domenica 30 novembre 2014

"La vita tranquilla" di Mark Strand


Sei alla finestra.
C’è una nube di vetro a forma di cuore.
I sospiri del vento sono caverne in ciò che dici.
Sei il fantasma sull’albero lì fuori.
La strada è muta.
II tempo, come il domani, come la tua vita,
è in parte qui, in parte sospeso in aria.
Non puoi farci niente.
La vita tranquilla non dà preavvisi.
Consuma i climi dello sconforto
e compare, a piedi, non riconosciuta, senza offrire nulla,
e tu sei lì.

mercoledì 19 novembre 2014

Considerazioni libere (393): a proposito di una scelta ostinata...

Da quando tengo questo blog, ossia da quando provo a raccontarvi con una certa regolarità le mie idee, vi ho sempre detto per chi avrei votato: la trovo una scelta naturale per chi ha un blog che si occupa molto di politica e in particolare per chi, come me, ha ormai solo questo mezzo per partecipare, dopo aver fatto politica attiva per molti anni. E quindi anche stavolta non riuscirete a sfuggire a questo mio piccolo comizio.
Io voterò per L'Altra Emilia-Romagna. Ammetto che questa scelta è assolutamente slegata dal merito di questa particolare tornata, ossia dall'elezione del presidente e del consiglio della nostra Regione - e infatti non credo che esprimerò preferenze, anche perché non ho seguito praticamente nulla della campagna elettorale - ma è unicamente rivolta al quadro nazionale. Eppure ci sarebbe tanto da dire su questa regione, su cosa è stata, grazie a un'esperienza unica - e forse irripetibilie - di sinistra di governo, e su cosa potrebbe continuare a essere. Ma di questo oggettivamente non c'era tempo di parlare in questa breve campagna; e soprattutto temo non ci sia la voglia, perché pensare - come si sa - è fatica.
So anche che il mio voto sarà assolutamente ininfluente per il risultato finale, visto che i giochi - complice anche l'altissima astensione che credo ci sarà - sono ormai determinati: Bonaccini diventerà il successore di Errani non per sue intrinseche virtù, ma perché così hanno deciso a Roma, sia chi l'ha scelto sia chi ha deciso di lottare unicamente per il secondo posto. Come ho scritto, forse se il mio voto avesse avuto una qualche possibilità di essere decisiva, avrei fatto qualcosa di inimmaginabile, pur di far perdere il Pd di renzi, ma visto che così non è, voto dove mi spinge il cuore e soprattutto dove mi guidano le mie riflessioni politiche.
Domenica sera, quando conteremo i voti, spero che in qualche modo riusciremo a dire che in questo pase c'è un'altra opposizione, di sinistra. In modo da rompere le uova nel paniere al fiorentino che sta lavorando a uno schema ormai preciso. Stanno costruendo un grande partito della nazione, capace di includere tutto e tutti, in maniera indistinta, da pezzi significativi di Forza Italia - in fondo quegli elettori sono arrivati già nel Pd, prima dei loro capi - fino a Cuperlo, ossia agli ultimi eredi del Pci. Un partito che, proprio perché composito, sarà dominato dall'unica ideologia ormai sopravvissuta, ossia l'ultraliberismo tecnicista e confindustriale, a cui viene aggiunto un tocco di pietismo cattolico. Il partito della Troika, momentaneamente affidato a renzi - il leader perfetto in questa fase, perché capace, a differenza di B., di interpretare tutte le parti in commedia, di essere portavoce di ogni idea, perché non ne ha una sua - sarà il partito dell'ordine e quindi avrà bisogno, per antitesi, di un partito del disordine, che stanno già creando, costruendo attorno al povero Salvini un partito lepenista e populista, capace di spaventare sia gli elettori moderati sia quelli di sinistra, facendoli correre a proteggersi sotto le gonne della Boschi. Le riforme istituzionali e la nuova legge elettorale sono tese a realizzare questo malato - e sostanzialmente finto - bipolarismo.
Un voto a sinistra serve a dire che c'è un pezzo di Italia che non ci sta, un voto a L'Altra Emilia-Romagna - come alla lista analoga in Calabria - prova a testimoniare l'esistenza di un'opposizione diversa, da sinistra, perfino tanto ambiziosa da immaginarsi di governo.
In questi giorni incrocio nella rete tanti compagni della "sinistra sparsa" e molti di noi voteranno in maniera diversa. Questa è oggettivamente una "loro" vittoria. Qualcuno di noi voterà L'Altra Emilia-Romagna, alcuni Sel, altri ancora sceglieranno nella lista del Pd i candidati dell'opposizione interna, qualcun altro la lista dei dissidenti grillini, in diversi si eserciteranno nel voto disgiunto, di cui mi sono già state spiegate diverse varianti. Al di là della nostra atavica tendenza a scinderci, a distinguerci, a litigare, questa varietà di posizioni - a cui dovremo aggiungere una fetta numericamente rilevante, per quanto non quantificabile, del non voto - testimonia bene la nostra incapacità in questa fase ad essere politicamente attrativi, a rappresentare un'opposizione vera a questo sistema di potere, persuasivo e gelatinoso, che tende a restringere gli ambiti della democrazia.
Io mi auguro che dalla prossima settimana, al netto dell'enfasi dei conquistadores renziani, non ci limiteremo a contare i voti, ma proveremo a pesarli, cercando di capire cosa potremo fare di tutti questi piccoli spezzoni.
Personalmente io spero - e nel mio piccolo proverò a dare una mano affinché accada - che tutti noi "sinistri sparsi", anche quelli che sono dentro il Pd, cominciamo a lavorare alla costruzione di un qualcosa di sinistra e socialista, che ci candidi non a essere una forza di mera testimonianza - anche se la testimonianza dei valori è importante in questo tempo che rifiuta i valori - che non sia solo capace di ribellarsi - anche se è necessario rompere delle catene che ci trattengono e cominciare a opporsi in maniera radicale a questo sistema che usa contro di noi ogni tipo di violenza. Questo nuovo "qualcosa" deve porsi l'obiettivo di governare la società e per questo deve avere un progetto, ma anche un'organizzazione e un gruppo dirigente. In questa regione sappiamo cos'è una forza di sinistra fatta così o almeno dovremmo ancora ricordarsi come si fa.
Mi rendo conto che la formula è di una retorica abusata, però stavolta dovremmo provare davvero a trovare quello che ci unisce. E qualcosa c'è già ed è il lavoro. E i lavoratori sono già in piazza - grazie alla resistenza organizzata della Cgil - una parte di loro c'è già, insieme a noi. Siamo noi quella piazza e insieme qualcosa che ci chiede di esserci, di lottare, di rappresentarli. Sarebbe stupido perdere questa occasione di opposizione sociale, che è importante che ci sia, ma che da sola non basta, non è mai bastata nella storia. La destra può permettersi di far finta di non fare politica - e infatti renzi fa finta di non essere di destra - la sinistra senza la politica muore. Proviamo ad evitarlo.

lunedì 17 novembre 2014

Verba volant (144): colpa...

Colpa, sost. f.

A pensarci si tratta di un curioso paradosso. L'Italia è un paese dalle innegabili e robuste radici cattoliche, molti di noi sono andati a catechismo, in tantissimi ogni domenica pronunciano le impegnative parole del Confiteor:
mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa...
battendosi per ben tre volte il pugno al petto, come per rafforzare questa assunzione di responsabilità. Eppure nessuno in questo paese ha mai la colpa. Di nulla.
Quando recitiamo quella preghiera, scomodando la Madonna, i santi, gli angeli e gli arcangeli, stiamo sul generico, ammettiamo sì di aver molto peccato, in pensieri, parole, opere ed omissioni, ma sotto sotto pensiamo che dopo tutto noi quella settimana non abbiamo fatto nulla per cui chiedere il perdono, non come quegli altri, che invece chissà cosa hanno combinato. Stando sul generale possiamo anche prenderci la colpa, discorso diverso quando si affronta una questione specifica, qui le cose si fanno un po' più complicate: quando si scende dalla teologia alla pratica i nodi si ingarbugliano.
Ad esempio di chi è la colpa se in questo paese ogni volta che viene a piovere rischiamo un'alluvione? Io non ho colpa, ci affrettiamo a dire; e con altrettanta prontezza snoccialiamo le colpe degli altri. Renzi ha detto che non è colpa sua e in fondo come dargli torto: è lì da nemmeno un anno. Ma non si è limitato a dire che non è colpa sua, ha detto che è colpa delle Regioni, un bersaglio piuttosto comodo, visto che ormai questi enti sono considerati il ricettacolo di ogni nequizia. Al che le Regioni in coro hanno risposto che non è colpa loro; in fondo sono le ultime arrivate del panorama istituzionale, c'erano ben prima i Comuni e financo le Province, quindi è colpa loro. Naturalmente Comuni e Province non ci stanno e danno la colpa allo Stato che non dà loro le risorse e così il ciclo ricomincia.
Poi c'è qualcuno - in genere quelli che abitano nelle zone alte della città, quelle non alluvionate - che dà la colpa a chi abita in quella casa costruita proprio sul letto del torrente, anzi sopra il torrente che è stato tombato per costruirci i garage. Non è colpa mia, dice il condomino - peraltro ancora arrabbiato perché l'acqua gli ha portato via l'automobile - io ho comprato da appena un anno, chiedete a chi c'era prima. E chi c'era prima vi racconterà i sacrifici fatti per acquistare quell'appartamento in città, vicino alla fabbrica, l'arrivo da un paese del sud insieme alla sua famiglia, il duro lavoro in officina, alla catena di montaggio, e vi spiegherà con che gioia finalmente sono riusciti a comprare quella casa, a cui adesso noi imputiamo la responsabilità dell'alluvione. Ci dice quindi di parlare con il costruttore che vi racconterà cosa è stato il boom economico, che richiesta di case c'era qui al nord, per tutti gli operai che lavoravano nelle fabbriche e vi spiegherà che ogni gru che si alzava rappresentava non solo un guadagno per lui, ma un motivo di orgoglio per l'intera città. Quindi vi dirà di chiedere al sindaco che nel frattempo, se non è morto, o ha fatto carriera o è stato arrestato, o tutte due le cose insieme, e lui vi dirà che era necessario costruire nuove case, perché le vecchie non bastavano più e perché erano buie, umide, troppo povere per la nuova Italia che stava nascendo. E poi quel sindaco vi dirà che lui è sempre stato eletto dai cittadini, sia da quell'operaio diventato a fatica proprietario di casa sia da quello che adesso critica, ma che allora si è costruito una piccola casa in collina, aggiungendo un paio di camere al rustico ereditato dal nonno, approfittando del condono edilizio di quell'anno.
Dovremmo finalmente avere il coraggio di dire che in questo paese non è mai fregato a nessuno della cementificazione, del disboscamento, del dissesto idrogeologico. L'Italia è stata massacrata in maniera sistematica nel secondo dopoguerra non da altri, ma da noi italiani, con il beneplacito - quando non la complicità - delle classi dirigenti. In alcuni casi c'è stato un intreccio criminale tra la politica e i costruttori, come ha testimoniato Francesco Rosi in Le mani sulla città, un film del 1963; sì sono passati cinquant'anni da quella storia e praticamente nulla è cambiato. In molti altri casi quell'intreccio non c'è stato, ma i risultati sono stati pressoché identici, perché era il modello di sviluppo ad essere sbagliato, nelle sue radici.
In Italia sono pochissime le persone che, in coscienza, possono dire che non è colpa loro, perché quella situazione l'hanno denunciata, perché vi si sono opposti, perché hanno fatto il possibile perché si cambiasse un modo di intendere lo sviluppo. Molti di più siamo i responsabili, migliaia di politici, di tecnici, di costruttori, milioni di elettori di quei politici, di persone che hanno lavorato per quei costruttori e così via. Adesso tutti ci lamentiamo, compresi quelli - anche in questo caso immagino si tratti di un numero elevatissimo - che hanno goduto di un qualche condono edilizio, ma nessuno è ancora disposto a dire che è colpa sua. E soprattutto nessuno - o quasi - domani è disposto davvero a cambiare strada.
E allora prepariamo i sacchi di sabbia, gli stivali di gomma e aspettiamo la prossima alluvione, tanto lo stato di calamità naturale non si nega a nessuno. L'importante non è prendersi la colpa.

lunedì 10 novembre 2014

Verba volant (143): svolta...

Svolta, sost. f.

Questa parola indica naturalmente l'atto di svoltare, un verbo a cui il prefisso s- dà un carattere intensivo: la svolta è spesso definitiva, oltre che repentina.
Ovviamente ci sono tanti tipi di svolta: qualcuno di noi, a un certo punto, ha dato una svolta alla propria vita, cambiandola radicalmente. A me è successo e l'ho cambiata in meglio: in sostanza ho svoltato, come si dice. Questa definizione però è dedicata a una svolta ben precisa, repentina e definitiva, anzi alla Svolta, quella della Bolognina.
In questi giorni ho provato a cercare chi fu il primo a parlare di svolta a proposito di quell'episodio e non ci sono riuscito; in quella giornata Occhetto parlò della necessità di "grandi trasformazioni". Partiamo da lì.
Io nel 1989 avevo diciannove anni e cominciavo a fare politica, naturalmente nel Pci. Ho partecipato con passione a quella lunga discussione, articolata in due congressi; ho visto lo smarrimento di molti compagni, come mio padre, di fronte alla decisione di cambiare il nome. Ho conosciuto tanti che non hanno più partecipato, che se ne sono andati e che non siamo più stati capaci di coinvolgere. Ma ho visto anche dell'entusiasmo.
Anche perché erano giorni entusiasmanti: il 9 novembre era caduto il Muro di Berlino, i regimi dell'Europa comunista si stavano dissolvendo. Quelli che hanno la mia età, grazie soprattutto alla televisione, hanno avuto l'opportunità di vedere questi avvenimenti mentre si svolgevano. Quel 9 novembre sentivamo, anche se in maniera confusa, che il mondo sarebbe stato migliore di quello in cui avevamo vissuto fino ad allora, perché quel muro non ci sarebbe più stato e soprattutto perché in Europa non ci sarebbero stati più quei regimi che, pur chiamandosi socialisti, tradivano gli ideali in cui credevamo - e in cui personalemente credo ancora.
La Bolognina è stata per me il segnale che anche noi partecipavamo a questi straordinari cambiamenti, che non rimanevamo indietro, ma - in qualche modo - facevamo la storia. Anche a Granarolo.
So bene che molti miei compagni pensano che quell'episodio sia l'inizio della deriva che ci ha portato, passo dopo passo, a uccidere il maggior partito di centrosinistra in Italia e a far nascere, sulle ceneri di quella troppo breve esperienza politica, un partito di centro moderato e sostanzialmente estraneo alla storia della sinistra italiana, come è l'attuale Pd. Io continuo ostinatamente ad essere convinto che nella decisione, lunga e sofferta, che portò la maggioranza delle iscritte e degli iscritti del Pci a far nascere la Cosa, che poi avremmo chiamato Pds, non ci sia in nuce il germe che ha portato al Pd e a Renzi. E quindi difendo quella scelta, difendo Occhetto e noi che lo abbiamo sostenuto.
Ricordo le discussioni in sezione e gli interventi dei "vecchi" che sostenevano che era giusto far nascere un nuovo partito, anche con un nome diverso, con convinzione e non per pigra adesione al funzionario di turno venuto dalla città che illustrava la mozione del segretario - come troppo sbrigativamente dissero quelli che non ci conoscevano e non ci amavano. Peraltro negli anni successivi ho avuto la fortuna di fare, per più di cinque anni, il "funzionario che veniva dalla città" e vi assicuro che non era mai semplice convincere quei compagni, perché erano persone abituate a ragionare e che di politica ne capivano. Parecchio.
Il Pds non fu soltanto - come qualcuno adesso dice - la risposta tattica di un gruppo dirigente che vedeva attorno a sé crollare non solo il comunismo internazionale, ma anche il quadro politico italiano. In quegli anni - bisogna sempre ricordarlo - sparirono la Dc e il Psi, travolti, oltre che dalle loro colpe, dalla storia che andava in tutt'altra direzione. Magari una parte di quel gruppo dirigente intese la svolta come questa sorta di ripiegamento tattico, ma in tanti pensavamo a qualcosa di radicalmente diverso, di più e di meglio.
Allora volevamo davvero fare un partito diverso, perché - dobbiamo per onestà ricordare anche questo ai nostalgici del Pci - quel partito era sentito da molti come una casa troppo chiusa, un luogo incapace di aprirsi. Volevamo essere un partito saldamente inserito nell'Internazionale socialista e anche - non ma anche, come hanno detto quelli venuti dopo - aperto a movimenti nuovi, penso ad esempio all'esperienza dell'ambientalismo, che in Italia è stata così sfortunata. A me allora sembrava possibile e sembrava possibile a molti altri che ci hanno creduto. Eravamo tutti degli illusi? Forse, però eravamo in tanti.
Mi è già capitato di scriverlo, io mi considero - anche se meno di altri, perché avevo un ruolo molto più secondario rispetto ad altri - responsabile degli errori che abbiamo fatto dopo la Bolognina, responsabile della progressiva perdita di identità che ci ha portati a rinunciare ad essere un partito socialdemocratico, appena pochi anni dopo che lo eravamo diventati formalmente, anche se lo eravamo già, specialmente qui in Emilia-Romagna, da molti anni.
Però è ingiusto dire che l'errore fu quella svolta. Dopo la Bolognina potevamo essere qualcosa che non siamo riusciti a diventare, anche perché ad esempio non abbiamo riflettuto a sufficienza sul tema della forma partito, un argomento allora spesso evocato, ma sui cui non lavorammo, tanto che, quando il modello di partito che eravamo si è rilevato del tutto inadeguato, non c'era altro modello con cui sostituirlo, lasciando campo libero all'ideologia delle primarie e al plebiscitarismo del leader, attraverso cui è potuto emergere un figuro come Renzi.
Soprattutto negli anni dopo la svolta non abbiamo più riflettuto su cosa voleva dire essere di sinistra e abbiamo immaginato che l'andare al governo - come abbiamo fatto, seppur in maniera indiretta e a volte rocambolesca - bastasse da solo a costruire un'identità. Personalmente - ma forse siamo ancora troppo vicini per vedere le cose in una giusta prospettiva - credo che il governo D'Alema abbia rappresentato il punto di non ritorno, l'inizio del declino che ci ha portati alla morte e a Renzi. Anche perché in quegli anni fu molto forte la teoria della "terza via" che ha indebolito - fino allo sfinimento - tutta la sinistra europea, non solo quella italiana. Non è dal governo che si costruisce un partito, tanto è vero che il Pci era stato costruito proprio perché al governo non c'era mai andato e anzi non superò mai del tutto il trauma - forse inevitabile - della solidarietà nazionale.
Ci sono stati errori di singoli - spesso gravi - per ambizione personale e ci sono stati errori collettivi, altrettanto gravi, ma almeno in buona fede. Però non era inevitabile morire. Se è successo è perché ce la siamo cercata, perché abbiamo fatto degli errori, ma non perché è nato il Pds.
La storia ha delle sue regole precise e non permette di tornare indietro. Non possiamo tornare a prima della svolta, come vorrebbero alcuni né allo spirito originario del Pds, come magari vorrei io. A questo punto, bisogna cominciare una strada nuova, radicalmente nuova. Disse Occhetto in quel brevissimo discorso:
E' necessario non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso. Dal momento che la fantasia politica di questo fine ’89 sta galoppando, nei fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che allora fu dimostrato con la Resistenza.
I punti cardinali li abbiamo, li abbiamo sempre avuti: la Resistenza e la Costituzione. Anche l'idea di costruire una società socialista è sempre lì, l'ambizione collettiva di realizzare una società dove ci sia un'uguaglianza sostanziale, non sottoposta ai vincoli del mercato, in cui sia al centro la persona, il suo diritto a un lavoro equamente retribuito; poi occorre declinarne gli obiettivi in funzione dei tempi nuovi, ma troveremo il modo, se terremo fermi i valori. Adesso però manca il coraggio. Quando lo troveremo - forse lo troveranno, perché non so se alla mia generazione sarà concessa una nuova possibilità, visti i danni che abbiamo combinato - allora ci sarà la svolta.

Giacomo Ulivi scrive agli amici, prima di essere fucilato il 10 novembre 1944

Cari amici,

vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti.
Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica - se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente, ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda.
Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo?  L'egoismo - ci dispiace sentire questa parola - è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi.
Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Giacomo Ulivi

Verba volant (142): zingaro...

Zingaro, s. m. e agg.

Dal punto di vista strettamente etimologico si tratta dell'adattamento italiano di uno dei nomi, atsigan e più tardi tsigan, con cui si indicava questo popolo nomade, sul calco del greco medievale athinganos, che significava intoccabile e che designava una setta di manichei provenienti dalla Frigia. Da qualche tempo abbiamo cominciato a chiamarli più giustamente rom, che nella loro lingua, lo zingaro o romani - una lingua antichissima che risale al sanscrito - significa propriamente uomo, marito, un po' come il latino vir.
In campagna elettorale - e non solo - gli zingari sono un facile bersaglio polemico. Lo abbiamo appena visto a Bologna, dove abbiamo assistito, proprio davanti a un campo rom, allo scontro tra due opposte schiere di cretini, a cui non importa nulla né degli zingari né dei problemi che i loro campi creano, ma volevano soltanto farsi notare dalle televisioni, come un qualsiasi esibizionista.
Ho citato l'etimologia di questa parola antica, perché in Europa gli zingari ci sono sempre stati. E ci sono sempre stati i pregiudizi verso di loro, come ci sono sempre stati verso gli ebrei. Nelle società contadine la loro capacità di allevare i cavalli e di lavorare i metalli faceva sì che i rom avessero un loro posto nell'ordine economico e sociale - uno degli ultimi certo, ma comunque un posto. Quel popolo e le nostre rappresentazioni degli zingari - e delle zingare - hanno un posto nella cultura europea, basti pensare al nostro melodramma.
Quando le loro capacità non sono più servite, sono rimasti i pregiudizi, aggravati dal fatto che per molti di loro l'unica forma di sussistenza è stata la beneficienza e l'elemosina e per troppi la delinquenza e la prostituzione.
Quindi sono nati ai margini delle grandi città - ma non in tutta Europa, perché esempi migliori ci sono - in maniera più o meno tollerata dalle amministrazioni, campi nomadi, più o meno organizzati, più o meno finanziati, che da un lato hanno esasperato quelli che già abitavano in quelle periferie, spesso appartenenti alle fasce più deboli della popolazione, e dall'altro lato hanno favorito i criminali che ci sono tra gli zingari, dando loro l'occasione di poter reclutare sempre nuovi giovani nelle loro bande. E' oggettivamente molto probabile che un giovane rom che è sempre stato respinto dalla società accetti di far parte di una banda per trafugare il rame o per spacciare droga o per commettere furti negli appartamenti. E' la stessa ragione per cui troppi giovani del sud preferiscono stare in una cosca piuttosto che vivere in maniera onesta in un paese che non ti offre nessuna possibilità.
Non in tutti i paesi è avvenuto questo. In Grecia ad esempio, anche con l'aiuto delle amministrazioni pubbliche, i rom sono diventati commercianti ambulanti, garantendo la fornitura di generi alimentari e di prima necessità ai villaggi e alle case sparse in quel territorio montuoso, dove i trasporti sono difficoltosi e la mobilità delle persone, specialmente anziane, molto complicata. Queste famiglie non vivono nei campi; certo esistono ancora pregiudizi nei loro riguardi, ma non è un problema sociale così diffuso, come in Francia, in Italia o in Spagna.
Il problema degli zingari è molto complesso e francamente non basta scandalizzarsi se un qualche amministratore propone un bus solo per loro, salvo poi dimenticarci dei problemi di quelle periferie, passata l'indignazione. Non bastano i buoni sentimenti. Anzi i buoni sentimenti, gli appelli all'integrazione non servono né alla causa dei rom né a convincere la maggioranza delle persone che, al di là delle proprie convinzioni politiche, ritiene giusto agire con durezza verso gli zingari. Per troppi anni in Italia, per l'influenza della dottrina cattolica da un lato e delle idee di sinistra dall'altro, è stato prevalente un atteggiamento che possiamo definire buonista - benché questa parola non mi piaccia molto, mi pare renda abbastanza bene l'idea.
Pubblicamente si difendevano i diritti degli zingari, trovando giustificazioni anche per chi tra loro commetteva reati, privatamente si continuavano a coltivare dei pregiudizi. Questo atteggiamento ha portato a cercare di nascondere il problema, delegando di fatto al volontariato e alle reti delle parrocchie l'aiuto delle famiglie degli zingari e sperimentando l'integrazione unicamente nelle scuole, con insegnanti spesso impreparati a questo compito. E gli amministratori hanno, un po' furbescamente, provato ad assecondare la maggioranza dei loro concittadini, cercando di non avere il "problema" sul loro territorio e magari scaricandolo su quello vicino.
Non esistono "ricette" per affrontare il problema, ma sicuramente né le false e ipocrite politiche di inclusione né le semplici politiche di repressione servono ad affrontare il problema. Bisogna davvero perseguire chi commette reati, agendo con durezza, ma allo stesso tempo si deve togliere a chi delinque la possibilità di reclutare nuovi delinquenti; per questo occorre chiudere i campi rom e dare occasioni ai ragazzi che lo chiedono di fare una vita diversa, dignitosa. Qualcuno di loro ce lo chiede, se abbiamo la voglia di ascoltarli; certo non tutti, ma questo non può diventare un alibi per noi. E dobbiamo essere consapevoli che una brutta periferia rimane una brutta periferia, anche se non c'è un campo nomadi.

domenica 9 novembre 2014

da "Esterhazy. Storia di un coniglio" di Hans Magnus Enzensberger e Irene Dische

Non si sa bene perché, ma le famiglie hanno spesso dei figli.
Gli Esterhazy ne hanno avuti da tempi immemorabili. Già duecento anni fa erano probabilmente la più grande famiglia dell'Austria. Cioè, non che fossero molto grandi, erano solo in tanti. Per dire la verità, gli Esterhazy con il passare del tempo erano diventati sempre più piccoli, perché purtroppo non mangiavano mai abbastanza insalata e carote, ma quasi solo cioccolatini, caramelle, torte alla crema e strudel di mele. E così avvenne che gli Esterhazy di cui narra la nostra storia, fossero molto molto piccoli e molto molto intelligenti.
Il Principe regnante Esterhazy era preoccupato per i suoi innumerevoli figli e nipoti. Nei negozi di scarpe li prendevano in giro visto che non gli andavano nemmeno le scarpe per neonati; anche in bicicletta avevano qualche difficoltà perché il sellino era troppo alto e con le zampe non arrivavano ai pedali. E quando il più piccolo degli Esterhazy cadde in un cestino della carta dal quale non riuscì a venire fuori, il Principe pensò: "Così non si può andare avanti! Bisogna fare qualcosa". Per tre giorni si chiuse nella sua stanza a pensare. Poi disse: "Voglio mandare tutti i miei nipoti all'estero. Ciascuno deve andare in una parte diversa del mondo, cercarsi una moglie grande e mettere su famiglia. Perché purtroppo il mondo è fatto in modo che i conigli piccoli hanno figli piccoli, mentre i conigli grandi diventano sempre più grandi e alla fine quasi non stanno più nei loro lettini. Per questo gli Esterhazy devono cercarsi mogli grandi, e più grandi sono, meglio è".
Un bel giorno, la primavera era ormai alle porte, il Principe indossò la sua giacca di velluto color vinaccia più elegante e portò tutti i suoi coniglietti alla Stazione occidentale di Vienna. "E ricordatevi - disse ai nipoti - di non accontentarvi mai, scegliete sempre solo il meglio del meglio! Carote, insalata e prezzemolo! E che ogni cosa sia fresca. E soprattutto: niente dolciumi!". I nipoti schierati iniziarono ad acclamarlo e a lanciargli praline di cioccolata.
Il nome intero del più giovane di tutti gli Esterhazy era Michele Paolo Antonio Maria, 12792º principe di Insalatinia e Carotopoli, conte di Lattughino, signore di San Prezzemoloburgo, Agliogrado e Corterapa. Ma naturalmente nessun essere umano, e a maggior ragione nessun coniglio, lo chiamava così: intanto perché è un nome troppo lungo, e poi perché ai conigli ci si rivolge chiamandoli con il cognome. Cercate di ricordarvelo! Per questo d'ora in poi chiameremo il nostro eroe semplicemente Esterhazy.
Ora, come dicevamo, Esterhazy era il più giovane di tutti gli Esterhazy e per questo fu anche l'ultimo a partire per l'estero. La famiglia aveva deciso che avrebbe dovuto tentare la fortuna a Berlino. La sera prima della partenza, il Principe lo prese in disparte e gli diede qualche buon consiglio. "Adesso o mai più, caro nipote, - disse.- Se vuoi avere una vera famiglia, è arrivato il momento che ti trovi una moglie. E mi raccomando: cercane una bella grande. E un' altra cosa, - aggiunse: - sa il cielo perché, ma i conigli di Berlino vivono tutti dietro un grande muro. Però non temere! Chi cerca, trova".
Pieno di gratitudine, Esterhazy baciò la mano al vecchio Principe e prese il treno per Berlino.
[...] "Sarebbe proprio strano, - pensò Esterhazy, - se nella grande, lontana Berlino non trovassi una moglie grande e lontana; e quando l' avrò trovata ce la spasseremo". Quando il treno arrivò a Berlino, alla stazione che si chiamava Zoo, Esterhazy aveva sulle labbra un grande sorriso malinconico. Ma a prenderlo non era venuto nessuno e nessuno lo degnava di uno sguardo. La stazione gli sembrò abbastanza malandata e triste, e faceva anche molto freddo. Le persone erano davvero strane. Si lanciavano sguardi cattivi, e a Esterhazy non piacque per niente che avessero l'aria tanto famelica.
[...] Esterhazy era ormai così lontano che non riusciva più a sentirli. Correva come un pazzo, e quando si fermò vide il muro. Era un muro infinitamente lungo e grigio, e il prato che c'era davanti aveva un odore meraviglioso. Odore di coniglio.
"Ciao, - disse una voce conigliesca. - Ci siamo già incontrati?". Tutto il prato era pieno di conigli, ed Esterhazy venne salutato con grande entusiasmo. Quando gli altri si accorsero che era un vero Esterhazy, furono molto orgogliosi. "Mancavi solo tu, - dissero. - Vieni, ti mostriamo la nostra tana".
Esterhazy era appena entrato quando vide una donna molto bella, con il pelo a macchie bianche e marroni. All'inizio si spaventò, perché non aveva mai visto una coniglia così grande. Ma lei lo abbracciò subito. "Esterhazy! Mio caro Esterhazy!" - gridò. "Mimì" - esclamò lui e le diede un bacio. Dovette alzarsi in punta di piedi, perché lei era alta quasi il doppio di lui. Ma si ricordò dei preziosi consigli del Principe. "Per avere figli più grandi, dovete trovare una donna particolarmente grande", aveva detto. E inoltre Mimì aveva un odore meraviglioso.
Poi lei gli fece vedere tutta la tana e lo invitò nel suo piccolo appartamento. Gli raccontò di quanto fosse tranquilla la vita di un coniglio dietro il muro. I soldati erano lì apposta per stare attenti che le automobili non li mettessero sotto. Quando gli avanzava una fetta di pane e burro la gettavano ai conigli, e a volte arrivavano anche delle carote. Certo, aggiunse Mimì, la cucina non era buona come a Vienna, e non c'erano nemmeno le Mozartkugeln, però in compenso si viveva in pace.
[...] Così i due vissero felici e contenti nella loro tana dietro al muro; finché un bel giorno, in piena notte, sentirono un chiasso infernale. Tutto il prato era invaso da centinaia di persone che ce l'avevano a morte con il muro. Avevano portato martelli pneumatici e altri attrezzi e iniziarono a distruggerlo. "Ma cosa succede?" - chiese Esterhazy. "Il muro deve scomparire" - gridava la gente.
La sera successiva il prato era addirittura strapieno di persone. C'erano bottiglie rotte dappertutto e del muro non restava che qualche brandello. La gente era fuori di sé dalla gioia, ma Esterhazy e Mimì non capivano per quale motivo. "Senza il muro, - disse Mimì, - Berlino è abbastanza inospitale, non trovi? Per noi conigli, intendo". "Sai cosa ti dico? - rispose Esterhazy, - andiamo a stare in campagna".
Saltellando fuggirono sempre più lontano, fino a quando non si lasciarono alle spalle le ultime case. Allora si sedettero per riposare un po'. "Mi rendo perfettamente conto di essere abbastanza piccolo, - disse Esterhazy. - Però mi potresti sposare lo stesso...". "Ma certo che ti sposo, stupidotto che non sei altro!" - disse Mimì.

sabato 8 novembre 2014

"Il brindisi di Girella" di Giuseppe Giusti


Dedicato al signor di Talleyrand buon'anima sua

Girella (emerito
di molto merito),
sbrigliando a tavola
l’umor faceto,
perde la bussola
e l’alfabeto;

e nel trincare
cantando un brindisi,
della sua cronaca
particolare
gli uscì di bocca
la filastrocca.

Viva Arlecchini
e burattini
grossi e piccini:
viva le maschere
d’ogni paese;
le Giunte, i Club, i Principi e le Chiese.

Da tutti questi
con mezzi onesti,
barcamenandomi
tra il vecchio e il nuovo,
buscai da vivere,
da farmi il covo.

La gente ferma,
piena di scrupoli,
non sa coll’anima
giocar di scherma;
non ha pietanza
dalla finanza.

Viva Arlecchini
e burattini;
viva i quattrini!
Viva le maschere
d’ogni paese,
le imposizioni e l’ultimo del mese.

Io, nelle scosse
delle sommosse,
tenni, per ancora
d’ogni burrasca,
da dieci o dodici
coccarde in tasca.

Se cadde il prete,
io feci l’ateo,
rubando lampade,
Cristi e pianete,
case e poderi
di monasteri.

Viva Arlecchini
e burattini,
e Giacobini;
viva le maschere
d'ogni paese,
Loreto e la Repubblica francese.

Se poi la coda
tornò di moda,
ligio al Pontefice
e al mio Sovrano,
alzai patiboli
da buon cristiano.

La roba presa
non fece ostacolo;
ché col difendere
Corona e Chiesa,
non resi mai
quel che rubai.

Viva Arlecchini
e burattini,
e birichini;
briganti e maschere
d’ogni paese,
chi processò, chi prese e chi non rese.

Quando ho stampato,
ho celebrato
e troni e popoli,
e paci e guerre;
Luigi, l’Albero,
Pitt, Robespierre,
Napoleone,
Pio sesto e settimo,
Murat, Fra Diavolo,
il Re Nasone,
Mosca e Marengo;
e me ne tengo.

Viva Arlecchini
e burattini,
e Ghibellini,
e Guelfi, e maschere
d’ogni paese;
evviva chi salì, viva chi scese.

Quando tornò
lo statu quo,
feci baldorie;
staccai cavalli,
mutai le statue
sui piedistalli.
E adagio adagio
tra l’onde e i vortici,
su queste tavole
del gran naufragio,
gridando evviva
chiappai la riva.

Viva Arlecchini
e burattini;
viva gl’inchini,
viva le maschere
d’ogni paese,
viva il gergo d’allora e chi l’intese.

Quando volea
(che bell’idea!)
uscito il secolo
fuor de’ minori,
levar l’incomodo
ai suoi tutori,
fruttò il carbone,
saputo vendere,
al cor di Cesare
d’un mio padrone
titol di Re,
e il nastro a me.

Viva Arlecchini
e burattini
e pasticcini;
viva le maschere
d’ogni paese,
la candela di sego e chi l’accese.

Dal trenta in poi,
a dirla a voi,
alzo alle nuvole
le tre giornate,
lodo di Modena
le spacconate;
leggo giornali
di tutti i generi;
piango l’Italia
coi liberali;
e se mi torna,
ne dico corna.

Viva Arlecchini
e burattini,
e il Re Chiappini;
viva le maschere
d’ogni paese,
la Carta, i tre colori e il crimen laesae.

Ora son vecchio;
ma coll’orecchio
per abitudine
e per trastullo,
certi vocaboli
pigliando a frullo,
placidamente
qua e là m’esercito;
e sotto l’egida
del Presidente
godo il papato
di pensionato.

Viva Arlecchini
e burattini,
e teste fini;
viva le maschere
d’ogni paese,
viva chi sa tener l’orecchie tese.

Quante cadute
si son vedute!
chi perse il credito,
chi perse il fiato,
chi la collottola
e chi lo Stato.
Ma capofitti
cascaron gli asini;
noi valentuomini
siam sempre ritti,
mangiando i frutti
del mal di tutti.

Viva Arlecchini
e burattini,
e gl’indovini;
viva le maschere
d’ogni paese.
Viva Brighella che ci fa le spese.

giovedì 6 novembre 2014

"Narrativa" di Mark Strand


Penso alle vite innocenti
delle persone nei romanzi: sanno che morranno
ma non che il romanzo finirà. Come sono diverse
da noi. Qui, la luna osserva istupidita,
tra nubi sparse, la città assopita,
e il vento ammonticchia le foglie cadute,
e qualcuno – vale a dire, io – sprofondato in poltrona,
sfoglia le pagine che mancano, sapendo che non c’è
molto tempo per l’uomo e la donna nella camera a ore,
per la luce rossa sopra la porta, per l’iris
che proietta la propria ombra sul muro; non molto tempo
per i soldati sotto gli alberi lungo il fiume,
per i feriti che vengono trasferiti
in città di retrovia dove resteranno;
la guerra che ha infuriato per anni finirà,
come pure qualsiasi altra cosa, tranne una presenza
difficile da definire, una traccia, come l’odore dell’erba
dopo una notte di pioggia o quel che resta di una voce
che ci fa sapere senza sillabarlo
di non disperare; se la fine è prossima, anch’essa passerà.

mercoledì 5 novembre 2014

Verba volant (141): dignità...

Dignità, sost. f.

Brittany Maynard è una giovane donna che ha fatto una scelta, certamente la scelta più drammatica e complicata che una persona possa fare; è una scelta che noi solitamente non facciamo, lasciamo che sia il caso o - per chi crede - Dio a fare questa scelta per noi. Neppure lei ha scelto di morire a 29 anni, aveva comprensibilmente altri progetti per la propria vita, ma il caso o Dio - per chi ci crede - ha fatto sì che i medici scoprissero un cancro nel suo cervello. Per questo Brittany ha deciso di morire con dignità, come lei stessa ha detto nel suo ultimo saluto.
Brittany non solo ha deciso quando morire con dignità, ma ha voluto anche raccontarlo al mondo. E questa seconda decisione non è stata meno coraggiosa della prima perché, facendo così, ha scatenato una discussione in cui il suo nome è stato coinvolto in banalità e sciocchezze senza fine.
Tra le cose stupide lette in questi giorni sulla morte di Brittany mi hanno colpito le affermazioni di monsignor Carrasco de Paula, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, che ha detto che "dignità è un'altra cosa che mettere fine alla propria vita". Poi, ricordandosi di essere un prete e ripensando a qualche parabola evangelica, ha aggiunto: "non giudichiamo le persone, ma il gesto in sé è da condannare". Da ateo mi piacerebbe poter sorvolare su queste piccole cose, in fondo dovrebbe essere un problema per chi crede e soprattutto per chi riconosce l'autorità e la dottrina di questo monsignore. Eppure devo anch'io occuparmene, perché di fatto una posizione come questa è quella che giustifica in questo paese la mancanza di una legislazione seria su un tema così complicato e importante. 
Al di là del fatto che anche da un punto di visto teologico ed etico fatico non poco a distinguere tra la persona che compie un gesto e il gesto in sé, credo che il monsignore e quelli che la pensano come lui sbaglino su un punto. Brittany ha scelto di morire, con dignità appunto, non per un rifiuto della vita - c'è anche chi fa questa scelta estrema - ma proprio per amore della vita.
Brittany ha scelto di morire, liberamente e senza costrizioni, perché non voleva vivere nelle condizioni che le erano imposte dalla malattia. Brittany ha scelto la libertà e la vita. E ho grande stima per la sua scelta.
Personalmente fatico a condannare chi decide di suicidarsi. Si tratta ovviamente di una scelta che mi addolora, che mi lascia sconcertato sempre, che trovo spesso incomprensibile, e su cui vorrei poter fare qualcosa per cambiarla, se ne avessi l'opportunità e l'occasione. Ma credo che sia una scelta, terribile, che dobbiamo rispettare; anche quando ci colpisce nei nostri affetti. Tanto più non posso condannare il suicidio di una persona che sa di dover morire presto, con dolore e spogliata della propria intelligenza. E proprio perché è una scelta che riguarda la coscienza e l'intelligenza di ciascuno di noi, non può essere la legge a imporci una scelta. Non può essere la stato a dire che devo vivere fino all'ultimo istante; e poi qual è l'ultimo istante? qui rischia di aprirsi una nuova querelle, come troppe ne abbiamo viste sulla pelle dei pazienti e dei loro familiari. Di fronte alla malattia io devo poter usare la mia intelligenza e posso decidere di vivere fino all'ultimo, perché credo che sia giusto così, o posso decidere che il mio momento sia arrivato.
La dignità è il rispetto che l'uomo deve a sé stesso e che gli è dovuto, proprio nella sua condizione di uomo, per il suo valore, per la sua intelligenza, per la sua libertà. Negare la sua libertà, non dare credito alla sua intelligenza, non fidarsi del suo valore è la cosa peggiore che possiamo fare a un uomo; o a una donna.
Nel finale del romanzo Il Maestro e Margherita c'è un dialogo tra Levi Matteo, il pubblicano diventato apostolo di Gesù, e Woland, il diavolo. Levi Matteo chiede, seppur a malincuore, aiuto a Woland, affinché egli prenda con sé il Maestro e lo ricompensi con il riposo.
Perché non ve lo prendete voi nella luce?
Non ha meritato la luce, ha meritato il riposo, - disse Levi con voce mesta.
Credo che anche Brittany abbia meritato il riposo.

martedì 4 novembre 2014

Verba volant (140): leggere...

Leggere, v. tr.

Non ho una particolare simpatia per Fleur Pellerin - che non conosco - né per il governo di cui fa parte - anzi, per quel governo ho pochissima stima - ma ho trovato pretestuose le polemiche seguite alle sue dichiarazioni, di cui probabilmente avete sentito parlare anche voi.
La giovane ministro della cultura di Hollande ha detto che da circa due anni non legge un libro e che non ne ha mai letto uno del Nobel Patrick Modiano, che pure ha invitato a pranzo, in maniera ufficiale, proprio per festeggiare questo importante riconoscimento. A parte il fatto che, prima del Nobel, Modiano lo conoscevano proprio in pochi, anche nel suo paese, la cosa davvero importante è che il ministro della cultura renda onore a uno scrittore del suo paese che ha vinto questo premio, quello è il suo compito istituzionale e non scrivere un saggio sulle sue opere. E comunque, se pensate che lo scrittore più importante che frequenta Renzi è Fabio Volo, la Pellerin ci fa lo stesso una gran figura.
Al di là della polemica politica, ho l'impressione che se il ministro non fosse stata una donna, per di più di origine straniera, questa polemica non sarebbe mai nata. Ovviamente madame Pellerin deve decidere lei come passare il poco - immagino - tempo libero che le rimane, visti i suoi impegni politici e di governo, e personalmente spero che lo passi per lo più con la sua famiglia, in particolare con la figlia di dieci anni, magari insegnandole anche il piacere della lettura.
Come noto il nostro ministro della cultura i libri non solo li legge, ma li scrive pure; evidentemente ha parecchio tempo libero. Dicono anche che sia un bravo scrittore, non so se per piaggeria o per un suo vero talento; non posso esprimere un giudizio perché non ho mai letto un suo romanzo e penso non lo farò mai. Abbiamo avuto anche la sventura di avere un ministro poeta: non ci facciamo mai mancare nulla in questo paese.
A proposito della lettura, e in particolare, della pubblica lettura, mi interessa raccontarvi una piccola storia che riguarda, ancora una volta, la Francia. Si tratta di una mia esperienza di quasi vent'anni fa. Era fine estate del 1995 e io frequentavo l'università, deciso finalmente a laurearmi. Andai a Parigi per un po' di giorni, ospitato da un mio compagno del liceo, che stava lavorando là. Tra una visita e l'altra - era la prima volta che andavo nella capitale francese - passai un po' di tempo alla Bibliothèque publique d'information, presso il Centre Pompidou. Per uno che conosceva solo le biblioteche italiane - frequentavo allora quella dell'Archiginnasio - con le loro burocrazie e i loro bizantinismi, quella fu davvero una scoperta. Senza essere iscritto e anche senza parlare francese, potevo consultare i cataloghi, accedere ai servizi e soprattutto leggere i libri, che prendevo direttamente, perché non c'era - e non c'è - magazzino. Ne approfittai per la tesi, che allora stavo preparando, trovai spunti per la bibliografia, riusci a consultare dei testi - anche in italiano - che non avevo trovato in Italia, presi appunti, feci fotocopie, insomma fu un'esperienza molto utile per il mio studio. La Bpi è una splendida istituzione culturale, che per me è sempre rimasta un modello, un luogo dove l'amore per i libri nasce e cresce quasi naturalmente, perché hai modo di toccarli, scoprirli, leggerli.
Spero che adesso istituzioni analoghe e soprattutto che funzionino così bene ci siano anche in Italia - a Roma, a Milano, nelle grandi città universitarie - però a Parigi la Bpi c'è dalla metà degli anni Settanta. Questo, secondo me, è un elemento che segna una differenza netta nella politica culturale dei due paesi.
Per entrare alla Bpi c'era - e spero ci sia ancora - un controllo discreto, ma efficace, che non impediva ai visitatori curiosi di entrare, anche solo per dare un'occhiata, ma evitava che la biblioteca diventasse un luogo di raccolta degli sfaccendati di Parigi. Cosa che è invece è successa alla Salaborsa di Bologna, che è sempre più un servizio sociale. Io ovviamente non ho nulla contro i senzatetto, anzi credo che l'amministrazione comunale dovrebbe fare di più per loro, ma non credo neppure che la soluzione sia permettere che passino la giornata, specialmente nei mesi invernali, dentro la principale biblioteca pubblica della città, per lasciar libera la sala d'attesa della stazione centrale dove passano la notte. E non venitemi a dire che almeno così leggono, perché sappiamo che non è vero. O Merola decide di mettere le spese per Salaborsa in capo al bilancio delle politiche sociali e non a quelle della cultura oppure fa una seria politica per i senzatetto.
La gestione delle biblioteche è un'altra cosa rispetto a quella che vediamo a Bologna, dove pure, per merito di una generazione di amministratori illuminati - che non sempre leggevano molto, ma sapevano cosa significava farlo - è stata creata una rete di biblioteche di quartiere e di paese disseminate per tutto il territorio, che hanno rappresentato un elemento in più nello sviluppo di quella città e di quella provincia.
Le città hanno bisogno di biblioteche, hanno bisogno di spazi pubblici dedicati ai libri, hanno bisogno di bibliotecari, che le curino, le facciano crescere, le mettano in collegamento con quello che di più vitale c'è nella cultura di quelle città in cui sono. E le biblioteche hanno bisogno di lettori.
A me francamente importa poco sapere se un ministro della cultura legge o non legge, o cosa legge, mi interessa che costruisca biblioteche. E che quindi i cittadini, tutti i cittadini, possano leggere.
Marguerite Yourcenar fa dire al "suo" Adriano:
Fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.
L'inverno è ormai arrivato. Non facciamo l'errore di bruciare i libri per scaldarci, perché abbiamo paura di morire di freddo. I libri li dobbiamo conservare, per leggerli e per farli leggere ai nostri figli. 

lunedì 3 novembre 2014

"Roma così non l'avevo mai vista" di Pier Paolo Pasolini


Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani.
C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla.
Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.
Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città.
Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra.
Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce.
Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine.
Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomi­ni che sono davanti a me, a uno a uno, alza­no il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po' deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle conti­nue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un'esistenza ridotta ai puro pratico, e spes­so solo all'animale, dalla corruzione dei quar­tieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s'abbassano, vedo dal loro atteggiamen­to che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi.

domenica 2 novembre 2014

"Il vuoto del potere" di Pier Paolo Pasolini

Corriere della sera, 1 febbraio 1975

"La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale Il Politecnico, cioè all'immediato dopoguerra..." Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (L'Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente.
Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul Politecnico non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa".
"Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del Politecnico, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva). Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel Politecnico: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale. Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano.
Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani. Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole 
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul Politecnico poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal Pci - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel Manifesto parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole 
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il Msi in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale.
Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla.
Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione.
Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia. Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore.
Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola. Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?". La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura. Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere. Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto.
Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto. Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico. In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare").
Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.