, per aggiungere una nota di speranza).
Oggi non sappiamo se le elezioni di questo nevoso inverno del 2013 - davvero "the winter of our discontent" - avranno lo stesso impatto di quelle della primavera del 1994, ossia se quello che è successo è destinato a modificare nel profondo il sistema politico italiano. Certamente dai dati di ieri sera emerge che il bipolarismo è finito, sostituito - vedremo in futuro, appunto, se in maniera definitiva o solo temporaneamente - da uno schema che possiamo definire dei "tre terzi", visto che in questo modo si è articolato l'elettorato italiano. Il primo dato significativo è che la fine del bipolarismo non è venuta dall'emergere di un più o meno nuovo centro moderato cattolico, il cui peso elettorale - da Martinazzoli a Monti - è sempre stato ininfluente e così sempre sarà, anche perché questo centro moderato cattolico è ampiamente presidiato dal Pd o almeno da una parte rilevante di questo partito, in cui l'anima dossettiana continua a essere molto forte, probabilmente più di quanto lo sia l'eredità berlingueriana, nonostante quello che continuano a pensare in molti, che considerano acriticamente il Pd come l'ultimo anello della storia cominciata nel 1921 a Livorno.
Certo è interessante notare come anche in questo nuovo schema dei "tre terzi" emergano delle fratture che rimandano a uno schema bipolare, anche se non secondo la dicotomia classica destra/sinistra. Una nuova frattura passa attraverso la categoria "vecchio/nuovo": da un lato stanno Pd e Pdl e dall'altra il Movimento 5 stelle. Su questo permettetemi già una prima parentesi. L'aggettico "nuovo" in questo caso non è sinonimo di giovane, almeno nella sua accezione anagrafica; in altre parole credo sia un errore pensare che Renzi, benché oggettivamente più giovane di Bersani, avrebbe ottenuto un risultato diverso. Il problema è che nella vulgata mediatica - alimentata troppo spesso dagli stessi politici e pigramente ripetuta dai giornali - in Italia "vecchio" è sinonimo di politico tout court. Queste elezioni hanno segnato una sconfitta della politica responsabile, "professionale", di cui certamente Bersani è un rappresentante, anzi uno dei migliori rappresentanti possibili su piazza. Su Renzi immagino che dovrò tornare, perché vedo che molti pensano che questa sia la soluzione per il futuro; io naturalmente non la penso così. Avremmo perso allo stesso modo, forse soltanto un po' più dolorosamente. 
Non mi pare comunque che questo sia il tratto più interessante di questo inedito bipolarismo italiano. Il nuovo discrimine è tra chi sostiene la politica di rigore e chi questa politica la contrasta: da un lato c'è il Pd e dall'altro il Pdl e Grillo. Al di là delle differenze innegabili tra questi due partiti, c'è tra di loro, soprattutto tra una parte rilevante dei loro elettori, un tratto comune. La critica alla politica del rigore ha utilizzato gli argomenti più semplici, ha parlato alle pance - o meglio alle tasche - degli italiani. E' piuttosto facile sentir dire in un bar o al mercato che le cose costavano meno quando c'era la lira e per molte cose questo è anche vero: da qui a fare dell'uscita dall'euro una ipotesi di politica economica ce ne passa; è la scorciatoia dei populisti di ogni risma e di ogni paese. Allo stesso modo è facile unire a questa critica il lamento per le tasse troppe alte e - anche qui con una scorciatoia - alle tasse complessivamente intese, anche quando sono legittime ed eque. E allo stesso modo è altrettanto facile dare la colpa per la crisi a qualcun altro: agli stranieri che ci rubano il lavoro, ma che noi bravi italiani assumiamo rigorosamente in nero, o a quelli che ricevono un aiuto sempre più misero dal nostro malmesso sistema di welfare, un aiuto che noi naturalmente riteniamo ingiustificato e troppo costoso - e questo è stato un alibi per rendere queste protezioni sociali sempre meno universali. Negli stessi bar, negli stessi mercati in cui ci si lamenta dell'euro, critichiamo i furbi, che sotto sotto invidiamo, perché noi non lo siamo altrettanto; perché è ormai invalsa la consuetudine di criticare le protezioni sociali, salvo quando ad avvalenersene sono proprio i furbi italiani che usano qualunque escamotage possibile per ottenerli e per difenderli. I penultimi in genere se la prendono con gli ultimi, prima ancora che con quelli che sono i veri responsabili della loro situazione. E altrettanto naturalmente sono più facilmente influenzabili da chi urla, da chi promette che la situazione si può risolvere facilmente, senza troppi sforzi. Ieri sera Grillo, in un comprensibilmente euforico e preoccupantemente confuso messaggio della vittoria, ha detto che in fondo ci sono italiani a cui questa situazione va bene; certamente è vero, forse qualcuno ha votato anche per lui, perché comunque a una parte di questi l'ingovernabilità o la scarsa governabilità fa gioco.
I populisti poi hanno bisogno di un nemico e quale minor nemico dell'Europa "tedesca" della signora Merkel? In fondo Italia-Germania è la partita della leggenda. Che il candidato preferito della Merkel avrebbe perso era facilmente prevedibile e probabilmente non è stato un capolavoro tattico da parte del Pd adombrarsi quando Monti se è uscito con la frase che il governo tedesco non avrebbe voluto Bersani primo ministro. Il Pd ha perso sostanzialmente perché è stato troppo montiano - o troppo "tedesco", ditela come volete - e qui si ribadisce la tesi di prima: siete proprio convinti che un Pd renziano, con il programma scritto da Ichino e da altre "intelligenze" montiane, avrebbe fatto meglio?

domenica 24 febbraio 2013

Sandro Pertini ricorda Salvador Allende alla Camera il 26 settembre 1973

Presidente della Camera

Onorevoli colleghi, ricordiamo il capo di Stato Salvador Allende caduto per la libertà.
[...]
Era un socialista che aspirava al socialismo dal volto umano. Non volle mai ricorrere alla forza, perché pensava che non vi può essere socialismo senza libertà.
Vinse le elezioni presidenziali del 1970 e Presidente della Repubblica fu confermato dal Congresso.
Fedele ai principi che informarono tutta la sua vita e che mai volle rinnegare si trovò contro anche i suoi amici, rappresentanti della media borghesia, pronti a scendere a compromessi, e i militanti di movimenti di estrema sinistra, che organizzarono la guerriglia.
Nel suo discorso di insediamento alla Presidenza della repubblica, dinanzi al Congresso, disse: «Vogliamo sostituire il regime capitalista. Sappiamo che ciò non è stato possibile fino ad ora democraticamente. Ma adesso ci proveremo».
Salvador Allende nazionalizza le miniere di rame. Le compagnie minerarie statunitensi pagavano il rame al Cile meno della metà di quanto lo vendevano sul mercato mondiale.
Realizza una radicale riforma agraria.
Ridistribuisce il reddito nazionale per elevare le condizioni di vita dei ceti più poveri.
Costruisce case per i baraccati. Solleva dalla nera miseria un vasto strato della popolazione.
Tutto fa con il consenso del Congresso.
Dicevano le donne del popolo: «Oggi possiamo dar da mangiare ai nostri figli. Prima, quando il Cile era "il paese dell'abbondanza" e i negozi del centro erano pieni, dovevamo ingannare la fame dei nostri figli con la segatura di osso, quella poltiglia che si suole formare ai lati della segatrice a nastro che usano i macellai».
Errori sono stati commessi? Ma quando si devono spezzare incrostazioni create in lunghi anni dallo sfruttamento e dall'egoismo di caste privilegiate e di società straniere, non è opera facile ed errori non solo possibili, ma anche inevitabili.
Ma un errore Salvador Allende non ha mai commesso; egli non ha mai tradito la democrazia e la classe lavoratrice del suo paese.
Non errori resero vana l'opera d'Allende, bensì l'ostilità accanita delle società statunitensi e della borghesia agraria, che diffondendo il panico tra la popolazione organizzarono una sistematica opera di sabotaggio.
Allende cercò di dominare la tempesta, restando nella legalità, rispettando le libertà democratiche, non perseguitando alcuno dei suoi nemici.
Il sabotaggio organizzato riuscì a mettergli contro anche la media borghesia, alla quale aveva garantito la libertà delle piccole e medie industrie, quella media borghesia che da anni protestava, perché era oppressa dalle società straniere.
Ma il sabotaggio organizzato lo stava prendendo alla gola. La strada socialista nella legalità gli veniva sbarrata.
L'esasperazione si manifestò negli altri strati della popolazione quando si diffuse la notizia che 20 milioni di dollari venivano impiegati per combattere Allende; che gli agenti stranieri negli ultimi anni erano triplicati e che il Fondo monetario si era rifiutato di aiutare il Cile.
Lo sdegno si diffuse quando si seppe che pressioni venivano esercitate sull'esercito - tradizionalmente leale verso il Parlamento - perché non accettasse il comando di generali fedeli ad Allende. Un generale, suo fedele amico, Schneider, fu assassinato da elementi di destra.
Il 24 agosto il generale Prats, amico di Allende, è costretto da altri generali ad abbandonare la carica di capo di stato maggiore.
Si arriva così al "colpo di Stato", opera di generali che rinnegando il giuramento di fedeltà alla Repubblica e spinti a consumare la loro azione criminosa da forze esterne, di cui sposano gli egoismi, non esitano a schierarsi contro gli istituti democratici e contro gli interessi della loro patria.
Affermano di voler ristabilire l'ordine!
Ma quando si calpesta la libertà si stabilisce solo l'ordine delle galere e dei cimiteri.
Salvador Allende non vuole trattare con i traditori, preferendo rifiutare la vita per amore della libertà. Invita i suoi amici, che vogliono restare al suo fianco, a lasciarlo solo: «Adesso devo rimanere solo. Non posso fare altrimenti».
Ed è assassinato da ufficiali, che, cessati di essere soldati di onore, si tramutano in criminali.
Egli negli ultimi istanti, solo tra le rovine del palazzo de la Moneda, ebbe certamente dinanzi alla sua mente chiaro questo: che il sacrificio della sua vita era necessario non solo per restare fedele ai suoi principi, ma anche perché dal suo sacrificio il popolo lavoratore cileno traesse la volontà e la forza morale di lottare per riconquistare la propria libertà.
Cade Salvador Allende al suo posto di lotta, la libertà si spegne nel Cile e si spegne anche la voce del grande poeta Pablo Neruda, il poeta "della dignità umana violata". Questa voce, che aveva denunciato al mondo intero la miseria del suo popolo sfruttato, ora tace per sempre.
L'ultima sua poesia fu un atto di accusa contro i generali spergiuri. La sua casa è stata distrutta, i suoi libri bruciati.
Così su quello sventurato paese oggi domina la dittatura che noi abbiamo conosciuto per lunghi anni.
Il Parlamento è stato chiuso; soppressa la libertà di stampa; messi fuori legge i partiti di sinistra e l'organizzazione sindacale democratica.
Si dà una spietata caccia all'uomo, si eseguono deportazioni e fucilazioni sommarie; nello stadio di Santiago, trasformato in un lager, migliaia di detenuti politici sono ammassati come bestie in un mattatoio.
I generali "golpisti" strappano la Costituzione voluta dal popolo per sostituirla con una fatta su loro misura, che imporranno con la forza.
Sì, sono gli uomini e i partiti di sinistra ad essere oggi colpiti. Ma nessuno si illuda.
In Italia i primi a cadere sotto il pugnale fascista furono socialisti: Piccinini, Di Vagno, Matteotti, Console, Pilati. Ma la tirannide non si placò e furono poi uccisi i liberali Piero Gobetti e Giovanni Amendola e il sacerdote don Minzoni.
La dittatura non risparmia coloro che non intendono rinnegare la libertà.
Dai tragici fatti del Cile dobbiamo, dunque, trarre ammonimenti per noi.
Quanto è accaduto nel Cile - ripeto quello che è stato da altri scritto con tanta chiarezza - è un monito per ogni coscienza umana sui pericoli che possono derivare alla democrazia quando al civile contrasto e alle solidali intese subentrano rotture e viene meno la vigilanza sulle libertà democratiche.
Sicuro, dobbiamo vigilare sulla libertà che non è mai una conquista definitiva, ma che deve essere difesa giorno per giorno e le forze antifasciste, al di sopra di ogni differenziazione ideologica, debbono restare unite di fronte a un pericolo fascista.
Nel Cile è accaduto quello che è accaduto in Italia quando il fascismo prevalse soprattutto per i contrasti e le discordie tra i partiti democratici.
Ci viene il monito di allargare la base del consenso e delle alleanze sociali, l'alleanza soprattutto tra operai, contadini e ceti medi.
Ci viene l'insegnamento che non v'è nulla che possa essere barattato con la libertà.
Salvador Allende non volle cedere, perché non volle degradare in compromessi la sua dignità e perché voleva restare se stesso.
Come Giacomo Matteotti, andò consapevolmente incontro al suo tragico destino. Egli, come Matteotti, ha gettato tra la libertà e la dittatura il suo corpo - ridotto ormai a una macchia di sangue dalla selvaggia aggressione - perché esso fosse il primo spalto della lotta dei cileni contro la dittatura.
È destino dei popoli che il loro cammino verso la libertà e la giustizia sociale sia segnato dal sangue di suoi martiri, forse perché questo cammino non sia smarrito.
Noi non lo smarrimmo mai in vent'anni di lotta.
Nel nome dei nostri martiri ci siamo battuti senza mai disperare e il nome dei nostri martiri divenne per noi una bandiera. Il loro esempio ci fu di incitamento nella lunga lotta.
Chi muore per una causa giusta, vive sempre nel cuore di chi per questa causa si batte.
Salvador Allende, morto, è più vivo che mai nel cuore del popolo lavoratore cileno.
Nel suo nome i cileni antifascisti hanno già iniziato la loro lotta contro la dittatura.
Sarà una lotta dura, difficile, ma dalla notte che oggi incombe sul Cile risorgerà, ne siamo certi, l'alba della libertà.
Accompagni le forze democratiche cilene nella loro lotta la nostra solidarietà di antifascisti e di uomini liberi.

sabato 23 febbraio 2013

Considerazioni libere (339): a proposito della storia di due donne...

Non so quali siano state le reazioni alla notizia della tragica morte di Reeva Steenkamp negli Stati Uniti e negli altri paesi europei, anche se credo che non siano state molto differenti da quelle registrate qui in Italia. Si parla dell'uccisione di questa giovane modella sudafricana soprattutto perché è stata uccisa da una persona famosa, un "eroe" dello sport, un uomo che è riuscito a vincere molte sfide e che, per buone e motivate ragioni, fino allo scorso 14 febbraio, poteva essere considerato un modello per i giovani di tutto il mondo. Se il fidanzato di Reeva fosse stato uno sconosciuto, lei sarebbe stata soltanto una delle 15.609 donne uccise nell'ultimo anno in Sudafrica. Certo la più nota, forse una delle più belle, e questo avrebbe garantito alla notizia una qualche prima pagina, quanto meno per soddisfare la morbosità del pubblico - maschile - dei tabloid.
Invece la morte di Reeva è capitata il giorno di san Valentino e per di più nella giornata scelta da milioni di donne di tutto il mondo per manifestare, ballando, la voglia di essere libere dalla paura della violenza degli uomini, quasi sempre dei loro compagni. Questa coincidenza ha provocato un primo moto di sdegno, durato però soltanto poche ore. Nei giorni successivi Reeva è progressivamente ridiventata un personaggio secondario di quella terribile vicenda, mentre Pistorius ne è rimasto il solo protagonista. Inoltre con il passare dei giorni si sono cominciate a far strada nell'opinione pubblica alcune tesi che in qualche modo rendono meno difficile la posizione del fidanzato omicida. E' stato scritto che forse Pistorius ha compiuto quel gesto insensato sotto l'effetto di steroidi: quindi non sarebbe stato del tutto lucido. Francamente questa non mi pare un'attenuante; anzi un'aggravante. Oscar Pistorius è - o, a questo punto, era - un campione sportivo, per uno come lui l'uso sregolato di steroidi è ancora più grave che per qualsiasi altro. La seconda attenuante emersa in questi ultimi giorni è ancora più subdola: Pistorius avrebbe agito spinto dalla gelosia, perché Reeva si sarebbe innamorata di un altro concorrente del reality a cui stava partecipando prima di morire. In questo argomento c'è sotto traccia un messaggio che sposta la colpa dal maschio alla donna: Reeva paga la colpa di essere una donna bellissima, una donna che in fondo tutti gli uomini del Sudafrica - e non solo - hanno visto in lingerie nelle pubblicità. E' una donna della moda, dello spettacolo e quindi per un comune pregiudizio una donna "facile". La bellezza, che è stata un'innegabile fortuna per quella ragazza finché è stata viva, rischia di essere una colpa, ora che è morta. C'è poi un elemento che ha un peso nella società sudafricana: il presunto rivale di Pistorius sarebbe un uomo di colore e quindi è naturale che, seppur inconfessabilmente, l'atleta trovi la solidarietà dei bianchi del suo paese. Sotto sotto Pistorius rimane per molti il campione "buono", tanto che c'è stata soddisfazione quando gli sono stati concessi gli arresti domiciliari, anche in forza del suo handicap.
La storia di Reeva e di Oscar non è però soltanto una vicenda privata, un fatto di cronaca isolato. Il 2 febbraio era morta vicino a Città del Capo, una ragazza nera di solo 17 anni, Anene Booysen, stuprata e uccisa da una banda di cui faceva parte anche il suo ex-fidanzato. Ho già ricordato il numero delle donne uccise, mentre gli stupri nell'ultimo anno in Sudafrica sono stati 64.500. Negli ultimi vent'anni il tasso di omicidi "normali" è sceso in Sudafrica del 50%, ma quello degli stupri e delle violenza sessuali è rimasto invariato. Non è cambiata la situazione con la fine dell'apartheid: che siano bianchi o neri, i maschi abusano delle loro donne. Il 40% degli uomini sudafricani ha picchiato la propria compagna e un uomo su quattro ha stuprato una donna. Chiaramente il problema in quel paese - e non solo lì - sono i maschi. Ho preso questi dati da un articolo di The Observer, tradotto e pubblicato nell'ultimo numero di Internazionale. L'articolo analizza anche le caratteristiche peculiari di quel paese che hanno portato a questi spaventosi livelli di violenza:

[...] una cultura in cui vige la legge del più forte, profonde disuguaglianze economiche che fanno sentire gli uomini più deboli, disparità di rapporti tra i sessi, lacune nell'educazizone dei figli - in particolare dei maschi, abbandonati a loro stessi - e un alto tasso di disoccupazione maschile.
Certamente c'è anche una specificità di quel paese, che ha vissuto in maniera molto veloce un passaggio epocale - per molti versi positivo e da tutti auspicato - ma che non poteva non lasciare conseguenze psicologiche profonde in quel popolo. Ma mi preoccupa molto che le cause citate siano ormai elementi profondi della nostra società, che sconta sempre più una crisi, economica e sociale. E di questa crisi, ancora una volta, corrono il rischio di pagare il prezzo più alto le donne. L'articolo cita anche il caso di un importante politico di quel paese accusato di maltrattamenti verso la ex-moglie; queste accuse non stanno però mettendo a rischio la sua carriera politica. Anche questa è una pericolosa - e preoccupante - analogia con la situazione italiana.
Anene e Reeva sono due donne molto diverse, una è nera e una è bianca, una è povera e una è ricca - di una c'è soltanto la foto del documento d'identità, mentre dell'altra ci sono centinaia di foto - eppure le loro storie sono diventate drammaticamente simili; le loro storie raccontano molto di quello che sta diventando anche la nostra società. Quando pensiamo al modo di uscire dalla crisi credo dovremmo partire anche da qui, dalla necessità di questo cambio di prospettiva. 

"Nave in bottiglia" di Kay Ryan

Sembra
impossibile -
non solo una
nave in una
bottiglia, ma
vento e mare.
La nave prende
a lottare -
un'urgenza di
troppa pienezza si
vede. Possiamo
estrarla, ma
non senza
rovesciarne il mondo.
Un colpetto
e sono liberi.
Quale morte
incontrerete,
piccoli marinai?

mercoledì 20 febbraio 2013

Umberto Terracini interviene davanti al Tribunale speciale fascista il 4 giugno 1928

Terracini
Quale fosse stata la nostra posizione nell'organizzazione del partito ciascuno di noi ha detto nella propria deposizione. Né le nostre parole sono state minimamente modificate dalle varie testimonianze di polizia comodamente trincerate dietro il principio di irresponsabilità, altrimenti detto "segreto d'ufficio", e secondo le quali noi tutti, senza eccezioni, saremmo stati capi del partito. E d'altronde, se anche ciò fosse vero?

Presidente
Bene, bene, ne prendo atto.

Terracini
Ottimamente, signor Presidente, ma prenda atto anche di quanto dirò ora. Mi ricordo che posso fregiarmi del titolo di avvocato e voglio fare sfoggio di giurisprudenza. Oh, non della vecchia giurisprudenza delle vecchie sentenze emanate sotto i vecchi regimi, ma della giurisprudenza nuovissima, quale balza dai giudicati di tribunali già ispirati ai nuovi principi di etica e di politica. Ecco: vi è una sentenza emanata, or non è molto, da un tribunale posto assai più in alto di questo...

Presidente
Come? Come?

Terracini
... da un tribunale che, a differenza di questo, è un tribunale costituzionale...

Presidente
Badate a ciò che dite.

Terracini
Signor Presidente, ella non può che essere d'accordo con me, poiché parlo del Senato costituito in Alta Corte di Giustizia, cioè della magistratura somma fra tutte e la cui esistenza e funzionamento sono previsti e stabiliti dalla stessa Costituzione dello Stato. Orbene, in codesta sentenza, che il Governo volle fosse larghissimamente diffusa a conoscenza e ad ammonimento di tutti i cittadini, è detto che nessun capo o dirigente di partito o di altra organizzazione può essere tenuto penalmente responsabile di atti commessi da soci o da seguaci dei partiti o delle organizzazioni in questione, quando non ne possa venire provata concretamente la reità. Il tribunale ha certamente compreso: mi riferisco alla sentenza della Commisisone istruttoria presso l'Alta Corte di Giustizia nel procedimento contro il generale Luigi De Bono, accusato di complicità nell'omicidio dell'onorevole Matteotti ed assolto per insufficienza di prove. Ora io chiedo: è valida per noi questa giurisprudenza? Il Pubblico Accusatore nella requisitoria ha implicitamente sostenuto di no. E, in quanto a me, io non ho alcun dubbio su quello che sarà il responso del tribunale. Eppure anche dinanzi a queste previsioni, previsioni di accettazione integrale delle richieste del Pubblico Accusatore, previsioni di massimo di pena, io non posso celare un certo qual intimo compiacimento. Né vi è da stupirsene. Infatti, se prendiamo codeste conclusioni, che furono sino adesso formulate soltanto in linguaggio giuridico, e le traduciamo in linguaggio politico, qual è il significato che ne balza?

Presidente
Lasciate stare la politica ed attenetevi alla materia della causa.

Terracini
Signor Presidente, io chiedo di poter almeno, sul finire di questo processo, che trova la sua origine e la sua ragione d'essere esclusivamente in cause e necessità di ordine politico, io chiedo di potere, sia pure un solo momento, fare quello che per sei giorni ci è stato proibito: parlare politicamente. Io dicevo: quale è il significato politico delle conclusioni del Pubblico Accusatore? Nient'altro che questo: che il fatto puro e semplice della esistenza del Partito comunista è sufficiente, di per se stesso, a porre in pericolo grave e imminente il regime. Oh, eccolo dunque lo Stato forte, lo Stato difeso, lo Stato totalitario, lo Stato armatissimo! Esso si sente minacciato nella sua solidità; di più, nella sua sicurezza, solo perché di fronte a lui si leva questo piccolo partito, disprezzato, colpito e perseguitato, che ha visto i migliori fra i suoi militanti uccisi o imprigionati, obbligato a sprofondarsi nel segreto per salvare i suoi legami con la massa lavoratrice per la quale e con la quale vive e lotta. Vi è meravigliarsi se io dichiaro di fare mie, integralmente, queste conclusioni del Pubblico Accusatore?

Presidente
Adesso basta su questo argomento. Avete altro da dire?

Terracini
Avrei finito se non mi sentissi impegnato a seguire il Pubblico Accusatore sul terreno delle previsioni. Non di quelle sentimentali, però, sulle quali egli si è soffermato, nelle quali mi è troppo facile avere contro di lui la vittoria. Non la gioia e il plauso accoglieranno la nostra condanna, ma la tristezzza e il dolore, io ne sono certo. Ma è una previsione politica, ancora una volta signor Presidente, quella che io faccio: noi saremo condannati perché riconosciuti colpevoli di eccitamento all'odio fra le classi sociali e di atti incitanti alla guerra civile. Ebbene, non vi sarà alcuno, domani, che leggendo l'elenco pauroso delle nostre condanne non si convinca che questo processo e il verdetto che sta per concluderlo siano essi stessi un episodio di guerra civile, un possente eccitamento all'odio fra le classi sociali.
(Il Presidente lo interrompe)
Ma ciò non può dirsi, nevvero? Allora io voglio concludere con un pensiero più gaio. Signor Presidente, signori giudici, questo dibattimento è stato davvero la più caratteristica e degna commemorazione dell'ottantesimo anniversario dello Statuto, che voi ieri fra salve di cannoni e squilli di fanfare avete solennizzato per le vie di questa capitale.
(Il Presidente interrompe definitivamente l'imputato)

Umberto Terracini viene condannato a 22 anni, 9 mesi e 5 giorni; Antonio Gramsci, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda, vengono condannati a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni.

martedì 19 febbraio 2013

"tutto sommato (scrisse)..." di Edoardo Sanguineti


tutto sommato (scrisse), l'esistente, in generale (siamo nel '26:
siamo nel mese di aprile), è una modesta imperfezione:
                                                                                          (modesta,
certo, a paragone dell'immenso non esistente, del puro e semplice
niente): è un'irregolarità, una mostruosità:
                                                                     la voce mia, così, la mia
scrittura, orribilmente deturpano, lo so (per poco, ancora), la suprema
armonia dell'agrafia, dell'afasia:
                                                     (già rinuncio, dislessico, a rileggermi):

lunedì 18 febbraio 2013

da "La malora" di Beppe Fenoglio

Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole. Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore. Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa, chi il macello gentile, chi un bel pezzo di terra propria. L’abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a piedi da poveretto. Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica, coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura di far debiti, allora. Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come prima, anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre più poca polenta e quasi più niente robiola. E a Natale non vedemmo più i fichi secchi e tanto meno i mandarini. Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo della conca. E quando seppe che a Niella ne pagavano l’arbarella un soldo di più che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù. Dimodoché diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse, come se a ogni momento fosse appena arrivata dall’aver fatto di corsa l’erta da Belbo a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce: una volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il latte e si diceva: Avessi adesso quella figlia! – Diceva di nostra sorella, nata dopo Stefano e morta prima che nascessi io, d’un male nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio, e a Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un’altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra. Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m’aspettassi di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra. Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino. Io ci andai una volta sola, una sera che Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero m’accesero il lume, ma la vecchia mi disse: Va’, e di’ ai tuoi che un’altra volta veniamo noi da voi col lume spento, e lo zolfino dovrete mettercelo voi. Nostro padre vendette mezza la riva da legna e anche quel prato che avevamo lungo Belbo, ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro, andò quasi tutto a pagare le taglie e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il credito alla censa. È allora che i nostri s’indebitarono con la vecchia maestra Fresia di quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio. Per chiedere la grazia di poter tirar su testa, un anno nostra madre andò pellegrina al santuario della Madonna del Deserto, che è lontano da noi, sopra un monte dietro il quale si può dire che c’è subito il mare. Mi ricordo come adesso. Era un po’ che noi, alzata la schiena, guardavamo la processione delle donne sulla strada di Mombarcaro, quando esce di casa nostra madre, vestita da chiesa, e con un fagottino di roba mangiativa. Nostro padre le uscì appresso e le gridava: Vecchia bagascia, non mi vai mica via con quello stroppo di pelandracce? Lei si voltò, ma senza fermarsi e solo per guardarlo negli occhi. E lui sempre dietro, con un principio di corsa come per assicurarsi d’acchiapparla. E nel mentre le diceva: Mi torni indietro fra chissà quanti giorni con tutti i piedi gonfi e tutto il corpo stracco che per una settimana non mi puoi più servire . Allora lei si fermò e gli disse: Lasciami andare, Braida. Sono sette anni che non esco da questa casa. Lasciami andare, che è per la mia anima. L’anima vola! le gridò lui in faccia, ma poi le disse: Donna con del buon tempo. Hai almeno lasciato preparato? Poté partire, e dopo un po’ la vedemmo mischiarsi alla processione. Aveva un buon passo e presto fu tra le prime, e non solo dal passo si vedeva che aveva buona intenzione, ma anche perché non si voltava e non cercava compagne, mentre tutte le altre andavano come per divertimento. Tornò di notte, dopo quattro giorni, e la mattina si levò alla sua ora di sempre e fece il suo lavoro di tutti i giorni. Ma non giovò, Dio non fu mai con noi. Poi il re chiamò Stefano a soldato, andò alla leva e tirò un numero basso. Nostro padre bestemmiò, nostra madre pianse, ma Stefano lui era contento: lo sentii quella sera, che io ero in pastura vicino a dove lui tutto nudo si lavava in Belbo, gridare d’allegria, ma dei gridi selvaggi che misero paura a me e alle pecore. Basta, stette a casa ancora due mesi, se ne andava al sabato coi suoi soci coscritti a fare il giro delle osterie della nostra langa e tornava solo nella notte del lunedì, ubriaco che dovevamo sbatterlo nella stalla. E poi partì, una notte che noialtri due non fummo neanche svegliati. Ci scriveva, e leggevamo che era in artiglieria e a Oneglia. Di questa città io non sapevo altro che era in riva al mare, avrei aspettato che venisse in licenza per domandargli qualche cosa sul mare. Ma Stefano in licenza non veniva, mandò solo una sua fotografia, per vederla bisognava entrare nella stanza dei vecchi, era là appesa a un cordino in mezzo ai rametti d’ulivo e alle candele benedette. Una volta ci scrisse che lui non era di quei soldati che sudano a far l’istruzione e le marce, lui più furbo s’era messo da attendente a un ufficiale e stava benone. Allora i nostri fecero prender la penna in mano a Emilio e scrivere a Stefano che ci mandasse la deca se stava tanto bene. Da quella lettera non ci scrisse più, da lui non vedemmo un centesimo e in licenza non ci venne mai. Noi a casa non ce la facevamo a scalare uno scudo dal debito con la maestra. Lo congedarono dopo ventun mesi, s’era fatto più massiccio e più superbo, gli ci volle un mese buono per riabituarsi al lavoro e ripigliarlo, adesso andava tutte le sere all’osteria e tante notti rientrava ubriaco del vino che gli offrivano in paga del suo raccontare. Con noialtri suoi fratelli sembrava che crepasse a parlare un po’ del mare e di quei posti che aveva visto, ma all’osteria il mazzo ce l’aveva sempre lui e parlava solo sempre di donne forestiere che faceva schifo. S’era rimesso a lavorare con me dietro le bestie che dei Emilio conduceva, ma io che avevo i bracci metà suoi rendevo il doppio di lui sul lavoro, lui alzava la schiena ogni cinque minuti e guardava sovente al passo della Bossola. Tornato Stefano in famiglia, venne l’ora d’Emilio di partire: andò a studiare da prete nel seminario di Alba. Avevamo potuto scalare sì e no due scudi dal debito con la maestra, e lei trovandosi con un piede nella tomba e senza nessuna necessità di riavere le sue cento lire, c’era venuta una sera in casa a dire ai nostri che ci rimetteva il debito se le mandavamo il nostro Emilio a farsi prete. Non solo ci rimetteva il debito, ma ci passava uno scudo al mese per il suo mantenimento in seminario e qualche altra lira l’avrebbe fatta sborsare al parroco. Emilio non disse niente, come niente dissi io davanti a Tobia Rabino che diventava mio padrone, i vecchi dissero di sì abbastanza in fretta. Il motivo può anche aver offeso nostro Signore, ma però mio fratello Emilio a fare il prete andava bene, prima di tutto perché Emilio era buono, e quello che in chiesa ci stava di più e meglio, e poi a scuola era il primo di tutto San Benedetto, e i miei, quando avevano qualche cosa da chiedere al cielo, era lui che facevano pregare, perché era il più innocente. E poi era di poche forze, cosa poteva fare senza penare era solo stare davanti alle bestie. Partì per il seminario un sabato mattina, sul biroccio di Canonica che andava a fare il mercato ad Alba. Lo baciammo tutti sulle guance, prima che montasse. Nostra madre piangeva, nostro padre le dava dei nomi perché piangeva e le disse: O stupida, quando io ti mancherò, cosa ti sogni di meglio che andare a star con lui dove sarà parroco e fargli da perpetua? C’era Stefano, io che non mi capacitavo che tra cinque minuti sarei stato sulla terra senza più Emilio vicino, c’era la maestra Fresia che parlava italiano con Emilio. Il parroco non c’era, ma Emilio era stato in canonica la vigilia a sentire come doveva comportarsi in seminario i primi tempi. Canonica non si fidava a dare al cavallo perché sentiva i pianti di nostra madre, le venne vicino la maestra e le disse: Melina, ma pensate alla consolazione di quando dirà la sua prima messa. E voi sarete la prima a ricevere la sua ostia . Poi nostro padre fece un segno a Canonica e partirono. Non ci avrei creduto chi m’avesse detto che l’avrei rivisto prima che fosse passato l’anno, e proprio in Alba, dove sarei andato col mio padrone Tobia. A me toccò che andavo per i diciassette anni e a dispetto della carestia di casa nostra pesavo sette miria, ero tanto grosso d’ossa. Quando mi misi a dormire quella notte, sapevo che l’indomani nostro padre sarebbe andato al mercato di Niella, ma da solo, sicché mi diede uno scrollone la sua voce nello scuro della prima mattina: Agostino, levati e vestiti da chiesa . Non dirò sicuramente che fu un presentimento: tutto capitò come se io fossi un agnello in tempo di Pasqua. Andare ai mercati mi piaceva, ed è a un mercato che ho avuto la mia condanna. Non successe subito, potei girare ben bene il mercato di Niella e m’incrociai più d’una volta con l’uomo della bassa langa che un’ora dopo m’avrebbe tastato le braccia e misurato a spanne la schiena e contrattato poi con mio padre il mio valore. Disse Tobia Rabino: Vi do per lui sette marenghi l’anno. E mio padre: Me lo pagate un marengo per miria che pesa. Io pensavo solamente, in mezzo a tutte quelle parole, che mia madre a casa lo sapeva ed era come se fosse li con noi sul mercato di Niella. Mi sembrava che mio padre e Tobia giocassero a gridare, e la voce più forte quella di mio padre. Si toccarono la mano e Tobia disse ancora: Se mi contenta, gli regalerò un paio di calzoni per ogni Natale che passa a casa mia. Ma non fateci subito calcolo, non lo metto nei patti. E fatelo lavorare! gli gridò mio padre, ma la sua non era crudeltà verso di me, ma solo una sfida a quell’uomo della bassa langa a spezzare col lavoro la razza dei Braida. Partii per il Pavaglione una settimana dopo, a piedi, per la strada insegnatami da Tobia. Mi sentivo nelle vene sangue d’altri che avevano già servito.

domenica 17 febbraio 2013

Considerazioni libere (338): a proposito di una cosa impensabile...

Affronto il tema con una certa cautela, perché - come sanno i miei consueti lettori - sono ateo e penso che, se, come laici, pretendiamo giustamente che le religioni non influeinzino le decisioni politiche e le basi costituzionali della nostra comunità, allo stesso modo sia sbagliato che proprio noi che non crediamo ci mettiamo a discettare su questioni teologiche e dottrinali. Il rispetto verso chi sinceramente crede passa anche attraverso questa sospensione di giudizio. Eppure l'abdicazione di Benedetto XVI è stato un evento così fragoroso che è praticamente impossibile da eludere e interroga anche noi che non siamo cattolici.
In generale non mi piace scrivere una "considerazione" subito dopo che è successo qualcosa, cerco di evitare le reazioni immediate, a caldo, e trovo più opportuno aspettare qualche giorno, per poterci riflettere meglio. Devo dire che in questo particolarissimo caso la prima impressione che ho avuto lunedì mattina, appena ho saputo la notizia, è quella stessa che ho ancora in questi giorni. Le dimissioni del papa, pur giuridicamente e canonicamente previste, erano impensabili fino a lunedì mattina. La scelta di Giovanni Paolo II di non lasciare il pontificato, pur essendoci evidenti ragioni, che avrebbero reso questa decisione comprensibile, ragionevole e forse anche auspicabile, aveva indubbiamente ribadito un elemento per così dire intrinseco a quel ministero: si smette di fare il papa solo quando si muore. Così era sempre stato e pareva che così sarebbe sempre stato. Per inciso anche l'unico precedente storico di dimissioni papali, quelle date da Celestino V, furono vissute come una ferita, tanto da far meritare la condanna da parte di Dante ai due protagonisti della vicenda, il papa dimissionario e quello che quelle dimissioni provocò, salendo a sua volta al soglio di Pietro. Naturalmente solo l'insipienza dei giornalisti italiani - quelli attuali naturalmente, non i gazzettieri del Trecento - poteva ricollegare questi due episodi, dedicando particolareggiati articoli al povero Pietro da Morrone. Ecco se Dante scrivesse oggi la Commedia dovrebbe dedicare un intero girone solo ai giornalisti pigri, che si limitano a ripetere quello che viene scritto e detto dagli altri. Dalle dimissioni di Celestino V a oggi sono passati - non invano - solo 719 anni e un paragone tra i due episodi mi pare alquanto azzardato.
Al di là di questi anacronistici precedenti storici, da lunedì le dimissioni del papa sono non solo teoricamente possibili, ma anche storicamente e concretamente pensabili. E quando una cosa impensabile smette di essere tale significa che anche altre cose impensabili possono diventare possibili. Mi è venuto in mente quello che è successo in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale. Per secoli quel popolo aveva considerato il proprio imperatore come un dio. Immagino che effetto ebbe per chi credeva alla discendenza divina del mikado sentire per radio la "dichiarazione della natura umana dell'imperatore", fatta dallo sconfitto Hirohito, costretto a ciò dal vincitore MacArthur. Da quel giorno qualcosa è irrimediabilmente cambiato nella storia del Giappone; credo in meglio. Io credo che le dimissioni di Benedetto XVI siano destinate a cambiare in maniera profonda la chiesa cattolica. In questi giorni ho letto - come voi immagino - molte interpretazioni della decisione di Joseph Ratzinger, alcune francamente fantasiose, altre più plausibili. Naturalmente si sono scatenati i "retroscenisti" in servizio permanente ed effettivo; anche per costoro servirebbe un apposito girone infernale. Sinceramente credo che l'indagine delle cause, delle motivazioni che hanno spinto il papa a prendere questa decisione, a questo punto sia piuttosto inutile. Adesso la cosa più interessante e utile è provare a studiarne le conseguenze. Io credo che sarebbe sottovalutare gravemente l'intelligenza di Ratzinger pensare che non si sia reso conto di fare un gesto impensabile, dalle conseguenze imprevedibili. Che l'abbia fatto perché si considera sconfitto o perché voglia dare una scossa al corpo della chiesa lo sa lui e su questo dobbiamo rispettarlo.
Penso anche che noi non credenti, noi atei, potremo fare qualcosa di utile per accompagnare questo percorso, che in qualche modo coinvolge anche noi, dal momento che la religione cattolica è un elemento fondante - non il solo, naturalmente, ma certo uno di quelli importanti - della nostra cultura. Forse non faremo un gran servizio a questo cambiamento se cominceremo da subito a criticare il nuovo papa. Siamo realisti: non è che tra un anno l'omosessualità non sarà più considerata un peccato e le donne potranno diventare sacerdoti. Se ci aspettiamo questo possiamo anche cominciare a pensare ad altro. Se misureremo la velocità del cambiamento soltanto con il nostro metro di giudizio - che peraltro non è detto che sia quello giusto - non solo non riusciremo a capire quello che davvero si muove all'interno della chiesa - che non è un monolite, ma una struttura molto complessa, fatta di elementi molti diversi tra di loro - ma forse rischieremo perfino di danneggiare i progressi, perché le forze che inevitabilmente tenderanno a chiudersi nella difesa del vecchio, vedranno in queste ingerenze secolari un motivo in più per osteggiare le novità in cammino. Proviamo allora a guardare a quello che succede nella chiesa con occhi non velati dalla polemica. Tra l'altro questo cambiamento si svolgerà a livello mondiale, globale, e probabilmente la nostra visione "illuminista" europea non è neppure la più adatta a percepire cambiamenti che si svolgeranno secondo categorie non rigorosamente figlie della nostra cultura. Qualcosa del genere sta succedendo, pur mutando gli ambiti e i temi, nella nostra sostanziale incapacità di capire in che modo si sta evolvendo il mondo arabo, tra la spinta delle "primavere" e la reazione di un sentimento religioso che vede i pericoli nel "progresso" occidentale. L'ho scritto tempo fa per commentare una tragica vicenda; io naturalmente condanno il padre musulmano che è arrivato a uccidere la figlia perché voleva essere "occidentale", ma non posso neppure difendere il "modello occidentale", che valuta la donna soltanto per il suo aspetto esteriore e per quanto sia capace di mostrarsi "disponibile" verso gli uomini, che possono decidere la sua carriera e la sua affermazione professionale. Naturalmente penso che una chiesa diversa, meno europea, meno conservatrice, meno ossessivamente concentrata sui temi della morale sessuale, finalmente aperta al protagonismo delle donne sarebbe una ricchezza per tutti, per chi crede come per chi non crede. Deve essere però una chiesa che ci aiuta a cambiare dalla fondamenta una società che non ci piace, che sta crescendo senza valori, senza un'etica. I temi su cui incontrarci sono molti, dal riconoscimento della dignità della donna al rispetto per altri, dalla critica a uno sviluppo basato dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo alla difesa della natura come risorsa per il nostro futuro. Mi pare che questa chiesa, la chiesa che Joseph Ratzinger lascerà il prossimo 28 febbraio, non sia in grado di contribuere in maniera efficace a questo cambiamento delle coscienze, anzi temo che la sua rigidità e il suo conservatorismo su troppi temi sia un alibi per chi non vuole cambiare. Per questo voglio avere qualche speranza nella chiesa che ci sarà.

da "La cena delle ceneri" di Giordano Bruno

Prudenzio
Sii come la si vuole, io non voglio discostarmi dal parer de gli antichi, perché, dice il saggio, nell'antiquità è la sapienza.

Teofilo
E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel che appartiene in certi giudizii, come in proposito. Non ha possuto essere sì maturo il giodicio d'Eudosso, che visse poco dopo la rinascente astronomia, se pur in esso non rinacque come quello di Calippo, che visse trent'anni dopo la morte d'Alessandro magno; il quale come giunse anni ad anni, possea giongere ancora osservanze ad osservanze. Ipparco, per la medesma raggione, dovea saperne più di Calippo, perché vedde la mutazione fatta sino a centononantasei anni dopo la morte d'Alessandro. Menelao, romano geometra, perché vedde la differenza de moto quatrocentosessantadui anni dopo Alessandro morto, è raggione che n'intendesse più ch'Ipparco. Più ne dovea vedere Macometto Aracense milleducento e dui anni dopo quella. Più n'ha veduto il Copernico quasi a nostri tempi appresso la medesma anni milleottocentoquarantanove. Ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei che furon prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi, non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti quelli e questi ne gli anni proprii.

Prudenzio
Dite quel che vi piace, tiratela a vostro bel piacer dove vi pare: io sono amico de l'antiquità; e quanto appartiene a le vostre opinioni o paradossi, non credo che sì molti e sì saggi sien stati ignoranti, come pensate voi ed altri amici di novità.

Teofilo
Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello, fu quella degli caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da' quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come ben notò il vostro Aristotele.

mercoledì 13 febbraio 2013

"In questo momento" di Kòstas Sterghiòpulos


In questo momento non chiedere
com'è apparsa questa commozione,
così improvvisa, così frettolosa,
così fugace.
Non c'è mente che lo pensi:
è percezione e silenzio.
Attimo è che non fai in tempo
a dirgli: "Fermati, sei bello!".

(Non è morta, non è morta ancora l'anima mia,
se ancora la sento lacrimare).

lunedì 11 febbraio 2013

Considerazioni libere (337): a proposito di una vittoria...

Pare che la guerra in Mali - contrariamente a quello che avevo scritto in un'altra mia "considerazione" - sia finita: una guerra veloce e vittoriosa. Bene, meno si combatte meglio è; credo però che la parte più difficile cominci adesso. Hollande il "liberatore" ha potuto camminare per le strade di Timbuctù, accolto da una folla festante e da manifestazioni che - a essere sinceri - avevano un certo non so che di regime. Adesso che finalmente un po' di polvere si è posata, è possibile vedere meglio l'orizzonte e credo che sia doverosa qualche altra riflessione su questo conflitto.
Oliver Roy, in un articolo nell'ultimo numero di Internazionale - di cui sono debitore per queste riflessioni - spiega che una delle conseguenze più devastanti della cosiddetta "dottrina Bush" è stata quella di considerare allo stesso modo, ossia come nemici da sconfiggere, costi quel che costi, movimenti politici diversi tra di loro. Per gli Stati Uniti di Bush erano "terroristi islamici" al-Qaeda naturalmente - e in questo caso la definizione è esatta - ma anche - e qui la questione si complica - Hamas, che è un partito nazionalista prima che islamico, movimenti locali che vogliono instaurare la sharia, come i talebani afghani, e infine anche movimenti genericamente islamisti, che pongono rivendicazioni di carattere etnico e nazionalista. Per qualche fondamentalista della destra cristiana i "nostri" nemici sono i musulmani tout court, ma questi per nostra fortuna sono una minoranza, anche se non così esigua come potremmo sperare. Considerare tutti questi movimenti come terroristi semplifica troppo e ha fatto commettere molti errori. Trattare con i terroristi è sbagliato - oltre che essere molto complicato, perché è difficile trovare l'interlocutore con cui avviare dei negoziati - mentre con tutti gli altri è sempre possibile avviare delle trattative, anzi è doveroso farlo prima di cominciare un conflitto. Il fatto di aver considerato tutti terroristi allo stesso modo ha portato ai conflitti di questi anni, dall'Afghanistan all'Iraq, con i risultati che abbiamo visto. Uno dei meriti di Obama è stato quello di accettare la complessità del mondo, che Bush e la destra conservatrice avevano irrimediabilmente appiattito nella dicotomia buoni/cattivi, come nei film con i cow-boys e gli indiani. E di conseguenza il governo degli Stati Uniti ha deciso di ritirare il proprio esercito dall'Afghanistan e dall'Iraq, per andare a uccidere - preferibilmente con i droni - i terroristi o quelli che si presume lo siano, in qualunque parte del mondo essi si trovino e qualunque sia la loro nazionalità. Naturalmente questo nuovo "metodo" apre una serie di problemi di natura giuridica e politica molto complessi, ma ha un'indubbia efficacia militare, come ha dimostrato l'uccisione di Osama bin Laden.
Purtroppo questa confusione semantica è apparsa con tutta evidenza in Mali, dove la Francia, più o meno convintamente sostenuta dagli altri paesi europei, è intervenuta con due obiettivi precisi: combattere i "terroristi islamici" e ristabilire l'integrità territoriale di quel paese. Il problema però è che questi due obiettivi sono in parziale contraddizione tra di loro, perché l'integrità del Mali non è minacciata direttamente dal terrorismo islamico, ossia dai gruppi che fanno riferimento diretto alla rete di al-Qaeda. L'integrità del Mali è minacciata dalle rivendicazioni - in parte legittime - dei tuareg che vivono nel nord del paese, che ritengono da molti anni di non essere sufficientemente considerati dal governo centrale, che è espressione da sempre della maggioranza dei neri africani, che vivono prevalentemente nel sud. Si tratta di un problema che risale almeno a trent'anni fa, alla fine del regime coloniale e che interessa anche altri paesi del Sahel, dove convivono con difficoltà gruppi etnici differenti. In una "considerazione" del dicembre 2009 ho parlato della situazione della Mauritania, dove c'è un conflitto etnico sicuramente più acceso, anche se a parti invertite rispetto a quello del Mali: in qual paese è la popolazione di origine nordafricana, discendente dai nomadi, a tenere in condizione di vera e propria schiavitù la popolazione nera africana.
Effettivamente nel nord del Mali, insieme ai tuareg, c'erano dei terroristi islamici collegati ad al-Qaeda, che avevano approfittato di quel conflitto per stabilire nuove basi e ovviamente per cercare nuovi sostegni: i terroristi, a ogni latitudine, cercano situazioni come queste e cercano di infiltrarsi dove ci sono tensioni e focolai di malcontento. Sono stranieri, nomadi del terrorismo, capaci di spostarsi in pochissimo tempo da un paese all'altro. La drammatica vicenda dell'attacco alla raffineria di In Amenas in Algeria ha dimostrato ancora una volta l'estraneità di questi gruppi a quella realtà: si trattava quasi esclusivamente di stranieri, in alcuni casi di convertiti. In seguito al fulmineo intervento francese i jihadisti più radicali, i terroristi veri - quelli con cui non si possono instaurare trattative - sono immediatamente fuggiti, come hanno fatto in altri paesi - Afghanistan compreso - lasciando sul campo i tuareg. In Afghanistan siamo caduti nella trappola, fuggiti i terroristi, abbiamo continuato a combattere contro i talebani, che, proprio a causa della violenza dell'attacco occidentale, sono diventati ancora più ostili e ancora più radicali: in questo modo abbiamo fatto un favore all'islamismo terrorista, che ha guadagnato nuove leve. Probabilmente non è stato soltanto l'attacco francese a spingere gli uomini di al-Qaeda a lasciare quella regione, ma anche una certa ostilità di quelle popolazioni, che, pur essendo di religione musulmana, non condividono l'estremismo puritano, ad esempio nei confronti delle donne, dei jihadisti. Questo è un ulteriore indizio per farci capire che il mondo islamico è complesso, con molti variabili e in continua evoluzione, impossibile da etichettare in una definizione unica, così come sarebbe assai riduttivo pensare che i precetti della chiesa cattolica rappresentino il sentire comune di tutti gli italiani, tutti i francesi, tutti gli spagnoli, tutti i bavaresi, solo perché sono popoli "cattolici". Ora, affinché questa evoluzione non faccia dei passi indietro e soprattutto per non dare nuovo credito alle tesi jihadiste tra la popolazione del nord del Mali - insomma per non cadere nuovamente nella trappola - bisogna avviare un negoziato serio con i tuareg, per accogliere una parte delle loro rivendicazioni. Come ho scritto nella mia precedente "considerazione" sarebbe necessario ripensare anche allo sviluppo di quei paesi, che le nostre aziende sfruttano, anche corrompendo i loro governi, come emerge dalle recenti inchieste giudiziarie sulle attività africane dell'Eni. In questo modo la politica potrà tornare a essere protagonista e anche l'uso delle armi, che in questo caso ha avuto un esito positivo, non sarà stato vano o peggio controproducente.

sabato 9 febbraio 2013

Considerazioni libere (336): a proposito della memoria di Eluana...

Il 9 febbraio 2009 moriva Eluana Englaro, o forse dovrei dire moriva definitivamente, perché era dal 18 gennaio 1992 - diciassette anni prima - che Eluana viveva in stato vegetativo, senza la possibilità di comunicare o di interagire in alcun modo con l'ambiente che la circondava. Eluana non si è mai svegliata dopo quel tragico incidente e nessuno di noi saprà mai cosa c'è stato nel suo cervello e nella sua anima in quei lunghissimi diciassette anni.  O se qualcosa c'è effettivamente stato. Di fronte a questo mistero dobbiamo avere la modestia e il coraggio di tacere. Modestia e coraggio di cui abbiamo abbondantemente fatto difetto in quell'inverno.
Per scrivere questa breve "considerazione" ho dovuto controllare le date e mi sono reso conto, per la prima volta, che Eluana era nata nel 1970: era una nostra coetanea, mia e di Zaira, che siamo nati in quello stesso anno. Questa notizia mi ha particolarmente colpito - in fondo potrebbe essere una semplice curiosità, poco cambiava se fosse nata nel '69 o nel '71 - proprio perché in quei mesi non l'avevo colta, probabilmente non l'avevo proprio sentita. In quei mesi all'opinione pubblica importava assai poco di Eluana, della ragazza in carne e ossa a cui era successo quell'incidente e la cui mente viaggiava in un terreno per noi assolutamente insondabile. Eluana era diventata, suo malgrado, un simbolo, un argomento dello scontro politico, un vessillo da agitare nelle piazze, in un senso e nell'altro. Sul corpo e sulla mente di Eluana si è agitata una battaglia ideologica e una morbosità mediatica di cui fortunatamente la ragazza non ha colto lo squallore. A quattro anni da quell'anniversario la memoria di Eluana merita prima di tutto silenzio. Per chi crede, Eluana adesso riposa in pace, per chi - come me - non crede, la sua breve storia su questa terra è finita ed Eluana continua a vivere soltanto nel ricordo delle persone che le hanno voluto bene.
Mi preoccupa però che in questi quattro anni nel nostro paese non sia stato fatto nessun passo per affrontare con maggiore serenità un nuovo "caso Englaro". Se domani una persona si trovasse nuovamente in quelle condizioni patologiche e i suoi familiari si trovassero di fronte a una scelta come quella che ha dovuto assumere Beppino Englaro, ricomincerebbero allo stesso modo le manifestazioni pro e contro, i giornalisti si apposterebbero nuovamente come avvoltoi davanti all'ospedale, i commentatori ricomincerebbero la loro commedia da compagnia di giro, la politica si dividerebbe in favorevoli e contrari. Forse quelle settimane non erano le più adatte ad affrontare il tema, visto il carico emotivo che quella vicenda comprensibilmente si portava dietro, ma dopo che Eluana è morta per la seconda volta, in un paese civile sarebbe dovuto ricominciare un dibattito su questo tema. Questa discussione non c'è stata ed Eluana adesso gode solo del silenzio, ma è come se fosse morta una terza volta, perché il problema che la sua storia ci chiedeva di risolvere non lo abbiamo neppure affrontato.
Il problema lo dovremo affrontare ancora, perché le conquiste della medicina ci porteranno nuovamente a casi come questi, nel paradosso che proprio le nuove scoperte scientifiche ci mettono di fronte a nuovi dubbi, fanno emergere nuove fragilità. Personalmente, se mi succedesse mai una cosa del genere, vorrei che una decisione così complessa non fosse lasciata né ai medici né ai magistrati, ossia a persone che non mi conoscono e che non mi amano. Vorrei che una decisione - qualunque decisione - del genere la prendesse la persona con cui ho deciso di condividere la mia vita e che mi conosce più e meglio degli altri. E che io conosco. Spererei anche che chi prende questa decisione non fosse lasciata sola di fronte a una decisione così complessa. E penso anche che di fronte a una scelta di questo tipo molte convinzioni ideologiche finirebbero per sgretolarsi: credo ad esempio che se fossi io, ateo e laico, a dover decidere, rimanderei il più possibile il momento in cui staccare la spina. Naturalmente so bene che ci sono casi in cui può succedere che la persona a cui accade una cosa del genere non abbia un compagno o una compagna, non abbia dei genitori, non abbia delle persone che possano affrontare in maniera serena e consapevole questa scelta. In questi casi - che sono comunque e fortunatamente molto meno - allora dovrà essere lo stato a decidere, ma si tratta appunto di casi residuali rispetto a una condizione di normalità.
Dateci la possibilità di decidere, fateci esprimere una scelta adesso che possiamo farla; le persone sono molto più mature di come a volte le rappresentiamo, specialmente quando si affrontano questioni di questo genere.

venerdì 8 febbraio 2013

"Dedica" di Manolis Anaghnostakis


Agli innamorati che si sono sposati
Alla casa che è stata costruita
Ai bambini che sono cresciuti
Alle navi che sono approdate
Alla battaglia che è stata vinta
Al prodigio che ha fatto ritorno

A tutto quanto è ormai finito senza speranza

martedì 5 febbraio 2013

"Una modesta proposta" di Jonathan Swift

È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il nostro Paese, vedere le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano l’elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di stracci, e che importunano così i passanti. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da vivere, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro infelici bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados.
Penso che tutti i partiti siano d’accordo sul fatto che tutti questi bambini, in quantità enorme, che si vedono in braccio o sulla schiena o alle calcagna della madre e spesso del padre, costituiscono un serio motivo di lamentela, in aggiunta a tanti altri, nelle attuali deplorevoli condizioni di questo Regno; e, quindi, chiunque sapesse trovare un metodo onesto, facile e poco costoso, atto a rendere questi bambini parte sana ed utile della comunità, acquisterebbe tali meriti presso l’intera società, che gli verrebbe innalzato un monumento come salvatore del paese.
Io tuttavia non intendo preoccuparmi soltanto dei bambini dei mendicanti di professione, ma vado ben oltre: voglio prendere in considerazione tutti i bambini di una certa età, i quali siano nati da genitori in realtà altrettanto incapaci di provvedere a loro, di quelli che chiedono l’elemosina per le strade.
Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo tema importante ed aver considerato attentamente i vari progetti presentati da altri, mi son reso conto che vi erano in essi grossolani errori di calcolo. E' vero, un bambino appena partorito dalla madre può nutrirsi del suo latte per un intero anno solare con l’aggiunta di pochi altri alimenti, per un valore massimo di spesa non eccedente i due scellini, somma sostituibile con l’equivalente in avanzi di cibo, che la madre si può certamente procurare nella sua legittima professione di mendicante; ma è appunto quando hanno l’età di un anno che io propongo di provvedere a loro in modo tale che, anziché essere di peso ai genitori o alla parrocchia, o essere a corto di cibo e di vestiti per il resto della vita, contribuiranno invece alla nutrizione e in parte al vestiario di migliaia di persone.
Un altro grande vantaggio del mio progetto sta nel fatto che esso impedirà gli aborti procurati e l’orribile abitudine, che hanno le donne, di uccidere i loro bambini bastardi; abitudine, ahimè, troppo comune fra di noi; si sacrificano così queste povere creature innocenti, io credo, più per evitare le spese che la vergogna, ed è cosa, questa, che muoverebbe a lacrime di compassione anche il cuore più barbaro ed inumano.
Di solito si calcola che la popolazione di questo Regno sia attorno al milione e mezzo, ed io faccio conto che, su questa cifra, vi possano essere circa duecentomila coppie, nelle quali la moglie sia in grado di mettere al mondo figli; da queste tolgo trentamila, che sono in grado di mantenere i figli, anche se temo che non possano essere tante, nelle attuali condizioni di miseria; ma, pur concedendo questa cifra, restano centosettantamila donne feconde. Ne tolgo ancora cinquantamila, tenendo conto delle donne che non portano a termine la gravidanza o che perdono i bambini per incidenti o malattia entro il primo anno. Restano, nati ogni anno da genitori poveri, centoventimila bambini. Ed ecco la domanda: come è possibile allevare questa moltitudine di bambini, e provvedere loro? Come abbiamo già visto, nella situazione attuale questo è assolutamente impossibile, usando tutti i metodi finora proposti. Infatti non possiamo impiegarli né come artigiani, né come agricoltori, perché noi non costruiamo case (intendo dire in campagna), né coltiviamo la terra; ed essi possono ben di rado guadagnarsi da vivere rubando finché non arrivano all’età di sei anni, salvo che non posseggano doti particolari; anche se, lo debbo ammettere, imparano i rudimenti molto prima di quell’età. Ma in questo periodo essi possono essere considerati propriamente solo degli apprendisti, come mi ha spiegato un personaggio eminente della contea di Cavan; il quale appunto mi ha dichiarato che non gli capitò mai di imbattersi in più di uno o due casi al di sotto dell’età di sei anni, pur in una parte del Regno tanto rinomata per la precocità in quest’arte.
I nostri commercianti mi hanno assicurato che i ragazzi e le ragazze al disotto dei dodici anni non costituiscono merce vendibile, e che anche quando arrivano a questa età non rendono più di tre sterline o, al massimo, tre sterline e mezza corona, al mercato; il che non può recar profitto né ai genitori né al Regno, dato che la spesa per nutrirli e vestirli, sia pure di stracci, è stata di almeno quattro volte superiore.
Io quindi presenterò ora, umilmente, le mie proposte che, voglio sperare, non solleveranno la minima obiezione.
Un Americano, mia conoscenza di Londra, uomo molto istruito, mi ha assicurato che un infante sano e ben allattato all’età di un anno è il cibo più delizioso, sano e nutriente che si possa trovare, sia in umido, sia arrosto, al forno, o lessato; ed io non dubito che possa fare lo stesso ottimo servizio in fricassea o al ragù.
Espongo allora alla considerazione del pubblico che, dei centoventimila bambini già calcolati, ventimila possono essere riservati alla riproduzione della specie, dei quali sono un quarto maschi, il che è più di quanto non si conceda ai montoni, ai buoi ed ai maiali; ed il motivo è che questi bambini sono di rado frutto del matrimonio, particolare questo che i nostri selvaggi non tengono in grande considerazione, e, di conseguenza, un maschio potrà bastare a quattro femmine. I rimanenti centomila, all’età di un anno potranno essere messi in vendita a persone di qualità e di censo in tutto il Regno, avendo cura di avvertire la madre di farli poppare abbondantemente l’ultimo mese, in modo da renderli rotondetti e paffutelli, pronti per una buona tavola. Un bambino renderà due piatti per un ricevimento di amici; quando la famiglia pranzerà da sola, il quarto anteriore o posteriore sarà un piatto di ragionevoli dimensioni e, stagionato, con un po’ di pepe e sale, sarà ottimo bollito al quarto giorno, specialmente d’inverno.
Ho calcolato che, in media, un bambino appena nato venga a pesare dodici libbre e che in un anno solare, se nutrito passabilmente, arrivi a ventotto.
Ammetto che questo cibo verrà a costare un po’ caro, e sarà quindi adattissimo ai proprietari terrieri, i quali sembra possano vantare il maggior diritto sui bambini, dal momento che hanno già divorato la maggior parte dei genitori.
La carne di bambino sarà di stagione per tutta la durata dell’anno, ma sarà più abbondante in marzo, e un po’ prima dell’inizio e dopo la fine di quel mese. Ci informa infatti un autore serissimo, eminente medico francese, che, essendo il pesce una dieta favorevole alla prolificità, nei paesi cattolici ci sono più bambini nati circa nove mesi dopo la Quaresima di quanti non ce ne siano in qualunque altro periodo dell’anno; di conseguenza, un anno dopo la Quaresima il mercato sarà più fornito del solito, perché il numero dei bambini dei Papisti è almeno di tre contro uno, in questo paese; ricaveremo quindi parallelamente un altro vantaggio, quello di far diminuire il numero dei Papisti in casa nostra.
Ho già calcolato che il costo di allevamento per un infante di mendicanti (nella quale categoria faccio entrare tutti i contadini, i braccianti ed i quattro quinti dei mezzadri) è di circa due scellini all’anno, stracci inclusi; ed io penso che nessun signore si lamenterà di pagare dieci scellini il corpo di un bambino ben grasso che, come ho già detto, può fornire quattro piatti di ottima carne nutriente per quando abbia a pranzo qualche amico di gusti difficili, da solo o con la famiglia. Il proprietario di campagna imparerà così ad essere un buon padrone ed acquisterà popolarità fra gli affittuari, la madre avrà dieci scellini di profitto netto e sarà in condizione di lavorare finché genererà un altro bambino.
I più parsimoniosi (ed io confesso che la nostra epoca ne ha bisogno) potrebbero scuoiare il corpo, la cui pelle, trattata artificialmente, dà meravigliosi guanti per signora e stivaletti estivi per signori eleganti.
Per quanto concerne la nostra città di Dublino, nelle parti più acconce, potrebbero apprestarsi mattatoi per codesta bisogna; e possiamo star certi che non mancheranno i macellai; anche se io vorrei raccomandare di comperar vivi i bambini e di prepararli caldi, appena finito di usare il coltello, come si fa per arrostire i maiali.
Una degnissima persona, che ama veramente il suo Paese, e le cui virtù tengo in grande considerazione, si compiacque di recente, parlando di questo argomento, di suggerire un perfezionamento al mio progetto. Egli diceva che, dal momento che molti gentiluomini del Regno in questi ultimi tempi hanno distrutto la selvaggina, pensava che sarebbe stato possibile ovviare alla mancanza di cacciagione procurando corpi di giovinetti e fanciulle non al di sopra dei quattordici anni e non al di sotto dei dodici: dato che tanto sono quelli, sia dell’uno che dell’altro sesso, che sono avviati a morire di fame per mancanza di lavoro o di assistenza: ed i genitori, se ancora in vita, oppure i parenti più prossimi, sarebbero ben lieti di liberarsi di loro. Tuttavia, pur con tutta la deferenza per un così eccellente amico e per un patriota di tanto merito, non posso essere completamente d’accordo con lui. Per quanto riguarda i maschi, un Americano di mia conoscenza, che ha avuto modo di farne esperienza frequente, mi ha assicurato che la carne era generalmente magra e coriacea come quella dei nostri scolari, a cagione del troppo esercizio fisico, e che il sapore era sgradevole e non valeva la pena di ingrassarli. Per quanto riguarda le femmine poi, io sono umilmente del parere che in questo modo si procurerebbe un danno alla comunità intera, perché tra breve esse sarebbero divenute feconde. D’altra parte non improbabile che persone scrupolose possano criticare severamente una pratica di questo genere (benché del tutto ingiustamente, com’è ovvio), considerandola come qualcosa che rasenti la crudeltà; e confesso che, nel caso mio, questa è sempre stata la più forte obiezione ad ogni progetto, anche se presentato con le migliori intenzioni.
Ma debbo dire, a giustificazione del mio amico, che egli mi confessò che questo espediente gli fu suggerito dal famoso Salmanazar, nativo dell’isola di Formosa, il quale venne a Londra più di venti anni fa e, parlando con lui, gli disse che al suo Paese, quando accadeva che qualche giovane fosse condannato a morte, il boia vendeva il cadavere a qualche personaggio importante, come leccornia di prima qualità, e che, ai suoi tempi, il corpo di una ragazza paffutella sui quindici anni, che era stata crocifissa per tentato avvelenamento del re, era stato venduto al primo ministro di Sua Maestà Imperiale e ad altri grandi mandarini della corte, a fette, appena tolta dalla forca, per quattrocento corone. Effettivamente, non posso negare che se si facesse la stessa cosa con parecchie ragazze ben nutrite di questa città, le quali, senza un soldo in loro possesso, non vanno fuori di casa se non in portantina, e si fanno vedere a teatro ed alle riunioni coperte di abiti vistosi venuti dall’estero, che non saranno mai loro a pagare, il Regno non andrebbe certo avanti peggio di ora.
Alcune persone, portate allo scoraggiamento, si preoccupano molto della grande quantità di poveri in età avanzata, ammalati e storpi, e mi si è chiesto di indirizzare le mie riflessioni alla ricerca di metodi atti a sollevare la nazione di un peso tanto gravoso. Però questa faccenda non mi preoccupa punto, perché è noto che muoiono e vanno in putrefazione ogni giorno per freddo e fame, per la sporcizia ed i pidocchi, con una rapidità che si può considerare ragionevole. Quanto ai braccianti più giovani, va detto che la loro attuale situazione non offre maggiori speranze. Non possono trovare lavoro e, di conseguenza, deperiscono per mancanza di nutrizione, a tal segno che, se viene loro affidato un qualsiasi comune lavoro, non sono in grado di farlo: e così il Paese e loro stessi vengono ad essere felicemente liberati dei mali a venire.
La digressione è stata troppo lunga, e quindi ora torno al mio argomento. Io ritengo che i vantaggi offerti dalla mia proposta siano molti e più che evidenti, ed anche della massima importanza.
Primo: come ho già osservato, diminuirebbe enormemente il numero dei Papisti dai quali siamo infestati annualmente, dato che, nella nazione, sono quelli che fanno più figli, oltre ad essere i nostri nemici più pericolosi; e se restano in Patria, lo fanno di proposito, per consegnare il Regno al Pretendente, sperando di trarre vantaggio dall’assenza di tanti buoni protestanti, che hanno preferito abbandonare il loro Paese piuttosto che starsene a casa a pagare le decime contro coscienza ad un coadiutore del vescovo.
Secondo: i poveri affittuari avranno dei beni di loro proprietà che, per legge, potranno essere resi suscettibili di sequestro ed aiutare a pagare l’affitto al padrone, dal momento che grano e bestiame sono già stati confiscati ed il denaro è cosa del tutto sconosciuta.
Terzo: previsto che il mantenimento di circa centomila bambini dai due anni in su non può essere calcolato di un costo inferiore a dieci scellini l’anno per ogni capo, il patrimonio della nazione aumenterà in questo modo di cinquantamila sterline l’anno, senza tener conto della nuova pietanza introdotta nelle mense di tutti i signori del Regno che siano di gusti raffinati; ed il denaro circolerà fra di noi, essendo l’articolo completamente di nostra produzione e lavorazione.
Quarto: i produttori regolari, oltre al guadagno di otto scellini buoni, ottenuti annualmente con la vendita dei bambini, si libereranno del peso di mantenerli dopo il primo anno di età.
Quinto: questa nuova pietanza porterà anche molti consumatori alle taverne, e gli osti avranno certamente la precauzione di procurarsi le migliori ricette per prepararla alla perfezione; quindi i loro locali saranno frequentati da tutti i signori di rango, che giustamente vengono valutati in base alla conoscenza che hanno della buona cucina; ed un cuoco esperto, che sappia come conquistarsi il favore della clientela, farà in modo di mantenere un prezzo che li saprà soddisfare.
Sesto: si avrebbe un grande incoraggiamento al matrimonio, che tutte le nazioni di buon senso hanno cercato di favorire con premi, o imposto con leggi ed ammende. Aumenterebbe la cura e la tenerezza delle madri per i bambini, quando fossero sicure di una sistemazione certa sin dall’inizio, e procurata in qualche modo dalla comunità a loro annuo profitto, anziché, a loro carico; e ben presto avremmo modo di vedere un’onesta emulazione fra le donne sposate nel portare al mercato il bambino più grasso. Gli uomini, durante la gravidanza della moglie, le sarebbero affezionati tanto quanto lo sono ora alla cavalla, alla mucca o la scrofa prossima a figliare, né la minaccerebbero di pugni e di calci (cosa purtroppo frequente nella pratica), per timore di un aborto.
Potrebbero elencarsi molti altri vantaggi. Ad esempio, l’aumento di qualche migliaio di esemplari nella nostra esportazione di manzo in barile, la maggior diffusione della carne di porco, ed un miglioramento nell’arte di fare il buon prosciutto che si trova in quantità tanto scarsa a cagione del grande consumo che facciamo di maialini da latte, una pietanza troppo frequente nelle nostre mense che tuttavia non è neppure alla lontana paragonabile, sia per il sapore sia per la figura che fa, a quella fornita da un bambino di un anno, grasso e ben pasciuto: il quale, arrostito intero, farà una splendida figura alla festa del sindaco della città o a qualsiasi altro ricevimento pubblico. Ma questo ed altro voglio tralasciare, preoccupandomi di esser conciso.
Supponendo che mille famiglie in questa città comperino costantemente carne di bambino, in aggiunta ad altri che potrebbero acquistarla in liete circostanze, particolarmente per i matrimoni e per i battesimi, calcolo che Dublino consumerebbe annualmente circa ventimila esemplari, ed il resto del Regno (in cui probabilmente verrebbe venduta ad un prezzo lievemente inferiore) i rimanenti ventimila.
Io non prevedo obiezione possibile alla mia proposta, a meno che non si insista nel dire che la popolazione del Regno in questo modo dimunuirebbe notevolmente. Lo ammetto ben volentieri, ed è questo, di fatto, uno degli scopi principali della mia proposta. Prego il lettore di osservare che il mio rimedio è destinato soltanto ed unicamente a questo Regno d’Irlanda e a nessun altro che sia mai esistito, che esista o abbia ad esistere nel futuro sulla terra. Che quindi non mi si parli di altri espedienti: di tassare di cinque scellini la sterlina i proprietari che non si curano delle loro terre; di non usare abiti o mobili di casa che non siano di nostra produzione e lavorazione; di respingere tutti i materiali e gli strumenti che favoriscano il lusso straniero; di guarire le nostre donne dalla mania delle spese che fanno per orgoglio, vanità, pigrizia e passione del gioco; di introdurre una vena di parsimonia, prudenza e temperanza; di imparare ad amare il nostro Paese, cosa in cui siamo diversi persino dai Lapponi e dagli abitanti di Topinambu; di abbandonare la nostra animosità e la faziosità, e di non comportarci più come gli Ebrei, che si scannavano l’un l’altro persino nel momento in cui la loro città veniva presa; di stare un po’ più attenti a non vendere il nostro Paese e la nostra coscienza per niente; di insegnare ai proprietari ad avere almeno un po’ di pietà per i loro affittuari. Infine, di far entrare un po’ di onestà, di operosità e di capacità nello spirito dei nostri bottegai i quali, se potesse ora esser presa la decisione di comprare soltanto merce nostra, si unirebbero immediatamente per imbrogliarci e ricattarci sul prezzo, sulla misura e sulla qualità, né si sono mai potuti indurre a fare qualche proposta commerciale onesta e decente, nonostante siano stati spesso e calorosamente invitati.
Pertanto, ripeto, che nessuno venga a parlarmi di questi espedienti o di altri del genere, finché non abbia almeno un barlume di speranza che vi possa essere qualche generoso e sincero tentativo di metterli in pratica.
Quanto a me, stanco com’ero di offrirvi utopie inutili ed oziose, alla fine disperavo ormai del successo: quando per fortuna mi è venuta in mente questa proposta che, essendo interamente nuova, presenta alcunché di solido e di concreto, è di nessuna spesa e di poco disturbo, rientra pienamente nelle nostre possibilità di attuazione, e non fa correre il rischio di recar torto all’Inghilterra. Infatti questo tipo di merce non tollera l’esportazione, perché la carne è di consistenza troppo tenera per consentire una lunga durata nel sale; anche se forse io potrei nominare un Paese che sarebbe ben contento di mangiarsi per intero tutta la nostra nazione anche senza questo condimento.
Dopo tutto, non sono così tenacemente avvinto alla mia idea da rifiutare qualsiasi proposta che venga fatta da persone di buon senso, che sia altrettanto innocente, facile da mettersi in pratica, efficace e di poco costo. Ma prima che qualcosa del genere venga presentato in concorrenza con il mio progetto, offrendo qualcosa di meglio, desidero che l’autore, o gli autori, abbiano la cortesia di ponderare a lungo due punti. Primo: stando le cose come stanno, come potranno trovare cibo e vestiti per centomila bocche e spalle inutili. Secondo: esiste in questo Regno circa un milione di creature in sembianze umane, le quali, pur mettendo insieme tutti i loro mezzi di sussistenza, resterebbero con un debito di due milioni di sterline; mettiamo i mendicanti di professione insieme con la massa di agricoltori, braccianti e giornalieri che, con le loro donne ed i bambini, sono mendicanti di fatto: ed io invito quei politici, ai quali non garba il mio progetto, e che forse avranno il coraggio di azzardare una risposta, ad andare a chiedere prima di tutto ai genitori di questi mortali se non pensino, oggi come oggi, che sarebbe stata una grande fortuna quella di essere andati in vendita come cibo di qualità all’età di un anno, alla maniera da me descritta, evitando così tutta una serie di disgrazie come quelle da loro patite, per l’oppressione dei padroni, l’impossibilità di pagare l’affitto senza aver denaro o commerci di qualche sorta, la mancanza dei mezzi più elementari di sussistenza, di abitazione e di abiti per ripararsi dalle intemperie, con la prospettiva inevitabile di lasciare per sempre in eredità alla loro discendenza questi medesimi triboli, se non peggiori. Dichiaro con tutta la sincerità del mio cuore che non ho il minimo interesse personale a cercar di promuovere quest’opera necessaria e che non sono mosso da altro motivo che il bene generale del mio Paese, nel miglioramento dei nostri commerci, nell’assistenza ai piccoli e l’aiuto ai bisognosi, e nella possibilità di offrire qualche piacevole passatempo agli abbienti. Io non ho bambini dai quali posso propormi di ricavare qualche soldo: il più piccolo ha nove anni, e mia moglie ha ormai passata l’età di averne ancora.