lunedì 23 febbraio 2015

Verba volant (168): squadra...

Squadra, sost. f.

In questo paese inevitabilmente è forte il legame che si crea tra una città e la sua squadra di calcio: anche chi non si interessa del nostro sport nazionale o chi tifa per un'altra squadra sa qualcosa della squadra di calcio della propria città. E, a volte, le fortune - e le sfortune - della squadra cittadina raccontano le fortune - e le sfortune - della città. Qualcosa del genere sta succedendo a Parma, una città che vive indubbiamente un periodo difficile. E il Parma non sta certo meglio.
La vicenda del Parma dovrebbe interessare anche chi non ama il calcio, perché racconta quello che non funziona nel nostro paese. Da tempo il proprietario della squadra del Parma aveva espresso la volontà di vendere la società, anche se non aveva mai del tutto chiarito quali ne fossero le reali condizioni finanziarie; si supponeva ci fossero dei debiti, ma non quanto fossero ingenti. A gennaio di quest'anno è riuscito finalmente nel suo intento. Per un paio di settimane però non si è saputo chi avesse comprato la squadra, visto che il nuovo presidente era, per sua stessa ammissione, il prestanome di persone che volevano mantenere l'anonimato. Cominciò a esserci una certa preoccupazione in città quando si seppe che la società che aveva rilevato il Parma era stata fondata solo qualche giorno prima da due ragazze cipriote, con un capitale sociale di soli mille euro. A quanto pare si era trattato di un'operazione perfettamente legittima, giuridicamente possibile: ma credo converrete che sia preoccupante sapere che qualsiasi società italiana - non solo una squadra di calcio - possa essere acquistata così, senza alcuna tutela per l'azienda stessa, per chi ci lavora, per la sua storia e per quello che un'azienda rappresenta per un territorio. E questo è il primo problema svelato da questa vicenda.
Poi il misterioso compratore si è rivelato alla città: si trattava di persona nota - il cui nome era già stato fatto nei pettegolezzi da bar - un petroliere albanese molto ricco, che aveva già tentato di entrare nel calcio italiano. Al di là di alcune dichiarazioni roboanti, pare che soldi nelle sede di Collecchio se ne siano visti assai pochi. E qui sorge il secondo problema: che garanzie deve offrire una persona per acquistare una società? Pare nessuna. E infatti le autorità sportive non hanno fatto una piega, lasciando che la vicenda andasse per la sua strada. E' il mercato, baby. Dopo un altro paio di settimane l'imprenditore albanese pare essersi accorto che i debiti erano ingenti, molto ingenti, anche se purtroppo aveva già firmato un contratto che prevedeva di accollarsi tutto, senza rifarsi sul precedente proprietario. A questo punto la squadra è stata nuovamente venduta, a un imprenditore italiano con alcune società non meglio definite in Slovenia, ma anche questo pare non abbia mai sborsato un soldo. A questo punto la tensione è cominciata a salire: Equitalia ha iniziato a pignorare i beni della società, gli allenamenti delle squadre giovanili sono stati sospesi perché non c'è più l'acqua calda nelle docce e anche le partite della prima squadra sono sospese, perché non ci sono i soldi per aprire lo stadio. Il nuovo presidente annuncia un giorno sì e uno no che i soldi stanno per arrivare, ma ovviamente nulla si muove. A questo punto le autorità sportive si sono accorte che c'è un problema, ma pare ormai sia troppo tardi per rimediare.
Faccio un passo indietro nella storia della squadra - e della città - perché credo sia utile capire come si è arrivati fin qui. Il Parma è una squadra di lunga tradizione, fondata nel 1913, ma sostanzialmente una squadra di provincia, come tante, che però nel 1990 è stata acquistata da Callisto Tanzi, allora proprietario di Parmalat e una delle personalità più ricche e influenti di questo paese. Grazie ai soldi di Tanzi divenne una squadra di livello europeo, tanto che riuscì a vincere, in meno di un decennio, una volta la Coppa delle coppe e due volte la  Coppa Uefa. Qualche anno dopo abbiamo scoperto che Tanzi era un delinquente, un truffatore a grandissimi livelli, un uomo che aveva a libro paga politici, giornalisti, cardinali, giudici e che, grazie a questa rete di complicità, aveva costruito un impero sul nulla, rapidamente crollato. I parmigiani faticano a ricordare questa storia, non solo perché molti di loro hanno perso molti soldi nella vicenda Parmalat, ma soprattutto perché c'è stato un livello di connivenza diffusa con il nuovo "padrone" della città, che faceva il mecenate e appunto faceva "vincere" la città, non solo la sua squadra di calcio. Con mezzi illeciti, ma la faceva vincere. Una parte della classe dirigente - in particolare del mondo economico - di questa città è ancora quella: e quindi o sono scemi che si sono fatti fregare o sono complici che sono stati zitti, quando non hanno partecipato alla truffa. Ho l'impressione che Parma non abbia ancora fatto tutti i conti con questa vicenda, che cerca di metabolizzare e di dimenticare. Rimane, a ricordare quel passato "glorioso" proprio la squadra di calcio, che adesso dovrebbe tornare tra le provinciali e abbandonare i "sogni di gloria".
Vedete che non è solo una storia di calcio. Questo paese è quello che è, quello da cui i giovani dovrebbero andarsene più in fretta possibile, perché regna questo malaffare diffuso, questo capitalismo arraffone e disonesto, questo bizantinismo inconcludente delle istituzioni, questa corruzione etica avvolgente e gelatinosa. E' un paese dove per una persona onesta, per uno che lavora, è difficile ottenere un mutuo da una banca, e dove quindi i poveri devono rivolgersi agli strozzini, ma per un disonesto sembra che certe porte siano tutte aperte e dove è possibile comprare un'azienda senza un soldo, solo con parole e impegni che non saranno rispettati. E' un paese in cui le regole valgono per qualcuno sì e qualcuno no, anche perché chi le dovrebbe far rispettare è spesso amico dei secondi.
Ieri mi è capitato di vedere, insieme a Zaira, una commedia di Eduardo che non conoscevo, De Pretore Vincenzo. Questo povero diavolo, questo mariuncello, di fronte al Padreterno, per raccontare la sua storia, e per giustificarsi, dice:
Industralizzo la disonestà. 
Questo verso, scritto nel '57, mi è sembrato profetico, perché racconta perfettamente cosa è diventata tutta l'Italia, un paese in cui davvero abbiamo imparato a industrializzare la disonestà.   
Ed è anche un paese in cui molti si arrabbiano se fallisce una società di calcio - anzi la propria squadra, perché se fallisce un'altra squadra siamo contenti - e siamo pronti a scendere in piazza, chiediamo che intervengano le istituzioni, siamo perfino disposti a metterci dei soldi, visto che in tanti invocano l'azionariato popolare. Ma se fallisce un'azienda facciamo spallucce - peggio per loro - perché, in fondo, siamo tifosi prima che cittadini.

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