lunedì 6 ottobre 2014

Verba volant (131): testa...

Testa, sost. f.

Sabato scorso gli organi di informazione ci hanno raccontato che un altro occidentale è stato decapitato, il volontario inglese Alan Henning - è il quarto da quando è iniziata questa strana e irrituale guerra tra noi e il cosiddetto Califfato - e che la sua testa, come è avvenuto nei casi precedenti, è stata esibita come un trofeo dal suo boia incappucciato.
Quella testa mozzata, non con l'igienica ghigliottina - invenzione occidentale e progressista di noi "moderni" - ma con un vecchio coltello, simbolo di antica macelleria, come fosse un'esecuzione rituale descritta nella Bibbia o un'efferata uccisione tratta dai versi di Omero, ci racconta molto di noi uomini, delle forme più ancestrali del nostro modo di pensare, di come siamo davvero, e ci dice che in fondo siamo più semplici di quanto sogni la nostra filosofia.
Ed è anche per questa ragione che noi possiamo continuare a leggere l'Iliade o le tragedie di Sofocle o i drammi di Shakespeare e sentire quelle storie così incredibilmente attuali e i loro personaggi, con le loro passioni, i loro desideri, le loro paure, come nostri contemporanei. Perché ci sono cose degli uomini che non cambiano mai: i classici ci raccontano proprio questo.
Una di queste cose che non cambia è il nostro rapporto con la violenza. Da animali ne abbiamo paura, la fuggiamo quando rischiamo di subirla, magari ci opponiamo ad essa quando le vittime sono le persone a cui vogliamo bene: l'istinto di sopravvivenza è qualcosa di potente, così come quello di difendere i nostri figli. Come tutti gli altri animali siamo disposti a morire per difendere la nostra discendenza. Ma in qualche modo ammiriamo la violenza, ne rimaniamo affascinati, anche se non vogliamo ammetterlo. Altrimenti non capiremmo perché lady Anna accetti la corte di Riccardo di Gloucester, che le ha ucciso da poco tempo il marito, o perché il popolo di Londra chieda a quell'uomo sanguinario di diventare re.
Il boia dell'Isis che esibisce la testa della sua vittima appena dopo averla tagliata sa, più o meno inconsciamente, che quel gesto, quella macabra ostensione, spaventerà i suoi nemici e rassicurerà i suoi amici. C'è naturalmente un calcolo politico, c'è una razionalità "moderna" in queste esecuzioni, nelle parole di sfida contro il presidente degli Stati Uniti, nella capacità di catalizzare contro il nemico occidentale l'odio di migliaia di persone; c'è l'uso spregiudicato della religione, c'è una conoscenza raffinata degli strumenti di comunicazione di massa e dei meccanismi della diffusione delle notizie, c'è tutta una modernità di cui pure quelli dell'Isis dicono di essere nemici o almeno alternativi. Con quelle teste mozzate i terroristi fanno politica. E a questo livello sappiamo che dobbiamo reagire: alla sfida dell'Isis si risponde con la politica, anche se poi ciascuno di noi ha in mente un tipo di risposta diversa.
Eppure c'è anche qualcosa di antico, che ci interroga a un livello più profondo, che ci mette di fronte a qualcosa che facciamo fatica ad accettare e che ci spaventa. Quella testa mozzata è una sfida al mondo occidentale, perché noi crediamo di aver bandito la violenza, almeno quel tipo di violenza, brutale, sommaria, senza regole, ma non è vero, perché quella violenza è in noi e nella nostra società, anche se noi ipocritamente non vogliamo riconoscerlo. E contemporaneamente è un segnale a quel mondo che che non vuole cambiare, che ha paura del mondo che si evolve e che quindi, dicendo di non accettare la nostra ipocrisia, finisce per rifiutare anche le regole della democrazia e dei diritti umani che hanno posto un freno a questo uso della violenza.
Quella testa ci dice che in fondo gli uomini sono ancora animali che vivono in un contesto sociale in cui quella violenza li, sfrenata ed animale, esiste ancora. Homo homini lupus dicevano gli antichi, riconoscendo che in noi è innato l'istinto di sopraffazione, che in qualche modo riusciamo a contenere attraverso le leggi e le diverse forme di convenzione sociale; lo nascondiamo, ma non lo possiamo annullare.
E la morbosa curiosità con cui abbiamo cercato di vedere quell'esecuzione, anche in questo caso senza volerlo ammettere, non è stata creata dalla rete, come qualche sciocco ha detto in questi giorni, è stata soltanto amplificata, resa planetaria da questi nuovi strumenti, ma è la stesso sentimento che spingeva il popolo di Parigi a lasciare le proprie occupazioni per andare a vedere lo spettacolo delle teste che rotolavano nei cesti sotto le ghigliottine. Non essendoci ancora internet quella possibilità era un privilegio riservato a chi abitava nella capitale, mentre ora è diventato "democratico", alla portata di tutti.
Per queste ragioni dobbiamo imparare a fare i conti con la violenza. Il paradosso di questa strana guerra è che non viene combattuta in campo aperto, attraverso battaglie campali o attraverso il logoramento delle trincee - come è avvenuto nei conflitti della prima metà del Novecento - e neppure con le forme della guerriglia che hanno caratterizzato quelli della seconda metà; in tutti i casi si confrontavano comunque due eserciti, che in qualche modo riconoscevano e accettavano le stesse regole, anche quando le piegavano alle proprie esigenze tattiche. Le nuove tecnologie ci hanno permesso di condurre guerre completamente diverse. Da una parte abbiamo soldati che uccidono i nemici, uno alla volta, segando loro la testa - con tutta la fisicità che questo comporta: il sangue che schizza, le urla di chi muore, i cadaveri da rimuovere - e dall'altra parte tecnici che, seduti davanti a un computer, guidano i loro aerei contro i loro nemici, cercando di ucciderli - anche in questo caso uno alla volta. Questi nuovi soldati i loro nemici non li vedono mai in faccia, non ne sentono le voci, non li guardano negli occhi: sono luci accese su uno schermo, luci che, terminata con successo la missione, si spengono. Sono duelli - bellum e duellum sono la stessa parola in latino- combattuti con mezzi non confrontabili, ma - temo - con la stessa carica di violenza. Anche in questo caso senza rendercene conto, perché noi non vogliamo ragionare sulla violenza, privata e pubblica, non vogliamo accettarla come un dato insito nel nostro essere animali della specie Homo sapiens. Ma credo saremo costretti a farlo, almeno fino a quando continueranno a rotolare tra i nostri piedi le teste mozzate dei nostri simili.
Diceva Albert Einstein
Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sì: con bastoni e pietre.
Adesso che sappiamo anche come stiamo combattendo la terza, forse sarebbe il caso di ragionarci.

Nessun commento:

Posta un commento