venerdì 5 luglio 2013

Considerazioni libere (371): a proposito di chi è sceso in piazza...

Siamo al Termidoro? O, in un'ipotesi più pessimista, al 18 brumaio? So che questi paralleli storici - per quanto intriganti - finiscono sempre per farci commettere degli errori ed è impossibile fare paragoni tra la Francia della fine del settecento e l'Egitto dei tempi nostri. Certo una rivoluzione si è spezzata e questo merita una qualche riflessione, anche perché le manifestazioni di piazza Tahrir di due anni fa avevano alimentato molte nostre speranze. Ci sono due elementi che, secondo me, hanno caratterizzato quella stagione di proteste, tra il nord Africa e il Medio oriente. Il primo è la disperazione di una massa sempre più grande di giovani, che non riuscivano - e non riescono - a immaginare per se stessi un futuro nel loro paese; e non hanno neppure l'opzione estrema dell'emigrazione, visto che la crisi colpisce con violenza allo stesso modo gli stati di quelli che un tempo era chiamato il "primo mondo", tanto da spingere anche i giovani di quei paesi in piazza, per la stessa ansia verso il futuro. Il secondo elemento è che quelle proteste hanno spezzato il vincolo che tenevano uniti quei paesi - i ceti popolari quanto quelli borghesi - con regimi che giustificavano il loro essere dittature con l'esigenza di fare fronte comune contro un nemico esterno, gli Stati Uniti e Israele prima di tutto; con le "primavere arabe" quei popoli hanno capito che il loro vero nemico erano quei regimi, illiberali, incapaci, corrotti, e hanno così trovato il loro nemico interno, nei tiranni, da Ben Ali a Mubarak, nei loro servi e in quei profittatori che sempre prosperano quando c'è un regime. Così la "primavera egiziana" - come le altre primavere - è stato un misto di lotta di classe e di rivoluzione. Ma si è trattato di una rivolzione sui generis, perché è mancato il soggetto rivoluzionario e quindi la protesta si è presentata con molti volti e altrettante istanze diverse. Una rivoluzione è tale se prevede che chi scende in piazza voglia e possa governare: per questo allora non poteva definirsi tale e purtroppo non può essere chiamata così questa recentissima sollevazione, che pure ha accompagnato - anche se probabilmente non vi ha contribuito in maniera determinante - la caduta del presidente Morsi. Chi è sceso in questi giorni in piazza - come è avvenuto ormai due anni fa - si limita a protestare, ma non cerca davvero di prendere il potere e forse non ne è in grado. Peraltro questa impotenza, questa incapacità di farsi soviet - per voler fare un altro parallelo con l'altra grande rivoluzione della nostra storia - è qualcosa che unisce tutti i momenti di protesta di questi ultimi anni, dagli indignados spagnoli ai turchi di piazza Taksim, dai giovani di OccupyWallstreet a quelli delle "primavere" appunto: questa rinuncia alla rivoluzione è qualcosa su cui dovremo interrogarci, e probabilmente rammaricarci, anche noi della sinistra riformista. Adesso ci sarebbe bisogno di rivoluzione, eppure noi abbiamo fatto tanto per sradicare questa parola perfino dal nostro vocabolario.
E così in Egitto, mentre noi, dalle nostre comode posizioni, ci illudevamo che le proteste portassero in breve tempo verso un nuovo potere, democratico, liberale, popolare, consapevole del ruolo e dei diritti delle donne, ci si è naturalmente affidati a chi c'era già, a chi era riuscito, nonostante il regime di Mubarak, a rimanere in campo, ossia i Fratelli musulmani, forti della loro identità religiosa e soprattutto della rete di assistenza cresciuta intorno alle moschee. Mi è capitato già di fare questo paragone con l'Italia post-bellica: la Democrazia cristiana vinse le elezioni non tanto per il ruolo che ebbe nella guerra di Liberazione - ben inferiore a quello dei comunisti, ma anche a quello degli azionisti, che rapidamente sparirono - ma perché rappresentava un'identità conosciuta e riconosciuta e perché, nella fine caotica di un regime, la rete delle parrocchie aveva comunque rappresentato un legame per tutto il paese, da nord a sud. E adesso, scontati gli errori di Morsi e dell'islamismo politico, ci si è affidati nuovamente a chi c'è da sempre, ossia l'esercito che ha saputo liberarsi degli elementi più compromessi con il regime di Mubarak - che, non bisogna mai dimenticarlo, era un militare, come Sadat prima e Nasser ancora prima, per quanto avesse adottato un più rassicurante completo occidentale - e quindi ha potuto schierarsi con la piazza, contro Morsi. Probabilmente non c'erano molte altre possibilità, perché altrimenti avrebbe dovuto rendersi responsabile di un bagno di sangue.
Io sono convinto che il punto intorno a cui tutto ruota sia comunque sempre quello: la povertà di un numero sempre maggiore di persone. E' la lotta di classe il centro del problema, e non credo sia un caso che la cosiddetta opposizione, dove ci sono sia partiti della sinistra sia esponenti della borghesia non trovi altro punto in comune se non la contrapposizione verso l'islamismo dei Fratelli musulmani. Fino a quando non ci concentreremo su questo e su una rivoluzione - il termine adesso è necessario - che stravolga i rapporti di produzione verso la sostenibilità etica ed ecologica e che abbia come proprio elemento fondante la redistribuzione delle ricchezze, nulla potrà cambiare. Come le "primavere" sono scoppiate a causa della crisi economica e i giovani in piazza Tahrir - come nelle città tunisine, libiche, algerine, yemenite - chiedevano pane prima che diritti, mi sembra che chi protesta oggi non abbia molto interesse per la questione islamica - che invece a noi occidentali "islamofobici" pare essenziale. I giovani che protestano contro Morsi protestano contro un governo, l'ennesimo, corrotto e incapace, che non ha saputo dare risposta alla crisi. Certamente ha pesato nello scollamento tra i Fratelli musulmani e l'altra metà dell'Egitto, quella concentrata nelle città, quella più giovane, quella più a contatto con i modelli occidentali, un moralismo bigotto e un puritanesimo che sembra fuori tempo, come dovevano sembrare anacronistiche a una parte d'Italia le campagne della Dc contro il divorzio e l'aborto alla fine degli anni sessanta. Morsi e i suoi compagni di partito non hanno pensato a come definire una politica economica soddisfacente che potesse in qualche modo mantenere a galla lo stato; già debole per le razzie subite da Mubarak e dai suoi uomini, l'economia egiziana è crollata nel giro di pochi mesi, e i Fratelli hanno aggiunto un forte malcontento sociale al rifiuto politico di cui erano oggetto da un pezzo largo del paese.
Qualunque cosa succederà in queste prossime settimane, non possiamo nasconderci dietro formule ipocrite: in Egitto c'è stato un colpo di stato militare contro un capo di stato legittimo e niente può giustificare gli arresti dei rappresentanti dei Fratelli musulmani. La democrazia non può nascere dalle armi di un esercito, tanto più come quello egiziano, che ha sempre tenuto il potere, che è ricco e corrotto: la dittatura liberale semplicemente non esiste. Certo l'Egitto adesso è un paese in subbuglio, e quel popolo difficilmente si lascerà togliere le libertà che è riuscito a conquistarsi. Intanto però l'esercito è uscito dalle caserme e non sarà facile farcelo tornare. L'ipocrisia degli Stati Uniti e dei paesi europei, pronti a riconoscere il nuovo governo egiziano, magari approfittando della foglia di fico di El Baradei, non aiuterà certamente chi in quel paese sta lottando perché la rivoluzione continui.
C'è un ultimo punto che voglio sottolineare, con preoccupazione: in questi giorni confusi, di sommosse popolari, alcune autentiche, altre che si suppone eterodirette, di matrice diversa e opposta, ci sono state molte vittime. Temo sia inevitabile - is not a dinner party - eppure molte delle vittime di queste violenze sono state donne. Questo naturalmente non è un caso. C'è una parte di quel paese - e non solo tra gli integralisti - che non vuole riconoscere alle donne il ruolo di cui hanno diritto. Anche in questo caso le donne sono uscite dalle case e non sarà facile farcele tornare.

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