venerdì 3 gennaio 2014

Verba volant (41): laboratorio...

Laboratorio, sost. m.

Io ho sempre guardato con sospetto alla parola laboratorio.
Presa a sé si tratta di una bella parola, con un'etimologia importante - deriva infatti dal latino labor, che significa fatica - purtroppo è stata usata male e le parole, come le cose, soffrono se usate male. Ad esempio, i tortellini sono una meraviglia della cucina bolognese - ed infatti devono essere preparati o in casa o in un laboratorio di pasta fresca - ma se vengono serviti con la panna (perdonate questa volgarità, ma mi serve per la similitudine) perdono tutta la loro poesia; se poi ne mangiate troppi vi possono far male. Alla parola laboratorio è successo qualcosa del genere: è stata usata troppo e male.
La mia idiosincrasia per l’uso arbitrario di questa parola nasce dal fatto che ho sempre considerato il suo uso un espediente per giustificare teorie già formate e compiute, di cui si cerca semplicemente una conferma. Da emiliano, non ho mai creduto al laboratorio emiliano, di cui pure ci sono stati fior fiore di teorici, in genere non emiliani. Allo stesso modo ogni tanto torna in auge l’idea dell’esistenza di un laboratorio siciliano, secondo cui quello che succede nell’isola è destinato a succedere poco dopo nel resto del paese; anche questa tesi mi pare sia sostenuta in particolare da coloro che siciliani non sono e soprattutto da quelli che, avendo vinto le elezioni in quella regione, sperano legittimamente di ripetere lo stesso risultato nel resto dell’Italia.
Insomma è una parola che non mi piace perché troppe volte l’abbiamo sentita usare, a sproposito, dal politico di turno. A Bologna poi ne abbiamo fatto un uso smodato; faccio immediatamente outing e ammetto di averla usata anch’io: accadde anni fa, quando facevo un altro mestiere. Lo dico ora io, prima che qualche zelante servo dei nuovi - si fa per dire - padroni del vapore rinfacci la mia passata militanza e vada a scoprire qualche mio antico scritto…peraltro non rinnego né l’antica militanza né i precedenti scritti, li guardo con senile indulgenza.
C’era - e immagino ci sia ancora, anche se da tempo non frequento volutamente la vostra città - un orgoglio campanilistico che ci ha portato a credere che Bologna fosse al centro del mondo e soprattutto che la politica bolognese fosse sempre e comunque avanti un passo rispetto all’Italia, all’Europa, all’universo e altri siti, per dirla con Dulcamara.
Eravamo comunisti quando fuori erano tutti fascisti, poi eravamo riformisti quando c’erano ancora i comunisti, e siamo stati ulivisti prima che nascesse l’Ulivo; abbiamo aperto ai cattolici, quando era ancora di moda essere anticlericali, in sostanza siamo stati democratici prima degli altri. Solo con Renzi avete perso il tocco magico - uso il voi perché a questo punto la responsabilità è tutta vostra, i miei reati politici sono ormai prescritti - e siete diventati renziani fuori tempo massimo.
Perfino quando abbiamo perso – lì c’ero e uso il noi – consegnando la città al centrodestra annacquato di Guazzaloca, lo abbiamo fatto con un cupio dissolvi di sapore melodrammatico, che forse avremmo potuto risparmiare a noi stessi e alla città, tanto che fu necessario chiamare un “eroe” nazionale per trarci d’impaccio.
Come noto, da più in alto si cade più ci si fa male, e la sinistra bolognese ha creduto di essere parecchio in alto e cosi ritrovarsi alla mediocrità di un Delbono - comunque un ladro di polli rispetto a quello che c’è in giro - o di un Merola è stato sconfortante.
Mi scuso con i miei venticinque lettori non bolognesi - i bolognesi sono ancora meno - per questa lunga divagazione locale, ma credo possano essere utili anche a voi.
Anche il Partito Democratico è nato con l’ambizione di essere un laboratorio e in questo qualcosa di vero c’era. Come il dottor Frankenstein assemblava pezzi di cadaveri per dare vita alla creatura, cosi il Pd è nato assemblando pezzi di gruppi dirigenti in putrefazione e il brillante risultato è ora sotto lo sguardo di tutti, tanto che è bastato un Renzi qualsiasi per diventare segretario.
Detto qual è il laboratorio che non mi piace, provo a dire anche qual è quello che mi piace. Mi piaccioni i laboratori del falegname, del calzolaio, del fornaio, insomma di chi fa, di chi cerca sempre di imparare, di chi prova a insegnare quello che sa, di chi cerca di fare qualcosa di nuovo, osservando quello di cui c’è bisogno, di chi ascolta le persone per cercare di risolverne i problemi. Secondo me queste doti artigiane potrebbero anche essere applicate alla politica.

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