venerdì 31 maggio 2013

Considerazioni libere (364): a proposito del voto di qualche piccolo Comune italiano...

Lunedì scorso, tra i politici di prima e seconda fila e nella compagnia di giro dei giornalisti e degli opinionisti s'è levato un urlo di soddisfazione: Grillo è morto. Pensano che l'assedio sia finito, che il pericolo sia ormai scampato; si illudono naturalmente, ma oggettivamente in questi anni non hanno mai dato dimostrazione di grande lungimiranza.
Non era difficile prevedere che la "spinta propulsiva" del Movimento Cinque stelle si sarebbe presto arrestata e che, dopo l'inatteso picco del febbraio scorso, sarebbe cominciata l'inesorabile discesa; solo un cretino o Vito Crimi poteva credere che i voti avrebbero continuato a crescere. Anzi è stato proprio il loro successo nelle elezioni politiche a determinare la caduta rovinosa di questi giorni, per la nota legge secondo cui più sali, più male ti fai quando cadi. Gli elettori avevano dato a Grillo e ai suoi - forse in maniera avventata, ma d'altra parte la situazione era disperata - la possibilità di incidere davvero sulla vita politica e istituzionale di questo paese; però la possibilità era una e una soltanto. Quell'opportunità - come noto - è stata gettata al vento - per stupidità o per vigliaccheria, non so - e ora Grillo, i suoi consiglieri più o meno occulti, i giovani eletti - lasciati senza ordini, come dopo l'8 settembre, in una situazione che non capiscono - ne pagheranno le conseguenze. Purtroppo la pagheremo anche noi. Perché alla fine, tra poco tempo, li rimpiangeremo, non Grillo naturalmente - che anzi ci ha già ampiamente sfracellato i cosiddetti - ma gli eletti di quel partito, quando salterà fuori un nuovo movimento di protesta, molto più populista, molto meno idealista e velleitario, molto meno di sinistra, ma soprattutto molto meno rassicurante degli innocui giovani grillini. Quando avremo la nostra Alba dorata nelle strade e in parlamento penseremo che forse era meglio Grillo. Naturalmente la situazione in cui ci troviamo ora non è responsabilità solo della stupidità e della vigliaccheria di Grillo; personalmente penso che la colpa vada equamente spartita. Eguale responsabilità ce l'ha il fronte conservatore - guidato con piglio deciso da re Giorgio - che ha impedito in tutti i modi, più o meno leciti, che almeno una parte del Pd, quella sana, si alleasse con il Movimento Cinque stelle. E ora, almeno per quel che riguarda il Pd, il morto ha trascinato con sé il vivo e una parte sana in quel partito non esiste più.
Comunque, per tornare alla cronaca di questa settimana, molti pensano che la situazione sia normalizzata e sia finalmente tornato il bipolarismo, anche se non più quello aggressivo di questi ultimi vent'anni di "guerra civile a bassa intensità", ma il nuovo bipolarismo della pacificazione nazionale, quello secondo il quale B. è uno statista, Letta un politico di valore e Alfano è... come se fosse normale. Al di là della stima per la persona, mi ha fatto sorridere vedere in questi giorni il neosegretario del partito suicida andare in televisione per dichiarare la propria soddisfazione per il risultato delle amministrative. Come noto le percentuali a volte possono trarre un po' in inganno, è sempre meglio guardare ai numeri. Prendiamo Roma: nelle comunali del 2008 Rutelli prese 761mila voti, un risultato che gli garantì di andare al ballottaggio, in cui peraltro vinse Alemanno; nelle recentissime regionali Zingaretti ha preso 715mila voti, sostanzialmente tenendo rispetto al dato di cinque anni prima, pur in una situazione difficile per il centrosinistra; Marino ha stravinto il primo turno con 512mila voti, perdendone per strada circa uno su tre. Non mi pare un risultato incoraggiante, anche tenendo conto che il Pdl, ossia il principale alleato del Pd e pilastro di sostegno del governo Letta, ne ha perso uno su due. Peraltro il Pd ha vinto le elezioni comunali in questo piccolo borgo del Lazio schierando un candidato piuttosto eterodosso rispetto al gruppo dirigente di quello sfortunato partito, non foss'altro perché sostenitore dell'opzione Rodotà nelle concitate fasi dell'elezione del "nuovo" presidente della Repubblica. Non so cosa sia successo nelle altre parti d'Italia, né conosco i candidati che hanno vinto, ma, ad esempio nel mio Comune, ha ottenuto un risultato importante, andando al ballottaggio, il candidato del Pd che, per età e storia personale, poco c'entra con la tradizione di quel partito e sicuramente il risultato è molto più frutto del suo lavoro e della stima che è riuscito a conquistarsi di quanto sia la dote portata da un partito diviso e rissoso. Perfino il risultato del referendum di Bologna sulla prosecuzione del finanziamento alle scuole private dovrebbe far scattare qualche dubbio alle orecchie sorde dei dirigenti del partito mal nato. Il risultato non è stato un successo clamoroso del fronte di sinistra della città, che, in termini assoluti, ha tenuto i propri voti, ovviamente dimostrando una notevolissima capacità di mobilitazione; il dato eclatante è che questa mancanza di mobilitazione è mancata al Pd, che ha portato ai seggi poco più dei suoi quadri intermedi - segretari di sezione e consiglieri di quartiere - dimostrando inoltre un'incapacità organizzativa notevole. L'unico sollievo per Donini e Merola è che la chiesa bolognese sta altrettanto male, essendo riuscita a mobilitare soltanto i "suoi" quadri intermedi, ossia le suore.
Questa ottusità dei "pacificati" e dei rastrellatori di larghe intese potrebbe perfino essere un dato positivo per noi. Non si rendono nemmeno conto che noi esistiamo. E infatti Merola ha annunciato che non terrà in alcun conto del risultato del referendum, così come Letta continua a far finta di essere il capo del governo, aspettando i fogli da Francoforte. Magari abbiamo un po' più di tempo per organizzarci.

"Maternità" di Francisca Aguirre


C'era una volta una bambina
che sognava di essere un'equilibrista.
E molte volte mi diceva:
"Mamma io da grande
voglio essere un'equilibrista".
Ma come tutte le bambine
cambiava idea ogni giorno.
E il giovedì decideva che voleva essere ballerina
e le domeniche albero.
Mia figlia è sempre stata
fantasiosa audace e ribelle.
Ma non parlava mai di scrivere
benché scrivesse.
C'era da sperare che non volesse parlare
della guerra che stava per cominciare.
Ci mise molto tempo a parlare delle sue parole.
In fondo ha sempre continuato ad essere un'equilibrista.

martedì 28 maggio 2013

"Ogni sangue ha la sua storia" di José Saramago

Scorre senza mai fermarsi nell'interno labirintico del corpo e non perde l'orientamento né il senso, arrossa improvvisamente il volto o la fa impallidire fuggendone via, irrompe bruscamente da uno squarcio della pelle, si fa strato protettivo di una ferita, allaga campi di battaglia e luoghi di tortura, si trasforma in fiume sull'asfalto di una strada. Il sangue ci guida, il sangue ci risolleva, con il sangue dormiamo e con il sangue ci svegliamo, con il sangue ci perdiamo e ci salviamo, con il sangue viviamo, con il sangue moriamo. Si fa latte e alimenta i bambini in braccio alle mamme, si fa lacrima e piange per gli assassinati, si fa rivolta e alza un pugno chiuso e un'arma. Il sangue si serve degli occhi per vedere, capire e giudicare, si serve delle mani per il lavoro e per la carezza, si serve dei piedi per andare dove il dovere lo ha mandato.
Il sangue è uomo ed è donna, si copre di lutto o di festa, si mette un fiore alla vita, e quando assume dei nomi che non sono i suoi è perché quei nomi appartengono a tutti coloro che sono dello stesso sangue.
Il sangue conosce tanto, il sangue conosce il sangue che ha. A volte il sangue monta a cavallo e fuma la pipa, a volte guarda con occhi asciutti perché il dolore li ha seccati, a volte sorride con una bocca da lontano e un sorriso da vicino, a volte nasconde il viso ma lascia trasparire l'anima, a volte implora la misericordia di un muro muto e cieco, a volte è un bambino sanguinante portato in braccio, a volte disegna figure vigili sulle pareti delle case, a volte è lo sguardo fisso di queste figure, a volte lo legano, a volte si slega, a volte si fa gigantesco per arrampicarsi sulle muraglie, a volte ribolle, a volte si calma, a volte è come un incendio che tutto infuoca, a volte è una luce quasi dolce, un sospiro, un sogno, un capo dolcemente reclinato sul sangue che gli sta accanto.
Ci sono sangui che persino quando sono freddi bruciano. Quei sangui sono eterni come la speranza.

sabato 25 maggio 2013

Considerazioni libere (363): a proposito di alcuni valori da condividere...

Uno spettro s'aggira per l'Europa. Lo so: l'incipit di questa mia nuova "considerazione" non è originale; l'ho copiato dal libretto di due vecchi scrittori tedeschi. No, non sono i fratelli Grimm: è un altro genere di favole. Ma torniamo al punto: in Europa si aggira il fantasma della sinistra. Le tristi - e per alcuni versi ridicole - traversie di quella italiana, morta definitivamente alcuni giorni fa, ci ha fatto dimenticare che questa parte dello schieramento politico soffre in tutto il nostro continente. Per quel che riguarda l'Italia importa ormai poco capire se è stata uccisa da un preciso colpo di fucile di Napolitano - cecchino assoldato dalla destra finanziaria internazionale - o si è suicidata sparandosi alla tempia: a questo punto soltanto quelli di Csi possono dirci quale sia il proiettile mortale arrivato per primo alla meta. Ora la sinistra giace defunta - e bisogna dire che Epifani ha il severo contegno di un perfetto impresario di pompe funebri - nell'attesa che Renzi, smessi i panni di Fonzie, faccia rinascere il Pd come un partito moderato di centro, tenuamente pietoso verso i poveri e capace di raccogliere parte dei voti del Pdl, quando finalmente B. morirà.
Vediamo però cosa succede nel resto dell'Europa, dove almeno non hanno avuto la sfortuna di avere il Pd, e quindi ci sono ancora dei partiti socialisti, per quanto malandati. L'unico grande paese europeo governato dai socialisti è la Francia, ma Hollande è ai minimi storici della popolarità e di conseguenza il suo partito e la sua maggioranza sono in fibrillazione, temendo che la rovina del presidente trascini anche loro; al di là della sacrosanta legge di civiltà che istituisce i matrimoni tra le persone dello stesso sesso, Hollande non ha fatto nulla per migliorare le condizioni dei cittadini più poveri e quindi cresce, al di là delle Alpi, una protesta a sinistra, che rischia però di portare voti ai fascisti di Marine Le Pen, per una non inconsueta eterogenesi dei fini. Qualcosa di simile avviene anche nel Regno Unito, dove - nonostante gli sforzi del giovane Milliband - il Labour, ancora tramortito dagli anni di Blair, non spera di arrivare al governo, mentre cresce a destra del partito di Cameron un movimento populista antieuropeo, l'Ukip di Nigel Farage. Non sta meglio la Spd che, non contando di sconfiggere Angela Merkel alle prossime elezioni, ha puntato tutto sul pareggio, scegliendo il candidato più adatto a formare una GrosseKoalition, una sorta di Enrico Letta tedesco, già pronto alla resa; curiosamente poi il nuovo segretario di quel partito ha proposto, con una mossa di tipico sapore veltroniano, di cambiare nome all'Internazionale socialista, per farla diventare una sorta di casa comune dei progressisti. In Grecia il Pasok ha anticipato di qualche mese la via italiana di adesione supina alle linee politiche ed economiche dettate da Francoforte e in Spagna il Psoe non ha avuto la capacità di mettersi in sintonia con le importanti manifestazioni di piazza che hanno animato la vita politica di quel paese, condannandosi all'opposizione. E' interessante anche quello che avviene nei paesi del nord Europa, che sanno cosa significa socialdemocrazia e sanno che può funzionare: da alcuni anni la Svezia è governata dal centrodestra, che ha cominciato a ridurre la rete di welfare di quel paese. E' notizia di questi giorni - come sapete - che nelle periferie delle città svedesi sono scoppiate delle rivolte, che hanno visto sulle stesse barricate giovani immigrati e giovani svedesi, arrabbiati - gli uni e gli altri - per motivi diversi, ma sostanzialmente perché vedono il proprio futuro con sempre minori prospettive di miglioramento: evidentemente in quel sistema c'è - e non da ora - qualcosa che vacilla e anche per responsabilità dei socialdemocratici. Curioso poi è il caso dell'Islanda, dove è tornato a vincere il partito di centrodestra responsabile della crisi economica in quella piccola repubblica artica. Su quel paese si è probabilmente qui da noi vagheggiato anche troppo, ma certo c'era stato un protagonismo dei cittadini che poteva essere un esempio anche per altri paesi; i cittadini avevano preso decisioni radicali, ad esempio riguardo alla questione del pagamento del debito. Il partito di sinistra che aveva beneficiato elettoralmente di questa sorta di rivoluzione islandese, una volta al governo, ha scelto la strada della responsabilità e dell'accordo con le autorità finanziarie internazionali - in sostanza ha deciso di pagare - tradendo così le aspettative degli elettori che quindi hanno nuovamente premiato il partito populista di destra, che ha basato la propria campagna elettorale sulla riduzione delle tasse. Vi ricorda qualcosa? Chissà come si dice Imu in islandese? In sostanza nelle sedi europee i capi di governo socialisti, in primis Hollande, ma anche il belga Di Rupo e la danese Thorning-Schmidt, non riescono minimamente a incidere sulle scelte della destra rigorista, non solo perché sono in netta minoranza, ma soprattutto perché manca un pensiero di sinistra altrettanto forte del pensiero ultraliberista che è diventato ormai dominante. Il problema non è solo politico, ma è insieme politico e culturale; se i governi di sinistra o di centrosinistra in Europa propongono le stesse soluzioni dei governi di destra, tanto da poter, senza troppe difficoltà, costruire governi di larghe coalizioni, come possono essere interlocutori forti e autorevoli contro il pensiero della destra? Quando va bene riescono ad attenuarne la ferocia sociale, ma nulla di più.
Da questo punto di vista il caso italiano è piuttosto emblematico. La difficoltà palese dell'attuale esecutivo - che finora si è caratterizzato per molti rinvii e pochi provvedimenti di carattere schiettamente liberista - non sta nella dialettica tra destra e sinistra, che non esiste, ma nella presenza di B., ossia di un elemento eversivo del sistema politico e istituzionale, difficile da incasellare anche nella destra europea. Infatti il programma della coalizione "Italia bene comune" solo con una buona dose di ipocrisia poteva essere considerato di sinistra, tanto è vero che quella parola non compare mai in quel documento, se non una volta, in un inciso, per definire qualcosa d'altro. Con tutta la buona volontà di questo mondo, qualcuno può definire Enrico Letta un uomo di sinistra? No. Così come giustamente Matteo Renzi tende a rifiutare questa etichetta. Il programma del Pd era sostanzialmente quello di Monti, tanto che ne accettava uno dei cardini fondamentali, ossia il pareggio di bilancio in Costituzione; io, come altri, ho votato comunque per quel partito, perché ero convinto che avrebbe almeno impedito a B. di tornare alla ribalta politica, ma questa speranza è stata, con tutta evidenza, mal riposta e di questo il Pd pagherà dazio, prima o poi. Come sapete - l'ho scritto alcune altre volte - io per qualche tempo ho cullato l'idea che il Pd si scindesse, in maniera consensuale, in due partiti: uno socialista e uno liberal-democratico; ho anche sperato che Barca potesse far scattare questo meccanismo. Ora, dopo quello che è successo in queste settimane, ho perso anche questa speranza: il gruppo dirigente del Pd non è palesemente in grado di sollevarsi dalle logiche di sopravvivenza da ceto politico che l'hanno caratterizzato questi anni. E Barca, ben che vada, si prepara a creare l'ennesima corrente.
Una storia si è chiusa e non sappiamo però se un'altra è destinata ad aprirsi: quello che sta succedendo in Europa non ci fa essere ottimisti. Eppure è l'unica strada su cui, per uno come me, è possibile cominciare un cammino, anche dopo tante delusioni. Se il Pd non più essere un mio compagno di viaggio - perché chiaramente prenderà una strada diversa - non posso neppure pensare che la soluzione nasca da un assemblaggio, più o meno forzoso, dei partitini o dei loro spezzoni nati dalla crisi del maggior partito della sinistra italiana: credo sia bastata la fallimentare esperienza della Lista Ingroia per capire che la sinistra non rinascerà in questo modo. E non rinascerà seguendo le sirene di un nuovo capo, per quanto sia affascinante e coinvolgente la sua "narrazione": un partito deve avere l'ambizione di essere una cosa un po' diversa. Per questo non dovremo avere neppure la frenesia di essere pronti per la prossima scadenza elettorale: la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Anche in questo caso l'esperienza recente di Cambiare si può, che, in vista delle elezioni, ha deciso in fretta e furia di partecipare alla nascita della lista della sinistra radicale, è significativa e deve servire da insegnamento per quello che non si deve fare. Immagino che dovremo saltare qualche giro prima di pensare di essere pronti, pena il dover sempre perdere troppo tempo e troppe energie per curarci le ferite, dopo le inevitabili cadute. Va costruita una rete, con una pazienza che dovremo imparare a praticare, anche se questa non è esattamente una caratteristica rivoluzionaria.
Un pezzo del nostro mondo, del mondo della sinistra, era in piazza sabato scorso a Roma, sotto le bandiere della Fiom. Tanti "soloni" del Pd ci hanno spiegato, prima e dopo la manifestazione, che la Fiom deve fare il sindacato e non deve diventare un partito; in linea di massima è vero e sarebbe vero in una situazione ordinaria. Purtroppo la situazione è straordinaria, visto che non esiste più in Italia un partito che rappresenti e difenda il lavoro, ovviamente nella sua modernità molto varia e frastagliata. Credo di essere stato chiaro, ma voglio ripeterlo: il futuro della sinistra - se ci sarà - non può passare attraverso l'individuazione di un nuovo leader, anche se bravo come Maurizio Landini. Se partiamo da lì, siamo perduti: per l'ennesima volta. La manifestazione della Fiom è stata importante per un altro punto, perché ha detto che c'è un pezzo d'Italia, per adesso assolutamente minoritario, ma comunque vivo, che è disponibile a lavorare al progetto di una "costituente di sinistra del lavoro fondato sul rispetto della salute, della dignità e dell'ambiente", come l'ha definita con esattezza Adriano Sofri. Ed è stata importante perché Stefano Rodotà, nel suo intervento intenso e appassionato, ci ha tornato a spiegare che senso possiamo dare, da sinistra, all'art. 1 della nostra Costituzione, ossia che democrazia e lavoro devono sempre rimanere collegati, devono far parte di uno stesso progetto riformatore, perché l'una senza l'altro non stanno insieme.
E poi - anche questo non è propriamente un tema originale - bisogna tornare a parlare di uguaglianza, perché questo è un tema che rimane un discrimine assoluto tra sinistra e destra, è una delle cose che ci definisce, come spiega con chiarezza Norberto Bobbio in Destra e sinistra:
Intendo semplicemente ribadire la mia tesi che l'elemento che meglio caratterizza le dottrine e i movimenti che si sono chiamati "sinistra", e come tali sono stati per lo più riconosciuti, è l'egualitarismo, quando esso sia inteso non come l'utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto, ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che li rende diseguali, dall'altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali.
Il tema è tanto più centrale adesso, visto che le diseguaglianze tendono ad aumentare, su scala mondiale - le 358 persone più ricche al mondo hanno una ricchezza pari a quella del 45% più povero della popolazione mondiale - e in ogni singolo paese: questo è un effetto della crisi, ma contemporaneamente ne è anche causa. E soprattutto nasce dall'idea - che è uno dei punti di forza del pensiero ultraliberista - secondo cui la diseguaglianza è in sé un fattore di progresso e di dinamismo sociale. Noi sappiamo che non è così, lo sanno i più poveri del mondo. E non possiamo neppure accettare l'idea che tutti devono avere le stesse opportunità di partenza, perché - poco dopo che la corsa è cominciata - per troppe persone si aprono voragini di disegualianza incolmabili. Allora dobbiamo pensare, ancora una volta, che l'idea di uguaglianza deve andare di pari passo con quella di differenza, perché la differenza è uno dei presupposti della libertà. Ma questa libertà è vera soltanto nella democrazia e nella partecipazione e ha bisogno, per essere concreta, della solidarietà, ossia della dignità del fare come responsabilità verso sé e gli altri. E qui arriviamo a un punto in cui - come è evidente - tutti i valori fondamentali della sinistra si tengono e si chiamano a vicenda. In fondo la definizione dei valori per un partito di sinistra non richiede troppe pagine né la costituzione di un comitato di saggi. Io credo che potremmo partire da qui, provando poi a verificare cosa si adatta e cosa no e facendo, di conseguenza, delle scelte. Pensandoci, è meno difficile di quanto si possa credere.

venerdì 24 maggio 2013

"Il resto manca" di Bartolo Cattafi


Mancavano pagine
il marmo dell'epigrafe
era scheggiato
due sole parole
cetera desunt
il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desuntcetera desunt
parole sul frontone d'un tempio vuoto
vorticanti col vento come per dirci
solo noi ci siamo
tutto il resto manca
era questo che non sapevate.

mercoledì 15 maggio 2013

Considerazioni libere (362): a proposito di un referendum e di scuole materne...

Se vivessi a Bologna, il prossimo 26 maggio voterei convintamente "A".
Per chi è di Bologna, non servono particolari spiegazioni: sapete di cosa si tratta e probabilmente, leggendo più o meno regolarmente queste "considerazioni", non vi stupirete di questa mia scelta. Per chi non è bolognese - ossia la gran maggioranza di voi, cari sparuti lettori - qualche informazione in più è doverosa. Il prossimo 26 maggio, mentre qui a Salsomaggiore voteremo per eleggere sindaco e consiglio comunale, i cittadini di Bologna saranno chiamati ad esprimersi su un referendum consultivo che, partito in sordina e confinato nel dibattito strettamente cittadino, è riuscito a ritagliarsi una qualche rilevanza nazionale. Questo referendum è stato promosso da alcuni partiti della sinistra, da una parte del sindacato e da alcune associazioni cittadine con l'obiettivo di interrompere il finanziamento comunale alle scuole materne paritarie. Per capire meglio la questione, bisogna fare un passo indietro. All'inizio degli anni novanta a Bologna e in molte altre realtà emiliano-romagnole le amministrazioni comunali del centrosinistra decisero di includere alcuni istituti privati nel sistema scolastico pubblico, in questo modo anche queste scuole potevano accedere ai finanziamenti regionali e comunali. In particolare il Comune di Bologna stipulò un accordo con la Fism, ossia la federazione delle scuole materne cattoliche, garantendo la convenzione per cinquanta classi, che in questi anni sono diventate più di settanta. Nel 2000 il sistema scolastico integrato - come si cominciò a chiamare - fu sancito a livello legislativo dal governo di centrosinistra. Oggettivamente questa decisione fu uno degli elementi che sancì, a livello locale prima e poi a quello nazionale, l'alleanza organica tra la sinistra riformista, erede del Pci, e una parte del cattolicesimo democratico italiano, in particolare quello che fino ad allora aveva fatto riferimento alla sinistra Dc. Non a caso questa esperienza si concretizzò a Bologna, la città di Romano Prodi. Quell'intesa, come noto, portò diversi frutti, alcuni buoni, altri marciti ancora prima di essere colti: fuor di metafora, l'Ulivo e il Pd.
I fronti si sono rapidamente definiti. Si è costituito il Comitato art. 33, che ha promosso la raccolta delle firme e sta gestendo in queste settimane la campagna elettorale. A sostenere l'opzione "A", ossia la fine dei finanziamenti, ci sono Sel, Rifondazione, quello che rimane dell'ex-partito di Antonio Di Pietro, la Fiom e la Flc, le chiese protestanti, associazioni varie e molti "sinistri sparsi"; e c'è anche il Movimento Cinque stelle. Nei giorni scorsi Stefano Rodotà ha scritto un breve articolo per sostenere le ragioni del referendum e del voto "A", richiamandosi in maniera inequivocabile ai principi costituzionali; ve ne consiglio naturalmente la lettura. A sostegno dell'opzione "B", ossia per il mantenimento dei finanziamenti, c'è uno schieramento decisamente maggioritario: il Comune ovviamente, l'ex-Pd - che in quella città, nonostante tutto, continua a essere forte - i partiti del centrodestra, la chiesa bolognese - al cui fianco è intervenuto anche il cardinal Bagnasco - i giornali cittadini, i sindacati - la Cisl in particolare è scatenata - Confindustria e le associzioni di categoria, Comunione e liberazione e tutto il mondo dell'associzionismo cattolico. Come è evidente si tratta, a parte la Cgil - che sulla questione cerca di barcamenarsi con scarso successo - del partito delle "larghe intese", ossia del vasto schieramento che sostiene il secondo governo Napolitano-Draghi. Il sindaco Merola stupidamente ha detto che il voto è un referendum sul Pd. E infatti il cattolico Prodi non si è ancora pronunciato; la cosa non stupisce chi sa quanto sia rancoroso e vendicativo l'uomo, che non è certo disposto a dimenticare lo "sgarro" della mancata elezione al Quirinale. La campagna per il "B" è un misto di opportunismo - molti si sono schierati così, perché così dice il partito che garantisce loro "il pane e le rose" - di buone intenzioni - qualche amico è sincero, conosce e ama davvero la scuola bolognese - di spirito di crociata. Al di là di queste note di colore, io avevo maturato la mia posizione già da qualche tempo, ma naturalmente la dichiarazione del sindaco mi ha tolto ogni dubbio: voterei contro l'ex-Pd anche in una riunione di condominio.  
Al di là della mia posizione schiettamente politica anti-Napolitano, anti-Pd, anti-larghe intese, provo a motivare le ragioni della mia scelta, che nascono anche dalla mia personale esperienza politica, per quanto datata. Credo infatti che faccia un cattivo servizio - da ambo le parti - chi antepone le proprie convinzioni politiche e la polemica sull'attualità al merito della questione: al di là della tema costituzionale posto da Rodotà - che è sacrosanto a prescindere - provo a partire dai bambini e dai loro diritti. Io all'inizio degli anni Novanta facevo l'assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Granarolo e il tema lì non si poneva, perché non c'erano scuole materne private e soprattutto perché il pubblico riusciva a soddisfare completamente la richiesta delle famiglie: sostanzialmente tutti i bambini in età potevano frequentare la scuola materna pubblica. Anzi nel mio comune di allora il problema era un po' diverso, perché c'erano quattro sezioni di scuola materna comunale e due sezioni di scuola materna statale, a cui se ne aggiunse una terza proprio nell'anno in cui divenni assessore. Da noi la discussione verteva piuttosto sull'opportunità di passare allo stato anche le nostre sezioni di scuola materna, perché era effettivamente pesante per un Comune di quelle dimensioni mantenere un servizio di quel genere. C'erano resistenze sia da parte del personale, che nel passaggio ci avrebbe un po' rimesso, sia soprattutto da parte delle famiglie, perché oggettivamente l'offerta educativa della scuola comunale era migliore di quella della statale, prima di tutto per il valore delle insegnanti, ma anche per una serie di scelte che erano state fatte negli anni. Ricordo che queste strutture erano nate, insieme agli asili nido, all'inizio degli anni Settanta, in una stagione ricca di fermenti politici, culturali e sociali; probabilmente questi servizi, insieme alla legge Basaglia, sono il frutto più solido e positivo di quella stagione di riforme. Per chi ci lavorava, ma anche per noi che facevamo gli amministratori - e in quel momento anche per le famiglie - c'era un elemento imprescindibile: asilo nido e scuola materna erano a tutti gli effetti "scuole" e come tali dovevano essere gestite. Ad esempio il Comune di Granarolo - ma cosa analoga avveniva in altre realtà, più grandi e più piccole - si avvaleva del lavoro di una coordinatrice pedagogica, cosa che non avveniva nella materna statale; successivamente, grazie ad un accordo con la direzione didattica - allora si chiamava così - il Comune, mettendoci proprie risorse, fece in modo che la coordinatrice comunale intervenisse anche nella programmazione della statale e le cose un po' migliorarono, almeno perché così c'era maggior uniformità nell'offerta pedagogica, ma le resistenze erano ancora forti da parte di quel personale.
Al di là della specifica vicenda di Granarolo, la logica che stava dietro al sistema integrato aveva dei punti che allora condividevo. Il pubblico - ossia l'amministrazione statale e i comuni - non riusciva da solo a garantire la creazione di nuove scuole materne, infatti sarebbero servite molte risorse per costruirne di nuove e per assumere nuovo personale; sul territorio esistevano già altre scuole materne, private, legate alle parrocchie, con strutture e personale, più o meno adeguati, in alcuni casi anche di buon livello. C'era poi un altro dato di fatto; per molte famiglie la scelta della scuola materna confessionale non era legata a una scelta educativa e religiosa - personalmente ho conosciuto pochissime famiglie che preferivano scuole confessionali a quelle pubbliche, anche quando il problema non era di natura economica, ossia quando potevano permettersi di pagare rette più alte rispetto a quelle della scuola pubblica - statale e comunale - che era comunque gratuita. Molti sceglievano la scuola paritaria semplicemente perché non c'era posto alla statale. Quindi il problema si spostava sul diritto dei bambini - e delle bambine ovviamente - di aver garantito un servizio il più possibile omogeneo e di qualità. In quella logica il finanziamento pubblico alle scuole private non era un semplice contributo, a "fondo perduto", ma veniva erogato nel momento in cui quella scuola, privata e confessionale, accettava di essere parte di quel sistema, ad esempio da un punto di vista pedagogico, pur mantenendo la propria identità culturale. Un aspetto importante, ad esempio, riguardava l'integrazione dei bambini stranieri, in un momento in cui il nostro territorio passava da un'immigrazione fatta di soli uomini a una composta di famiglie: non era infrequente che il figlio di una famiglia musulmana frequentasse una scuola materna cattolica e bisognava trovare la soluzione, pedagogica e culturale, al problema. In sostanza il sistema delle scuole materne, complessivamente inteso, doveva rafforzarsi e questo sarebbe stato un vantaggio per tutti i bambini. Questo sistema però presupponeva che l'elemento forte, trainante, dovesse essere comunque la scuola pubblica, con i suoi valori costituzionali ed educativi. Purtroppo non è quello che è avvenuto in questi anni e quel processo non è stato governato in questo modo. Anni di martellamento sul concetto che "privato è bene, pubblico è male" non sono passati invano, le scuole pubbliche, specialmente quelle rivolte all'infanzia, hanno goduto di sempre meno attenzione politica e di sempre minori finanziamenti. Gli asili nido e le scuole materne sono considerate sempre meno scuole e sempre più servizi sociali: è proprio l'opposto - come ho cercato di spiegare - dell'impostazione iniziale, per la quale altri hanno lottato e alcuni di noi hanno lavorato.
Mi pare che il ragionamento di chi propone il referendum parta da questo punto: mentre vengono ridotti i fondi alla scuola pubblica, che senso ha continuare a garantire la stessa quota di finanziamento comunale per le scuole private? Non sarebbe meglio destinare tutti i fondi disponibili alla scuola pubblica? E questo deve necessariamente portarsi dietro una riflessione complessiva sul modello di scuola che vogliamo e di cui ha bisogno la nostra società. Io con questo spirito vorrei votare "A" domenica 26, consapevole però che sarebbe soltanto l'inizio di un cammino lungo e complicato. Per come la vedo io, questo referendum, al di là delle polemiche politiche di lunedì 27 su chi avrà vinto e chi avrà perso, e perfino al di là dei destini irrilevanti di Merola e del partito mal nato, dovrebbe servire a porre il tema della scuola all'attenzione del dibattito politico e sociale. Su questo purtroppo sono pessimista.

domenica 12 maggio 2013

Considerazioni libere (361): a proposito di stare in rete (e di come starci)...

Ho l'impressione che in questi giorni della rete si parli un po' a sproposito. A volte mi capita perfino di leggere Rete, con la "r" maiuscola, come se fosse una qualche entità soprannaturale. Io, pur usandola, non ne capisco molto e credo di essere in buona e folta compagnia. Proprio per questo provo a fare alcune riflessioni partendo da come uso io la rete e quindi tenete conto che potrebbero essere del tutto sbagliate; prendetele come mi vengono, con beneficio d'inventario.
La rete a me serve prima di tutto per essere informato o - sarebbe meglio dire - più e meglio informato. Certamente la rete è un grande aiuto e ti permette di accedere a fonti che difficilmente avresti potuto raggiungere in un altro modo, ma io - come credo molti di voi - cerco in rete solo quello che voglio trovare. Quando andavo sempre in edicola e avevo la possibilità - oltre che la necessità - di acquistare tutti i giorni più quotidiani, compravo sempre gli stessi giornali - ad esempio non ho mai comprato il Giornale, né quando era un vero quotidiano, né quando è diventato quello che è ora, ossia insana pornografia politica. Anche quando avevo meno soldi, ma facevo il pendolare e quindi avevo parecchio tempo libero, compravo sempre lo stesso giornale. Poi nei giornali che acquistavo, tendevo spesso a leggere certi articoli piuttosto che altri, così quando acquistavo il Corriere non leggevo mai gli editoriali di Ostellino, tanto sapevo cosa scriveva e sapevo già di non essere d'accordo con lui. Da quando vivo a Salsomaggiore ho smesso di acquistare un quotidiano, essenzialmente perché a me piace leggerlo la mattina e la mattina adesso non ho più tempo per farlo, perché fortunatamente lavoro a cinque minuti di distanza da dove vivo. Il pomeriggio e la sera, a seconda di quando finisco di lavorare, leggo le notizie e i commenti in rete, ma le mie scelte, nonostante il ventaglio delle possibilità sia incredibilmente più ampio di quando andavo in edicola ed estremamente più conveniente, non sono molto cambiate in questi anni. Continuano a esserci giornali e giornalisti che non leggo - e che non leggerò mai, da vecchio settario quale sono - e giornali e giornalisti che leggo con passione e interesse. Secondo lo stesso principio per cui non ho mai guardato i telegiornali delle reti Mediaset e ho ormai smesso da tempo di guardare quelli dei tre principali canali della Rai.
La rete mi ha permesso di fare una specie di mio "giornale ideale" - un po' come una volta c'era la selezione "resto del mondo", con i migliori calciatori di tutti gli altri paesi che giocavano contro una specifica nazionale - così leggo sempre Serra e Sofri da Repubblica, Franco dal Corriere, Sardo dall'Unità , Revelli e Viale dal Manifesto e così via. Poi consulto sempre Il Post, perché ci sono autori che mi piacciono e ha un taglio molto interessante, alternando notizie e approfondimenti di natura molto diversa; cerco di leggere il più regolarmente possibile alcuni altri siti, perché - come OsservatorioIraq - mi tengono informato su alcuni temi specifici. Poi capito spesso sul sito di Internazionale, l'unica rivista che comunque continuo a comprare anche in edicola. Infine leggo i blog di persone che stimo e con cui spesso sono d'accordo, come Mauro Zani e Corradino Mineo. Ora, se non ci fosse la rete questo non riuscirei mai a farlo, dovrei comprare molti quotidiani ogni giorno e comunque non potrei mai leggere i blog, ma non è la rete che ha cambiato o cambia le mie idee, quelle stanno lì e tendono a rimanere quelle o comunque cambiano - perché sono effettivamente cambiate in questi anni - per una mia evoluzione, legata anche alle letture che ho fatto e che faccio. In sostanza credo che la rete sia un'opportunità che sta a ciascuno di noi usare o non usare, usare bene o male; la rete è un mezzo - più potente di altri, senza dubbio - ma che non sostituisce in sé il messaggio. Provo a spiegare meglio questo concetto. L'accesso alla rete è diventato un elemento essenziale del progresso democratico, deve essere un diritto e giustamente Stefano Rodotà propone di inserirlo tra i diritti fondamentali della prima parte della nostra Costituzione. E' giusto e dobbiamo lottare affinché questo obiettivo sia raggiunto. Ma non facciamoci illusioni; anche in una società ideale in cui tutti abbiano accesso libero e gratuito alla rete, non è detto che ci sia maggiore trasparenza e soprattutto maggiore condivisione delle informazioni. Questa crescita di consapevolezza democratica e civile passa ancora attraverso l'educazione, la sua libertà e il suo pluralismo. E infatti non credo sia un caso che nella nostra società, in cui si restringono pericolosamente democrazia e diritti, chi è al potere faccia di tutto per smantellare la scuola pubblica e per favorire quella privata; ma questa è un'altra storia, su cui proverò a scrivere qualcosa in un'altra occasione.
Poi io - come altri - uso la rete anche in un altro modo, ci scrivo sopra o dentro, come preferite. Ho scoperto che in Italia siamo in quattro milioni ad avere un blog: è un numero interessante e significativo. Ora qualcuno potrebbe giustamente dire che in fondo i blog esistevano anche prima della rete e si chiamavano diari. Tutto sommato è giusto, anche se in questo caso il mezzo finisce per essere parte del messaggio. Anche prima della rete molte persone avevano un quaderno delle ricette, perfino mia madre e immagino anche le vostre. La rete ha offerto una possibilità in più: da un lato l'appagamento di una legittima vanità e dall'altro la curiosità di conoscere nuove cose. E qualcosa di simile avviene per tutti coloro che condividono, attraverso i loro blog, un hobby o una passione artistica. Anzi forse la rete ha offerto uno stimolo in più alla creazione artistica. Parlo ancora una volta di me: quasi sicuramente se non avessi avuto la possibilità di farli leggere a qualcun altro - oltre a mia moglie - probabilmente non avrei scritto i piccoli racconti che trovate qui. Naturalmente non se ne sentiva la mancanza e sono irrilevanti per la storia della letteratura italiana di questo secolo, ma nonostante tutto sono nati perché c'è la rete e vivono in rete. Credo che questo sia vero per creazioni artistiche di ben altra rilevanza e che invece avranno altro peso nella nostra cultura; e di questo dovremo ringraziare la rete.
Poi c'è la dimensione politica e questa, ovviamente, mi interessa di più. Io - e credo alcuni altri amici - uso questo strumento per continuare un impegno politico che in un'altra stagione mi ha visto partecipare attivamente e direttamente alla vita di un partito e, attraverso questo, delle istituzioni. Dal momento che un partito in cui militare non l'ho più, avrei dovuto smettere di partecipare, limitandomi al voto, nelle occasioni consentite. Oggettivamente la rete offre a una parte di cittadini alcune possibilità nuove, che probabilmente non abbiamo ancora del tutto capito. Riusciamo effettivamente a partecipare? In qualche modo sì. A patto di non credere alle scempiaggini sentite in questi ultimi giorni. Esiste il "popolo della Rete", di cui si favoleggia nei giornali? Ecco una cretinata spesso evocata, secondo alcuni sciocchi avrebbe avuto addirittura un ruolo nell'elezione del presidente della Repubblica, determinando la mancata elezione di Marini. Bersani - lo ricorderete - ha ordinato ai parlamentari del Pd di spegnere Twitter nelle successive elezioni, dimostrando davvero poca lucidità. Io in quei giorni ho scritto, molto, ovunque mi fosse possibile, su questo blog, su Twitter, su Facebook; ho mandato due mail a Bersani, ho mandato dei messaggi ad alcuni amici diventati deputati e senatori del Pd. Ho ottenuto qualcosa? Assolutamente no, visto che abbiamo raggiunto per me il peggior risultato possibile: la rielezione di quello che considero il più pericoloso e antidemocratico presidente della storia repubblicana, la nomina di un governo fantoccio, che risponde unicamente ai dettami delle autorità finanziarie internazionali, il ritorno sulla scena di un personaggio come B. e infine il suicidio dell'ex-Pd. Potevo stare zitto? Visti i risultati sì, ma almeno non possono dire che l'hanno fatto in mio nome e, se le mie riflessioni sono servite a far nascere un dubbio anche a una sola persona, non mi considero del tutto sconfitto. La rete serve a far esprimere pareri, a volte anche in maniera viscerale e poco ponderata, ma è più o meno lo stesso che avviene in una piazza. Anche in questo caso non c'è una differenza qualitativa, ma soltanto quantitativa.
Infine penso che sulla rete si possa organizzare quel minimo di resistenza che ci è ancora possibile. E infatti adesso, non a caso, da Napolitano in giù, hanno individuato nella rete il "nemico". Dicono che le nostre parole sono pericolose. La rete è uno spazio della democrazia e di conseguenza la vogliono limitare, così come in questi vent'anni hanno limitato il potere e il ruolo del parlamento, hanno depotenziato lo strumento referendario e sono riusciti a eliminare i partiti - a onor del vero, bisogna dire che i partiti, compreso il mio, hanno fatto di tutto per favorire questa distruzione. Poi cos'è diventato il mondo dell'informazione è sotto gli occhi di tutti, purtroppo. Proprio perché questo è l'ultimo ambito che ci è rimasto e visto che "loro" vogliono togliercelo, dobbiamo fare attenzione, non sprecare questa opportunità e soprattutto non cadere nelle provocazioni, nelle trappole che ci tenderanno sempre più spesso e in maniera sempre più subdola. Ad esempio dobbiamo evitare una possibilità che pure la rete ci offre, ossia quella di restare anonimi: dobbiamo metterci la firma e la faccia, sempre. Per me è essenziale e credo debba diventare una delle regole base di questa nuova resistenza. E pur senza cadere nell'errore di porci castranti autocensure, non dobbiamo usare un linguaggio che inneggia alla violenza. In nessuna occasione e contro nessuno, neppure contro quello che odiamo di più, non serve nemmeno che vi dica chi è. Anzi, su questo dobbiamo essere per primi noi resistenti a chiedere il rispetto delle regole; nei giorni scorsi Rodotà ha detto su questo punto alcune parole molto chiare, che faccio mie: "La rete non ha bisogno di una legge speciale, le regole ci sono già. Bisogna solo farle rispettare. C'è un vecchio detto che quello che è illegale offline lo è online". Noi, proprio perché siamo più deboli, abbiamo interesse che le regole ci siano e che vengano rispettate.
Ho già avuto occasione di scriverlo, ma lo voglio ripetere. Io non ho intenzione di abbassare i toni, così come non voglio partecipare a nessuna pacificazione. In una recente occasione solenne, nel ricordare le vittime del terrorismo, Napolitano ha condannato un uso delle parole che può alzare il lvello dello scontro politico; in sostanza il presidente non vuole che si disturbi il manovratore. Io continuerò a disturbarlo, nel mio piccolo, senza nessun timore e senza nessun rispetto per la sua età e la sua storia. Naturalmente per lui e per quelli come lui sarà una puntura di spillo, ma abbiamo il dovere da farlo.

"Paesaggio con la caduta di Icaro" di William Carlos Williams


Secondo Brueghel
quando Icaro cadde
era primavera

un contadino stava arando
il suo campo
la fastosa parata

dell'anno era
in atto tintinnando
presso

la riva del mare
attenta solo
a sé stessa

sudando sotto il sole
che scioglieva
la cera delle ali

al largo della costa
uno spruzzo
insignificante

affatto
inosservato era
Icaro che annegava

mercoledì 8 maggio 2013

"Ci può essere un mattone" di George Oppen


Ci può essere un mattone
in un muro di mattoni
lo prende l'occhio

calmo di una domenica
ecco il mattone, aspettava
lì dove sei nata,

Mary-Anne

sabato 4 maggio 2013

Considerazioni libere (360): a proposito dei greci (e anche di noi)...

Il fatto che non si parli più della Grecia non significa che i problemi di quel paese siano risolti: tutt'altro. E' naturale che "loro" non parlino volentieri di quel paese, così come un medico tende a non vantarsi di un paziente che, nonostante tutte le medicine che gli sono state somministrate, continua ostinatamente ad aggravarsi; anzi in questo caso sono proprio le cure di questo medico presuntuoso e arrogante a portare alla morte il paziente. La cosa non è molto rassicurante, tanto più sapendo che lo stesso medico ha in cura anche noi. Per ora la Grecia serve ai governi di centrodestra dell'Italia e della Spagna per poter dichiarare di essere i penultimi nelle classifiche della crisi. Ci dicono infatti i nostri governanti e i loro prezzolati corifei: "certo la disoccupazione è alta, ma mai come in Grecia, certo lo spread è alto, ma mai come in Grecia", e così noi dovremmo stare tranquilli. In questo modo si rassicura un paese che invece è condotto diritto al precipizio: i greci hanno avuto soltanto la sfortuna di caderci per primi. Però anche noi "sinistri sparsi" - o "esodati della politica", per usare una bella espressione di Marco Revelli - abbiamo delle responsabilità in questo oblio della situazione greca: ci siamo così avvitati nel dibattito intorno alle cose italiane, che ci siamo dimenticati di quello che succede in quel paese vicino, i cui abitanti stanno oggettivamente peggio di noi, anche se tra poco tempo li raggiungeremo.
Cercando nella rete però qualche notizia si trova. Io ne ho raccolte alcune e ve le riporto, cercando di offrirvi un'istantanea di quello che succede in quel paese a noi così vicino e caro.
Forse avete visto anche voi le immagini della distribuzione di cibo in piazza Syntagma da parte di Alba dorata; mi ha colpito la massa di persone in fila per avere un sacchetto di patate, una confezione di sei uova e un pezzo di pane dolce per la festa della Pasqua ortodossa. La miseria evidentemente fa paura e ti fa accettare anche l'umiliazione di dover esibire un documento, perché quel poco cibo era riservato soltanto a chi poteva dimostrare di essere un "vero" greco, escludendo quindi gli stranieri. La notizia ha avuto una qualche eco perché il sindaco di Atene ha avuto il coraggio di vietare quella manifestazione fascista e ha trovato dei poliziotti disponibili a far sgombrare la piazza; soprattutto fa meraviglia questa seconda cosa, visto che ormai i fascisti di Alba dorata sono maggioranza all'interno delle forze dell'ordine greche. Un parlamentare di quel partito ha in seguito minacciato il sindaco, entrando armato nel municipio di Atene. Al punto in cui sono arrivate le cose in Grecia, l'intervento del sindaco, pur animato da buone intenzioni, finisce per favorire Alba dorata, perché la gente continua ad avere fame e alle prossime elezioni si ricorderà di chi ha dato loro un pezzo di pane. In Italia non c'è ancora un movimento fascista di quelle dimensioni, ma questa vicenda dovrebbe un po' farci riflettere. Poco prima di diventare ministro, il presidente dell'Istat Giovannini ha spiegato che in Italia circa il 20% del pil è prodotto dall'economia non osservata, ossia da "attività legali prodotte in modo amministrativamente non corretto". Poi naturalmente c'è la criminalità organizzata che, secondo stime probabilmente prudenti - e comunque ovviamente difficili da controllare - produce da sola un altro 20% di pil, costituendo di fatto la prima attività economica del nostro paese. Quindi in Italia, se non ci sono le file di persone davanti ai camioncini di un qualche partito populista è anche "merito" della criminalità organizzata e delle attività illegali, che in qualche modo assicurano un reddito, per quanto ridotto, a una bella percentuale di nostri concittadini. Ovviamente questo welfare mafioso non è a buon mercato, ma la miseria appunto fa paura, a ogni latitudine. Forse non è un caso che in questa crisi politica - molto simile a quella vissuta vent'anni fa dal nostro paese - la mafia abbia mantenuto un profilo molto basso, a differenza appunto con quello che è successo in quel delicato passaggio storico, quando intervenne in maniera molto pesante nel dibattito politico, con gli omicidi, con le stragi e con le trattative. Questa volta la criminalità organizzata ha preferito il silenzio, perché probabilmente questa è la strategia a lungo periodo vincente. Peraltro io ho trovato grave che nel lungo ed enciclopedico discorso programmatico di Letta, dove hanno trovato spazio i temi più disparati, la lotta alla criminalità organizzata sia stata citata una volta sola, inserita in maniera superficiale, in un inciso, con un po' meno enfasi della lotta contro l'obesità. Come se qualcuno fosse preoccupato che la fine della criminalità organizzata faccia finire anche il sistema di welfare da essa organizzato, rendendo ancora più evidente la crisi italiana. Se così fosse perfino il tema della trattativa del '92 finirebbe per essere superato dagli eventi.
Torniamo in Grecia. Per chi vuol fare affari questo è un momento davvero propizio. Nel "monopoli" organizzato dalla troika con i beni dei cittadini greci i prezzi sono particolarmente vantaggiosi: la società petrolifera costa mezzo miliardo di euro, l'aeroporto di Atene 700 milioni, tutti gli aeroporti regionali - hanno fatto un "pacchetto" per rendere più allettante l'offerta - 400 milioni, la lotteria di Stato 550 milioni. L'emiro del Qatar si è comprato l'arcipelago delle Echinadi - vicino a Itaca - per poco più di 8 milioni. I tecnici del Fondo monetario internazionale, che hanno l'incarico di spiegare ai loro colleghi greci come si fa a "valorizzare" il patrimonio pubblico, hanno insistito affinché gli scavi archeologici, le foreste e tutti gli altri beni naturali e demaniali fossero inventariati, per il momento con un valore simbolico. Tutti escludono che si possa vendere il Partenone. Per ora. Anche perché prima dei ruderi ci sono cose su cui si può guadagnare, da subito. Il governo greco ha bandito la gara per la vendita del 51% della società che gestisce il servizio idrico a Salonicco, sperando di ricavarne 80 milioni di euro. Dal momento che ogni anno questa società ne incassa circa 20 milioni, questa vendita pare un affare, a cui sono interessati i due colossi francesi del settore, Suez e Veolia, che infatti hanno già incontrato i ministri greci, accompagnati dal presidente Hollande. Eldorado Gold è il nome evocativo che ha scelto una società canadese per acquistare un terreno demaniale nella penisola calcidica per 11 milioni di euro, proprio per avviare l'estrazione dell'oro. La popolazione ha protestato perché le attività inquinanti della miniera a cielo aperto avranno forti ripercussioni per l'ambiente e per le attività turistiche della zona. Non c'è stato spazio per il dialogo e infatti il governo ha inviato una squadra speciale di polizia da Atene per reprimere le proteste; in rete si trovano le testimonianze delle persone ferite durante una manifestazione del gennaio scorso. I conti però sembrano non tornare, infatti l'agenzia governativa incaricata di eseguire tutte queste vendite stima di incassare 7 miliardi di euro; una cifra considerevole, ma irrilevante di fronte ai 270 miliardi del debito greco. Credo che anche ai più ingenui e a quelli in buona fede nasca a questo punto il sospetto che gli interessi in gioco siano altri. Anche in questo caso forse noi italiani dovremmo cominciare a fare attenzione: appena si accorgeranno che anche noi potremmo avere qualcosa di bello da vendere, si faranno vivi. In questa ottica la battaglia sui beni pubblici, portata avanti tra gli altri da Stefano Rodotà, diventa un po' meno velleitaria e fuori dal tempo, come qualcuno vuol farci credere, non casualmente, in questi giorni. E, per inciso, in queste condizioni e di fronte a questi famelici appettiti, sarebbe stato utile avere come presidente della Repubblica un uomo come Rodotà e non uno come Napolitano, succube di qualsiasi stormir di fronda che venga da Francoforte e da Washington.
Ammalarsi in Grecia è diventato un problema piuttosto serio, perché il servizio sanitario non è più gratuito e garantito a tutti e negli ospedali ormai scarseggiano le medicine, anche perché le multinazionali del settore, come Roche e Novartis, le forniscono solo se c'è il pagamento anticipato. Il terzo aggiustamento strutturale dettato dalla troika e ratificato dalle autorità greche ormai commissariate - anche questo, non so perché, mi ricorda qualcosa - prevede una riduzione delle spese sanitarie del 20% e altri tagli per 13 miliardi di euro. Come è evidente siamo sempre lontani dalla quota di 270 miliardi. Nessuna di queste misure è in grado di sanare la situazione; in queste condizioni il fallimento è non solo inevitabile, ma di fatto è già avvenuto. Il sospetto - ma gli indizi sono ormai tanti da diventare una prova - è che si aspetti a dichiarare il fallimento, perché prima i grandi investitori internazionali vogliono comprarsi, a prezzi stracciati, le infrastrutture, le società pubbliche e i beni comuni, che possono essere valorizzati. Il tema a questo punto non è solo rinegoziare il debito - come sta continuando a fare il governo Samaras, insaponando la corda a cui verrà alla fine impiccato - ma cancellarlo. E farlo prima che la Grecia sia completamente spolpata. Naturalmente dire che il debito è illegale e quindi rifiutarsi di pagarlo sarebbe come dire che il re è nudo ed è considerato un atto da terroristi, da sovversivi, da pazzi anarchici. Eppure a questo punto è la sola soluzione per salvare la Grecia e, tra qualche mese, l'Italia. Fortunatamente per "loro" in Italia - come in Grecia - il pericolo è scongiurato. Il governo è saldamente in mano alle forze del centrodestra e i cosiddetti partiti del centrosinistra - il Pasok e l'ex-Pd - sono chiamati al compito della mosca cocchiera. Anche per questo della Grecia abbiamo bisogno di parlare ancora.

mercoledì 1 maggio 2013

"Cento anni sono un giorno" di Roberto Roversi


Cento anni sono un giorno,
un giorno solo.
E in un giorno si possono incontrare tutti
gli occhi tutte le mani tutte le fatiche
che per cento anni hanno scavato il mondo.
Il mondo non è stato buono
con le mani con le fatiche che hanno scavato
e con gli occhi che l’hanno guardato.
Gli occhi hanno visto il sangue scendere
sopra la fatica delle mani.
Cento anni fa c’era una speranza forte
dentro alla fame e al dolore.
Cento anni fa cominciava un cammino
che non è ancora finito. Non è ancora finito.
Il cammino è incominciato quando
una voce ha risposto a una voce
una mano ha stretto una mano
un passo ha seguito l’orma di un passo
e voce mano passo camminavano avanti.
Quando una voce ha gridato “fratello”
ed è arrivato un fratello
quando ha chiamato “compagno” “compagna”
e una piazza si è riempita di gente.
La lotta è speranza del futuro.
Poi il futuro è arrivato
ancora le voci si chiamano
si ascoltano i passi, le mani si stringono insieme.
Nessuno dei vecchi
è ancora un’ombra dispera nel sole
e sulla strada sempre segnata di orme
arrivano i giovani e portano nuove bandiere
i giovani arrivano e portano le nuove parole.