venerdì 30 maggio 2014

Verba volant (94): burrone...



Burrone, sost. m.

Il 22 agosto 2012, in un articolo intitolato Suicidi in Fiat, l'operaia Maria Baratto scriveva
Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti.
In quell'articolo Maria raccontava la storia di due operai della Fiat di Nola: uno aveva tentato il suicidio e l'altro purtroppo era arrivato fino in fondo, dopo aver ucciso la moglie e ferito la figlia. Maria aveva voluto raccontare quelle due storie di disperazione perché le conosceva bene, erano suoi colleghi di lavoro e lei pensava fosse importante quella testimonianza. Forse aveva deciso di raccontare quella disperazione per esorcizzarla. Gli ultimi sei anni li aveva passati in cassa integrazione; il suo periodo di cassa sarebbe finito a luglio, ma lei evidentemente non aveva fiducia che sarebbe tornata al lavoro.
Raccontare quella storia però non le è bastato per allontanare quell’angoscia. Martedì 20 maggio Maria si è uccisa, in un modo terribile, piantandosi un coltello nello stomaco. Maria aveva 47 anni e non è riuscita a fermarsi sul ciglio del burrone.
Faccio fatica a parlare di questo argomento, perché in un passato recente ho conosciuto le difficoltà che si provano ad avere un lavoro precario, con la tensione che spesso ti tiene sveglio la notte e ti fa vedere nero il futuro. Maria è una nostra sorella che non ha avuto la forza di resistere, una vittima del lavoro che non c’è. Quando ricordiamo le vittime del lavoro dovremmo ricordarci anche di lei.
Naturalmente so che ogni suicidio è una storia a sé, un evento drammatico e privato, che coinvolge quella singola persona, le sue paure, le sue debolezze, le sue disillusioni; un suicidio è l’apice di una storia personale, di un dissidio insanabile con la propria coscienza, qualcosa di strettamente privato, che naturalmente ricade e coinvolge le persone vicine, le famiglie. E per questo ritengo anche che sia un errore leggere in questi fatti una causa comune, un unico elemento scatenante, anche perché sono naturalmente ben di più i lavoratori senza lavoro che decidono di andare avanti, di non rinunciare alla vita. Eppure tutti questi suicidi, che coinvolgono persone diverse, in paesi diversi, con culture diverse, ci raccontano qualcosa di quello che sta succedendo nel nostro mondo. Ed è qualcosa che dovrebbe preoccuparci tutti.
I lavoratori sono sempre meno tutelati, sono sempre più in balia di decisioni che vengono prese in luoghi che non conoscono e su cui loro non possono incidere. I lavoratori sono e si sentono soli. Di fronte alla perdita del lavoro o anche solo alla minaccia - reale o immaginata - di perderlo, non hanno strumenti per reagire, si sentono impotenti. E in qualche modo - come ha scritto e raccontato anche Maria - si sentono traditi dalle imprese per cui hanno lavorato, hanno investito tempo, risorse, intelligenza e si sentono traditi dallo stato.
Ha scritto Maria:
A 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci.
In questi giorni abbiamo parlato d’altro, di elezioni europee, di equilibri politici, e la notizia della morte di Maria è stata relegata nelle pagine interne dei giornali o infondo alle home pages dei siti. Anche quando alcuni di noi hanno parlato del pericolo che le manovre speculative mettano in grave difficoltà le nostre economie, forse lo abbiamo fatto in maniera asettica, parlando di numeri, di percentuali, delle ripercussioni sulle monete e sulle banche. Certo c’è anche questo, ma la crisi è soprattutto crisi del lavoro, che ricade immediatamente su chi è più povero. E soprattutto ci sono le storie delle persone, la storia di Maria come la storia delle persone senza nome che in Cina si suicidano nelle grandi fabbriche dove si producono i telefonini e i computer che usiamo tutti i giorni e che ci danno l’illusione della libertà.
Maria aveva lottato, insieme ai suoi colleghi e al sindacato per difendere il proprio posto di lavoro, aveva raccontato la sua storia, era in qualche modo riuscita ad uscire dal novero degli invisibili, eppure è stata comunque travolta. Le organizzazioni sindacali, i partiti, le amministrazioni locali dovrebbero cominciare a pensare a forme di aiuto e di sostegno che non siano generiche, ma rispondano ai bisogni di ciascuno: a Maria non sono bastate le consuete forme di sostegno al reddito - che pure per la maggioranza dei suoi colleghi sono state sufficienti a non lasciarsi vincere dalla disperazione - sarebbe servito un sostegno psicologico, per salvarla dal male che alla fine ha vinto e l’ha fatta cadere.
Ricordiamoci che questa crisi è una crisi delle persone e che queste persone non sono numeri, ma sono storie, vite, amori. Questo esercizio della memoria e della consapevolezza potrebbe farci sentire più vicini, farci vedere negli occhi degli altri la sofferenza che è anche nostra, farci essere meno soli, meno indifesi. Naturalmente non è detto che questo possa bastare, magari a qualcuno comunque non basterà. Io credo però che se sul ciglio del burrone non ci arriviamo da soli e soprattutto non ci stiamo da soli, sia molto più difficile che compiamo quell’ultimo, fatale, passo.

martedì 27 maggio 2014

Verba volant (93): piazza...

Piazza, sost. f.

In latino platea, con la e breve, significa letteralmente via larga, piazza, e deriva dal greco plateia, una forma femminile dell'aggettivo platus, largo. In latino c'è anche la stessa parola, ma con la e lunga, per indicare lo spazio centrale del teatro, da cui appunto l'italiano platea.
Una piazza può essere importante per gli edifici che le stanno intorno e la circondano oppure per i monumenti che le stanno al centro - pensate ad esempio a piazza del Nettuno - mentre in altri casi una piazza diventa fondamentale in sé, proprio come spazio fisico della città.
Il caso di piazza Maggiore a Bologna è emblematico: pur essendo circondata di edifici storici di grande interesse artistico e architettonico, è essa stessa un monumento, una testimonianza viva della storia della città. Anzi i palazzi e la cattedrale nascono dopo e acquistano senso e funzione proprio per il fatto che si affacciano su quella piazza.
La vasta area che adesso conosciamo con questo nome si è sviluppata nel corso del XIII secolo, quando i bolognesi sentirono l’esigenza di avere uno spazio sufficientemente ampio in cui riunirsi, in cui poterci stare tutti, o quasi.
In quegli anni Bologna con i suoi circa 60.000 abitanti era la quinta città europea per popolazione e quindi la piazza doveva essere molto grande. Proprio perché servivano dimensioni tali non è stato scelto il centro della città romana, il punto d’incontro del decumano e del cardo più importanti - più o meno l’incrocio tra le odierne vie Indipendenza e Ugo Bassi - ma una area leggermente più a sud, dove sorgevano molti edifici popolari che furono acquistati dal Comune e successivamente abbattuti. C’è quindi un’idea politica nella costruzione di quella piazza che segna inevitabilmente la storia di Bologna: nella piazza ci devono stare tutti, perché la città è di tutti.
E non è un caso che uno dei primi grandi appuntamenti si svolse il 25 agosto 1256, quando i cittadini bolognesi furono chiamati in piazza per ascoltare l’annuncio della liberazione dei servi. Furono riscattati dal Comune con il pagamento di 10 e di 8 lire bolognesi rispettivamente per quelli che avevano più e meno di 14 anni, senza distinzione fra maschi e femmine. Per liberare 5.855 servi furono pagate 54.014 lire.
Bologna fu la prima città in Europa a rendere liberi i servi della gleba. L’anno successivo fu pubblicato un libro, il Liber Paradisus, in cui era contenuto il testo della legge e l’elenco dei servi liberati e dei loro ex padroni. Il libro si chiama così perché Paradisus è la prima parola del testo.
Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem.
Ecco la traduzione.
In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà.
Lunedì 19 maggio sono tornato in piazza Maggiore per una manifestazione politica dopo moltissimi anni di assenza. C’era la conclusione della campagna elettorale della lista L’Altra Europa con Tsipras e l’occasione di vedere e sentire dal vivo il compagno Alexis era troppo ghiotta, tanto da convincermi di lasciare il mio buen retiro salsese.
Per molti anni ho avuto l’opportunità di partecipare all’organizzazione delle manifestazioni del centrosinistra, in quella splendida piazza, ho ricordi molto belli di alcuni di quegli appuntamenti. Ricordo la tensione della prima volta che tornammo in piazza dopo la batosta alle comunali del ’99 e la gioia della sera in cui festeggiammo la vittoria di Cofferati. Ricordo l’impegno e la passione delle compagne e dei compagni che lavoravano per la riuscita di quelle manifestazioni. La piazza mi mancava.
La politica è anche comunità, la bellezza di stare insieme, di salutare compagne e compagni che magari non vedi da anni, ma con cui sai di avere qualcosa in comune: ecco perché per me - come per molti altri “esodati della sinistra” - è stato importante partecipare a quella manifestazione, vedere sventolare le bandiere - rosse, finalmente  cantare con gli altri Bella ciao. La politica - ce lo dimentichiamo troppo spesso, o meglio ci costringono a dimenticarlo – è anche emozione, passione, è qualcosa di appagante. Chi ha partecipato al lavoro di una Festa dell’Unità credo sappia bene a cosa mi riferisco.
La politica parla alla testa, ma anche al cuore.

venerdì 16 maggio 2014

Verba volant (91): barba...

Barba, sost. f.

Questa è una parola dall'etimologia incerta. Secondo il Pianigiani il termine latino deve in qualche modo essere collegato alla radice bhar del sanscrito antico, che significa portare, in quanto "ciò che l'uomo porta al mento"; l'etimologista ricorda anche un'altra parola del sanscrito, barbaras, che significa chioma lanosa.
Come noto, l'apparizione della barba segna nel maschio il passaggio dall'adolescenza alla virilità ed è uno dei cosiddetti caratteri sessuali secondari maschili. L'attesa del momento fatidico in cui spuntano i primi timidi e radi peluzzi sul mento è un ricordo comune a molti di noi maschietti, così come i primi tentativi di raderci, imitando i nostri padri.
Curiosa è la storia del rapporto tra noi uomini e la barba, già dal mondo antico. Mentre gli antichi Egizi consideravano il radersi un dovere religioso, oltre che un’utile pratica di igiene personale, i popoli mesopotamici consideravano la barba lunga, accuratamente pettinata, un segno distintivo della dignità regale. Nell’antica Grecia la barba venne considerata un segno di forza e di virilità, anche se durante l’età macedone si diffuse l’uso del rasoio, tanto che le immagini di Alessandro il grande sono tutte rigorosamente senza barba.
La barba è rimasta un attributo tipico dei filosofi. Probabilmente proprio dall’iconografia del filosofo è derivata, nell’arte paleocristiana, la figura di Gesù barbuto, mentre nelle immagini più antiche era imberbe. Anche il Dio dei cristiani è solitamente rappresentato con una fluente barba bianca - così come Zeus prima di lui - e in genere questo è diventato un attributo di saggezza, legato alla senilità e all’esperienza, più che di virilità.
Io sono uno di quelli che si è lasciato crescere la barba per pigrizia, anche se poi ho visto che mi serviva per dimostrare qualche anno in più, cosa di cui a quel tempo avevo bisogno, per sembrare più autorevole, avendo in genere a che fare con persone più “grandi” di me. Ovviamente non è la barba che ti fa essere rispettato – e non ti fa diventare neppure un filosofo, anche se qualcuno se l’è lasciata crescere con questo scopo precipuo – ma io continuo a tenerla, anche perché mia moglie mi ha conosciuto così e mi ha scelto così. E tanto basta ormai, visto che ho definitivamente rinunciato a diventare saggio e autorevole. E tantomeno filosofo.
Immagino che in questi giorni avrete visto qualche immagine di Conchita Wurst, la vincitrice austriaca dell’European song contest - quello che noi nostalgici continuiamo a chiamare Eurofestival. Conchita indossa abiti da donna, è pettinata e truccata come una donna, soprattutto canta come una donna, ma porta la barba. E riesce, nonostante questo piccolo particolare, a essere attraente come una donna.
Conchita Wurst è all’anagrafe Thomas Neuwirth, un giovane cantante austriaco, che qualche anno fa, dopo essersi esibito in abiti maschili (e senza barba), ha creato il personaggio di Conchita, una drag queen dalle forme sinuose e dalla barba curatissima. Sono passati cinquant’anni esatti da quando in questa manifestazione vinse la nostra Gigliola Cinquetti e oggettivamente da allora sono cambiate parecchie cose.
Devo ammettere che quando ho visto Conchita durante la semifinale di giovedì scorso la mia prima impressione non è stata particolarmente positiva, anzi ho provato un po’ di fastidio: mi è sembrata una scelta fatta ad arte per stupire, per fare parlare di sé, per fare diventare fuori dell’ordinario un personaggio che, senza la barba, probabilmente non ricorderemmo più, come avviene per la stragrande maggioranza dei cantanti di quella competizione. Ho avuto l’impressione, sgradevole, di un fenomeno da circo, usata - e sfruttata - come la “donna scimmia” del capolavoro di Marco Ferreri del ’64, lo stesso anno di Non ho l’età. Poi la mia idea è radicamente cambiata e sono stato molto contento, nella finale di sabato, che abbia vinto proprio lei l’European song contest, nonostante la mia canzone preferita fosse quella del concorrente, anche lui con la barba, della Svizzera.
Io non so se Thomas sia un furbetto che in questo modo è riuscito a ritagliarsi i suoi quindici minuti di fama e comunque, anche se fosse soltanto questo, credo abbia fatto un buon servizio all’Europa. Le reazioni sdegnate dei tanti benpensanti basterebbero da sole a farmi stare simpatica Conchita.
In particolare nei paesi dell’Europa orientale, Conchita è stata vista come uno scandalo. I bielorussi stavano per ritirare il loro concorrente, un personaggio di cui s’è persa memoria, e in Russia ci sono state reazioni vibranti. Il vicepremier di quel paese ha detto:
Il risultato di Eurovision ha mostrato ai sostenitori dell’integrazione europea il loro futuro europeo… una donna barbuta.
Si sa che in genere i vicepremier non li scelgono tra i più intelligenti - pensate all’Italia - ma l’affermazione è stata forte, così come quella di un leader nazionalista, che ha rimarcato:
È la fine dell’Europa. Loro non hanno più uomini e donne, hanno ”questo”.
E’ vero, noi abbiamo Conchita, e ne dobbiamo essere orgogliosi, in barba agli omofobi di tutto il mondo, e ce la dobbiamo tenere cara. Quasi sempre questi giudizi vengono dati da uomini seri, magari con la barba, segno evidente che gli antichi si sbagliavano: la vecchiaia non è sempre sinonimo di saggezza. Che barba questi vecchi omofobi!
Io sono contento che l’Europa sia “questo”.
Francamente credo sia stata più volgare di Conchita l’esibizione di molte altre partecipanti al concorso, tutte ugualmente belle, tutte ugualmente svestiste, tutte ugualmente provocanti. Ovviamente non ce l’ho con loro, fanno il loro mestiere, ma con chi le “alleva” e le fa esibire così, sfruttando soltanto la loro bellezza e la loro sensualità.
Conchita ha spiegato in un’intervista che ha deciso di usare questo nome d’arte, perché in tedesco la parola wurst viene utilizzata in sostituzione dell’espressione non me ne importa niente. Cos’è esattamente Conchita? Un uomo? una donna? un uomo che si veste da donna? una donna che si fa crescere la barba? Se a lui/lei non importa, non dovrebbe importare neppure a noi; Conchita ci insegna che la cosa importante sono le emozioni.
Che sia Conchita la filosofa della nuova Europa? La barba ce l’ha.

martedì 13 maggio 2014

Considerazioni libere (390): a proposito del mio voto per il Greco...

Io voterò per il Greco, ma questo credo che ormai lo abbiate capito. Lo voterei anche se non fosse l'unica alternativa disponibile. E - purtroppo - è l’unica alternativa disponibile.
Non posso e non voglio votare per un partito di destra, di centrodestra, di centro moderato e quindi questo esclude praticamente tutte le opzioni possibili, dai fascisti di Forza nuova al Pd di Matteo Renzi. Devo dire che, se non ci fosse Tsipras, la campagna furibonda e sguaiata del sedicente presidente della Repubblica contro Grillo sarebbe una tentazione fortissima per farmi votare il Movimento Cinque stelle. Il vecchio che occupa abusivamente il Quirinale è ormai passato dalle blandizie dei mesi scorsi alle minacce esplicite in stile mafioso, diventando un problema sempre più grave per la democrazia di questo paese. Comunque sia, nonostante Napolitano, basta che Grillo e il suo guru aprano bocca per dissuadermi dal votare per loro.
Anzi credo che, spero loro malgrado, stiano diventando sempre più indispensabili al mantenimento dello status quo. Fino a quando in Italia ci sarà il "pericolo Grillo", Napolitano avrà una giustificazione buona per sospendere la Costituzione e per sostenere il governo delle larghe intese. E qualcosa di simile avverrà in Europa, dopo il voto del prossimo 25 maggio: Merkel e Schultz - solidi alleati a Berlino - si augurano un risultato importante e significativo dei cosiddetti euroscettici, da Grillo alla Le Pen. Anzi più questi sono pericolosi e impresentabili meglio è per loro: potranno infatti giustificare in questo modo il governo europeo delle larghe intese che stanno preparando Ppe e Pse, sotto l'egida della Banca centrale, in nome della "salvezza" dell'Europa, contro i barbari e i nemici interni. D'altra parte ogni dittatura si rafforza nell'individuazione di un nemico interno e la troika, che governa in maniera illegittima e antidemocratica l'Unione europea, non fa certo eccezione a questa regola generale.
Comunque il mio voto a Tsipras disturba Napolitano e già questo basterebbe a giustificare la mia scelta.
A dire la verità è la prima volta da diversi anni, ossia da quando si sono suicidati i Ds, che io partecipo convintamente alle elezioni. In questi anni sono passato dal non voto alla scheda nulla, a voti sofferti e sbagliati - alle ultime politiche ho fatto l'errore di votare Pd, per esempio - e questa volta, se non ci fosse stata la Lista Tsipras sarei tornato alla scheda nulla, ossia alla rinuncia al voto, una decisione che per me rimane sofferta, anche quando è inevitabile.

Voterò convintamente per il Greco perché è un greco. Ovviamente questo da solo non basta, visto che naturalmente non voterei per un Renzi greco. Credo che sia stata un'ottima scelta da parte del Partito della Sinistra europea individuare come proprio candidato il leader di Syriza, visto cosa è successo in Grecia in questi anni. La Grecia è stata la prima vittima della troika, spogliata dei propri beni e svenduta ai profittatori internazionali. Le ricette della troika non funzionano, o meglio funzionano secondo i loro obiettivi, ossia favorire le privatizzazioni, smantellare lo stato sociale, a partire dalla previdenza, rendere più facili i licenziamenti e meno stabile il lavoro, eliminare le garanzie di carattere sociale introdotte nelle costituzioni nate dopo la seconda guerra mondiale e ridurre i poteri delle istituzioni democratiche elette (se questi punti vi ricordano il programma del governo Renzi qualcosa vorrà dire). In Grecia ci sono praticamente riusciti, e adesso hanno bisogno di una nuova vittima. E il nostro paese è lì, pronto a farsi sbranare, visto il lavoro fatto dai governi Monti-Letta-Renzi per andare in questa direzione, con il complice e fattivo assenso del Pd.
Voterò convintamente per il Greco perché si tratta di una proposta veramente europea. Votare per il parlamento europeo significa prima di tutto scegliere i propri rappresentanti all'interno di un organismo sovranazionale; votare per l'Europa tenendo conto unicamente delle dinamiche nazionali o addirittura locali - come troppe volte succede - credo sia il peggior servizio che ciascuno di noi può fare alla causa europea. Tsipras non è il candidato della Grecia o dell'Italia o di qualche altro paese, ma della sinistra europea e gli europarlamentari che riusciremo ad eleggere, in Italia come in tutti gli altri paesi dell'Unione, costituiranno probabilmente il terzo gruppo parlamentare a Strasburgo. Forse il risultato italiano sarà deludente - e di questo proverò a parlare dopo - forse non riusciremo a superare la soglia di sbarramento del 4%, ma dobbiamo avere la capacità di guardare al risultato complessivo e a come il nostro gruppo riuscirà a condizionare le dinamiche all'interno di un europarlamento in cui domineranno le larghe intese tra democristiani e socialisti.
Voterò convintamente per il Greco perché alla base della sua proposta c'è l'idea che l'Europa debba tornare ad essere una Comunità - come nello spirito del Manifesto di Ventotene. Una "comunità" non avrebbe dovuto accettare che i suoi paesi più in difficoltà, afflitti da debiti accumulati nel corso di decenni, fossero costretti a scegliere tra l'uscita dall'euro o il sottoporsi a regimi di rientro dal debito con misure da salasso. Una vera "comunità" avrebbe dovuto accogliere i paesi più deboli, prima socializzando il debito e poi favorendo la progressiva integrazione economica, sociale e politica di tutti i suoi membri.
Voterò convintamente per il Greco soprattutto perché è una proposta concretamente di sinistra. Perché il programma contiene alcuni obiettivi precisi, per i quali credo sia giusto battersi: fermare il programma di austerità, imposto dal gover­no neo­li­be­ri­sta della Bce e dele altre istituzioni finanziarie internazionali, abolire il fiscal compact, introdurre una vera Tobin tax sulle tran­sa­zioni finanziarie, istituire il sala­rio minimo euro­peo, difendere i ser­vizi pub­blici dalle privatizzazioni selvagge, impostare un nuovo modello di svi­luppo eco­lo­gi­ca­mente sostenibile e un piano di interventi pubblici che, superando la logica delle grandi opere, sia indirizzata alla tutela del territorio e alla promozione delle culture, demo­cra­tiz­zare le isti­tu­zioni dell'Unione europea, promuovere politiche attive per i diritti di tutti coloro che subi­scono discriminazioni. Sono le cose in cui credo, che provo a sostenere nelle riflessioni che adesso ho l'occasione di scrivere e che ho provato a fare, quando, nel mio piccolo, ho avuto qualche responsabilità politica.

E per quanto riguarda l’Italia? Cosa succederà il 26 maggio? Che ne sarà di questa esperienza? Su questo sono pessimista, molto pessimista. Io credo sia onesto dire che la Lista Tsipras è stata l'ennesima occasione mancata della sinistra italiana. Vedremo cosa succederà in questi prossimi giorni e soprattutto quale sarà il risultato elettorale, ma è probabile che già domenica sera ognuno di noi se ne andrà per la propria strada.
Un problema è che non siamo riusciti a essere presenti nei territori, a diventare un soggetto vero, riconosciuto e riconoscibile. Ovviamente su questo ha pesato molto il sostanziale oscuramento della nostra proposta sui media più tradizionali, in televisione in particolare. La Lista Tsipras semplicemente non c'è stata e, quando sono stati costretti ad invitarla, l'hanno ridicolizzata, come ha fatto Floris a Ballarò. D’altra parte l'ordine arrivato dal Quirinale è stato duro e capillare: la Rai ha dovuto fare campagna elettorale ventre a terra per Renzi e per il suo infelice partito, per B. e per i loro alleati, seguendo una rigida proporzione. Noi dovevamo essere esclusi, così come il Movimento Cinque stelle doveva essere presentato come il "male". Però non è questa la ragione di fondo per cui non siamo mai stati in partita, sarebbe un alibi troppo comodo tirare fuori le scorrettezze della maggioranza, che pure ci sono state e che vanno denunciate, per provare a tenere alta la guardia sui rischi che sta correndo la democrazia in Italia e in Europa.
Il problema vero è che non abbiamo fatto abbastanza, ciascuno di noi non ha fatto abbastanza; ovviamente tutti abbiamo avuto i nostri motivi, tutti legittimi, per spiegare questo disimpegno, ma a questo punto le ragioni personali contano poco.
C'è stato un problema iniziale, non ancora risolto e probabilmente irrisolvibile, che riguarda i compagni di Sel, ossia il partito più strutturato nella galassia delle sigle che hanno dato vita alla Lista Tsipras. I compagni di Sel non vogliono tagliare i ponti con il Pd, non possono, in particolare in un momento in cui elezioni europee vengono condotte insieme ad elezioni amministrative. I più cattivi possono dire che non vogliono rinunciare alla loro fetta, contingentata e lottizzata, di sottogoverno, e credo che questo abbia effettivamente pesato, ma soprattutto ha prevalso in loro l'idea - per me l'illusione - di poter essere una sorta di sinistra del Pd, di essere il nucleo attorno a cui si coaguleranno quelle forze di sinistra che sono ancora nel Pd e che per ora, sotto il "regno" di Renzi, non riescono a esprimersi. I compagni di Sel si cullano nell'idea che esista un Pd "buono", di cui loro saranno le levatrici; il Pd "buono" non esiste in natura. L'idea - tutta figlia di una politique politicienne, in cui la tattica è l'elemento prevalente - che il Pd sia riformabile, porterà alla morte anche i compagni di Sel; mi dispiace per loro, ma temo che la loro fine sia già scritta.
Il fatto di non aver risolto questo equivoco di fondo con quelli che avrebbero potuto guidare noi "sinistri sparsi", ci ha lasciato in balia di errori, che però sarebbero stati risolvibili, avremmo potuto superare l'impasse della formazione delle liste, che ci ha indebolito, facendoci perdere per strada alcuni compagni - penso ai Comunisti italiani - e alcune ingenuità, come il "lato b" di Paola Bacchiddu, di cui abbiamo parlato in maniera francamente sproporzionata, ma che - nel vuoto pneumatico del resto - è finito per diventare quello di cui ci ricorderemo in questa campagna elettorale.
Avremmo potuto superare anche l'altro limite di fondo della Lista Tsipras, ossia la difficoltà, quasi l'imbarazzo, di definirci come la sinistra, anche a partire dal nome. So che ci sono ragioni giuste dietro questa scelta, in particolare il tentativo di rivolgersi a un elettorato potenzialmente più ampio, in particolare quello Cinque stelle - cosa peraltro non avvenuta - e a quei giovani che, avvicinatisi alla politica negli ultimi anni, non sanno neppure più cosa sia la sinistra, visto che non ne hanno mai vista una, ma soltanto una sua pallidissima copia. Forse il fatto che non abbiamo ragionato abbastanza su questo punto - ossia che per un giovane di venti/venticinque anni sinistra è una parola che non ha ormai alcun senso - è stato il limite maggiore del nostro tentativo. Finché non risolviamo questo punto avremo delle delusioni, quindi prepariamoci.

Nonostante tutto, c'è spazio per la sinistra in Europa e, per quanto sia difficile da credere e oggi perfino da immaginare, c'è uno spazio per la sinistra anche in Italia. Quindi fate come me il prossimo 25 maggio: votate il Greco.

lunedì 12 maggio 2014

Verba volant (90): lobbista...


Lobbista, sost. m. (e, seppur raramente, f.)

Questa è una parola entrata da poco nella nostra lingua ed è un calco dell'inglese lobbyst. Il termine lobby deriva dal latino tardo laubia - peraltro è la stessa etimologia dell'italiano loggia, e questa parola già provoca a noi italiani un brivido lungo la schiena - e significa propriamente loggia, tribuna, e quindi, per estensione, la tribuna del pubblico nelle aule parlamentari. Il lobbista è chi, pur non avendo una carica pubblica e quindi non sedendo nelle sedi deputate, è capace di avere un ruolo - e un potere, spesso considerevole - nella vita pubblica, condizionandola. Immagino che Primo Greganti possa essere definito un lobbista e forse non disdegnerebbe questo appellativo.
Non ho conosciuto personalmente Greganti, immagino soprattutto per ragioni anagrafiche: quando io ho cominciato a lavorare nel partito lui era già stato arrestato, la prima volta. Altrimenti, visto il lavoro che facevo in quegli anni, credo proprio che avrei avuto la probabilità e l’occasione di incontrarlo. Sinceramente non so se sia uno che “lavorava” in proprio o uno che agiva esclusivamente in nome e per conto del partito.
Ricorderete che all’epoca di Mani pulite i giornali che non ci erano amici - ma anche qualcuno che fingeva di esserci vicino - lo presentò come una sorta di campione della fedeltà al partito: il “compagno G“, come cominciarono a chiamarlo, venne descritto come quello che, trovato con le mani nella marmellata, fece il sacrificio di prendersi tutta la colpa, senza tirare in ballo il partito, come fecero invece i suoi “colleghi” che svolgevano lo stesso lavoro per la Dc e soprattutto per il Psi. In qualche modo Greganti divenne perfino un personaggio positivo, in quel mare melmoso di traditori e delatori.
La verità non la so e probabilmente, come dicevano gli antichi, sta nel mezzo, perché Greganti in quegli anni - e anche molto recentemente, a quanto pare - operava in una zona grigia dove è molto difficile individuare le responsabilità personali e distinguere tra cosa è lecito e cosa non lo è.
Come dicevo, in quegli anni non ho conosciuto Greganti, ma ho conosciuto diverse persone che facevano un lavoro simile al suo, che oggettivamente non è facile da definire. Sono persone che stanno al centro di reti di relazioni, che conoscono moltissime persone, che favoriscono incontri e facilitano affari, sono appunto quelli che negli Stati Uniti chiamano lobbisti e che noi non avevamo una parola per definire, per cui ci siamo affidati a questo termine inglese.
Il problema per queste persone non è propriamente la loro onestà o la loro disonestà - anche se ovviamente questa distinzione è determinante per la loro fedina penale, oltre che per la loro coscienza, quando ce l’hanno - ma il fatto che lavorano nel ventre molle della nostra società, dove c’è perfino più incompetenza di quanta sia la disonestà, che pure è tanta e diffusa. Il Gatto e la Volpe sono certamente due ladri e due imbroglioni, ma non andrebbero probabilmente molto lontano se non trovassero qualcuno disposto a credere che le monete possano moltiplicarsi, semplicemente piantandole per terra.
I lobbisti nostrani vivono proprio grazie a questa incapacità diffusa, ad esempio nella pubblica amministrazione, ma anche in gran parte del tanto decantato privato. Prosperano grazie alla mediocrità di persone che, pur avendone la funzione e la responsabilità sulla carta, non sanno prendere una decisione da soli e quindi si affidano a qualcuno che pensano possa aiutarli, colmando le loro lacune. Si alimentano in una rete di favori reciproci, per cui tutti tendono a fare le stesse cose e soprattutto a non scontentare nessuno. Il problema non è tanto incontrare questo o quel personaggio - anzi avere l’opportunità di conoscere più persone o più offerte può essere utile e quindi il lavoro di questi “facilitatori” di incontri può davvero servire, in molte occasioni - ma capire chi sia quello che ti sta di fronte e soprattutto se ti proponga una soluzione e un’opportunità o una fregatura e un un imbroglio. Troppo spesso chi decide accetta la proposta del lobbista di turno, solo perché non sa che pesci pigliare e si affida al primo che passa, magari consigliato da qualche amico. O da un amico degli amici.
Si può anche decidere di incontrare il diavolo - a volte è inevitabile - l’importante è non acquistare da lui le pentole.
Ecco i lobbisti vivono in questa mediocrità incompetente ed arrogante, fatta di meschinerie, indecisioni, rinvii, furberie, prevaricazioni, che è il brodo di coltura della nostra società, il vero carattere originario del nostro paese. E naturalmente in questa mediocrità è più facile essere disonesti. Ovviamente gli stessi lobbisti condividono con la classe dirigente di questo paese - di cui fanno parte a tutti gli effetti - questa stessa mediocrità e di questo tutti paghiamo le conseguenze. A suo modo aveva ragione Craxi quando definì Mario Chiesa un “ladro di polli”: spesso questi non sono neppure capaci di rubare.
Mi pare significativo il caso di Expo 2015, i cui vertici, uno dopo l’altro, vengono inquisiti ed arrestati, insieme alla rete di faccendieri, lobbisti, consulenti vari, che hanno messo le mani sui tanti soldi che girano intorno a quel progetto. Di Expo mi è già capitato di parlare, alla voce retribuzione, per il fatto delle persone non pagate o sottopagate che lavoreranno all’evento. Leggiamo con soddisfazione che ora questo problema è stato parzialmente risolto, visto che alcune persone che lavorano intorno a quella manifestazione, per quanto non giovanissimi e di prima esperienza - come il compagno G - sono stati retribuiti. Indubbiamente Expo è davvero la vetrina di quello che è capace di offrire il nostro paese, non capisco perché trovi tanti detrattori.
Scherzi a parte, evidentemente anche la politica condivide questa crisi, se in questi anni non ha avuto la capacità di sviluppare anticorpi per immunizzarsi da personaggi come Greganti. E anche noi non siamo riusciti ad essere quell’eccezione che pure ci vantavamo - o ci illudevamo - di essere. Greganti e quelli come lui stavano al nostro fianco, a volte ci davano una mano, spesso si approfittavano di noi e noi non abbiamo fatto abbastanza per allontanarli. Fino a che la mediocrità non ci ha travolto. Anzi a lei ci siamo arresi, consegnando le chiavi - e le casse - del partito al compagno R.
E adesso il diavolo non ha neppure più bisogno di noi per piazzare le sue pentole; anzi ha cominciato a produrre anche i coperchi.

sabato 10 maggio 2014

Verba volant (89): sciacallo...


Sciacallo, sost. m.

Lo sciacallo è un animale che gode indubbiamente di una cattiva fama, peraltro condivisa con gli altri animali che sono soliti cibarsi di carogne.
Questa parola italiana deriva da quella francese chacal, a sua volta derivata da quella turca ciaqal. Si tratta comunque di una parola molto antica che risale, attraverso il persiano shagāl, al sanscrito antico. Già queste brevi note etimologiche dimostrano quanto sia antico il rapporto tra l'uomo e lo sciacallo. Gli sciacalli sono diffusi soprattutto in Africa, in un'area che va dalle coste mediterranee fino alla savane subsahariane. Lo sciacallo dorato, probabilmente la specie più diffusa di questo carnivoro, è presente anche in diverse zone del Vicino e Medio Oriente, fino all'Europa orientale; in pratica lo sciacallo è diffuso in quella vasta area, dalla Mesopotamia al corso del Nilo, conosciuta come mezzaluna fertile, in cui è nata la nostra civiltà. Già questo ci dovrebbe far rispettare di più questo antico animale.
Nell’antico Egitto, proprio a causa del rapporto dello sciacallo con la morte, questo animale era considerato in qualche modo sacro. Immagino che tutti avrete visto una qualche rappresentazione del dio Anubi: la testa nera di uno sciacallo dalle lunghe orecchie su un corpo umano. Anubi era per gli antichi egizi il signore della morte e dell’oltretomba, il protettore delle necropoli, per cui veniva anche chiamato Il Signore degli Occidentali. La sua testa era nera perché questo colore indicava sia la putrefazione dei corpi sia il bitume impiegato nelle pratiche di mummificazione; ma il nero è anche il colore del limo, ossia dell’elemento che rendeva fertile la valle del Nilo ed era simbolo di rinascita. Inoltre Anubi, il dio dalla testa di sciacallo, era considerato figlio di Osiride e di Nefti, gli dei dell’oltretomba, ma anche rispettivamente dell’agricoltura e dei parti, perché vita e morte sono sempre e comunque solidamente intrecciate.
Bisogna ricordare che la tradizione di personaggi mitologici con la testa di cane è presente in tante altre culture antiche, compresa quella cristiana. San Cristoforo cinocefalo, uomo con la testa di cane, presenta diversi caratteri comuni con il dio egizio: san Cristoforo traghetta Gesù bambino, portandolo sulle spalle, così come Anubi “traghetta” le anime fra il regno dei vivi a quello dei morti.
Per tornare alle notizie di carattere etologico, occorre ricordare che tutte le specie di sciacallo hanno denti robusti, con lunghi canini, e zampe lunghe e affusolate che li rendono buoni corridori, capaci di mantenere un’andatura costante, fino ai 16 km/h, per un lungo periodo di tempo. Gli sciacalli sono carnivori, predatori di uccelli e di piccoli animali e, soprattutto, mangiatori di carogne, come le iene e gli avvoltoi, svolgono quindi un insostituibile servizio per il mantenimento dell’ecosistema. Sono animali notturni, attivi prevalentemente all’alba e al tramonto. E sono rigorosamente monogami, non essendo abituati a vivere inbranco. Una coppia di sciacalli occupa un territorio sufficientemente grande per sfamare se stessi e i propri cuccioli, fino a quando questi sono abbastanza grandi da andarsene per occupare loro stessi un nuovo territorio. E il rapporto tra uomo e sciacallo continua, visto che in Africa questi animali vivono sempre più spesso attorno alle nostre discariche di rifiuti
In questi giorni questa parola viene usata di frequente, ovviamente nel suo significato figurato, perché lo sciacallo è chi approfitta delle disgrazie degli altri, in particolare per rubare. Chi, in occasione di cataclismi o di eventi bellici, saccheggia case e luoghi abbandonati, deruba cadaveri o persone indifese, è certamente da condannare. Esiste anche una forma più sottile di sciacallaggio, non ancora introdotta nei vocabolari. Pensate al politico che, appena avutanotizia di una disgrazia, arriva sul posto per farsi riprendere, giusto in tempo per itelegiornali di prima serata: in fondo è uno sciacallo anche quello.
Il nostro beneamato presidente del consiglio, peraltro piuttosto abile a essere nel posto giusto al momento giusto, ossia quando si accende la luce rossa della telecamera, ha elevato lo sciacallo a categoria politica: da una parte ci sono lui, i suoi servi e i suoi corifei, e dall’altra ci sono gufi e sciacalli, in sostanza tutti quelli che non lo considerano il più bravo e il più moderno, anche quelli che si permettono soltanto di avere qualche dubbio. Per Renzi - il primo leader davvero post-ideologico e davvero post-novecentesco - non esiste più la differenza tra destra e sinistra, ma solo quella tra lui e quelli che non sono d’accordo con lui. Io, nel mio piccolo, mi iscrivo a questo secondo partito.
E quindi viva i gufi e gli sciacalli.
Finisco questa definizione con un piccolo racconto di Antonio Gramsci, intitolato Perché uno sciacallo fu fatto re.
Nella giungla si erano uniti in clan, per poter cacciare con più profitto e meno pericolo, e babbuini e lupi e leopardi ed altre bestie di vario pelo e colore. Tra di loro però si era intrufolato un piccolo sciacallo che mangiava i rifiuti e spolpava le ossa dei succulenti banchetti. Era sopportato perché nella giungla lo sciacallo è temuto da tutti come diffusore di idrofobia e di malattie infettive, ma l’irritazione e il malcontento era grande e tutti del “clan” avrebbero benedetto la buona occasione che li avesse liberati dal poco piacevole socio.
Fu una scimmietta molto accorta e giudiziosa che trovò la via di scampo: “Perché non lo facciamo nostro re? - propose in una privata assemblea da lei appositamente convocata - lo potremmo così collocare nella sua nicchietta, ben pasciuto e immunizzato dalla sua stessa autorità, e noi non avremmo più a soffrire del contatto da pari a pari con chi ci fa continuamente rabbrividire e drizzare il pelo. Potrà fare collezione di tutti i cocci colorati e le cartine inargentate che troveremo nelle nostre incursioni, di cui gli faremo doveroso omaggio, e così saremo tranquilli”.
Sapete quale era il titolo originario di questo apologo? ‘L sindich.

domenica 4 maggio 2014

Considerazioni libere (389): a proposito di uno sciopero e di una città...

Per lunedì 5 maggio i sindacati confederali - Cgil, Cisl e Uil - hanno proclamato una giornata di sciopero dei dipendenti del Comune di Parma. In sé non sarebbe neppure una notizia particolarmente rilevante, se non fosse che in quello stesso giorno comincia Cibus, la fiera più importante dell'agroalimentare italiano - un appuntamento particolarmente atteso per l'economia di questa città - e lo sciopero dei vigili urbani causerà notevoli disagi alla circolazione stradale. Se non ci fosse stato Cibus lo sciopero dei colleghi di Parma sarebbe passato sostanzialmente inosservato, se non per le famiglie che portano i bambini all'asilo nido e per quei pensionati che, cascasse il mondo, devono andare in un ufficio comunale proprio quel giorno lì, perché nel resto della settimana non hanno tempo.
Se lavorassi nel Comune di Parma, sicuramente non farei questo sciopero, che trovo sbagliato per molti motivi.
Da dipendente pubblico, e da iscritto alla Cgil, da tempo sostengo che lo sciopero sia per noi un'arma spuntata, poco efficace dal punto di vista politico e comunicativo e sostanzialmente inutile dal punto di vista sindacale, visto che, nonostante gli scioperi che abbiamo fatto - e a cui anch'io ho regolarmente partecipato, da buon iscritto, per quanto critico - il nostro contratto continua a non essere rinnovato da diversi anni. Il problema è che molte persone, i cittadini per cui lavoriamo e i nostri colleghi del settore privato, ci considerano non una risorsa, ma un peso, pensano che siamo, nella migliore delle ipotesi, dei passacarte inutili. Tanto è vero che tutti i governi che si sono succeduti in questi anni - di centrodestra e di centrosinistra - per rendersi popolari hanno parlato male di noi, certi di guadagnare consenso. E ovviamente non è da meno l'attuale governo di centrodestra, che ha messo tra le suo priorità la riforma della pubblica amministrazione.
I sindacati hanno indetto questo sciopero, perché lamentano una difficoltà di dialogo con l'attuale amministrazione e soprattutto la mancata definizione delle risorse da destinare a indennità e produttività. In sostanza mentre gli altri lavoratori lottano per conservare il posto di lavoro o perché non sia ridotto il loro stipendio - cosa ormai frequente, anche per aziende un tempo sane, anche in questo territorio, da sempre ricco - noi "pubblici", che abbiamo posto di lavoro e salario garantiti, lottiamo per le indennità: immagino sia difficile trovare la solidarietà degli altri su questa battaglia di civiltà.
Curiosamente poi questo sciopero viene proclamato contro un'amministrazione grillina, l'unica in Italia - o almeno la più importante - e io, pur essendo un notorio antipatizzante grillino, temo che questa sia la vera - e sola - ragione di questa forma di lotta. Non c'è modo di fare la controprova, ma penso che se il sindaco fosse del Pd questo sciopero non ci sarebbe stato. Da iscritto alla Cgil mi spiace molto che il mio sindacato si sia prestato a questo giochino, magari per tirare la volata a una sua autorevole ex segretaria in vista delle prossime primarie per la scelta del candidato sindaco del centrosinistra. Io sono uno che crede che il sindacato debba far politica - molto di più di quanto lo stia facendo oggi - ma non in questo modo. Bisogna che la Cgil - come sapete io gli altri due non li considero nemmeno, essendo ormai da tempo tristi "sindacati gialli" - sostenga i valori e i temi della sinistra, visto che non c'è più un partito di riferimento per questa vasta area politica.
Perché allora dobbiamo per forza dar addosso al sindaco di Parma? Questi tra l'altro ha accettato, grazie anche alla lotta e alla capacità di persuasione della Cgil, di introdurre la valutazione del reddito nel calcolo della Tasi: un segnale importante, uno dei pochissimi in Italia, che ci dovrebbe far capire che non ci troviamo di fronte a un "nemico" - a Parma li abbiamo avuti eccome i "nemici" nell'amministrazione comunale - ma a qualcuno con cui si può parlare, che tra l'altro ha qualche problema con i leader nazionali del suo movimento. Forse, se proprio la Cgil voleva fare "bassa" politica, sarebbe stato meglio dialogare con Pizzarotti, magari favorendo il suo distacco da Grillo. No, la Cgil vuole in tutti i modi favorire il Pd, perché evidentemente ha nostalgia di essere "cinghia di trasmissione" del partito. Un conto però è esserlo del Pci di Berlinguer e un altro del Pd del clown fiorentino: forse qualche compagno della Cgil di Parma non ha ancora capito bene la differenza tra le due situazioni.
Tra l'altro mi pare che i compagni della Funzione pubblica di Parma, nella loro foga antigrillesca, abbiano smarrito la capacità di individuare da dove arriva davvero il pericolo. Sono troppo deboli ora i sindaci - tutti i sindaci - sono troppo pochi i loro margini di manovra, per pretendere da loro, qualsivoglia sia il loro colore politico o il loro orientamento sindacale, una qualche azione positiva a favore di noi lavoratori. In questi ultimi anni abbiamo assistito - e Renzi ha già mostrato di accentuare questa tendenza - a una forte centralizzazione del potere verso il governo, tagliando fuori il parlamento e le autonomie locali. A sindaci che non contano più un c... cosa possiamo chiedere? E soprattutto perché lottiamo contro di loro, finendo poi per danneggiare i cittadini e le città in cui noi stessi viviamo?
I nostri veri avversari stanno a Roma - e forse ormai neppure lì, visto che il nostro governo è commissariato di fatto - se scioperiamo adesso perché Pizzarotti non ci concede le briciole delle indennità, cosa faremo quando Renzi e Draghi ci toglieranno un pezzo di stipendio o ci cominceranno a licenziare? In Grecia è già successo, i dipendenti pubblici sono stati individuati come il capro espiatorio dei problemi di quel paese e contro di loro la troika è andata con la mano pesante. Noi avremmo bisogno adesso di riannodare i fili tra noi e i cittadini, tra noi e i colleghi del privato, dovremmo spiegare cosa facciamo e che il nostro lavoro è importante per loro, serve a loro. Se non lo faremo adesso, quando "lorsignori" ci licenzieranno, non solo gli altri non ci aiuteranno, ma anzi li applaudiranno. Io spero che prima o poi - e spero il prima possibile - il mio sindacato capisca che abbiamo bisogno di prepararci a questa lotta, non di ottenere venti o trenta euro di indennità.

giovedì 1 maggio 2014

Verba volant (87): lavoro...

Lavoro, sost. m.

Questa è la parola del Primo maggio, come libertà lo è del 25 aprile, due bellissime feste che, insieme al 2 giugno, rappresentano l'anima della nostra Repubblica. Credo dovremmo valorizzare di più queste feste e non considerarle soltanto l'occasione di qualche ponte primaverile.
Lavoro deriva dal sostantivo latino labor, che significa fatica; quindi il Pianigiani spiega che laborare vuol dire prima di tutto
operar faticando
Il grande studioso di etimologia spiega che in questa parola troviamo la radice labh, che ha come primo significato quello di afferrare e poi quello figurato di agognare. In questa parola c'è quindi uno sforzo e un desiderio, che rende bene, a mio avviso, il valore che il lavoro ha per ciascuno di noi. O che dovrebbe avere.
Per capire cosa significhi davvero questa parola, credo sia utile andare a rileggere le pagine dei verbali delle sedute dell’Assemblea costituente in cui è stato deciso che il lavoro dovesse essere l’elemento fondante della nostra Costituzione, da collocare nel primo comma del primo articolo della legge più importante della Repubblica.
Dai lavori della Commissione dei settantacinque il testo dell’articolo 1 era uscito con questa formulazione:
L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.
Bello certamente, ricco di significati, ma non proprio facile da ricordare. Quel richiamo al lavoro e soprattutto ai lavoratori fu fortemente voluto dai comunisti e dai socialisti. Fu però il democristiano Amintore Fanfani a proporre nella seduta plenaria dell’Assemblea del 22 marzo 1947 il dettato dell’articolo come poi fu approvato e come tutti lo conosciamo. Credo meriti rileggere queste sue parole.
Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune.
E’ ingiusto - e anche anacronistico - fare paragoni tra chi allora scrisse la Costituzione e chi oggi la vorrebbe riformare; troppo diverse sono le condizioni storiche, politiche, culturali e sociali tra l’Italia di allora e quella di oggi. E non possiamo solo dire che la classe politica è peggiorata, dobbiamo dire che anche la società è peggiore, noi tutti non riconosciamo e non seguiamo i valori che c’erano allora. E parimenti è sbagliato mettere su un piedistallo quella classe politica, senza riconoscerne i limiti, gli errori, in alcuni casi le nefandezze. Nonostante tutto questo però, quando si leggono parole come queste, scopri davvero un abisso e ti prende un senso di nostalgia e di sconforto, pensando a cosa saremmo potuti diventare e a cosa siamo diventati.
Al di là di questo inciso, ci sono due aspetti che credo sia giusto sottolineare nella parole di Fanfani, che penso possano essere utili anche per la riflessione dei nostri giorni su un tema così importante per la vita di tutti noi.
Il nostro lavoro, il lavoro di tutti, deve essere uno sforzo libero. Pare scontato, ma non lo è: lo sforzo di uno schiavo, di un uomo o di una donna costretti a cedere il proprio tempo e le proprie energie, non può essere considerato lavoro. Ci sono schiavi che nell’antichità hanno costruito capolavori architettonici e ci sono oggi schiavi che producono le magliette che indossiamo o i telefonini con cui ci teniamo continuamente in contatto, ma questo non è lavoro. E non serve andare in Asia o in Africa, basta fermarsi a Prato o nelle campagne dove si raccolgono le arance e i pomodori, solo per fare qualche esempio. Lo dobbiamo ricordare quando valutiamo la crescita di un paese: la schiavitù conviene dal punto di vista puramente economico, dal momento che garantisce bassi costi di produzione e crescita della ricchezza complessiva. Però quello non è lavoro e non realizza la prosperità comune.
Il secondo aspetto è che il lavoro di ciascuno di noi realizza a un tempo noi stessi e la società. E’ abbastanza semplice capire che il lavoro libero di ciascuno di noi contribuisce al bene della comunità, è qualcosa di cui abbiamo immediata evidenza. Forse non abbiamo ancora capito quanto il lavoro sia importante per ciascuno di noi. A me è successo, intorno ai quarant’anni, di non avere un lavoro e vi assicuro che si è trattato davvero di un momento buio della mia vita, che ricordo con dolore e ansia e che faccio di tutto per non ricordare. Chi non lavora non esprime la sua capacità di essere, in qualche modo non è.
Per questo mi arrabbio tantissimo quando mi capita di vedere qualche collega che non si rende conto della fortuna che ha e che lavora male. Lavorare male è sbagliato non solo perché danneggi quello che fai e chi quel lavoro te l’ha dato - e questo discorso vale tanto di più per noi “pubblici”, i cui datori di lavoro sono i cittadini - ma perché mina la tua dignità. Dobbiamo ricordare sempre che il lavoro è un diritto, ma anche un dovere, e che quindi richiede tutta la nostra responsabilità e tutto il nostro impegno.
Allo stesso modo chi ha responsabilità di governo dovrebbe ogni giorno rileggere queste parole di Fanfani per capire che l’articolo 1 della nostra Costituzione non è una formula, un espediente retorico - per quanto ben riuscito - ma un impegno cogente, per tutti.