giovedì 26 settembre 2013

Considerazioni libere (379): a proposito di modelli e di ricette...

In queste settimane Rai5 ha programmato un breve documentario della Bbc intitolato Food trail; se vi capita guardatelo. Sono quattro puntate di circa un'ora nelle quali un giovane agricoltore inglese, Jimmy Doherty, si interroga su come sia possibile dare da mangiare agli uomini del nostro pianeta, il cui numero è destinato a crescere, utilizzando un bene - il terreno agricolo - che tende invece a contrarsi. Doherty è un piccolo produttore che fa agricoltura sostenibile, ma in questo viaggio incontra soprattutto i grandi produttori di cibo. Jimmy non si fa troppe domande, non affronta in maniera sistematica temi come il land grabbing, o il consumo di enormi quantità di acqua o gli effetti dell'abuso dei pesticidi: sono tutti temi che rimangono sullo sfondo. Eppure credo che questo documentario sia utile per farsi un'idea di quello che succede nel mondo, su un tema centrale per lo sviluppo e per il futuro dell'umanità. Probabilmente sono cose che già sappiamo - a me è capitato di parlarne diverse volte in questo blog -, ma vederle sullo schermo fa un certo effetto: le immagini dell'esercito di quaranta enormi mietitrebbie che raccolgono il grano o delle batterie in cui sono allevati migliaia e migliaia di maiali nelle grandi fattorie degli Stati Uniti servono a farci riflettere. Non c'è più nulla di naturale in questa forma di agricoltura e di allevamento; così come è innaturale utilizzare enormi estensioni di terra africana e una quantità incredibile d'acqua per produrre in Kenya i fiori che vengono venduti sui mercati olandesi. C'è qualcosa in questa forma di sviluppo che evidentemente non funziona, anche quando porta vantaggi economici, che peraltro sono distribuiti in maniera molto diseguale. Comunque, anche se la ricchezza fosse più equamente ripartita, ci sarebbe qualcosa di malato in questo modo di produrre. Sono sempre più convinto che occorra partire da qui per far rinascere una speranza di cambiamento.
Negli ultimi trent'anni la globalizzazione si è sviluppata, seguendo due assi: il primo orizzontale, attraverso l'unificazione dei mercati; il secondo verticale, riunendo sotto il controllo del capitale finanziario e di pochissime persone la grande maggioranza delle attività economiche e produttive. Del primo effetto si è parlato molto, anche con toni enfatici e inutilmente ottimistici, sul secondo si è spesso sorvolato. Comunque l'effetto combinato di questi due fenomeni ha portato a quello che vediamo oggi: la concentrazione di un enorme potere economico in pochi grandissimi gruppi sovranazionali, che sono di fatto extra leges, la crescita delle diseguaglianze economiche all'interno di ogni singolo paese, la crisi ambientale che ha ormai toccato ogni parte del pianeta. Indipendentemente dalla crisi di questi ultimi anni - che comunque è un aspetto inevitabile di questi processi - l'umanità è destinata a soccombere, continuando a perseguire questo sistema di crescita senza regole. I teorici del finanzcapitalismo - la bella definizione è di Luciano Gallino - continuano a dirci che questo è il migliore dei mondi possibili, senza rendersi - e renderci - conto che ci stanno conducendo, a folle velocità, verso il baratro. Purtroppo il problema non è solo quello di sottrarre il volante a questi piloti sconsiderati, la soluzione non è quella di ridurre la velocità, ma è quella di cambiare radicalmente la direzione dell'auto. E su questo non c'è accordo, perché chi critica gli eccessi del finanzcapitalismo, non riesce a uscire dalle categorie che questo ha imposto.
Per passare alle vicende che ci toccano più da vicino e di cui tutti i giorni parliamo, più o meno coscientemente, è significativo vedere quali sono le diverse proposte per uscire dalla crisi. I teorici del liberismo sfrenato, quelli che siedono nei luoghi dove si decide davvero, ossia nelle istituzioni finanziarie internazionali, e soprattutto i grandi capitalisti, spiegano che l'unico modo per uscire dalla crisi è continuare a fare le stesse cose che ci hanno portato alla crisi; anzi, più velocemente e con maggiore determinazione. Le privatizzazioni sono state dannose? Bisogna privatizzare di più. Le liberalizzazioni hanno aumentato la povertà? Bisogna liberalizzare di più. So che qualcuno ritiene che il modo migliore per far passare la sbornia sia bere ancora; confesso che qualche volta - quando ero molto più giovane - mi è capitato di ubriacarmi e sinceramente ho usato altri metodi per farmela passare. Quello che succede in queste settimane in Grecia è l'esempio migliore di questo atteggiamento: i tecnici della troika stanno applicando a quel paese una cura da cavallo, che è destinata ad abbatterlo, utilizzando tutti quegli strumenti che sono stati gli elementi scatenanti della crisi. E la stessa cosa è già successa in decine di paesi, dall'Africa all'America centrale, con le conseguenze che sappiamo.
In Europa sta andando così e purtroppo le recenti elezioni in Germania lo hanno ulteriormente dimostrato. Merkel, con questa ultima, trionfante, vittoria, è riuscita ad assumere, ancora di più, la guida politica di un'Europa, che si costruisce intorno al compromesso tra i grandi gruppi economici e al loro dogma ultraliberista. La sconfitta del Spd è il frutto, scontato, della imbarazzante subalternità di questo partito, che ha votato praticamente tutte le leggi proposte dalla Cancelliera. E il fatto che anche lì nascerà un governo di "larghe intese", a trazione ultraliberista - come quello italiano - è la prova dell'inutilità dei partiti del centrosinistra tradizionale.
Naturalmente non ci sono solo gli ultraliberisti sfrenati, benché siano questi adesso a dettar legge. In Italia ad esempio sono loro al governo, attraverso i burattini che hanno messo al Quirinale e a palazzo Chigi. Purtroppo neppure i cosiddetti neokeynesiani hanno la forza teorica per uscire da questi rigidi paradigmi. I più radicali tra di loro chiedono al massimo un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dalla Bce, propongono di spostare un po' di risorse tra le voci di bilancio esistenti, magari un po' meno soldi per le armi e le grandi opere e un po' di più al welfare. Ma nessuno di loro mette in discussione questo sistema, nato dalla decisione, sostanzialmente anticostituzionale, di mettere il pareggio di bilancio in Costituzione e di accettare il fiscal compact. Per l'Italia questa scellerata decisione comporta il pagamento degli interessi sul debito per 80-90 miliardi di euro all'anno e, dal 2014, di un'ulteriore rata di 45-50 miliardi all'anno. E il problema - come ripeto spesso - non è purtroppo solo italiano; anzi. Obama, al di là di qualche generico impegno per incentivare la green economy, mai comunque veramente declinata in temi concreti, non ha ancora proposto nulla per uscire dalla crisi globale di questo modello di sviluppo. E dubito che lo farà.
In Italia, dove gli sciocchi sempre abbondano, si fanno proposte divertenti, fingendosi rivoluzionari. C'è chi propone di uscire dall'euro, sperando che la svalutazione della nuova lira possa far recuperare alle nostre aziende competitività sui mercati internazionali. E' una stupidata, infatti le pochissime aziende veramente in grado di competere hanno continuato a esportare, senza bisogno di questa misura; e inoltre il nostro problema è il crollo del mercato interno, perché sono calati in maniera drastica e drammatica i redditi da lavoro, oltre agli altri problemi endemici dell'economia italiana, a partire dal peso della criminalità organizzata. A proposito, in questi giorni il commesso viaggiatore di palazzo Chigi è andato negli Stati Uniti per invitare gli imprenditori di quel paese a investire in Italia: e non gli è venuto in mente che forse per imprenditori seri è un problema investire in un paese in cui le mafie controllano tanta parte del sistema produttivo? Non è un caso che la lotta alle mafie sia passata in secondo piano, visto che al governo c'è un partito che dalla mafia è ampiamente votato e quel partito è arrivato perfino a esprimere il ministro, siciliano, degli interni. Infine ci sono altri "spiriti allegri" che propongono di tornare al protezionismo. In genere chi pratica il protezionismo deve essere anche pronto a sostenerne le conseguenze, visto che gli altri paesi risponderanno alla stessa maniera: per un paese come il nostro, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, sarebbe un disastro.
Se queste ricette non funzionano, bisogna evidentemente trovarne altre, partendo dall'assunto con cui avevo cominciato questa "considerazione". Questo modello di sviluppo che mette al centro unicamente la crescita non è più in grado di reggere, perché è il mondo in cui viviamo che non è più in grado di reggerlo. Non è solo una questione etica - come ci ricorda con parole profonde il papa - e questo ci dovrebbe bastare per decidere di cambiare un sistema che è causa di miseria per la maggioranza delle persone che vivono nel nostro pianeta, ma è una questione di sopravvivenza, per tutti.
In Italia, come è ormai evidente perfino a qualcuno degli elettori-complici del centrodestra, c'è una crisi profonda, a cui la politica non sa dare risposta. Gli unici investimenti pubblici - che pure sarebbero auspicabili - sono indirizzati alle grandi opere, ossia nell'ennesimo attacco all'ambiente, con ricadute minime sull'occupazione e il rischio altissimo di infiltrazioni criminali. Il tessuto produttivo esporta prevalentemente beni strumentali e di lusso, mentre quelli che gli economisti chiamano beni-salario - ossia alimentari, abbigliamento, apparecchi elettrici, automobili di bassa gamma - vengono prodotti all'estero o da aziende straniere o da aziende italiane che hanno delocalizzato. Per questo perseverare diabolicamente su questa strada - anche in un'impostazione compassionevole, come quella proposta da una parte del centrosinistra - non risolve il problema dell'altissimo tasso di disoccupazione e di scarsissima domanda interna. Uscendo da questi paradigmi, ormai consumati, programmi di riconversione produttiva, politiche di sostegno all'occupazione, tutela dei redditi da lavoro, salvaguardia del welfare, investimenti nell'educazione e nella ricerca non sono possibili senza ricorrere alla spesa pubblica; questo è un punto evidente, ma questi investimenti non possono più essere governati a livello centrale, altrimenti il rischio è quello di cadere nella logica del Tav. Questi investimenti devono essere governati a livello locale, con reale e radicale coinvolgimento delle popolazioni, attraverso innovativi strumenti di democrazia partecipata. Non è un caso che invece il finanzcapitalismo delegittimi ogni forma di democrazia, a partire dalle istanze locali; in Italia significativamente la prima vittima sacrificale della crisi è stato proprio il sistema delle autonomie locali, attraverso l'imposizione del patto di stiabilità interno, che ha di fatto "chiuso" i Comuni.
Ma ovviamente non è soltanto una questione di metodo, ma è fondamentale il merito delle questioni. Il potere finanziario che ha ormai assunto il controllo delle decisioni politiche ed economiche non accetta altri paradigmi, se non quello della crescita continua, che si misura su un dato strettamente quantitativo. E' la logica dei grandi agricoltori descritti dal documentario della Bbc: produrre sempre di più, con sempre maggiori guadagni. E rinunciano perfino ad ascoltare altre proposte, che pure ci sono, si rifiutano di utilizzare risorse intellettuali che su questi temi hanno fatto proposte, i saperi diffusi, le buone pratiche. Paradossalmente è proprio l'impossibilità di andare avanti in questa direzione a suggerire la possibile l'alternativa, l'unica possibile. Dal momento che questa crescita distrugge l'ambiente, bisogna pensare a uno sviluppo che faccia l'opposto, e quindi partire proprio da questo valore. Le proposte ci sono e anche i nomi per raccontarle: alcuni la chiamano decrescita, altri conversione ecologica, altri ancora economia dei beni comuni; in fondo si gira sempre attorno allo stesso tema, ossia alla necessità di tenere insieme equa redistribuzione delle risorse e salvaguardia dell'equilibrio ambientale, perché non può esistere l'una senza l'altra. Accettando questa idea, si potrebbe perfino cominciare a cambiare.

lunedì 23 settembre 2013

da "Gli elementi del disastro" di Alvaro Mutis



Diceva Maqroll il Gabbiere:

Signore, perseguita gli adoratori del serpente lascivo!
Fa che tutti concepiscano il mio corpo come una fonte
inesauribile della tua infamia.
Signore, secca i pozzi che stanno in mezzo al mare dove i
pesci copulano senza riuscire a riprodursi.
Lava i cortili delle caserme e vigila sui neri peccati della
sentinella. Genera, Signore, nei cavalli l'ira delle tue
parole e il dolore di vecchie donne senza pietà.
Smembra le bambole.
Illumina la stanza del pagliaccio. Oh Signore!
Perché infondi quell'impudico sorriso di piacere nella
sfinge di stracci che predica nella sala d'aspetto?
Perché hai tolto ai ciechi il bastone con cui laceravano la
densa felpa del desiderio che li assedia e li sorprende
nelle tenebre?
Perché impedisci alla selva di entrare nei giardini e di
divorare i sentieri di sabbia percorsi nelle sere di festa
dagli incestuosi, dagli amanti attardati?
Con la tua barba da assiro e le tue mani callose, presiedi,
oh fecondissimo!, la benedizione delle piscine
pubbliche e il conseguente bagno degli adolescenti
senza peccato.
Oh signore! accogli le preghiere di questo scrutatore
supplicante e concedigli la grazia di morire avvolto
nella polvere delle città, addossato alle gradinate di
una casa infame e illuminato da tutte le stelle del
firmamento.
Ricorda Signore, che il tuo servo ha osservato pazientemente
le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto.
Amen.

domenica 22 settembre 2013

Considerazioni libere (378): a proposito di relativismo...

Mi viene voglia di parafrasare Peppone: "Santità, qui si bara; i relativisti siamo noi". Al di là della battuta, è molto interessante la lunga intervista che papa Francesco ha rilasciato a Civiltà cattolica: Bergoglio affronta diversi temi e lancia molti messaggi, prima di tutto all'interno della sua comunità, ma anche a chi, come me, da quella comunità è - e vuole essere - fuori. Sinceramente credo che sia un'offesa all'intelligenza di Bergoglio - e anche alla nostra - dire che il papa è diventato relativista, come è capitato a qualche affrettato e incompetente esegeta delle parole papali di questi giorni. Un papa non può essere relativista, non deve esserlo; anzi chi crede in Dio, anche quando non è un papa, questo lusso non può permetterselo. Per noi atei è oggettivamente più facile: non c'è nessuno che ci garantisca la Verità e, dato che "l'uomo è misura di tutte le cose" - compresa ovviamente la verità -, è facile trarne la conseguenza che la Verità non esiste, ma esistono le "nostre" verità, plurali, mutevoli, contradditorie perfino. Se avete tempo e voglia di approfondire cos'è il relativismo per Protagora, qui potere trovare un breve testo che ho scritto qualche tempo fa.
Bergoglio crede nella Verità e la rivendica - lo deve fare, ci mancherebbe altro - eppure sa anche che esistono quelli che non credono e quelli che credono a un'altra Verità, anche la loro, a tutti gli effetti, con la "V" maiuscola. Molti altri, prima di questo papa, hanno pensato che quella loro Verità, così autorevolmente garantita, li autorizzasse a combattere - perfino a uccidere - per difenderla e per diffonderla; purtroppo sono ancora molti che la pensano così e questi infatti non amano papa Francesco, che invece si sforza di tener vivo un discorso di tipo radicalmente diverso.
Bergoglio non è relativista, è antidogmatico; naturalmente non è la stessa cosa, se non per chi, grazie a quei dogmi, ha costruito la propria fortuna. Credo sia utile leggere cosa dice il papa. 
C'è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio "concreto", diciamo cosi, è oggi. [...] È relativismo? Si, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell'incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l'incontro. [...] Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla "sicurezza" dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c'è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio.
Questo è un passo in cui il papa parla direttamente, e con parole molto chiare, alla sua chiesa, in particolare ai suoi "quadri intermedi", cardinali e vescovi. Mi auguro, per la comunità dei credenti, che questo messaggio si faccia strada, anche in orecchie che fino ad ora sono state poco disponibili ad ascoltarlo. Temo non sarà così, anche se confido in un mondo ecclesiale di base, che vedo molto attento a recepire questo messaggio. Di questo comunque non voglio - e non posso - occuparmi, perché si tratta di una comunità altra da me.
Credo però che le parole del papa possano essere utili anche per noi, perché il relativismo non è immune dal dogmatismo, anche se può sembrare un controsenso. Anche chi pensa che le verità non siano date una volta per tutte, ma nascano dal confronto degli uomini, deve fare lo stesso sforzo che papa Francesco chiede ai cattolici: cercare la verità in ogni vita umana. Sarà la "nostra" verità, incostante e mutevole, saranno le norme etiche che ci siamo dati e che sono destinate a trasformarsi nel corso dei secoli - così come le leggi morali degli antichi sono diverse da quelle della nostra epoca - eppure quella ricerca la dobbiamo fare, con la stessa umiltà, con la stessa voglia di sporcarci le mani, con lo stesso desiderio di metterci in relazione con gli altri. Non è semplice - ve lo dice uno che alle proprie idee è molto "affezionato", in maniera tenace e testarda - eppure questo è un insegnamento etico di grande valore. Io non posso fidarmi di Dio, perché non credo che esista, ma mi fido dell'umanità, del rapporto che si instaura tra gli uomini, proprio quando si rendono conto di trovarsi di fronte a un loro simile e che decidono che sia il momento di vivere in una comunità. Kant parlava della "legge morale dentro di noi"; ecco di questo mi fido e questa fiaccola dobbiamo cercare, senza paura, come esorta a fare Francesco con Dio. Oggettivamente cerchiamo due cose diverse, ma probabilmente l'importante è la ricerca, e anche il modo e lo spirito con cui la si compie. Personalmente credo poi che questo messaggio abbia anche un forte richiamo politico, perché quando si conduce una ricerca di questo genere, quando si va a fondo, è inevitabile cogliere le ingiustizie e indignarsi, tanto più perché cogli che quell'ingiustizia è fatta a qualcuno che è come te, che è te. Non sei un entomologo che osservi una colonia di formiche; stai osservando delle donne e degli uomini. E questa è un'indignazione feconda, perché ti porta a lavorare perché quelle ingiustizie non ci siano più.

venerdì 20 settembre 2013

"Distruggono il mondo" di Boris Vian


Distruggono il mondo
in pezzettini
distruggono il mondo
a colpi di martello
ma è lo stesso per me
è proprio lo stesso
ne resta abbastanza per me
ne resta abbastanza
basta che io ami
una piuma azzurra
un sentiero di sabbia
un uccellino pauroso
basta che ami
un filo d'erba sottile
una goccia di rugiada
un grillo di bosco
ma sì possono distruggere il mondo
in pezzettini
ne resta abbastanza per me
ne resta abbastanza
avrò sempre un po' d'aria
un filino di vita
nell'occhio un barbaglio di luce
e il vento tra le ortiche
e anche e anche
se mi sbattono in prigione
ne resta abbastanza per me
ne resta abbastanza
basta che io ami
questa pietra corrosa
questi ganci di ferro
dove spiccia un filo di sangue
io l'amo io l'amo
la superficie consumata del mio letto
il saccone e la lettiera
la polvere del sole
amo lo spioncino che s'apre
gli uomini che sono entrati
che avanzano che mi trascinano via
ritrovare la via del mondo
e ritrovare il colore
amo questi due lunghi travi
questa lama triangolare
questi signori vestiti di nero
mi fanno la festa e ne sono fiero
io l'amo io l'amo
questo paniere riempito di suoni
dove metterò a posto la testa
oh io l'amo per davvero
basta che io ami
un breve filo d'erba azzurra
una goccia di rugiada
un amore d'uccellino pauroso
distruggono il mondo
con i loro martelli pesanti
ne resta abbastanza per me
ne resta abbastanza cuor mio.

domenica 15 settembre 2013

"Il primo giorno di scuola" di Gianni Rodari


Suona la campanella
scopa scopa la bidella,
viene il bidello ad aprire il portone,
viene il maestro dalla stazione
viene la mamma, o scolaretto,
a tirarti giù dal letto...
Viene il sole nella stanza:
su, è finita la vacanza.
Metti la penna nell'astuccio,
l'assorbente nel quadernuccio,
fa la punta alla matita
e corri a scrivere la tua vita.
Scrivi bene, senza fretta
ogni giorno una paginetta.
Scrivi parole diritte e chiare:
amore, lottare, lavorare.

"Tutto è pronto" di Juan Vicente Piqueras


per Zaira...

Tutto è pronto; la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
Mi manca solo il quadro,
un diario di bordo, il dove, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.

mercoledì 11 settembre 2013

"Estadio Chile" di Victor Jara


Siamo in cinquemila, qui,
in questa piccola parte della città.
Siamo in cinquemila.
Quanti siamo, in totale,
nelle città di tutto il paese?
Solo qui
diecimila mani che seminano
e fanno marciare le fabbriche.
Quanta umanità
in preda alla fame, al freddo, alla paura, al dolore,
alla pressione morale, al terrore, alla pazzia.

Sei dei nostri si son persi
nello spazio stellare.
Uno morto, uno colpito come non avevo mai creduto
si potesse colpire un essere umano.
Gli altri quattro hanno voluto togliersi
tutte le paure
uno saltando nel vuoto,
un altro sbattendosi la testa contro un muro,
ma tutti con lo sguardo fisso alla morte.
Che spavento fa il volto del fascismo!
Portano a termine i loro piani con precisione professionale
e non gl'importa di nulla.
Il sangue, per loro, son medaglie.
La strage è un atto di eroismo.
È questo il mondo che hai creato, mio Dio?
Per tutto questo i tuoi sette giorni di riposo e di lavoro?
Tra queste quattro mura c'è solo un numero
che non aumenta.
che, lentamente, vorrà ancor più la morte.

Ma all'improvviso mi colpisce la coscienza
e vedo questa marea muta
e vedo il pulsare delle macchine
e i militari che mostrano il loro volto di matrona
pieno di dolcezza.
E il Messico, Cuba e il mondo?
Che urlino questa ignominia!
Siamo diecimila mani
in meno che producono.
Quanti saremo in tutta la patria?
Il sangue del Compagno Presidente
colpisce più forte che le bombe e le mitraglia.
Così colpirà di nuovo il nostro pugno.

Canto, che cattivo sapore hai
quando devo cantar la paura.
Paura come quella che vivo,
come quella che muoio, paura.
Di vedermi fra tanti e tanti
momenti di infinito
in cui il silenzio e il grido
sono i fini di questo canto.
Ciò che ho sentito e che sento
farà sbocciare il momento.

l'ultimo discorso di Salvador Allende l'11 settembre 1973

La storia è nostra e la fanno i popoli; perché è troppo vero, è troppo bello, è troppo giusto ed opportuno.
Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria. Cadrà la vergogna su coloro che hanno disatteso i propri impegni, venendo meno alla propria parola, rotto la disciplina delle Forze Armate. Il popolo deve stare all'erta, vigilare, non deve lasciarsi provocare, né massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con il proprio lavoro una vita degna e migliore.
Una parola per quelli che, autoproclamandosi democratici, hanno istigato questa rivolta, per quelli che, definendosi rappresentanti del popolo, hanno tramato in modo stolto e losco per rendere possibile questo passo che spinge il Cile nel baratro.
In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della patria vi chiamo per dirvi di avere fede.
La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine; questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e difficile. E' possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L'umanità avanza per la conquista di una vita migliore.
Compatrioti: è possibile che facciano tacere la radio, e mi accomiato da voi. In questo momento stanno passando gli aerei. E' possibile che sparino su di noi. Ma sappiate che siamo qui, per lo meno con questo esempio, per mostrare che in questo paese ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo. Io lo farò per mandato del popolo e con la volontà cosciente di un presidente consapevole della dignità dell'incarico. Forse questa sarà l’ultima opportunità che avrò per rivolgermi a voi.
Le Forze Aeree hanno bombardato le antenne di radio Portales e di radio Corporacion. Le mie parole non sono amare, ma deluse; esse saranno il castigo morale per quelli che hanno tradito il giuramento che fecero.
Soldati del Cile, comandanti in capo ed associati - all'ammiraglio Merino - il generale Mendoza, generale meschino che solo ieri aveva dichiarato la sua solidarietà e lealtà al governo, si è nominato comandante generale dei Carabineros.
Di fronte a questi eventi posso solo dire ai lavoratori: io non rinuncerò. Collocato in un passaggio storico pagherò con la mia vita la lealtà del popolo.
E vi dico che ho la certezza che il seme che consegnammo alla coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere distrutto definitivamente.
Hanno la forza, potranno asservirci, ma non si arrestano i processi sociali, né con il crimine, né con la forza.
La storia è nostra e la fanno i popoli.
Lavoratori della mia patria, voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete riposto in un uomo che è stato soltanto interprete di grande desiderio di giustizia, che giurò che avrebbe rispettato la costituzione e la legge, così come in realtà ha fatto. In questo momento finale, l'ultimo nel quale io possa rivolgermi a voi, spero che sia chiara la lezione. Il capitale straniero, l'imperialismo, insieme alla reazione ha creato il clima perché le Forze Armate rompessero la loro tradizione: quella che mostrò Schneider e che avrebbe riaffermato il comandante Araya, vittima di quel settore che oggi starà nelle proprie case sperando di poter conquistare il potere con mano straniera a difendere le proprietà ed i privilegi.
Mi rivolgo, soprattutto, alla semplice donna della nostra terra: alla contadina che ha creduto in noi; all'operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha sempre curato i propri figli.
Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe che solo vogliono difendere i vantaggi di una società capitalista.
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato la loro allegria ed il loro spirito di lotta.
Mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo è già presente da tempo negli attentati terroristici, facendo saltare ponti, interrompendo le vie ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti. Di fronte al silenzio di quelli che avevano l'obbligo di intervenire, la storia li giudicherà. Sicuramente radio Magallanes sarà fatta tacere ed il suono tranquillo della mia voce non vi giungerà.
Non importa, continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a voi, per lo meno il ricordo che avrete di me sarà quello di un uomo degno che fu leale con la patria.
Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi sterminare e non deve farsi umiliare.
Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro in cui il tradimento vuole imporsi.
Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano.
Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una punizione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento.

ascoltate la voce di Salvador Allende

martedì 10 settembre 2013

"Lamento di Yorick per un fast food" di Andrea Porter


Il teschio: per alcuni è una cosa personale
e invece è solo Tupperware per il cervello.
Ormai sono ostaggio di ubriaconi notturni
che mi calciano come un pallone gridando
e dai, merdaccia, passamela alta
o di cani randagi che raspano nel catino
del mio cranio cercando resti di kebab.
Una volta uno smunto ragazzino goth
mi si è messo accanto, e l'amico dallo sguardo
spento ci ha presi in foto col cellulare.
Un pasto decente gli avrebbe fatto bene,
in quanto a me, ero un mangiatore emotivo.
Merluzzo e pesce fritto, il sapore acre dell'aceto;
il lardo decente che ronzava nelle arterie,
m'innalzavano verso luoghi più belli di
quest'eternità senza purè di piselli.

domenica 8 settembre 2013

da "il sangue d'Europa" di Giaime Pintor

Le giornate che seguirono l'8 settembre furono le più gravi che l'Italia abbia attraversato da quando esiste come paese unito. Caduto Mussolini, Badoglio non aveva voluto andare oltre a rompere l'alleanza nazista per timore di sviluppi che non avrebbe saputo dominare. I suoi seguaci rappresentavano allora le terribili conseguenze di un gesto così temerario: Torino e Milano distrutte, l'Italia del Nord invasa, un ritorno di elementi fascisti con programma vendicativo. Per evitare questi mali il governo aveva obbligato gli italiani a reprimere il loro primo slancio rivoluzionario e trasformato quella che sarebbe stata una sincera esplosione di popolo in una ambigua manovra diplomatica. I capi militari avevano avuto quaranta giorni di tempo per predisporre la resistenza e ancora cinque giorni dopo la conclusione dell'armistizio per dare gli ultimi ritocchi alla loro sapiente opera. E questo era il risultato di tante precauzioni: Torino e Milano veramente distrutte, non dai bombardamenti tedeschi ma da quelli alleati, l'Italia occupata dai tedeschi non fino alla valle del Po ma fino al Mezzogiorno, Mussolini liberato, i fascisti al potere.
In una guerra che aveva visto la tragedia della Polonia, il crollo della Francia e della Jugoslavia, nessuno spettacolo fu più tragico del disfacimento della compagine italiana.
Delle forze armate, la sola marina eseguì ordini precisi e raggiunse in gran parte i porti alleati; l'aviazione praticamente non esisteva più, l'esercito entrò nel caos. In tre giorni la resistenza organizzata fu soffocata quasi dovunque.
Roma, intorno a cui Badoglio aveva concentrato cinque divisioni, si arrese a due divisioni tedesche; abbandonata all'arbitrio dei comandanti militari, senza un responsabile politico, senza una voce che la sostenesse, la città visse tre giorni di angoscia e di entusiasmo, ma la volontà di resistere della popolazione non servì contro gli intrighi dei generali. Nelle altre città manifestazione d'inettitudine, viltà, aperti tradimenti dei capi sabotarono la resistenza. L'armata dei Balcani, forte di quasi trenta divisioni, si sfasciò come un frutto marcio: immense colonne di fuggiaschi raggiunsero la costa sotto la protezione dei patrioti jugoslavi i quali si limitarono a toglier loro armi e vestiario. Tutte le strade d'Italia si coprirono di sbandati che portarono da un capo all'altro della penisola l'immagine vivente dell'umiliazione e della sconfitta.
Le responsabilità dirette di questi avvenimenti, le ragioni dei singoli episodi saranno discusse ancora per molto tempo. Certo il re e i capi militari ne portano il peso maggiore: la loro viltà e la loro inettitudine sono costati all'Italia quasi quanto i delitti dei fascisti. Certo un intervento più generoso, soprattutto più fiducioso, degli alleati avrebbe modificato notevolmente la situazione: Roma, per esempio, si poteva tenere ed evitare così il senso della catastrofe totale. Ma le responsabilità storiche che confluiscono in questa crisi di pochi giorni superano il gruppetto di uomini che si trovavano momentaneamente in primo piano; e la lezione diretta che noi possiamo trarne, oltre a un generico sdegno, è la certezza del fallimento della classe dirigente italiana: questo fatto, mascherato per anni dietro ogni sorta di equilibrismi, oggi scoperto e evidente come una piaga incurabile.
I soldati che nel settembre scorso traversavano l'Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un'oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l'ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti: La caduta dell'impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione. Poteva scomparire in modo pacifico e i suoi postumi potevano essere curati: le giornate di settembre esclusero questa possibilità e gettarono il paese nelle estreme convulsioni. Tornò il terrore sulle città italiane, appoggiato all'agonizzante potenza hitleriana, e il fantomatico Duce di Verona cancellò il Duce dell'autoambulanza, restituì alla reazione la sua maschera tragica. Ormai l'Italia uscirà da questa crisi attraverso una prova durissima: la distruzione delle sue città, la deportazione dei suoi giovani, le sofferenze, la fame. Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.

venerdì 6 settembre 2013

Considerazioni libere (377): a proposito di un congresso imminente...

Premessa necessaria: non scrivo questa "considerazione" per partecipare al dibattito congressuale dell'ex-Pd. Francamente non mi interessa che vinca uno o l'altro dei contendenti, tanto non cambierà la sostanza: chiunque lo guiderà rimarrà un partito di centro moderato. Personalmente spero che nasca qualcosa d'altro a sinistra, altrimenti mi asterrò dal votare. Intervengo per inveterato interesse a quello che succede nella politica italiana e soprattutto perché negli ultimi giorni pare che il giovane "Renzie" abbia finalmente "sfondato" in Emilia, in particolare tra il "popolo delle feste"; dato che qualcosa di quel mondo conosco - anche se è passato qualche anno da quando facevo quel mestiere - provo a dire la mia, semplicemente come persona informata dei fatti.
Leggo piuttosto assiduamente il blog di Stefano Menichini, il direttore di Europa, uno dei due quotidiani dell'ex-Pd, quello ereditato dalla Margherita di Rutelli e di Lusi. Mai sono d'accordo con lui, ma ne apprezzo la lucida faziosità democratica e soprattutto la mancanza di ipocrisia. Menichini non è uno di quelli che continuamente ripete che l'importante è stare uniti; lui interpreta in maniera radicale l'ideologia originaria di quel partito, quella di Veltroni: per questo ha sopportato a fatica la parentesi di Bersani e ora è pronto naturalmente a sostenere Renzi. In lui non c'è opportunismo: è la sua idea, da sempre. Nel post intitolato Emilia renziana fatica a trattenere l'entusiasmo; "ciò che conta - scrive tra l'altro - è aver trasferito su Renzi la legittimazione che gli eredi del Pci sentivano propria per diritto ancestrale". Io li conosco bene quelli come Stefano Menichini: loro lo odiano il Pci - almeno quanto Jake ed Elwood Blues odiano i nazisti dell'Illinois - e odiano le Feste dell'Unità, le hanno sempre trovate poco moderne e credo non sopportino neppure l'odore della torta fritta (o gnocco o crescentina, nelle sue varianti dialettali). Per quelli come loro il Pd sarebbe finalmente diventato il nuovo partito, vagheggiato come il Graal, quando quel mondo fosse finito; ci sono quasi riusciti. Per loro era necessario vincere qui, era la rivincita di una vita, il sogno orgasmico della loro intera esistenza.
Ora ci sono due aspetti di questa - pare irresistibile - ascesa del fiorentino in Emilia: uno è la conversione del gruppo dirigente, l'altro l'adesione spontanea e convinta di tanti militanti; vedremo se la maggioranza.
Parto dal primo punto, quello meno interessante. Ovviamente non parlo dei dirigenti cosiddetti "nativi democratici", perché sono troppo giovani per ricordare la storia della sinistra in questa regione e, in genere, l'hanno sentita raccontare da gente come Menichini: loro sono naturalmente renziani, in buona fede. Non gliene faccio una colpa, a meno che non sfruttino - come talvolta capita - quella storia per farsi belli, come la cornacchia con le piume del pavone. Vedo invece che sono diventati renziani tante persone, alcuni anche amici, che hanno militato - come me - nel Pci-Pds-Ds, più o meno brevemente, a seconda dell'età anagrafica. Si tratta, con tutta evidenza, di posizionamenti tattici, dal momento che tutti costoro sono stati convinti bersaniani fino all'altro ieri, dal segretario regionale a quello di Bologna, compreso il sindaco della mia ex-città. Spero che i renziani "puri" si guardino da costoro. In fondo questo passaggio segna il fatto che anche in Emilia il partito è diventato "normale", come in gran parte del paese. Ricordo che questa trasformazione del partito in comitati di "cacicchi" locali, variamente collegati con il centro, è cominciata da tempo in altre regioni, anche nel nostro partito. Magari ci fossero soltanto le correnti. Bassolino e De Luca hanno da sempre deciso la loro "posizione" all'interno dei Ds, uno rigorosamente opposto all'altro, a seconda delle vicende campane; leggo che adesso l'ex sindaco di Napoli sostiene Renzi, evidentemente perché il sempiterno sindaco di Salerno sostiene un altro candidato. Ricordo personalmente le lotte tra i capibastone dei Ds siciliani; una volta che scesi a Palermo per partecipare a un'iniziativa, invitato dal comitato regionale, mi fu impossibile incontrare qualcuno della federazione, visto che allora i due segretari erano ai ferri corti, per non so quale vicenda locale. Ecco adesso sono più o meno così anche in Emilia. Non me ne rallegro, anche se non è più il mio partito. Sarà difficile costruire il "nuovo" partendo da queste fondamenta.
Vediamo invece cosa è successo nella "base", almeno secondo me. Intanto il "popolo delle feste" non esiste; questa espressione è una semplificazione dei giornali o peggio un mito di quell'ideologia democratica, di cui ho già detto prima, parlando di Menichini. Sono donne e uomini con la testa sulle spalle e che pensano ciascuno con la propria testa, nonostante quello che dice una tradizione ostile, che si fa risalire a Guareschi, anche se lui quelli come Peppone li conosceva e li rispettava. Però sono anziani e anche stanchi, di questo non gli si può fare una colpa. E le balle un po' gli girano.
Proprio per questo, francamente il successo di Renzi nelle feste emiliane non mi ha molto sorpreso, per una serie di ragioni che provo a elencare, senza avere la pretesa di esaurirle. In quest'ultima fase il sindaco di Firenze è stato abile e piuttosto spregiudicato: ha capito meglio di altri che questo governo è considerato come innaturale - cosa che effettivamente è - da chi ha militato a sinistra per molti anni. Renzi ha successo nelle feste perché spinge sull'antiberlusconismo, favorito anche dal fatto che non è al governo né ha responsabilità di partito e quindi non è costretto a trattare in maniera defatigante come fanno gli altri. Per un fenomeno di cui ho già parlato, in questo paese c'è stata confusione tra sinistra e antiberlusconismo, tanto che basta dire una cosa contro B. o contro i suoi servi - cosa peraltro piuttosto semplice - per attirarsi la simpatia della sinistra, senza se e senza ma; emblematico è stato il caso del compianto Di Pietro, che, grazie al suo antiberlusconismo urlato e sgrammaticato, è riuscito perfino a diventare, pur essendo un uomo culturalmente di destra, un campione della sinistra radicale, riempiendo un vuoto che si era creato per la litigiosità endemica dei minuscoli partiti dell'estrema sinistra. 
Inoltre Renzi è riuscito ad accreditarsi come quello che può vincere contro B., anzi come l'unico in grado di farlo. E i compagni vogliono vincere. Ovviamente non sapremo mai cosa sarebbe successo se Renzi avesse vinto le primarie, ma sappiamo sicuramente che Bersani ha perso delle elezioni che sembravano - anche se era un'errore - già vinte. Per me la colpa maggiore di Bersani non è quella di non aver vinto le elezioni - questo fortunatamente dipende dagli elettori - ma l'incapacità di gestire anche la sua mezza vittoria, sperperandola, a favore del disegno eversivo di Napolitano. Naturalmente questa è una mia posizione - che so che molti non condividete - e che non riflette quella della maggioranza, comunque sia i compagni pensano che finalmente un "giovane" possa intercettare meglio di un "vecchio" la maggioranza dei voti. E qui arriviamo a un altro punto, strettamente collegato a questo. Tanti compagni sono stanchi di vedere sempre le stesse persone negli stessi posti; ho esperienza diretta della generosità di tanti militanti che, negli anni, hanno avuto la capacità di farsi da parte o di fare un passo indietro, proprio per far posto ai giovani; Renzi è riuscito a cogliere questo sentimento profondo, questa generosità e la sfrutta, con innegabile capacità mediatica. C'è infine un altro fattore che pesa sulla scelta di queste persone: l'idea di preservare l'unità del partito. Per queste persone si tratta di un valore, per tutelare il quale hanno fatto molti sacrifici, ingoiato molti rospi. In questa fase, a loro sembra che Renzi sia più in grado di altri di mantenere questa vagheggiata e mitica unità. Non so se sia vero, ma ormai appare così e l'apparenza ormai finisce per essere più importante della realtà.
Toccando queste corde, credo che il sindaco di Firenze sia riuscito a catalizzare l'interesse e il sostegno di tanti compagni che lavorano alle feste, oltre al fatto che molte persone sono andate a vederlo per curiosità. Vedremo poi se questo interesse, questa disponibilità, questa curiosità si trasformeranno in voti alle primarie; credo di sì, anche perché paralellamente funzionerà la struttura organizzativa del partito che, per quanto malconcia e poco valorizzata, qui ancora un po' funziona. Naturalmente Renzi rimane quello che è, il leader perfetto per un partito di centro moderato; l'ex-Pd è diventato quello, come volevano alcuni dei suoi fondatori, facendo illudere gli altri sul fatto che sarebbe invece rimasto di centrosinistra. Adesso l'equivoco di fondo su cui è nato quel partito si può finalmente sciogliere: l'ex-Pd non è l'erede di una tradizione della sinistra italiana che ha avuto una storia importante, con luci e ombre - come sempre avviene - ma un'altra cosa, che prescinde da quella tradizione, proprio perché l'ha sempre avversata. Il sindaco di Firenze spesso pare che sostenga il cambiamento per il cambiamento; quello che a me in una prima fase sembrava un limite è invece la sua forza, proprio perché riesce a far passare in questo messaggio di cambiamento cose molto diverse. E' legittimo il desiderio di cambiare, ma bisogna vedere per cosa si cambia e come si cambia: l'ex-Pd, anche prima di Renzi, aveva già deciso di cambiare in maniera radicale, diventando cosa diversa; temo che molti si illudano che il cambiamento promesso da Renzi sarà quello a cui pensano loro, mentre è quello a cui pensa - altrettanto legittimamente - lui. Renzi li sta prendendo per stanchezza.
Se devo fare una previsione, immagino che stavolta sia finalmente la volta di Renzi. Ripeto che per me è indifferente chi vincerà; Cuperlo non mi pare voglia uscire dal percorso "democratico" e in fondo anche Civati, il candidato che si presenta più nettamente di sinistra ed anti-establishment, è prima di tutto un democratico. Che poi Renzi riesca a vincere le "secondarie" è tutt'altra storia; credo di no. Io, nel mio piccolissimo, non lo voterò.

mercoledì 4 settembre 2013

"Scavando" di Seamus Heaney

Tra il mio indice e il pollice sta la penna,
salda come una rivoltella.

Sotto la finestra, un rumore graffiante all'affondare della vanga nel terreno ghiaioso:
è mio padre che scava. Guardo da basso,

Finché la sua schiena china tra le
aiuole, si risolleva venti anni indietro,
piegandosi a ritmo attraverso i solchi di patate che interrava.

Il rozzo scarpone accoccolato sulla staffa,
il manico contro l'interno del ginocchio sollevato con fermezza,
sradicava le alte cime, infossando a fondo l'orlo lucente
per spargere le patate nuove che noi raccoglievamo
amandone la fresca la durezza tra le mani.

Sapeva bene come usare una vanga, per Dio.
Proprio come il suo vecchio.

Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di chiunque altro uomo alla torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
turata alla men peggio con un pezzo di carta.
Si raddrizzò per berne e subito riprese
a tagliare e intaccare nettamente,
spalando pesanti zolle, gettandosele alle spalle, andando sempre più a fondo
in cerca di buona torba. Scavando.

Il freddo aroma d'amido nel terriccio, il risucchio
e lo schiaffo della torba umida, i tagli netti della lama
nelle radici vive, mi risvegliano la memoria.
Ma non ho una vanga per imitare uomini come loro.

Tra il mio indice e pollice
sta salda la penna.
Scaverò con quella.

martedì 3 settembre 2013

Considerazioni libere (376): a proposito di una guerra che sta per scoppiare...

Non sono andato a cercare le mie vecchie "considerazioni", ma la memoria è ancora sufficientemente buona per citarmi, senza incorrere in errori grossolani. Due anni fa pensavo - e l'ho scritto da qualche parte - che i governi occidentali dovessero intervenire, in qualche modo, contro il regime di Assad. C'era l'entusiamo delle "primavere", erano stati deposti Ben Ali e Mubarak, il regime di Gheddafi aveva i giorni contati, nonostante la resistenza del dittatore e dei suoi familiari, insomma c'era un certo ottimismo e sembrava che molto dovesse cambiare e molto è effettivamente cambiato, nonostante quello che è successo nelle ultime settimane. Anche i siriani cominciarono a scendere in piazza. Fu chiaro fin da subito che quelle manifestazioni avevano un carattere un po' diverso da quelle che avevamo visto negli altri paesi arabi, motivi politici e religiosi si intrecciavano più strettamente - e pericolosamente - di quanto avveniva altrove con le rivendicazioni economiche e sociali; e le prospettive di un cambio di regime erano già fonte di preoccupazione, eppure a me sembrava che in quel preciso momento, in quelle circostanze storiche, fosse utile eliminare il giovane Assad. Pensavo fosse sufficiente un'azione mirata, in "stile" israeliano, bastava decapitare il regime, un po' come si era fatto in Libia, magari evitando con maggiore attenzione le vittime civili, anche se in queste cose è difficile essere chirurgici. D'altra parte à la guerre comme à la guerre. E poi immaginavo che i governi occidentali volessero impedire che Assad parlasse, visto che anche lui - ben più di Gheddafi - era stato coccolato dai leader che contano. Fanno sorridere quelli che adesso fanno le verginelle perché è spuntata la foto della cena tra Assad e Kerry, con relative consorti; il giovane dittatore e la sua splendida moglie erano considerati interlocutori affidabili, anche perché educati nei migliori college inglesi. 
Come è noto, allora si decise di non decidere, sperando che la situazione sarebbe rimasta sotto controllo e che se la sarebbero risolta i siriani, in qualche modo. O meglio si finse di non decidere, perché i governi occidentali cominciarono, più o meno direttamente, a finanziare l'opposizione. In questo sostegno si sono distinti i paesi arabi del Golfo, in testa l'Arabia Saudita, a cui gli Stati Uniti delegano volentieri questi compiti. Da tempo i nostri governi fanno finta che l'Arabia Saudita sia un paese "normale", anche se non è vero; si tratta della peggiore dittatura della regione, tanto più pericolosa perché estremamente ricca. Il paese a cui gli Stati Uniti delegano la loro politica mediorientale è una monarchia assoluta e feudale al cui confronto l'Inghilterra di Giorgio III della fine del Settecento parrebbe un paese schiettamente democratico. L'Arabia Saudita è più o meno come la Corea del nord - dinastia regnante e beghe di corte incluse - l'unica differenza è che è molto ricca e, come noto, a quelli molto ricchi si perdonano vizi che non accettiamo da chi ha le pezze al culo. Gli Stati Uniti e l'Europa a questa famiglia di dittatori ha affidato il controllo di un'area così delicata e se ne vedono purtroppo le conseguenze. In questi due anni gli stati del Golfo hanno finanziato le ali più estreme e fanatiche del jihadismo siriano, come hanno fatto ovunque ne abbiano avuto la possibilità e l'opportunità, essendo quei paesi i maggiori finanziatori di al-Qaeda ed Hamas, solo per citare due movimenti che - come noto - contribuiscono non poco alla pace mondiale.  
Anche per responsabilità occidentale quindi, in Siria adesso è completamente cambiata la prospettiva. Credo sia necessario partire dai numeri: ci sono stati 100mila morti, oltre 4 milioni di sfollati e 2 milioni e mezzo di profughi. Adriano Sofri ha spiegato in modo ineccepibile cosa è diventato adesso, trascorsi più di due anni, quel conflitto: una guerra civile.
Nella guerra civile viene giuridicamente, e definitivamente, superato il confine della sovranità nazionale, anche per chi non lo volesse creder umanamente, cioè moralmente, superato dalla brutalità del sovrano contro i suoi sudditi o una loro parte. Perché la guerra civile delegittima il sovrano senza legittimare il ribelle, come nelle sognate insurrezioni contro una tirannide, che mettono il popolo da una parte e la corte dall'altra. Nella guerra civile svanisce l'autorità, nemmeno quel dualismo di potere che un tempo si vagheggiava come una tappa verso un potere nuovo; e gli uni e gli altri - e le ulteriori divisioni dentro altri e uni - non sanno se non odiare e distruggere.
Arrivati a questo punto, naturalmente è impossibile rimanere indifferenti su quello che succede in Siria, indipendentemente dall'uso o meno delle armi chimiche - su questo punto specifico ho scritto giorni fa una breve riflessione, che metto in nota a questa "considerazione" - è da tempo, a essere onesti, che è impossibile rimanere indifferenti, perché i civili non sono morti tutti l'altro ieri, ma muoiono da anni. Proprio perché c'è questa guerra civile è altrettanto difficile avere una posizione netta e personalmente tendo a sospettare quelli che hanno le idee troppo chiare su una vicenda di questo genere. La guerra, almeno come pare la stiano pensando Obama e Hollande - che è riuscito a prendere il posto di Blair, alla destra del presidente statunitense - fatta "dall’esterno", senza rischi, con attacchi dal cielo e dal mare, magari con i droni, causerebbe molte più vittime di quelle calcolate fino ad ora e non risolverebbe il problema centrale: comunque andranno le cose, la Siria rimarrà stretta tra il jihadismo sunnita, radicalizzatosi dopo il colpo di stato in Egitto e finanziato dal petrolio saudita, e il fondamentalismo sciita degli iraniani. 
Personalmente credo che sia impossibile scegliere di schierarsi da una parte o dall'altra. Io non sto dalla parte degli Assad e anzi voglio stare con chi vuole rovesciare quella famiglia: purtroppo non sono riusciti a farlo perché quel regime non solo è armato dalla Russia dell'amico Putin, ma anche perché Israele (e quindi gli Stati Uniti) preferisce avere ai suoi confini dei nemici che si combattono tra di loro. In Siria e, di conseguenza in Libano, si gioca una partita molto complicata tra Arabia Saudita, Iran e Turchia. Naturalmente non sto neppure dalla parte di chi vuole sostituire quel regime con uno nuovo, islamico e fanatico - i due termini non sono sinonimi naturalmente, se non per i profeti di crociata, dell'una e dell'altra parte - ben armato, anche con armi chimiche, gentilimente offerte dai governi occidentali. Per antica abitudine e per inveterata posizione politica, sto dalla parte delle siriane e dei siriani che non vogliono un regime e che vorrebbero poter immaginare un futuro diverso per i propri figli. Francamente se una bomba "intelligente" eliminasse, magari con un colpo solo, Assad e i suoi famigli e i nuovi dittatori che si preparano a prenderne il posto, sarei estremamente soddisfatto; non ci spero perché le bombe sono stupide quanto le persone che le fanno scoppiare. Esclusa questa opzione irrealizzabile, credo però che bisognerebbe intervenire, per salvare quel popolo da una guerra che si combatte già. Capisco chi esclude del tutto ogni forma di intervento, apprezzo le loro posizioni filosofiche e religiose, però là si combatte, senza regole, e ne stanno facendo le spese persone che non c'entrano. Bisogna trovare un modo per salvare quelle persone dalla guerra che c'è già e non farne un'altra; questo naturalmente implica dei rischi, assolutamente maggiori della guerra "pulita" che gli Stati Uniti e la Francia stanno per cominciare. Dalle mie parti si dice: non si può andare a messa e stare a casa. E' così anche in questo caso, se ci importa davvero di quel popolo, allora dobbiamo intervenire, con truppe di terra e con tutto ciò che sarà necessario, dobbiamo limitare il conflitto, se e come sarà possibile, dobbiamo portare le famiglie fuori dalle città, dobbiamo combattere, quando saremo costretti, e lo saremo, visto che le due parti in lotta non staranno ferme mentre questa forza di polizia internazionale - o come la vogliamo chiamare - sarà nel loro paese. Se invece si deciderà semplicemente di bombardare questo o quell'obiettivo, allora sarebbe meglio tornarsene a casa e dire, senza ipocrisie, che di quei "beduini" non ci importa nulla. Che si ammazzino tra loro; è una posizione politica anche questa, forse un po' rozza, ma con una logica. Evitiamo, per favore, le ipocrisie, specialmente quelle "umanitarie".
Naturalmente se decidessimo di intervenire, dovremmo anche essere consapevoli che questo intervento, da solo, non sarà sufficiente. Per cominciare ad affrontare il problema, occorre capire qual è stata la vera molla che ha scatenato le "primavere" e che mantiene viva la rivolta in Siria: quei popoli non si battono tanto per valori democratici che non hanno mai conosciuto e di cui hanno un'idea vaga, ma perché sono disperati, perché hanno fame. In paesi come quelli, in cui la stragrande maggioranza della popolazione è formata da giovani che vivono con economie di sussistenza e senza alcuna prospettiva per il futuro, le rivolte sono inevitabili, contro quei regimi che hanno tolto loro la libertà, ma soprattutto contro un sistema che nega lo sviluppo e rifiuta di redistribuire le ricchezze così ingiustamente sperequate. In quei paesi dove è scoppiata la "primavera", ma anche in Siria, nonostante pare sia già in corso la controrivoluzione - e in Egitto è così, visto che sono tornati al potere i militari, come quando c'era Mubarak - la cosa fondamentale è che sono nate o stanno nascendo organizzazioni eterogenee, attraverso cui una società civile in embrione comincia a esprimere i suoi interessi e le sue posizioni, al di fuori delle istituzioni politiche e religiose; è un processo in corso. C'è un affrancamento di quei popoli. L'incapacità dei governi degli Stati Uniti e della Russia, ma anche di potenze vecchie e nuove come Europa e Cina, di influenzare in qualche modo quello che avviene in Siria è la conseguenza dell'incapacità storica di tutti questi attori di creare modelli di sviluppo che coinvolgano davvero i popoli mediorientali e non solo l'élite politica ed economica di quei paesi. Al di là dell'intervento necessario di questi giorni, nelle forme che io auspico e che temo si realizzerà in maniera opposta, l'Occidente dovrebbe accettare il fatto che quei popoli devono avere il diritto che la loro storia non si decida più in altri luogi - come è successo nel 1916 con l'accordo Sykes-Picot o come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle sfere di influenza tra Usa e Urss. Finora la storia della Siria è sempre dipesa da decisioni di altri, forse questa rivolta ci dice che noi non possiamo più decidere per loro.
Ci prepariamo a sparare nel buio, invece sarebbe ora di accendere la luce.

post scriptum
Naturalmente è giusto continunare a considerare l'uso di armi chimiche un crimine, qualcosa che viola le "regole" della guerra. Bisognerebbe riflettere però che nel frattempo queste regole sono cambiate, e molto, ad esempio da quando l'Italia usò il gas nella guerra di Etiopia. Negli ultimi anni si sono combattute alcune guerre con caratteristiche del tutto differenti da quelle del passato: c'è un incredibile squilibrio tra le forze in campo (altrimenti non scoppierebbero neppure) e quindi si sa già chi vincerà. In queste guerre inoltre si combatte con armi "intelligenti", ossia in grado di uccidere i nemici in armi e i civili, senza alcun rischio per chi attacca; le "regole" della guerra, grazie alla tecnologia, sono completamente cambiate, perché i rischi di una parte, quella attaccante e vincitrice, sono significativamente annullati e pesano tutti su quella attaccata e perdente. In questo quadro credo andrebbe fatta una riflessione su quali siano veramente le violazioni delle regole o meglio andrebbero riscritte le regole.

lunedì 2 settembre 2013

Considerazioni libere (375): a proposito della parte da cui stare...

Probabilmente c'era un qualcosa di eccessivamente schematico nell'abitudine dei politici di sinistra di cominciare le proprie analisi dal contesto internazionale, anche quando poco c'entrava con l'argomento principale del loro discorso; era una sorta di topos della loro - e nostra - retorica di qualche tempo fa. E indubbiamente, almeno fino all'89, quando il mondo era ancora diviso in due, era un po' più semplice decidere da che parte stare; noi tendenzialmente stavamo dall'altra parte rispetto agli Stati Uniti, perché chi stava contro gli Stati Uniti tendeva a definire se stesso di sinistra. So di aver banalizzato troppo e me ne scuso; riconosco che forse è un bene che sia passata questa sorta di sbornia internazionalista - che ci ha fatto commettere degli errori, ad esempio su Cuba - ma trovo molto più imbarazzante la totale afasia che ha colpito in questi anni il sedicente centrosinistra italiano ed europeo sulle questioni di politica estera. Eppure sono accaduti diversi fatti significativi, alcuni quasi certamente destinati ad avere conseguenze sul futuro, fatti insomma che si possono definire storici, aggettivo per altro abusato, visto che è usato per fatti di cronaca di cui ci siamo già dimenticati o per avvenimenti assolutamente secondari, tipo la nascita del Pd. Nonostante si sia trovato in mezzo alla storia, il centrosinistra "istituzionale", quello dei partiti e dei governi, non ha sviluppato una propria visione internazionale; il fenomeno purtroppo non è solo italiano, dove peraltro la degenerazione è molto più grave che nel resto d'Europa, visto che ormai solo uno sciocco o un battutista - o un battutista sciocco come Renzi - possono ancora definire l'ex-Pd un partito di centrosinistra. Mi pare però che il problema riguardi tutti noi, ossia anche la sinistra sparsa o gli "esodati della sinistra" - come mi piace chiamarci - e quindi il tema merita una qualche riflessione in più. Non si tratta solo dell'acquiescienza dei partiti del centrosinistra all'ideologia capitalista dominante, è una nostra difficoltà a leggere e interpretare quello che avviene nel mondo e che ci impedisce di dire con nettezza da che parte stiamo. 
Proviamo a guardare a quello che è successo in queste ultime settimane in Egitto: la partita si gioca tra il tradizionalismo conservatore e religioso dei Fratelli musulmani e il nazionalismo laico e capitalista dell'esercito, erede di Mubarak. E' una contrapposizione che ritroviamo in gran parte di quella regione, come in Tunisia, anche se talvolta gli elementi sono combinati in maniera differente: in Turchia, ad esempio, è l'islamico Erdogan a sostenere i "valori" del turbocapitalismo. In Siria non è chiaro quale delle due parti difenda questa ideologia e forse è per questo che così a lungo è stato procrastinato l'intervento occidentale e arriverà solo adesso. Stante così le cose, è evidente che è impossibile per noi "sinistri" prendere posizione sulla controrivoluzione egiziana. Manca in Egitto, e non solo lì - ad esempio manca in Siria - l'alternativa radicale di sinistra, come se, con la caduta dei regimi comunisti nell'89, due secoli di idee di sinistra - a partire dalla rivoluzione dell'altro '89 - fossero state cancellate. Questo è qualcosa a cui non dovremmo rassegnarci.
Mi pare che la contrapposizione tra liberalismo e fondamentalismo sia solo apparente e serva soprattutto a neutralizzare quella ben più importante tra liberalismo e sinistra radicale, un conflitto che si pretende sopito, anestetizzato, finito una volta per sempre con la fine del comunismo. Il liberalismo e la sinistra radicale, pur accettando che il quadro politico è articolato nello stesso modo, ossia tra destra populista, centro liberale e sinistra radicale, offrono due diverse opzioni del conflitto. Per il liberalismo il centro deve opporsi sia alla destra populista che alla sinistra radicale, che sono le due facce di una stessa medaglia, entrambe incapaci di accettare le "regole" dell'ideologia dominante; come è evidente considera più pericolosa la sinistra, visto che con la destra spesso cerca di trovare un accordo, in funzione di contenere le spinte di sinistra, come è accaduto in Italia con il fascismo prima e con il berlusconismo dopo. Naturalmente il centrosinistra istituzionale - lo ripeto, non solo in Italia - ha sposato in pieno questa prassi, che da noi si traduce nelle "larghe intese" e in Germania diventa große Koalition. Per la sinistra radicale il conflitto vero è tra se stessa e il liberalismo: sono questi i veri elementi in alternativa.
Nelle "primavere" arabe è mancata - anche per nostra responsabilità, visto che siamo così timidi a sostenere i nostri valori - la risposta di sinistra, anzi sono stati del tutto sottovalutati l'importanza e il peso dei fattori sociali. Di questo si è avvantaggiato il fondamentalismo. I talebani - la cui componente fondamentalista è manifesta - hanno preso il potere non tanto enfatizzando i temi religiosi,che anzi potevano allontanare la maggioranza delle persone in una prima fase, ma sfruttando le divisioni sociali di quei paesi; ad esempio controllano la regione pakistana dello Swat perché hanno avuto la capacità di farsi interpreti delle rivendicazioni dei lavoratori agricoli contro i latifondisti. Se gli Stati Uniti volessero davvero tagliare le gambe al fondamentalismo non dovrebbero limitarsi a uccidere questo o quel capo terrorista, ma potrebbero essere loro a eliminare queste forme feudali, che impoveriscono le popolazioni, dovrebbero proporre una vera riforma agraria, che preveda forme di redistribuzione delle terre; evidentemente un regime liberale, anche "illuminato" come quello di Obama, non può e non vuole affrontare questo tema. E allora dobbiamo affrontarlo noi. In una società prevalentemente agricola la proprietà della terra è un tema essenziale, ce lo dovrebbe insegnare anche la nostra storia.
L'ideologia liberista è riuscita con un certo successo - anche grazie alla complice inanità dei partiti del cosiddetto centrosinistra - a espungere le idee di sinistra dal dibattito politico occidentale e infatti si è affrettata a interpretare le "primavere" arabe come rivolte per i diritti politici e la democrazia, come rivoluzioni liberali, una sorta di seguito delle "rivoluzioni di velluto" che portarono allo sfaldamento dei regimi dell'Europa dell'est. In quel caso, ma soprattutto in questo più recente, hanno scientemente ignorato le istanze sociali che invece, in particolare per i giovani delle "primavere", sono state l'elemento scatenante. Il liberalismo è pronto a dare democrazia, anche perché sa che potrà in qualche modo controllarne i risultati, ma non è certo disponibile a concedere riforme economiche e sociali, perché queste sono ben più difficili da controllare. Purtroppo anche noi di sinistra non ci siamo sottratti a questa lettura, visto che l'ideologia liberalcapitalista è potente e pervasiva e dispone di aedi efficaci. Nessuno dei paesi in cui sono scoppiate le "primavere" era una democrazia, non lo sono mai state; la richiesta di giustizia sociale e la richiesta di democrazia si sono sovrapposte e l'ideologia mainstream ha fatto credere che la povertà fosse causata unicamente dalla corruzione dei regimi, che peraltro lei stessa aveva imposto. Non è vero e gli egiziani si stanno già accorgendo che la loro povertà non è colpa di Mubarak, ma del sistema capitalistico, tanto che è stato necessario fare una nuova "rivoluzione", per continuare a trovare un colpevole. La risposta per molti giovani egiziani sarà il fondamentalismo - come è in molti paesi occidentali la destra populista, ad esempio in Grecia - anche perché noi non abbiamo avuto la capacità di dire che può esserci un'altra risposta, avendo da almeno vent'anni abbandonato ogni ipotesi internazionalista. Per questo dobbiamo far sì che la rivoluzione continui; e continui con una chiara impronta di sinistra. In questo modo sarà facile capire da che parte stare, perché sarà la nostra parte. Naturalmente occorre prima di tutto essere convinti noi, aver chiaro qual è l'orizzonte di una battaglia che deve essere nostra; in questo credo che le "primavere" e quello che sta succedendo nel mondo possa essere un'opportunità anche per noi, per capire che non dobbiamo rinunciare a certi valori, a certe idee, a una certa idea di rivoluzione.