lunedì 29 settembre 2014

"Era il 29 settembre"...


L'eccidio di Monte Sole

Il racconto di Lidia Pirini, 17 anni

Era il 29 settembre, alle nove del mattino. Alla notizia dell’arrivo dei tedeschi, avevo preferito fuggire a Casaglia, sembrandomi Cerpiano luogo meno sicuro. Abbandonai così i miei familiari, e non ero con loro quando li assassinarono. Mia madre e una sorella di dodici anni, otto cugini e quattro zie, furono massacrati il 29 e 30 settembre in Cerpiano. Il 29 li ferirono soltanto, il 30 i nazisti tornarono a finirli.
Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo.
Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire e ci misero in mezzo a loro e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscirono ad aprirlo.
Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta.
Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura.
Venne la sera, venne la notte, io stavo sempre là sotto, senza rischiare a gridare o lamentarmi, perché avevo paura, anche se il dolore alla coscia si era fatto insopportabile e non riuscivo più a respirare per quelli che mi stavano addosso. Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti.
Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. Sul tardo pomeriggio arrivò finalmente un uomo a cercare i familiari: li trovò tutti massacrati e anche una parente ferita che trasportò fuori dal mucchio dei cadaveri. Lo chiamai e mi venne vicino: "Tutti morti - mi disse - moglie e figli tutti morti!". Mi dimenticai di chiedergli che mi tirasse fuori dalla mia posizione, né a lui venne in mento di farlo. Lo pregai però di tornare ad aiutarmi dopo aver soccorso la sua parente; me lo promise, purché non avesse avvertito la presenza dei nazisti. Così se ne andò e io stetti ad aspettare. Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero.

domenica 28 settembre 2014

Verba volant (129): attenuante...

Attenuante, sost. f.

Questa è una parola della lingua di giudici ed avvocati, del latinorum che loro usano - come fanno tutte le altre caste, più o meno forti - per distinguersi dagli altri "mortali", per non farci capire quello che stanno dicendo. L'attenuante - forma sostantivata del participio presente di attenuare - è l'elemento accidentale del reato che importa una diminuzione di pena.
Immagino che avrete letto anche voi la notizia che mi ha dato lo spunto per questa definizione. La Corte di cassazione ha stabilito - ribaltando una sentenza della Corte d'appello di Venezia - che è possibile concedere delle attenuanti agli uomini colpevoli di violenza carnale "completa". Nel caso specifico è possibile concedere le attenuanti all'uomo che violentava la propria moglie soltanto quando era ubriaco. I giudici di Venezia avevano stabilito che non era possibile accordare delle attenuanti - come era stato chiesto dalla difesa dell'imputato - proprio perché ogni volta si era consumato completamente l'atto sessuale e quindi la violenza dell'uomo sulla donna; in tali casi per i giudici la violenza non può mai essere considerata un "fatto di minore gravità".
I giudici di Cassazione invece hanno detto nella loro sentenza che anche in questi casi non si può "escludere che l'attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità". Nel rimettere la decisione a una nuova sentenza di un'altra sezione della Corte d'appello i giudici spiegano che sarebbe mancata appunto la "valutazione globale", in particolare "in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l'influenza dell'alcol". Temo che ai giuci della Cassazione sia mancata la valutazione globale.
Francamente io trovo questa sentenza aberrante e pericolosa. Mi auguro che quei giudici - immagino uomini vecchi - non abbiano voluto deliberatamente scrivere così questa sentenza proprio perché credono che la violenza sessuale domestica sia un reato meno grave, spero che non abbiano voluto mandare un segnale agli altri giudici per dire loro che devono essere clementi con quei "poveri" uomini accusati di violenza, provocati dalle loro donne. Temo invece che abbiano soltanto esaminato le norme, guardato alla pura lettera della legge, senza vedere cosa c'è dietro, ossia la disperazione di migliaia di donne che ogni giorno subiscono la violenza dei loro mariti, padri, fratelli, compagni. Quei giudici, persi nelle loro carte, nei loro codici, nei loro cavilli, non sanno cosa succede nel mondo, non hanno idea del numero di donne che ogni giorno subiscono violenza, non sanno che le donne muoiono nelle loro case, a causa della violenza delle persone che conoscono. E, al di là di cosa pensano quei giudici - certamente ottimi padri di famiglia - una sentenza del genere finisce per rendere più deboli le donne che denunciano le violenze domestiche.
Chi decide la definizione di stupro? Spero non siano i giudici della Cassazione. Troppo spesso la decidono gli uomini che in genere sono piuttosto autoassolutorii su questo argomento. Quante volte si usa come attenuante il fatto che le donne avrebbero provovato i loro violentatori, magari indossando un paio di jeans un po' più aderenti del solito. Oppure quando si parla di violenze alle donne troppo spesso si dice che le vittime mentono; non è vero: la percentuale di menzogne in caso di stupro è uguale a qualunque altra accusa di natura penale e sta intorno al 3%. E come ci dimentichiamo troppo spesso, gli uomini che violentano le donne solo in una minima percentuale sono gli psicotici, quelli che colpiscono alla cieca, senza conoscere le loro vittime; nella stragrande maggioranza dei casi i violentatori sono persone "normali" e sono persone che conoscono le loro vittime, gli uomini della loro famiglia o sono persone che le donne conoscono e ammirano; sono "brave persone" per la mentalità comune e per l'opinione pubblica. Magari hanno il vizio di ubriacarsi, considerato però un peccato veniale nella nostra società, nonostante le campagne moralizzatrici contro le cosiddette "morti del sabato sera".
Una sentenza come questa finisce inevitabilmente per rendere meno efficaci le campagne per far crescere una sensibilità contro le violenze domestiche. E' una sentenza che lascia le donne più sole e indifese, che le lascia in balia degli uomini. Noi viviamo in una società in cui ancora preferiamo spiegare alle donne come difendersi dagli stupri piuttosto che insegnare agli uomini a non stuprare le donne. Per questo non possiamo continuare a trovare attenuanti. Il caso di cui si sono occupati i giudici della Cassazione è più grave proprio perché si è consumato in famiglia, perché le violenze sono state continue e ripetute. E poi ubriacarsi non è una malattia; nessuno ha costretto quel "bravo" marito a bere, come lui ha costretto sua moglie a sua moglie a fare sesso con lui. Secondo me il fatto che lui la violentava quando era ubriaco dovrebbe essere considerata un'aggravante. E non è un'attenuante il fatto che una donna indossi la minigonna o un paio di pantaloni aderenti o che esca da sola la sera. E non è un'attenuante che la donna decida di non voler più stare con noi.
Noi uomini non possiamo più trovare attenuanti.

mercoledì 24 settembre 2014

Verba volant (128): minoranza...

Minoranza, sost. f.

Ricordo una sera di aprile del 1996: avevamo appena vinto le elezioni politiche e facemmo una grande manifestazione in piazza Maggiore. Da Granarolo eravamo andati in pullman, come al solito; in piazza incontrai un amico un po' più giovane di me - che adesso è il sindaco di Minerbio, bravo anche se del Pd - ci abbracciammo e uno di noi due disse: "finalmente abbiamo vinto". Non ricordo le parole esatte, ma il senso era proprio questo: abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ce l'abbiamo fatta. Mio padre che era lì vicino, ci guardò, scuotendo la testa; anche in questo caso non ricordo le sue parole, ma il senso era chiaro: quelli della mia generazione possono dire di aver aspettato molti anni, voi è meglio che state zitti. Aveva ragione naturalmente.
In questo paese i comunisti - tra cui mio padre - erano una minoranza; certo erano moltissimi e ben organizzati, ma pur sempre una minoranza, consci e fieri di esserlo, ma non soddisfatti: volevano essere maggioranza.
Io, se faccio un bilancio della mia vita politica devo dire che, per lo più, sono stato in maggioranza, sia all'interno del partito sia nelle istituzioni; il fatto di aver vissuto in Emilia ha giocato oggettivamente a mio favore.
Nel partito sono stato in maggioranza non per opportunismo o per quieto vivere - c'erano anche questi naturalmente, e ci saranno sempre - ma perché ero convinto di quelle mie posizioni. Le volte che mi è capitato di essere in minoranza ho provato a convincere gli altri delle mie ragioni, come gli altri hanno provato a convincermi delle loro, ma poi mi sono adeguato alle decisioni dalla maggioranza. Si usava così allora; in genere ho fatto bene, perché quasi sempre il tempo ha dimostrato che avevano ragione loro. Comunque mi sentivo parte di una comunità di cui condividevo i valori e le idee di fondo, e soprattutto di cui mi fidavo; per cui ho fatto un po' meno fatica a fare quello che gli altri - la maggioranza appunto - dicevano. Quando ero in maggioranza ho provato - anche se non ci sono sempre riuscito, perché non è affatto facile - ad ascoltare le ragioni di quelli che erano in minoranza. Poi, per onestà, devo dire che esiste anche un opportunismo della minoranza: ci sono persone che hanno fatto carriera nel partito proprio perché minoranza e quindi in qualche modo garantite e salvaguardate, al di là del loro valore personale e politico.
Una delle cose che mi dà più fastidio nella politica di oggi è proprio questa sorta di dichiarata dittatura della maggioranza. Ovviamente non è solo un problema del Pd, anzi è qualcosa che è cominciato con Berlusconi, ma a cui il cosiddetto centrosinistra non ha saputo - o voluto - opporsi. Le riforme istituzionali hanno questo unico obiettivo: trovare un modo per definire nella maniera più veloce chi vince e lasciare a questo ogni potere. Il dibattito interno alle forze politiche è svilito: conta la maggioranza, contano i numeri, delle idee degli altri non sanno che farsene. Le cronache di questi giorni, con i toni sguaiati, le minacce, le dichiarazioni di fedeltà, gli anatemi scagliati contro chi non si allinea, bastano da sole a rendere evidente questa situazione.
Ed è qualcosa sempre più difficile da sopportare; almeno per quelli come me. Anche perché questa cosiddetta maggioranza è lo schermo di una minoranza, che ha le risorse per imporre agli altri le proprie idee, a qualunque costo e con qualunque mezzo.
Non so se posso definirmi comunista; sicuramente sono di sinistra e altrettanto sicuramente posso dire di essere in minoranza in questa società, proprio perché sono radicalmente di sinistra. A differenza della generazione di mio padre, noi non siamo né molti né ben organizzati. Tutt'altro. E neppure fieri, mi pare.
Poi una cosa che non ho mai amato è lo snobismo della minoranza. C'è una scena famosa di Caro diario. Nanni Moretti, mentre gira in Vespa per Roma, si ferma a un semaforo e quando arriva un altro su una decapottabile, scende e comincia a parlare:
Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza...e quindi...
Scatta il verde, la decapottabile parte e Nanni rimane lì, con la sua frase a mezz'aria.
A me non hanno insegnato così. Forse neppure a Moretti. Poi ho un cattivo carattere, sono settario e fazioso e probabilmente non sono la persona più adatta per spiegare questa cosa, ma la politica è essenzialmente lo sforzo di parlare con tutti - anche in questa società indecente - per convincere gli altri della bontà delle nostre idee, ossia il cercare di farle diventare le idee della maggioranza. Anche partendo da un'esigua minoranza.
Ogni giorno però ce lo rendono sempre un po' più difficile.

lunedì 22 settembre 2014

Verba volant (127): sindacato...

Sindacato, sost. m.

Sapete che a me piace partire dall'etimologia, perché questa aiuta molto a definire meglio una parola - Verba volant in fondo è pur sempre un dizionario, per quanto sui generis e assolutamente non convenzionale - ma in questo caso è essenziale, non tanto dal punto di vista lessicale, quanto da quello politico. Spero che sarà più chiaro alla fine, ma io penso che noi tutti dobbiamo riscoprire il senso di questa nostra organizzazione, anche a partire dal termine che la definisce.
Noi italiani abbiamo preso questa parola dal francese syndicat, che deriva da syndic, che significa prima di tutto rappresentante, procuratore; a sua volta questo termine deriva dal greco syndikos, che significa difensore, protettore. Nella definizione di democrazia vi ho già raccontato la storia delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao, che preferirono fuggire ad Argo piuttosto che sposare i cinquanta figli di Egitto: la vicenda è raccontata in maniera poetica nella tragedia di Eschilo Le supplici. Verso la fine della tragedia, quando l'ambasciatore di Egitto minaccia di attaccare Argo se le ragazze non saranno lasciate andare, di fronte al timore delle Danaidi, il re Pelasgo, portavoce dell'assemblea che aveva votato - alzando la mano - di proteggere le giovani, ad ogni costo, dopo aver cacciato l'ambasciatore, dice loro, per rassicurarle:
Difensore vostro sono io, e tutti i cittadini, il cui voto ora si compie. 
E difensore qui è proprio syndikos.
Non era detto che scegliessero proprio questa parola per indicare le organizzazioni dei lavoratori. In Gran Bretagna si chiamavano già trade unions - o solo unions - proprio per valorizzare questa idea di unità. L'ho ricordato nella definizione di unione: questa parola indica proprio l'azione di unire, ovvero il fatto di unirsi con altri. C'è uno sforzo dinamico in questa parola, il desiderio, e anche la fatica, di raggiungere un'unità. Anche questa era una bella parola, che ci avrebbe definito bene, ma evidentemente chi fece quella scelta - più o meno consciamente - preferì proprio sottolineare il fatto che il sindacato nasceva per difendere, per proteggere, i lavoratori. Questo ha fatto nella sua storia, continua a farlo - anche se forse meno bene - e questo deve continuare a fare. Perché altrimenti non esiste.
Come sapete, io sono preoccupato per l'attacco che il governo sta portando allo Statuto dei lavoratori e credo che su questo dovremo lottare con una determinazione feroce. Ma in fondo fa il suo mestiere: tutti i governi di destra del mondo tutelano gli interessi dei ricchi e dei padroni, a scapito di quelli dei poveri e dei lavoratori; e Renzi non fa eccezione. Quello che mi preoccupa molto - forse perfino di più - è che stiano riuscendo - e in gran parte ci sono già riusciti - a rappresentare il sindacato come un pezzo del "potere costituito", come corresponsabile della situazione in cui siamo.
Parlando con le persone è evidente che sono ormai passati alcuni concetti, molto pericolosi, velenosi: siete tutti uguali, ci dicono spesso, oppure cosa avete fatto fino adesso? - di cui c'è la variante dov'era il sindacato? detto da Renzi - o ancora siete responsabili di quello che succede. Chi mi legge con una qualche assiduità, sa che io non sono tenero con il sindacato, neppure con il mio - ossia la Cgil - mentre quegli altri due non li considero neppure più sindacati; credo che molte di queste critiche che sentiamo anche tra chi lavora siano giustificate. Per questo dobbiamo fare di tutto per invertire questa tendenza; mentre lottiamo per difendere l'art. 18 e lo Statuto dei lavoratori, dobbiamo anche lottare per difendere un'idea di sindacato. La nostra idea di sindacato.
Io non credo di essere uguale alla Cisl e alla Uil - e non voglio che la mia organizzazione lo sia - perché in questi anni hanno interpretato in modo radicalmente sbagliato il loro essere sindacato. So che non è sempre stato così, ma da parecchi anni queste due organizzazioni hanno smesso di fare il sindacato, e sono diventati due partiti politici, piccoli ma piuttosto influenti che, pur senza presentarsi alle elezioni, sono riusciti comunque ad ottenere posti di potere e prebende, più o meno lucrose. Io non voglio che la Cgil sia un partito, ma voglio che continui a tutelare i lavoratori.
La Cgil ha sbagliato spesso quando ha cercato l'unità a tutti i costi con questi due soggetti: è il classico caso del morto che trascina il vivo. So anch'io che l'unità è importante - è uno dei valori costitutivi delle unions - ma quello che conta è l'unità dei lavoratori, non l'unità degli apparati. E cercare l'unità delle sigle, ci farà perdere l'unità dei lavoratori: ed è questo su cui stanno puntando i padroni, perché lavoratori divisi sono più deboli. Sempre. Fondamentale adesso è lasciarli andare per la loro strada e spiegare che loro non sono più sindacati o lo sono in una maniera che a noi non piace. Fare uno sciopero insieme o firmare una trattativa insieme a loro, se ci farà perdere identità - come troppe volte è successo in questi anni, per salvaguardare il feticcio dell'unità - porterà solo danni alla Cgil.
Questo si porta dietro il problema di come rispondere a chi chiede: "cosa avete fatto fino adesso?" e quindi rispondere anche a Renzi. Spesso la Cgil non è stata adeguata, anche culturalmente, alle sfide che ha posto il cambiamento del mondo del lavoro. Troppo spesso abbiamo pensato che si giocasse ancora la stessa partita, sullo stesso campo e con le stesse regole, invece i padroni hanno cominciato a barare, hanno ignorato e stravolto il regolamento e, per essere sicuri di vincere, si sono comprati l'arbitro. Visto che la situazione è questa, non possiamo continuare a invocare il fuorigioco, sperando che l'arbitro fischi; visto che ormai abbiamo capito che non fischierà, dobbiamo o giocare molto più duro o smettere di giocare e portare il via il pallone. Fuor di metafora, di fromte alla lotta di classe, violenta e furibonda che hanno scatenato i padroni contro i lavoratori, noi non possiamo continuare a prenderle, dobbiamo anche noi lottare, con radicalità, senza aver paura di questa parola. Per onestà bisogna dire che questa non è una colpa della sola Cgil, ma di tutta la sinistra italiana ed europea. Anzi in qualche modo la Cgil ha perfino resistito, se pensiamo che il maggior partito del centrosinistra italiano è regredito fino al punto di eleggere come segretario uno come Renzi. Però adesso non basta più essere un po' meno peggio, anche perché ci vuole davvero poco per essere meno peggio del Pd.
Per questo è fondamentale recuperare il valore etimologico del sindacato, come ho detto all'inizio. Raccontare che il sindacato è quello che in mezzo alle difficoltà prova a tutelare i lavoratori più deboli; vi assicuro che lo fa ancora, spesso in un lavoro oscuro, perché è sempre più difficile tutelare lavoratori che anche in una stessa azienda hanno una miriade di contratti diversi, e quindi capita che provando ad aiutare uno rischi di fare un danno all'altro. Ed è anche difficile farlo, perché si parte dalla situazione di sfiducia che ho descritto prima, per questo c'è bisogno di riacquistare fiducia, anzi questa è una precondizione per tornare a essere un sindacato che fa il sindacato, ossia che tutela i lavoratori, partendo da quelli che sono più deboli, le donne, gli stranieri, i giovani.
Proprio come le Danaidi, che erano giovani donne immigrate che però hanno trovato una città che le ha protette. Oggi dovrebbero trovare il sindacato.

giovedì 18 settembre 2014

Verba volant (126): tutela...

Tutela, sost. f.

Il sostantivo latino tutela deriva da tutus, participio passato del verbo tueri, il cui primo significato è quello di guardare - e da qui la radice del verbo italiano intuire - e, in senso figurato, proteggere, curare, a cui è stata aggiunta la desinenza -ela propria dei termini astratti. Non credo sia un caso che la parola tutela in Italia descriva sempre più un concetto astratto, in particolare per quel che riguarda il mondo del lavoro.
Nella sua furia riformatrice, in questi giorni il governo si è inventato il contratto di lavoro a tutela crescente, con l'obiettivo neppure troppo sottaciuto di cancellare definitivamente dalla legislazione italiana l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Come noto è da alcuni anni che i nostri governi cercano di ottenere questo risultato ed è probabile che ci riesca proprio l'attuale sedicente governo di centrosinistra, votato e finora sostenuto acriticamente dalla maggioranza della Cgil. Risulta perfino un po' patetico chi adesso, dall'interno del Pd, dice che in questo modo si tradisce il mandato degli elettori; con tutto il rispetto, caro Bersani, una parte di responsabilità se adesso c'è Renzi è anche tua e quindi è meglio che rimani a Bettola, a riposare come meriti.
Al di là della demagogia che Renzi ha fatto e farà su questo tema, l'idea di cancellare l'art. 18 non è nuova ed è figlia di una precisa visione ideologica, quella del finanzcapitalismo, di cui questo governo è assolutamente succube. Non ci sono ragioni di politica economica per sostenere la necessità di abrogare quella norma. Non esiste un motivo "tecnico" - nonostante questo sia un cavallo di battaglia dei tecnici - per cancellare questo articolo.
La rigidità del mercato del lavoro nel nostro paese è molto sopravvalutata, è una di quelle bugie che, a forza di esser dette, finiscono per essere considerate vere. L'Ocse ha definito un indice per misurare proprio la rigidità dei regimi di protezione dell'impiego, quindi uno strumento per misurare la facilità o la difficoltà delle imprese a licenziare i lavoratori. L'Ocse - badate bene, non la Terza Internazionale, ma l'Ocse, che è proprio uno dei centri del finanzcapitalismo - ha calcolato questo indice per quarantasei paesi. In un rapporto, quello riferito al 2008 - ossia prima della stagione dei governi tecnici e prima della lettera di Draghi con cui il nostro paese è stato commissariato di fatto dalla Troika - si mette in evidenza per l'Italia una relativa facilità di licenziare i lavoratori a tempo indeterminato, nelle imprese con più di quindici dipendenti, proprio quei lavoratori a cui si applica il famigerato art. 18; l'indice Ocse posiziona l'Italia al decimo posto, al livello della tanto decantata Danimarca, che - a sentire un solone come Ichino - dovrebbe essere il modello a cui tendere.
Chi sostiene la necessità di abolire l'art. 18 spiega che una minore rigidità nelle norme che definiscono i licenziamenti favorirà la crescita dell'occupazione. Non è vero. Questa correlazione non è dimostrata empiricamente da nessun risultato statistico, per nessun paese al mondo. Anzi, si può provare il contrario. In Italia il progressivo calo dell'occupazione - che ha ormai una tendenza strutturale e appare purtroppo irreversibile - non è stato né fermato né rallentato dalle riforme del 1997 e del 2003, varate rispettivamente da un governo di centrosinistra e da uno di centrodestra, tese proprio a rendere più flessibile il lavoro. In sostanza l'introduzione di una proliferazione di nuovi contratti, la crescita di sempre maggiori forme di precarietà non ha significato un aumento dell'occupazione. Tutt'altro.
I dati dell'Istat - e l'esperienza di ciascuno di noi lo può confermare - ci raccontano un'Italia in cui c'è sempre meno lavoro. Si tratta di una realtà drammatica, soprattutto per i giovani, per le donne e per il Mezzogiorno: per una giovane donna campana o siciliana, per quanto brava, trovare un lavoro è un'impresa al limite dell'impossibile.
Sulle conseguenze dell'introduzione di leggi per favorire la diffusione dei contratti cosiddetti atipici c'è un documento - redatto da quei comunisti del Fondo Monetario Internazionale - in cui si dice esplicitamente che nei paesi in cui sono state introdotte riforme tese a introdurre una maggiore flessibilità, specialmente con l'estensione dei lavori a tempo determinato - per non parlare di altre bizzarre fantasie della legislazione italiana, a cui si aggiungerà tra poco la tutela crescente - c'è stato un aumento della disoccupazione. Nel documento si spiega che questo aumento della disoccupazione è certo e provato nei periodi di crisi, come quello che stiamo vivendo; a chi sostiene che comunque, superata la crisi, queste riforme genereranno nuovi posti di lavoro, il documento risponde in questo modo:
In principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più pronte a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere.
Ci permettiamo anche noi di dubitare, come fanno i compagni del Fmi.
C'è infine un'ultima considerazione, che naturalmente a un uomo di destra come Renzi non importa molto, ma che a noi di sinistra dovrebbe interessare. Chi analizza queste cose ha verificato che esiste una relazione precisa tra minore rigidità dei regimi di protezione dell'impiego e diminuzione dei salari: ossia nei paesi dove è più facile licenziare i salari tendono a essere più bassi. Questo è facilmente verificabile anche tra i giovani italiani: i loro salari medi sono inferiori a quelli dei loro genitori.
Se allora l'abolizione dell'art. 18 non garantisce affatto la crescita dell'occupazione, non sarà che Renzi - e chi per lui - pensa che questa riforma sia utile proprio per ridurre i salari dei lavoratori? Il sospetto viene perché pare strano che Renzi e i suoi complici si incaponiscano in una lotta per puro spirito ideologico, per il solo gusto di togliere una norma che ritengono sbagliata o che dicono sia ininfluente. A qualcosa - e a qualcuno - deve servire togliere l'art. 18. Visto che ai lavoratori non serve, forse servirà ai padroni, che infatti lodano tutti il nuovo governo.
Mi rendo conto che al punto in cui siamo già la difesa dell'art. 18 pare un compito troppo duro per le nostre deboli forze, eppure la nostra scelta dovrebbe essere quella di rilanciare, bisognerebbe fare una battaglia culturale, prima ancora che politica, per chiedere l'estensione dell'art. 18 anche alle aziende con meno di quindici dipendenti, per estendere a tutti questa forma di tutela. Per nulla astratta.

post scriptum
Magari i più attenti di voi se ne sono già accorti. Per scrivere questa definizione di Verba volant ho utilizzato molto materiale che avevo già usato in una "considerazione libera" di più di due anni fa, quando al governo c'era Monti. Devo purtroppo sottolineare che in questi due anni la situazione è peggiorata, la disoccupazione è aumentata e gli attacchi al mondo del lavoro sono sempre più violenti. Mi ha colpito una cosa: potevo togliere dal mio vecchio articolo il nome di Monti e sostituirlo con quello di Renzi e il discorso continuava a filare, perché quest'ultimo fa esattemente le stesse cose che faceva quello.

mercoledì 17 settembre 2014

Verba volant (125): nazione...

Nazione, sost. f.

Probabilmente non sono la persona più adatta a scrivere questa definizione, perché sono "allergico" all'idea di nazione in generale e, in particolare, sopporto sempre più a fatica la mia nazione. Non sono mai riuscito a definirmi italiano, al massimo posso dirmi emiliano o al limite europeo. Sarà che sono un vecchio internazionalista o che sono cresciuto, amando la filosofia della Grecia antica, il cinema americano e i romanzi russi. La patria in fondo è come i parenti - anche l'etimologia è la stessa - non ce la possiamo scegliere, ma - proprio come dovremmo fare con i parenti - possiamo evitare di frequentarla troppo.
Proprio perché il mio paese mi va così stretto, fatico a capire l'ansia di almeno una metà degli scozzesi di avere una propria nazione autonoma. E almeno la Scozia - come la Catalogna del resto - esiste, ha una propria storia, anche importante, soprattutto ha una propria cultura; in questi anni, in questa esasperata ricerca delle piccole patrie, abbiamo più volte corso il rischio di sfiorare il ridicolo, come succede quando ci si vuole inventare un paese, ad ogni costo. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Sbaglieremmo però a sottovalutare il referendum scozzese - qualunque ne sia l'esito - così come la crescita in Europa di altri movimenti autenticamente autonomisti e indipendentisti. C'è evidentemente in quel voto uno spirito conservatore, un attaccamento esagerato e quasi morboso alle proprie tradizioni, a radici - spesso mitizzate e quasi sempre poco conosciute - che porta inevitabilmente a chiudersi in se stessi, a dare un giudizio negativo - se non addirittura razzista - verso quelli che non appartengono alla tua nazione, ossia la ricerca di una "purezza" ormai difficile da raggiungere in un mondo sempre più piccolo, dove è sempre più facile viaggiare e dove è sempre più naturale mescolarsi. Tra chi voterà per l'indipendenza della Scozia ci saranno tanti che hanno nostalgia del "buon tempo antico", anche se non c'è mai stato veramente un "buon tempo antico", né in Scozia né da nessun'altra parte. C'è in questa esasperata ricerca di indipendenza un senso naturale - e comprensibile per molti aspetti - di paura, a cui si risponde - altrettanto naturalmente - innalzando mura. Come sappiamo dalla storia però sulla paura non si costruisce nulla. E le mura sono tutte destinate ad essere abbattute; per fortuna.
C'è però qualcosa di più e anche qualcosa di positivo in quel voto. Direi qualcosa di sinistra, se ormai questa parola non suonasse una bestemmia per tante orecchie delicate. Io credo che ci sia una forte voglia di democrazia, l'idea che in un paese più piccolo sia più semplice esercitare una forma di controllo verso i propri governanti, che si abbia una qualche possibilità in più di far sentire la propria voce sulle vicende politiche, in sostanza che si possa partecipare, come dicevamo una volta. In un'epoca in cui si restringono gli ambiti democratici, in cui le decisioni sono prese - anche nelle cosiddette democrazie rappresentative - in luoghi lontani, inaccessibili e sostanzialmente misteriosi, questa rinnovata voglia di democrazia - anche di democrazia diretta - rappresenta qualcosa di rivoluzionario.
Pensate a cosa sta diventando l'Europa. Da qualche anno abbiamo imparato a fare i conti con la Troika, sappiamo che prende decisioni che condizionano le nostre vite, spesso la critichiamo, ma non sappiamo chi sia, non ha un volto, un po' come il capo della Spectre, di cui vedevamo soltanto le mani che accarezzavano un gatto. La Troika governa l'Europa, eppure nessuno di noi l'ha mai votata. Questo è oggettivamente un problema, anche se ormai non lo sentiamo più come tale, perché ci siamo come abituati a questa impersonalità. Ogni tanto facciamo uno sforzo per darle un corpo e usiamo l'espressione "i tecnici della Troika", senza però sapere chi siano questi fantomatici tecnici; forse anche il condomino del secondo piano - quello antipatico - è uno di loro.
Ho l'impressione che una parte degli scozzesi voterà al referendum proprio con il desiderio di avere più peso nelle decisioni del proprio paese, voterà per l'indipendenza per chiedere maggior democrazia. Naturalmente considero questo un elemento positivo, anche se dubito fortemente che i cittadini di una Scozia indipendente avranno un maggior potere di quanto ne abbiano adesso in quanto sudditi britannici. Il problema è che sono i meccanismi della democrazia ad essersi ormai inceppati, anche a livello locale. Perché i nostri governi, per non dire dei parlamenti, sono sempre più svuotati, a favore di interessi economici sovranazionali che gestiscono il vero potere. Perché il mondo dell'informazione risponde a interessi globali che pochissimo hanno a che fare con le autorità nazionali. Perché è chi ha in mano le leve del denaro a dettar legge. E probabilmente per questi poteri è perfino più facile controllare piccoli stati, più facilmente manovrabili.
Gli scozzesi pongono una domanda giusta, ma danno una risposta sbagliata. William Wallace non dovrebbe liberare il suo paese dagli inglesi, ma dalle multinazionali. Temo sarà molto più difficile.

lunedì 15 settembre 2014

Verba volant (124): orsa...

Orsa, sost. f.

Artemide è probabilmente la dea più misteriosa dell'olimpo greco; una dea potente, affascinante e decisamente pericolosa.
Non è soltanto la dea cacciatrice, come viene descritta dalla tradizione alessandrina, che tende a banalizzare la mitologia degli antichi, e come viene ormai raffigurata dai moderni, specialmente dopo che i Romani l'hanno identificata con la loro Diana, dea delle selve e della caccia, una figura molto meno complessa di quella greca.
Artemide è una dea molto antica, con ogni probabilità la trasfigurazione nel pantheon greco di una fondamentale divinità arcaica della cultura indoeuropea, conosciuta come la Grande madre. Artemide era una delle dee vergini dell'Olimpo - come l'antica Estia e la più giovane Atena - ed era la divinità di tutto ciò che stava al di fuori della città e del villaggio e soprattutto la dea delle iniziazioni femminili.
Artemide, seppur in modo misterioso e allusivo, ricordava ai greci antichi - e quindi anche a noi - che c'era stata un'età antichissima, di molto precedente quella degli eroi, in cui le donne, forti del fatto di avere il dono di generare, erano tenute in maggior considerazione degli uomini, sia nella famiglia che nel villaggio, un'età in cui la discendenza era matrilineare, in cui il tempo era legato ai cicli della luna - che infatti regolano anche i periodi di fertilità delle donne - e in cui la divinità più venerata e temuta era appunto la Grande madre. Poi, lentamente e inesorabilmente, i maschi, la cui funzione era quella di procurarsi il cibo, sono riusciti a prevalere, confinando il ruolo delle donne all'interno della casa e imponendo la discendenza patrilineare. Hanno fatto in modo che il tempo venisse scandito non più attraverso le fasi lunari, ma con il sole, e soprattutto hanno determinato un pantheon maschile e patriarcale, specchio celeste della nuova società.
Artemide, dea vergine e protettrice dei parti - perché generata senza dolore dalla propria madre Leto - legata al culto lunare, dea della parte più intima della casa, quella appunto riservata alle donne, e al contempo del territorio che circonda la polis - diventata invece campo d'azione esclusiva dell'uomo - ricorda, seppur in maniera ambigua e indiretta, quel mondo che i maschi tendono comprensibilmente a nascondere, a dimenticare. Il mistero di Artemide è il mistero dell'essere madre.
Proprio perché il culto di questa dea era così antico, quando ancora gli dei erano raffigurati come animali, Artemide era considerata un'orsa. La parola che indica l'orso in greco è arktos e la terra misteriosa del nord, regno degli orsi, è ancora oggi l'artico. L'orsa era per quei popoli un animale misterioso, difficile da incontrare, e soprattutto un animale pericoloso, con cui era meglio non scontrarsi. E infatti è meglio non scontrarsi con Artemide, perché la vergine cacciatrice finirà sempre per avere la meglio su di noi mortali.
Nelle epoche successive, quando i maschi avevano ormai vinto e avevano dato agli dei le loro fattezze, dal momento che gli autori dei miti erano anch'essi maschi, Artemide è stata dipinta sempre più come una divinità crudele e temibile. In Omero si racconta un unico sacrificio umano, quello imposto proprio da Artemide per placare il mare e permettere alla flotta greca di salpare verso Troia. Perché la guerra possa finalmente iniziare - e quindi tanto altro sangue possa essere versato - è necessario il sangue di una vergine e dovrà essere sacrificata Ifigenia, la figlia del capo della spedizione, il re di Micene Agamennone. Alla fine Ifigenia verrà salvata dalla dea - anche se Agamennone e tutti gli altri non se ne accorgeranno - e sostituita da una candida cerva, proprio nel momento in cui il padre stava per far scendere il pugnale sulla figlia. Ifigenia sarà condotta nella remota regione della Tauride, l'odierna Crimea - teatro ancora di guerre - dove diventarà sacerdotessa della dea. E Agamennone pagherà comunque per aver ucciso la figlia, perché questa è la vera ragione per cui Clitennestra lo tradirà e lo ucciderà.
In un'altra storia, notissima, rappresentata da grandi pittori - qui vicino, a Fontanellato, ci sono gli splendidi affreschi del Parmigianino - Artemide trasforma il giovane cacciatore Atteone in un cervo, facendolo poi sbranare dai suoi stessi cani, per punirlo del fatto che l'aveva spiata, mentre nuda faceva il bagno con le sue compagne, all'ombra della selva Gargafia.
C'è un'altra storia però che voglio raccontare, quella della ninfa Callisto, la bellissima come dice il suo nome, figlia di Licaone, l'uomo-lupo, la quale faceva parte del seguito della dea. Anche le ninfe di Artemide dovevano far voto di rimanere vergini, ma Callisto fu sedotta da Zeus che, con astuzia, prese le sembianze della stessa Artemide e si unì a lei. Un'antica leggenda, una versione precedente del mito, racconta che Zeus prese le sembianze di un orso - o meglio di un'orsa - proprio perché così appariva Artemide, e che anche Callisto era un'orsa. Quando la dea si accorse che la ninfa era incinta e che quindi aveva violato il patto che prescriveva di mantenere la verginità, la sua collera fu terribile e la cacciò dal suo seguito. Secondo alcuni la trasformò in un'orsa, secondo un'altra versione fu Era a trasformarla in questo animale, per vendicarsi del tradimento del marito, per altri ancora lo fece lo stesso Zeus, per tentare di sottrarla alla vendetta di Era. La storia è così confusa, perché Callisto era già un'orsa, ma dovevano trovare un modo per giustificare questa trasformazione. Comunque sia la vergine cacciatrice - alcuni dicono per sua volontà, altri dicono istigata da Era - uccise l'orsa Callisto. Per la pietà di Zeus, o forse della stessa Artemide - anche qui le tradizioni divergono - Callisto salì in cielo e divenne la costellazione dell'Orsa maggiore. E suo figlio Arcade - il cui nome significa il figlio dell'orsa - fu trasformato nella costellazione dell'Orsa minore. Ma Era, per vendicarsi ancora del tradimento di Zeus, ottenne che queste nuove costellazioni non potessero mai tramontare.
Si tratta dell'unico mito greco in cui appare un'amore lesbico. Naturalmente le interpretazioni sono molte. Personalmente credo che sia vera anche la più immediata e la più semplice: Callisto è Artemide, perché non si tratta di un nome, ma di un aggettivo, spesso riferito alla dea, e perché l'orsa è Artemide. Questo mito racconta la paura dell'uomo che la donna possa generare da sola, che possa fare a meno del maschio. E invece sarà Zeus, proprio secondo la mitologica scritta dai maschi, a generare da solo, e da questo parto innaturale nascerà Atena, un'altra dea vergine, patrona della città, dello spazio pubblico dominato dai maschi. Così fu definitivamente normalizzato in senso patriarcale il mondo divino; e Artemide l'orsa venne rigettata nelle sue foreste, a spaventare i mortali. Ma di quelle foreste rimase - e rimane - regina.
Probabilmente, miei cari lettori, quando avete letto che la parola scelta era orsa, avete pensato che parlassi di un'altra storia, molto più recente, che in questi giorni riempie - a volte anche un po' a sproposito - gli organi di informazione e le bacheche dei social network. Sinceramente non credo di aver divagato, perché il problema di fondo che emerge ancora una volta dalla storia di Daniza è l'incapacità degli uomini di stare al proprio posto nell'ordine della natura. Gli uomini non capiscono - o non vogliono capire - che sono soltanto una parte di questo mondo, e nemmeno la più importante.
E l'incauto e troppo curioso fungaiolo trentino può dirsi fortunato di non aver fatto la fine di Atteone.

venerdì 12 settembre 2014

Verba volant (123): sommerso...

Sommerso, sost. m.

Devo ammettere che in genere queste statistiche mi appassionano poco, ma in questo caso credo che sia utile fare un'eccezione. Probabilmente avete visto anche voi la notizia: da pochi giorni l'Italia è un po' più ricca - 59 miliardi, pari al 3,7% in più - e un po' meno indebitata. Naturalmente non è merito di Renzi, ma di un nuovo modo di calcolare il prodotto interno lordo. In sostanza abbiamo camuffato i conti, ma insieme a tutti gli altri paesi europei.
Questo risultato positivo è stato raggiunto sostanzialmente grazie a due voci.
Prima di tutto sono state capitalizzate le spese per la ricerca, ossia queste voci sono state spostate dalla colonna dei costi a quella degli investimenti. Francamente credo sia giusto. La ricerca può apparire una spesa inutile e così infatti è considerata nel nostro paese, che investe pochissimo, evidentemente per non sprecare risorse. Gli statistici dell'Europa invece ci hanno spiegato che questa spesa dovrebbe essere considerata un investimento per il futuro; come vedete, a volte è bene dover fare come fanno in Europa. Mi è meno chiaro perché sia stato fatto lo stesso per le spese destinate agli armamenti. Non capisco bene quale valore positivo per il futuro rappresenti l'acquisto di nuovi carri armati, a meno che non si voglia invadere la Kamcatka.
Al di là di questo piccolo artificio, di questo spostamento di numeri da una parte all'altra, per il nostro paese il dato che ha contribuito a modificare in maniera più significativa il pil è stata la decisione di calcolare anche l'economia sommersa e quella illegale; in particolare per quest'ultima voce sono state presi in considerazione soltanto tre elementi: commercio della droga, prostituzione, contrabbando di sigarette.
Vediamo un po' i numeri. Spaccio di droga, prostituzione e contrabbando di sigarette producono un giro di affari rispettivamente di 10,5 miliardi, 3,5 miliardi e 0,3 miliardi. Non so come abbiano fatto i calcoli negli altri paesi e soprattutto quali parametri abbiano usato là, ma immagino che la scelta di considerare anche il contrabbando di sigarette - preferendolo ad attività criminali più lucrose, ad esempio la tratta o il traffico dei rifiuti - sia legato all'amore dei tecnici di Bruxelles per i film del neorealismo italiano, per l'immagine della Loren splendida venditrice di sigarette di contrabbando nella Napoli della fine degli anni Cinquanta. All'estero in fondo ci amano così.
Poi c'è il sommerso. L'espressione è un calco ben riuscito di underground economy, che fortunatamente è riuscito ad imporsi rispetto alla formula inglese, caso piuttosto raro, vista l'anglofilia provinciale della nostra lingua. Il sommerso è stimato in 187 miliardi, ossia l'11,5% del pil.
Il 18 marzo 1968, in un celebre discorso tenuto davanti agli studenti dell'università del Kansas, Robert Kennedy disse parole molto chiare e ispirate sul valore della ricchezza e sugli indici che servono a misurarla.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo. Il pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Ecco il pil dell'Italia non solo non tiene conto della bellezza del nostro paese o del valore della nostra arte e della nostra cultura - dati che sono oggettivamente difficili da misurare e quindi da inserire in una statistica - invece tiene conto della parte peggiore del paese: l'evasione fiscale, il lavoro nero e sottopagato, la corruzione diffusa. Il pil dell'Italia tiene conto che tre regioni del nostro paese sono governate di fatto dalla criminalità organizzata e soprattutto che le mafie sembrano ormai le uniche "aziende" che investono in questo paese, che prestano soldi, che aprono nuove attività, che in sostanza fanno girare l'economia.
Parliamo molto - spesso a sproposito - della trattativa tra lo stato e la mafia, riferendoci unicamente agli ultimi vent'anni. Io sono uno di quelli che crede che questa trattativa ci sia stata, ma ci sono anche argomenti per mettere in dubbio questa tesi. Questo dibattito però non dovrebbe farci mai dimenticare che la vera trattativa c'è stata prima, è ormai un dato storico, documentato, almeno dalla strage di Portella delle ginestre in poi. Ora io non so se la trattativa ci sia ancora oggi, anzi credo di no, ma c'è qualcosa che è forse peggio, ossia l'indifferenza, il considerare questo problema come irrisolvibile e quindi come qualcosa con cui convivere.
Anch'io come Kennedy - nel mio piccolo, naturalmente - non credo nel pil, ma mi ha dato fastidio, molto fastidio, il fatto che vi sia stata inserita l'economia illegale, come se si trattasse di qualcosa di normale. Questo nuovo calcolo è stato accettato, senza nessuna polenica. Anzi pare che il governo abbia aspettato questi nuovi dati per fare la prossima legge finanziaria, proprio per sfruttare quella leggera diminuzione del debito dovuta a questo ricalcolo.
Mi dà fastidio che non ci si scandalizzi di fronte al fatto che più di un decimo dell'economia di questo paese sia legato all'illegalità o comunque a quella zona grigia, dove è difficile distinguere cosa è lecito e cosa no. Ne abbiamo semplicemente preso atto, lo abbiamo scritto nei nostri documenti, e poi andiamo avanti, facendo sostanzialmente finta che non sia importante. Invece è importante, perché quel 12% - ed è anche di più, perché quelle stime sono necessariamente sottostimate - è un cancro che è destinato ad allargarsi, è il morto che trascinerà il vivo.
Non possiamo più accettare il sommerso come qualcosa di normale. Perché ci sommergerà.

mercoledì 10 settembre 2014

Verba volant (122): camicia...

Camicia, sost. f.

Questa è una parola dall'etimologia incerta. Il Pianigiani crede sia una voce di origine germanica, arrivata a Roma attraverso la Gallia, passata nel linguaggio popolare per indicare l'indumento che copre la parte superiore del corpo e ricorda che san Girolamo usa camisia per definire la veste usata dai militari. L'etimologista senese attesta anche alcune altre ipotesi: la parola potrebbe derivare dall'arabo qamic, che nel Corano indica la tunica, oppure dal latino tardo cama, che significa letto, dal momento che è la veste con cui si dorme, l'antenata del baby doll.
Comunque sia la camicia era allora un indumento popolare, barbaro, contrapposto alle nobili vesti romane. Come noto la camicia e i pantaloni dei popoli del nord ebbero la meglio sulle toghe e sui chitoni: sull'abbigliamento hanno sicuramento vinto i barbari. Alla fine la camicia si è presa anche un'ulteriore rivincita, dal momento che è diventata un segno di distinzione borghese: i "colletti bianchi" contro le "tute blu".
Nella storia, come noto, troviamo camicie di colori molto diversi. E quel colore, spesso diventato così importante, molte volte è legato a un caso. Quando nel 1843 Giuseppe Garibaldi - che era là in esilio e insegnava matematica - radunò a Montevideo cinquecento volontari italiani da schierare a difesa della Repubblica uruguayana attaccata dal dittatore argentino Juan Manuela de Rosas, scelse il rosso per le camicie dei suoi uomini. Garibaldi, potendo contare su pochissimi fondi per finanziare la propria impresa, acquistò del panno di lana rosso, che veniva usato di solito per i camici da lavoro dei macellai, con lo scopo di nascondere le macchie di sangue. E in questo modo nacquero le Camicie rosse, che ebbero un ruolo così importante nella storia del nostro Risorgimento.
Pare sia stata altrettanto casuale la scelta di come vestirsi da parte di Matteo Renzi e di alcuni altri esponenti del cosiddetto Partito socialista europeo, andati a Bologna per stipulare il "patto del tortellino", ossia per pranzare gratis alla Festa dell'Unità. Il tedesco Achim Post, lo spagnolo Pedro Sanchez, il francese Manuel Valls, l'olandese Diederik Samsom e naturalmente il nostro Fonzie si sono presentati sul palco della festa con la stessa tenuta: pantaloni scuri e camicia bianca, senza cravatta.
Contrordine compagni, mettete pure in soffitta la camicia rossa, e il basco e l'eskimo e tutte quelle robe lì; adesso la camicia bianca, con le maniche rigorosamente arrotolate alla Baricco, è la nuova bandiera del socialismo europeo. E' il socialismo che non fa più paura a "lorsignori" e anzi che viene invitato in società, alle feste dei banchieri e degli industriali, il socialismo ben educato, che non sporca e che sa stare al suo posto. Si accomoda a tavola ed è soddisfatto così, non chiede di mangiare e gli viene passato al massimo qualche osso da spolpare; gli basta stare a sedere e guarda gli altri commensali ingozzarsi e divertirsi. E ci spiegano che questa è la modernità.
Domenica a Bologna si sono presentati questi leader socialisti del futuro: giovani, belli e intelligenti; anche all'Italia ne è toccato uno... giovane. Sostanzialmente intercambiabili, come i componenti di una qualsiasi boy band. Tutti telegenici, tutti abili oratori, tutti capaci di trarre il filo della camicia ai loro elettori, ossia di far fare loro quello che vogliono. Si tratta di giovani spesso nati con la camicia e comunque disposti a vender la camicia, pur di vincere le elezioni. E in molti caso l'hanno già venduta e hanno venduto anche le nostre. Sono tutti socialisti che governano, magari insieme alla destra, come il tedesco, o da soli, come il francese, cercando comunque di fare una politica più di destra di quella fatta dalla stessa destra. Oppure che sperano di governare, come lo spagnolo, promettendo che se saranno eletti, faranno una politica di destra. O che fanno finta di governare. Tutti con la loro bella camicia bianca, fresca di bucato.
E noi? Immagino dovremo sudare sette camicie per tirare avanti. E finiremo comunque per ridurci in camicia.
E levate la cammesella!
La cammesella, gnornò, gnornò!

Verba volant (121): armistizio...


Armistizio, sost. m.

Dobbiamo riconoscerlo: l’Italia non ha una vera festa civile nazionale.
Ha naturalmente le feste cattoliche, tutte quelle canoniche come Natale, Pasqua, Carnevale, e anche diverse altre che sono state aggiunte negli anni, un po’ forzando la mano, come l’Immacolata concezione - introdotta da Pio IX in funzione antirisorgimentale – o come santo Stefano e il Lunedì dell’Angelo, introdotte dai governi democristiani del dopoguerra per allungare un po’ le ferie degli italiani. E poi ci sono una miriade di feste locali, che affondano spesso le loro radici nelle tradizioni pagane e sono legate ad un mondo contadino, in cui il tempo era scandito dal sorgere e dal tramontare del sole e dal susseguirsi delle stagioni.
Ovviamente nessuna di queste può diventare festa nazionale perché non siamo tutti cattolici, come invece sembrano credere i nostri politici baciapile, mentre ci siamo anche noi atei e quelli che hanno altre fedi – e altre feste – e perché siamo campanilisti; pensate che solo in Emilia-Romagna abbiamo una dozzina di nomi diversi per indicare la pasta per il pane fritta, figuratevi se possiamo condividere una stessa festa.
L’Italia non ha una festa perché è un paese nato da poco e non bastano 150 anni per fare una nazione; anzi credo che i festeggiamenti per il centocinquantesimo abbiano contribuito a dividerci ancora di più, con la loro esausta retorica.
La Francia ha il 14 luglio, gli Stati Uniti hanno l’Independence day, il Regno Unito ha il Trooping the Colour. In Italia ne avremmo perfino due di feste nazionali: il 25 Aprile e il 2 Giugno, ma non sono mai diventate vere feste, ma soltanto due ghiotte occasioni di vacanza, specialmente quando è possibile “fare il ponte”, una specialità tutta italiana.
I fascisti ovviamente non gradivano festeggiare la Festa della Liberazione, visto che ci eravamo liberati proprio da loro e di loro, e quindi, per non urtare troppo la loro sensibilità, visto che erano tanti, anche se non erano disposti ad ammetterlo, in molti hanno cominciato a considerare il 25 Aprile come una festa “nostra”, ossia una festa dei comunisti – al massimo degli antifascisti – lasciando a noi la gioia – e anche l’onere – di festeggiare. Il 2 Giugno pare ancora più difficile da celebrare, visto che la repubblica ha vinto per un soffio il referendum e, secondo alcuni, solo grazie ai brogli. E poi si trova sempre qualche motivo per criticare questa festa: da qualche anno il tema dominante è la critica alla parata militare sui Fori, ma si tratta evidentemente di un pretesto per non festeggiare.
In sostanza queste sono feste che dividono, mentre le feste nazionali dovrebbero unire. Immagino che ci sia ancora in uno sperduto villaggio della Francia qualche reazionario vandeano che tuona contro la Rivoluzione dell’89, ma il 14 luglio è una festa anche per la grande maggioranza della destra francese, perfino per quella nazionalista, anche se gli ideali della rivoluzione poco hanno a che fare con loro. I Le Pen, padre e figlia, cantano la Marsigliese, con la stessa enfasi con cui la cantiamo noi giacobini, anche se diamo alla parole di quell’inno un significato ben diverso da quello che danno loro. Mentre nella televisione italiana è sostanzialmente – anche se non formalmente – vietato cantare Bella ciao.
Comunque sia, io credo che il problema dell’Italia sia quello che nessuna delle feste civili finora considerate rappresenta davvero il nostro paese. Io ho una piccola proposta che ho maturato negli anni e che adesso ho finalmente l’opportunità di condividere con voi. Anzi voglio cominciare una campagna in rete per sostenere questa mia proposta. Mi è venuta anche una bellissima idea per promuoverla: voglio fare un video in cui, dopo aver descritto la mia idea, mi getto adosso un secchio di acqua ghiacciata, invitando gli altri ad imitarmi. Però non sono sicuro che possa funzionare: mi sembra una cosa troppo sciocca.
In sostanza la mia idea è far diventare l’8 Settembre festa nazionale, il Giorno dell’Armistizio. E’ una data perfetta, che rappresenta il vero spirito di questo paese. Come noto l’armistizio fu firmato alcuni giorni prima, il 3 settembre, ma chi allora governava il paese preferì mantenere segreta la notizia: la prima di una lunghissima serie di bugie dei nostri governanti. Con questo sotterfugio cercarono di barcamenarsi, come avevano fatto nelle settimane precedenti, ma soprattutto prepararono la propria fuga. La ritirata precipitosa del re e del governo, la diserzione scomposta degli alti comandi militari, la disfatta di un’intera classe dirigente che ha pensato soltanto a salvare se stessa: cosa c’è di più italiano di questo colpevole scaricarsi delle proprie responsabilità.
Certo nei giorni immediatemente seguenti all’annuncio dell’armistizio ci furono anche degli atti di eroismo, ma furono pochi, episodi giustamente circoscritti: il nostro non è un popolo di eroi e soprattutto non li ama. Mentre furono innumerevoli gli episodi di viltà, in cui il nostro popolo ha potuto dar prova di meschinità e di bassezza. Quanti furono i fascisti che si finsero all’improvviso antifascisti? Moltissimi; ecco finalmente l’8 Settembre, nuova festa nazionale, potrebbe essere l’occasione per onorare tutti i voltagabbana, gli opportunisti, i trasformisti. E cosa c’è di più italiano della “borsa nera”, che proprio in quei mesi prosperò come non mai? Lì c’è il vero spirito imprenditoriale di noi italiani, e la nuova festa nazionale potrebbe essere anche un insegnamento per l’oggi e e per il futuro: dobbiamo saper riscoprire quelle qualità, quel pelo sullo stomaco, che fecero ricchi tanti italiani.
Un paese smarrito, confuso, senza ordini, in balia delle sue caratteristiche peggiori: questo è stato in sostanza l’8 settembre. Un grande artista ha raccontato quel mondo smarrito e perduto, in uno dei testi teatrali più importanti della nostra letteratura: Napoli milionaria.
E troppo spesso sembra che quella fuga disordinata, per salvare il salvabile, continui ancora, tra i pochi che fanno il proprio dovere, nonostante tutto, e i moltissimi che si fanno sempre gli affari loro, che si arrangiano come possono, che danno sempre la colpa agli altri, che chiudono un occhio, che pensano di avere tutti i diritti e non non hanno mai nessun dovere.
E’ l’8 settembre: tutti a casa. E’ festa nazionale.

martedì 9 settembre 2014

Verba volant (120): pecora...

Pecora, sost. f.

Non sum dignus. Non ho il diritto di giudicare le scelte di un papa, specialmente quando decide di incontrare una pecora che si è allontanata dal gregge.
Immagino che un papa abbia tutto il diritto - anzi abbia il dovere - di incontrare chi ha peccato. E di perdonarlo, se lo ritenga pentito. Se non si capisce questo si rischia di fare una figura meschina, come capita a don Abbondio quando, seppur in silenzio, critica il cardinal Federigo Borromeo per la sua familiarità con l’Innominato. Se papa Bergoglio ha deciso di incontrare in pubblico e di abbracciare in maniera così plateale Diego Armando Maradona, che qualche peccato l’ha pure commesso - per sua stessa ammissione - un cristiano può pensare a un disegno della Provvidenza.
Ma siccome io sono un vecchio ateo e alla provvidenza non credo, penso che papa Francesco questa volta abbia commesso non tanto un peccato - deciderà il suo confessore se veniale o mortale - ma quantomeno un errore di comunicazione. Cosa insolita per un pontefice che padroneggia con maestria questi strumenti.
Nelle scritture si trova la parabola della pecora smarrita. Non citerò le versioni più conosciute, quelle dei vangeli di Luca e di Matteo, ma quella del vangelo di Tommaso, l’apostolo dubbioso.
Il regno è come un pastore che aveva cento pecore. Una di loro, la più grande, si smarrì. Lui lasciò le altre novantanove e la cercò fino a trovarla. Dopo aver faticato tanto le disse: “Mi sei più cara tu di tutte le altre novantanove”.
L’abbraccio di Bergoglio, la sua emozione sincera, il suo entusiasmo nel trovarsi davanti la Mano de Dios, sono sembrati non tanto quelli del pastore quanto quelli del tifoso argentino di fronte al campione indimenticato e indimenticabile. Ovviamente l’emozione e l’entusiasmo sono legittimi, sappiamo che Bergoglio ama il calcio e non nasconde di essere un tifoso; anzi questa è una di quelle cose che l’ha fatto amare, che lo rende più simile a noi.
Forse in questo caso avrebbe dovuto mandare un altro messaggio; proprio in nome di quello sport che tanto ama. Maradona è stato certamente il campione più grande della sua generazione e uno dei più grandi di tutti i tempi, ma fuori dal campo è un uomo che ha commesso molti errori, e quel che è peggio ha usato la sua fama, l’amore dei tifosi e la stima di tutti gli appassionati di calcio per giustificare questi suoi errori. Al di là del perdono, che è qualcosa di personale e che attiene ad una sfera che non ci riguarda, credo che il papa avrebbe dovuto dire al campione argentino: non tutto ti è concesso, soltanto perché sei Maradona, anzi proprio il fatto che sei Maradona ti obbliga a una certa condotta, perché inevitabilmente tu sei un esempio per gli altri.
E comunque non possiamo certo criticare il papa noi terzomondisti che abbiamo perdonato a Maradona quel famoso gol di mano nella partita dei mondiali dell’86 contro l’Inghilterra, perché quella rete, seppur platealmente fraudolenta, era anche contro Mrs Thatcher e vendicava la sconfitta argentina nella guerra delle Falkland.
E il suo secondo gol fu così bello da far dimenticare quella scorrettezza. Gli dei del calcio hanno già perdonato Maradona che però non ha imparato la lezione; un papa argentino dovrebbe ricordaglielo.

domenica 7 settembre 2014

Verba volant (119): fare...

Fare, v. tr.

Fare è un verbo transitivo e quindi, come tale, richiede il complemento oggetto ed è un verbo dal significato assolutamente generico - forse il più generico della lingua italiana - e può esprimere qualsiasi azione, materiale o no, specificata appunto meglio dal complemento. Anche leggere è un verbo transitivo, anche mangiare lo è, ed entrambi richiedono il complemento oggetto, ma puoi comunque dire o scrivere “io leggo” o “io mangio” senza commettere un errore. Perché per qualcuno può essere importante sapere che tu stai leggendo o che stai mangiando, indipendentemente da cosa effettivamente leggi - l’Etica della ragion pura o Topolino - o da cosa effettivamente mangi. Ma non puoi dire soltanto “io faccio“. In questo caso è un errore, perché a nessuno interessa sapere che tu stai facendo, ma devi dire cosa stai facendo. Mi rendo conto che può sembrare una banalità, eppure da qualche anno - non so neppure dirvi esattamente da quando - il fare è diventato importante in sé, al di là di cosa poi si faccia. Almeno in politica, che - come noto - rispetta raramente le regole grammaticali. E spesso i politici neppure le conoscono.
Oggi pomeriggio mi sono fatto violenza e ho ascoltato la conferenza stampa del nostro purtroppo presidente del consiglio. Ha parlato per un po’ di tempo, per illustrare cosa farà nei prossimi mille giorni il suo esecutivo - a me già la notizia che rimarrà lì per mille giorni è parsa ferale -  ma non ha detto esattamente cosa farà, ha detto che lo farà e che noi potremo controllare l’andamento di questo suo fare in un sito creato ad hoc. Ecco uno ha fatto un sito, questo lo capisco, ma il resto mi è oscuro.
So di essere antico e anche troppo legato alle regole grammaticali, ma io ho bisogno del complemento oggetto e se mi dici che farai qualcosa, mi devi anche dire cosa. A onor del vero devo dire che non è il solo Renzi ad abusare di questo verbo. Berlusconi aveva definito il suo esecutivo il Governo del fare e Letta il giovane ha emanato, nel dicembre 2013, il Decreto del fare, ma nessuno di loro ci aveva detto cosa avrebbe fatto.
Lo so che adesso spunterà un renziano - compulsano freneticamente la rete per trovare chi critica il loro profeta del fare, cercando prima di redimerlo, poi condannandolo alle fiamme eterne - e dirà che finalmente ora si fa, dopo anni in cui non si è fatto, anzi ti dicono - con una spocchia insopportabile - dopo anni in cui non avete fatto. Io, a dire il vero, qualcosina l’ho fatta, perfino qualcosa di buono, ma il punto non mi pare questo: so che a questi fa difetto la memoria e che non si prendono la briga di leggere. Si tratta di un ragionamento paradossale che può essere confutato con un argomento altrettanto sciocco: anche Hitler ha fatto tante cose, rispettando il cronoprogramma e passo dopo passo - peccato che fosse quello dell’oca.
Mettiamo per ipotesi che Renzi sia sincero, che creda davvero in quello che dice: sarebbe come il Bianconiglio che va da una parte all’altra guardando l’orologio e dicendo preoccupato è tardi, è tardi, ma senza sapere per cosa è tardi. Non so voi, ma sinceramente non vorrei essere governato dal Bianconiglio, anche se forse sarebbe più affidabile del genio di Rignano.
Ovviamente Renzi non è sincero e sa benissimo cosa vuole fare - come lo sapevano Berlusconi, Monti e Letta prima di lui - o meglio cosa gli dicono di fare, ma non ce lo vuole dire o ce lo vuole dire solo a grandi linee. Perché se ce lo dicesse davvero, in maniera onesta e franca, dovrebbe dirci che sta attuando una serie di misure per ridurre la democrazia in questo paese e per favorire gli interessi delle classi più ricche della società; come è evidente tutte scelte squisitamente di sinistra.
Ma in questo contesto mi interessa poco ribadire il mio pessimo giudizio su questo governo, che è noto a voi miei fedeli lettori. Mi affascina invece capire come siano riusciti a stravolgere la grammatica, riuscendo a convincerci che l’importante è fare. E che in fondo poco importa cosa si fa o cosa non si fa. E tutti siamo contenti perché lui fa, lo ringraziamo perché fa, vogliamo farci fare un selfie con lui, magari mentre fa. Questa ideologia del fare per il fare è diventata a suo modo totalizzante e temo anche totalitaria, perché non accetta obiezioni. E toglie tutta l’attenzione dai contenuti; è per questo che io credo che Renzi, al di là dei gelati, sia un pericolo per la democrazia, perché ci disabitua a entrare nel merito delle scelte e ci obbliga a giudicare solo in base al fatto che una cosa sia stata fatta o meno. La prossima campagna elettorale, dopo questi interminabili mille giorni, per lui sarà semplice. Verrà a dirci: ho fatto questo, questo e quest’altro, quindi votatemi e la maggioranza lo voterà.
Dire, fare baciare, lettera, testamento. Forse qualcuno di voi si ricorderà questo gioco da bambini, quando chi perde deve scegliere la penitenza tra queste cinque opzioni.
Guardate come si adattano tutte bene all’attuale situazione politica. Dire è facile, basta andare in televisione e qualunque stupidata uno dica viene ripetuta, amplificata, commentata, analizzata, e chi la dice diventa uno importante; anzi tanto più la stupidata è grande, tanto più chi la dice viene considerato. Fare è altrettanto facile, basta appunto non dire cosa. Baciare è il modo per festeggiare un voto parlamentare ed è l’occasione migliore per cementare un’alleanza politica: certo è più facile baciare la Boschi che Poletti, ma vedrete che anche lui avrà i suoi baci quando porterà a casa la riforma del lavoro voluta da Confindustria e l’abolizione dell’art. 18. Lettera è quella che ha scritto Draghi con il programma a cui si stanno attenendo, con pedissequa obbedienza, tutti i governi italiani. Testamento è quello che dovremmo cominciare a scrivere noi, anche se non avremo nulla da lasciare in eredità.

sabato 6 settembre 2014

Verba volant (118): stereotipo...

Stereotipo, sost. m.

Ecco una parola apparentemente difficile, che viene dal francese stéréotype; il termine è un composto di stéréo, forma compositiva dell’aggettivo greco stereós, che significa solido, rigido, e di type, che significa appunto tipo. Si tratta di un modello convenzionale di atteggiamento o di discorso; e infatti si dice ragionare per stereotipi. Lo stereotipo è un’opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda su una valutazione personale e critica dei singoli casi, ma che viene ripetuta meccanicamente. Troppo spesso a ciascuno di noi capita di giudicare per stereotipi e naturalmente ci arrabbiamo moltissimo quando qualcun altro giudica noi in questo modo. Purtroppo ci sono stereotipi e pregiudizi duri a morire. Sugli italiani sono moltissimi, alimentati soprattutto da noi, dal nostro convinto campanilismo e da un sotteso razzismo verso gli altri: tutti i genovesi sarebbero tirchi, tutti i napoletani fannulloni, tutti i milanesi sgobboni e così via, in caricature che in qualche modo affondano nella commedia dell’arte e, in alcune casi, sono anche più antiche.
Ma siccome una bugia ripetuta molte volte viene alla fine considerata una verità - come sa bene Matteo Renzi - queste maschere sono diventati stereotipi. Per questo credo che ciascuno debba fare il possibile per non ragionare attraverso questi comodi cliché, ma debba anche fare in modo di non alimentarli.
Uno stereotipo ben radicato all’estero è che gli italiani siano maleducati, caciaroni, casinisti. Certo si tratta di un pregiudizio, però provate ad andare fuori dall’Italia, anche solo per qualche giorno. Qui nel nostro paese ormai siamo abituati, siamo come assuefatti alla maleducazione dei nostri connazionali, ma quando usciamo dai confini ci riconosciamo subito, e ci facciamo riconoscere. E devo dire che può dare anche molto fastidio.
Come ho raccontato in un’altra definizione io e Zaira siamo stati qualche giorno in Francia. La prima volta che ci siamo messi a sedere sotto le palme di Mentone abbiamo immediatamente capito chi era italiano e chi no. Ci sono volute alcune ore per individuare le nazionalità delle altre famiglie con cui eravamo abbastanza vicini da sentirne le voci, ma è bastato un minuto per riconoscere gli italiani e in pochi minuti abbiamo potuto sapere tutto, ma proprio tutto, sui loro legami di parentela, su quello che avevano mangiato la sera prima, sulle loro malattie e i relativi medicinali, perfino sui problemi condominiali di una signora che si era portata in spiaggia la lettera dell’amministratore con i calcoli della ripartizione delle spese dei lavori di sistemazione del tetto.
Credo sia utile sfatare due stereotipi molto diffusi: questi italiani maleducati e rumorosi non erano né giovani né del sud, ma erano anziani piemontesi. Poi naturalmente neppure io voglio generalizzare, immagino che la stragrande maggioranza degli anziani piemontesi siano persone educatissime e silenziose, anzi io ne ho conosciuti alcuni in cui queste caratteristiche erano assolutamente spiccate.
Vi riporto una conversazione illuminante di questi così frequenti tipi umani, che noi abbiamo dovuto - malgré nous - ascoltare. Uno si lamentava con i suoi compari perché l’auto gli stava dando qualche problema e quindi doveva portarla a riparare da un meccanico francese. E ne temeva il conto salato, perché un artigiano - a suo dire - fa pagare sempre di più a uno straniero in vacanza; ovviamente gli altri gli hanno dato rumorosamente ragione. No. Siete voi che fate così, siete voi bravi artigiani piemontesi - o emiliani o pugliesi o italiani - che fate così, che cercate di fregare gli altri e quindi pensate che gli altri vogliano fregare voi.
Perché per tutta la giornata - e in quelle successive - altri di nazionalità diverse hanno dovuto sopportare le loro storie stupide, i loro giudizi sommari, le loro futili banalità? Cosa abbiamo fatto di male per meritarci questi fastidiosi e rumorosi vicini? Chiunque usi regolarmente i treni e i mezzi pubblici sa bene di cosa parlo, sa in che livello di maleducazione siamo immersi ogni giorno: voci inutilmente alte, telefonini che suonano in ogni situazione - funerali compresi - e tutte le cose a cui siamo purtroppo abituati.
Il nostro paese va come va non perché per vent’anni c’è stato Berlusconi, come pure molti continuano a dire, o perché per altri vent’anni ci sarà Renzi - come pochi dicono, perché il fiorentino è quello che adesso comanda ed è meglio tenerselo buono - ma perché ci sono quegli italiani lì, quegli anziani piemontesi che ci hanno torturato i cosiddetti con la loro maleducazione a Mentone, e molti altri troppo simili a loro, perché ci sono questi italiani - e sono ormai convinto che siano la maggioranza - profondamente egoisti, ipocriti, che non hanno alcun rispetto per gli altri, abituati a giudicare sempre e solo per stereotipi.
Italiani brava gente.

venerdì 5 settembre 2014

Verba volant (117): turismo...

Turismo, sost. m.

Italians do it better, diceva Madonna; non credo si riferisse alla promozione del turismo.
Qualche anno fa Zaira mi ha fatto scoprire il Salento, una regione bellissima del nostro paese. Mentre stavamo là lessi alcune notizie veramente curiose. La Provincia di Lecce stava promuovendo a New York e nelle principali città europee il marchio Salento d’amare, in maniera indipendente da quanto organizzato dalla Regione. Cosa non inusuale, dal momento che alla Borsa internazionale del turismo di Milano c’erano uno stand della Regione, uno della Capitanata e della Terra di Bari, uno di Lecce e del Salento, uno di Taranto, che rivendicava il fatto di non essere in Salento e presentava il proprio marchio Terra jonica. Anche la Provincia di Brindisi aveva deciso di acquistare uno spazio al Bit per presentare il marchio Filia solis; peccato che la decisione non fosse stata condivisa dalla città di Brindisi e dai comuni di Ostuni, Carovigno, Fasano e Ceglie, che erano andati anche loro a Milano, presentando il marchio Terra di Brindisi. Immaginate lo stupore dell’operatore statunitense e di quello giapponese che si sono trovati davanti ben due stand di Brindisi.
Non so se nel frattempo la situazione sia migliorata, ma andando in giro per l’Italia - a nord come a sud - non è raro imbattersi in situazioni paradossali come queste.
Quest’anno io e Zaira siamo stati per alcuni giorni in Provenza. Da un punto di vista istituzionale la Provenza in quanto tale non esiste, ma è compresa in regioni e dipartimenti diversi. Eppure in ogni città e paese della Provenza puoi trovare depliant e informazioni delle altre realtà di quella regione storica della Francia. Avignone e Villeneuve-lès-Avignon sono due comuni confinanti, ma dato che in mezzo ci passa il Rodano, si trovano in due Regioni diverse, come capita a noi in pianura padana con il Po. Però i due comuni si promuovono insieme e se presenti il biglietto d’ingresso di un monumento o di museo di Avignone, ottieni uno sconto negli ingressi a quelli di Villeneuve, e viceversa. Le città che hanno un particolare interesse archeologico e dove ci sono importanti resti romani - Arles, Nimes e Orange - si fanno pubblicità l’un l’altra. E così via.
Avignone è una città bella - anche se non bellissima o almeno non bella come alcune città italiane, penso a Mantova o a Ferrara - che però ha evidentemente investito moltissimo sul turismo e che infatti è piena di turisti. I monumenti sono aperti sette giorni su sette e non hanno orari di chiusura pomeridiani. Sono disponibili audioguide in undici lingue e le segnalazioni sono chiare. Nelle sale del Palazzo dei papi ci sono molti posti in cui sedersi e ci sono spazi dedicati alle comitive, che non si intralciano e non disturbano i visitatori non “intruppati”. Se eviti i locali di place de l’Horloge, puoi mangiare bene, mediamente meglio che in una città italiana. Nel 2000 Bologna ed Avignone sono state, insieme a diverse altre, capitali europee della cultura: ho l’impressione che la città francese abbia sfruttato meglio l’opportunità di quella italiana.
Poi siamo stati alcuni giorni da nostri carissimi amici che abitano a Sanremo e così abbiamo avuto la possibilità di andare al mare a Mentone. Nella città francese è tutta spiaggia libera, eppure ci sono i bagnini e sono a disposizioni alcune docce. Le spiagge sono molto pulite e il verde intorno - su cui si può stare, quando si è stanchi del mare - molto curato. Per andare al mare in Italia devi pagare o accontentarti di un’area, scomoda da raggiungere, senza servizi e spesso sporca. C’è una bella differenza. E ti viene rabbia, pensando a quante risorse stiamo sprecando, a quanti posti di lavoro stiamo rinunciando, a quante opportunità il nostro paese butta via.
Forse non è un caso che il termine sia arrivato in italiano dal francese tourisme, che ricalca l’inglese tourism, che a sua volta viene dal francese tour. French do it better.

martedì 2 settembre 2014

Verba volant (116): autorevole...

Autorevole, agg.

Spero mi perdonerete se la prendo un po’ alla lontana per arrivare al succo di questa definizione. Nell’antica Roma il passaggio dalla repubblica all’impero non fu un fatto traumatico, ma una transizione molto lenta. Soprattutto con i primi imperatori non ci furono modifiche dell’assetto istituzionale, che rimase sostanzialmente quello della repubblica; l’imperatore era tale e governava perché deteneva contemporaneamente cariche che in epoca repubblicana erano ricoperte da persone diverse, ma soprattutto perché gli era riconosciuta l’auctoritas per farlo. Senza questa auctoritas - che dobbiamo tradurre con autorevolezza e non con autorità - l’imperium - in questo caso serve invece il termine italiano autorità - connesso alle sue singole cariche - console, pontefice massimo, tribuno della plebe e così via - non sarebbe stato sufficiente per governare. Per il diritto romano quindi l’auctoritas era l’attività mediante la quale un determinato soggetto integrava gli effetti dell’attività di un altro, di per sé non sufficiente a produrli pienamente; infatti questo termine ha la stessa radice del verbo augere, che significa accrescere, aumentare, da cui deriva anche il sostantivo italiano autore.
Per tornare all’oggi, dell’autorevolezza si può dire la stessa cosa che diceva don Abbondio del coraggio:
uno non se la può dare.
Verissimo. Però qualcosa si può fare, almeno per non disperdere quella poca che si ha. Ora, a me in fondo spiace prendermela sempre con Renzi, ma non posso farci niente se lui è fatto così; come diceva un comico napoletano molti anni fa, prendendo in giro il leghismo agli albori:
non sono io che sono razzista, sono loro che sono napoletani.
Un presidente del consiglio - o un ministro o un sindaco o qualunque altra autorità - diventa più autorevole se si getta addosso un secchio di acqua ghiacciata? No, fa la figura di quello che segue ogni moda del momento e rischia di rendersi ridicolo. Credo che sia la ragione per cui né Obama né nessun altro capo di governo europeo abbia deciso di accettare questa sfida.
Il problema però non riguarda solo Renzi e la sua doccia gelata, ma credo abbia risvolti più ampi.
Ormai sembra preistoria, ma ricordo quando Alessandro Natta, allora segretario generale del Pci, accettò di andare come ospite al programma di Raffaella Carrà, allora icona - insieme a Pippo Baudo - della televisione nazional-popolare. Allora i politici andavano in tv solo per partecipare alle tribune politiche o ai programmi di informazione - che erano pochi e soprattutto molto diversi dagli odierni talk show. Che il segretario del Pci andasse ospite a un programma di intrattenimento di quel tipo parve a qualcuno scandaloso e segnò in qualche modo una rottura. Comunque sia, quel passaggio sui candidi divani della Raffella nazionale non sminuì l’autorevolezza di Natta, che è rimasto uno degli ultimi “signori” della politica italiana, una persona gentile e un intellettuale raffinato, una figura della sinistra italiana che dovremmo prima o poi rivalutare.
Sono passati trent’anni e adesso è normale che un politico partecipi a qualunque programma, facendo qualunque cosa: li abbiamo visti cantare, raccontare barzellette, cucinare, ballare, giocare a calcio, prendere torte in faccia. O appunto gettarsi addosso secchiate d’acqua. Tra i motivi per cui rimpiangiamo la prima Repubblica - che per molte ragioni non sarebbe affatto da rimpiangere - o soprattutto ricordiamo con nostalgia figure come Berlinguer e Moro, c’è anche questa progressiva, ma inesorabile, perdita dell’autorevolezza delle attuali classi dirigenti.
Ovviamente io so - come lo sapeva mio padre - che anche Berlinguer si metteva i pantaloni una gamba per volta; e faceva lo stesso perfino Togliatti. Però quei leader - e gli altri di quelle generazioni lì - erano tali anche perché la loro autorevolezza derivava dal fatto che i militanti, gli elettori - il popolo in buona sostanza - li poteva considerare migliori di loro, più capaci, più intelligenti. Spesso lo erano davvero, ma certamente non si mettevano nelle condizioni di apparire ridicoli, non facevano dichiarazioni tutti i giorni, a ogni ora del giorno e della notte. So che ormai a noi sembra impossibile da credere, ma quelli lì pensavano prima di dire o di fare qualunque cosa; ovviamente questo non impediva loro di commettere errori - e molti ne hanno commessi - ma soprattutto non avevano l’ambizione di essere come noi, di scendere al nostro livello.
E’ passata ormai questa idea malsana che un politico per vincere le elezioni debba essere come noi, fare le stesse cose che facciamo noi. E così abbiamo avuto Bossi in cannottiera che faceva il gesto dell’ombrello o Berlusconi che raccontava barzellette sporche agli altri leader negli incontri internazionali. E adesso abbiamo Grillo che manda tutti… sappiamo dove, la Boschi che sfila in spiaggia o Renzi appunto che si fa la doccia di acqua gelata. Ma loro dovrebbero essere meglio di noi. Almeno sembrarlo. Non è una forma di ipocrisia, come qualcuno potrebbe obiettare, ma una regola di civiltà, proprio perché loro ci rappresentano, anzi dovrebbero rappresentare la parte migliore di noi, e non sempre la peggiore. Come fanno adesso. E non puoi considerare autorevole qualcuno a cui vedi fare le stesse cose che fa un cretino al bar.
Poi mi rendo conto che i tempi sono cambiati e che anche alcune di queste regole sono cambiate. Non è più obbligatorio indossare alla Camera un simbolo del conformismo borghese come la cravatta, come pure esigeva il comunista Ingrao, ma non puoi neppure partecipare alle sedute in bermuda e infradito, come temo succederà tra poco, se continuiamo a seguire questo andazzo.
Augusto sapeva far crescere la propria auctoritas anche attraverso le statue ossia attraverso le immagini di sé che giravano in quel vastissimo impero, che egli infatti controllava e di cui aveva codificato una serie di standard, per trasmettere appunto una serie di messaggi. E questo è sempre avvenuto, pensate alla celebre foto di J. F. Kennedy con il figlio che gioca intorno alla scrivania della Casa bianca o a quella che ritrae l’abbraccio di Obama e Michelle dopo la rielezione. O alle immagini di Togliatti, tutte uguali in tutte le sezioni del partito in Italia. Anche così si costruisce l’autorevolezza.
Adesso è impossibile controllare ogni propria fotografia e quindi ogni smorfia rischia di essere ripetuta all’infinito sulla rete, ma almeno non fatele apposta.