mercoledì 24 dicembre 2014

Verba volant (153): augurio...

Augurio, sost. m.

In questi giorni ci scambiamo continuamente gli auguri. E qualche volta sono perfino sinceri.
Questa è una parola che ha una storia da raccontare. In latino augurium indica la cerimonia con cui alcuni sacerdoti, detti appunto àuguri, ricavavano i loro presagi dall'osservazione del volo degli uccelli e anche, per estensione, il presagio stesso. E infatti si può riconoscere in questa parola la radice del termine avis, che significa appunto uccello. In italiano quindi questa parola ha indicato dapprima la previsione di eventi buoni o cattivi e, in seguito, il desiderio che accada qualcosa di buono e l'espressione stessa di questo desiderio; e in questo caso si adopera sempre al plurale. Si parte quindi da un vaticinio, che poteva essere buono o cattivo, e si arriva alla speranza che accada, a noi o agli altri, qualcosa di positivo. Certo si può augurare anche qualcosa di brutto, ma in genere non è opportuno dirlo; anche perché si dice che un cattivo augurio ti si ritorca contro. Comunque sia l'augurio è sempre una profezia, che speriamo s'avveri.
In questi giorni di festa vi auguro di avere un po' di tempo libero, da dedicare a voi stessi, alle persone a cui volete bene e anche alle vostre passioni. Se ve ne avanza un po', vi consiglio di leggere - o di rileggere - un piccolo libro, che ben si adatta alla parola che oggi ho scelto di definire: La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt (in Italia è pubblicato da Adelphi in un bel volume dalla copertina rossa). Questo libro racconta gli ultimi momenti della vita di due personaggi, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI e l'indovino Tiresia. Proprio perché stanno per morire, i due capiscono il ruolo - involontario e inconsapevole - che le loro azioni hanno avuto nel determinare la triste vicenda di Edipo; capiscono finalmente tutta la storia, di cui, fino ad allora, avevano avuto soltanto una visione parziale e incompleta.
Molti anni prima Pannychis aveva profetizzato, per puro dispetto, a un giovane principe dall'aria altezzosa che un giorno avrebbe ucciso suo padre e avrebbe sposato sua madre: gli aveva voluto raccontare una storia incredibile, una profezia irrealizzabile, proprio per convincerlo di quanto fosse assurda la pretesa degli uomini di conoscere il proprio futuro. Pannychis, come le altre Pizie prima di lei, vaticinava a casaccio. Tiresia invece faceva l'indovino e sfruttava il proprio ruolo nella società, prestigioso e ben remunerato, per cercare di orientare la vita politica della città. Tempo prima aveva vaticinato che Tebe sarebbe stata libera dalle peste solo se fosse stato scoperto l'assassino di Laio, perché era convinto che l'uccisore del vecchio re fosse Creonte, che egli credeva inadatto al ruolo regale. Invece era stato Edipo e così i Tebani perdettero il miglior re che avessero mai avuto, proprio in favore di Creonte, vanificando in tal modo i disegni politici di Tiresia.
Alla fine del racconto Tiresia dice a Pannychis:
Forse gli dei, ammesso che esistano, potrebbero godere dall'alto di una certa visione d'insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti  inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto un poco.
Dürrenmatt racconta questa storia antica e molto nota riservando ai lettori alcune altre sorprese - perché le cose non sono sempre quelle che crediamo o che vogliamo credere; naturalmente non vi svelerò questi colpi di scena, perché vi voglio lasciare il piacere della lettura, o della rilettura. Mi sembra importante farvi notare che il punto centrale sottolineato dallo scrittore svizzero sia proprio questa vana rincorsa di noi uomini a cercare di modellare il futuro, nostro e del mondo. E' quello che ci insegna questo libro e che prima o poi tutti siamo destinati a imparare, spesso a nostre spese.
Naturalmente alcuni di noi non rinunceranno mai a voler cambiar il mondo, a lasciarlo un po' più giusto di come l'abbiamo trovato; anzi questo ideale - che chiamiamo ostinatamente sinistra - è qualcosa che spinge gran parte delle nostre azioni, anche quelle meno importanti, come può essere quella di scrivere le definizioni di un vocabolario destinato a non essere mai pubblicato.
E non possiamo fare a meno di andare avanti così, stretti in questa contraddizione.
Comunque sia, auguri. E vi assicuro che sono sinceri.

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