lunedì 29 giugno 2015

Verba volant (198): chi...

Chi, pron.

"Fassina chi?", chiese polemicamente renzi più di un anno fa, durante una conferenza stampa, quando qualcuno gli chiese di commentare le dichiarazioni critiche dell'allora viceministro del governo Letta. Nelle intenzioni del fantoccio di Rignano si trattava evidentemente di un'offesa e infatti fu presa come tale, tanto che Fassina decise di dimettersi. Però in più di un anno a quella domanda non è mai stata data una vera risposta.
Ci ho ripensato in questi giorni perché - come sapete - Stefano Fassina è finalmente uscito dal pd, per dare il proprio contributo alla nascita di un nuovo soggetto politico a sinistra del partito rimasto in mano a renzi e ai suoi servi. Ovviamente mi fa piacere che anche Fassina abbia lasciato il partito mal nato: io sono un loro fiero avversario e sono contento quando sono in difficoltà, quando perdono le elezioni, perché spero che in prospettiva quel partito cessi di esistere. Probabilmente nei prossimi mesi voterò Fassina, se davvero parteciperà alla costruzione di una nuova forza di sinistra in Italia, ma la domanda posta da renzi rimane lì: chi è Fassina? Così come ci potremmo chiedere chi è renzi, chi è Civati, chi è Serracchiani, chi è Speranza, chi sono tutti questi personaggi che all'improvviso ci siamo ritrovati alla ribalta.
C'è una famosa battuta polemica attribuita a Giancarlo Pajetta che, a proposito di Enrico Berlinguer, avrebbe detto che si era iscritto fin da giovane al Comitato centrale. E certamente, anche nella tanto vituperata prima Repubblica ci sono state carriere politiche molto rapide, forse troppo, ma comunque chi le faceva, sia perché davvero più brillante e più intelligente degli altri, sia perché capace di avere gli appoggi "giusti", era comunque parte di un soggetto, il partito appunto, più grande e che in qualche modo garantiva per lui e lo garantiva.
Io molti anni fa ho fatto politica, ho fatto perfino un po' di carriera in un partito. Ho anche visto nascere politici che negli anni sono andati molto avanti, molto più avanti di me, ma su questo - per decenza - preferirei non parlare. Anch'io ho cominciato in maniera un po' casuale: c'era bisogno di rinnovare il Consiglio comunale del paese in cui vivevo e io ero uno dei ragazzi che aveva cominciato a fare qualcosa nel partito. Quello che però fece la differenza fu il fatto che mio padre era una persona stimata, un compagno che in quel paese aveva dedicato tutta la sua vita all'impegno politico e civile, pur senza mai avere cariche, ero il figlio di Gigi e questo "garantiva" che ero stato educato con certi valori. Ci sarebbero stati altri ragazzi che avrebbero meritato più di me di fare l'assessore a vent'anni? Probabilmente sì, ma in sezione non li conoscevano e quindi è toccato a me. Con tutto quello che ne è seguito.
Scusate la digressione personale, ma mi serve per far capire il concetto. Negli anni io ho continuato a fare politica, guadagnandomi un po' di stima - e non solo godendo di riflesso di quella di mio padre - ma soprattutto facendo parte di un partito, partecipando alla sua vita, a volte anche noiosa. Però in tutti quegli anni mi sentivo di rappresentare qualcuno, le cose buone che ho fatto - e anche quelle sbagliate, di cui ovviamente porto tutta la responsabilità - si iscrivevano in questo contesto politico. Io ero io, ma ero anche e soprattutto il rappresentante del partito, di cui ero militante e, per un periodo, perfino dirigente.
Adesso faccio politica attraverso queste cose che scrivo, dico sostanzialmente tutto quello che penso - a proposito o a sproposito, come pensa qualcuno dei miei ex compagni di allora - rispetto a questo o quell'argomento, ma rappresento davvero solo me stesso. Se renzi rispondesse a una delle critiche che gli rivolgo quotidianamente, dicendo : "Billi chi?" ne avrebbe tutto il diritto, perché io sono soltanto un cittadino che scrive. Poi penso che dovrebbe tenere conto anche dei cittadini che scrivono, ma questo è un altro punto. Se allora qualcuno avesse detto "Billi chi?" gli avrei potuto rispondere, forte del fatto che quello che dicevo non era solo mio, ma il frutto di un'elaborazione comune, più o meno condivisa, e forte del fatto che rappresentavo qualcun altro, pochi o molti non importava. Non ero da solo, ero la parte di un soggetto più complesso.
Ora, specialmente quando osservo il campo che più mi interessa, ma in generale guardando a tutte le diverse forze politiche, faccio fatica a dire che questo o quest'altro - davvero i nomi poco importano, perché in fondo intercambiabili - rappresentano qualcuno. Certo ogni capo - o capetto - ogni leader o supposto tale, ha i propri fans, pronti a far polemica, pronti a difenderlo sui social, pronti a diffondere le sue parole, ma non sono militanti che partecipano alla costruzione politica e a cui quella persona deve in qualche modo rispondere. Fassina mi pare che abbia deciso sostanzialmente da solo di lasciare il pd e da solo è rimasto, un po' come è successo a Tosi nell'altro campo. Anche i passaggi da un gruppo parlamentare all'altro, i cambi improvvisi di casacca, diventano - se non apprezzabili - almeno comprensibili, perché, al netto degli interessi più bassi, una persona può davvero cambiare idea, ma quando è sola il suo cambiare idea non ha alcun significato: è uno che cambia idea e fa notizia, può anche fare opinione, ma sostanzialmente chi rappresenta questa sua decisione, anche sofferta?
Il tema quindi è come selezionare un gruppo dirigente. Se, come avviene adesso, l'unico sistema è la cooptazione, e i criteri sono la fedeltà più o meno cieca verso il capo di turno, l'avvenenza - purtroppo per le donne che fanno politica ormai pare che la bellezza sia una dote indispensabile, al di là delle ironie su ladylike Moretti - la capacità di stare in televisione, magari la vis polemica, siamo destinati a ritrovarci una classe politica debole, anche facilmente manovrabile, perché è più facile comprare una persona piuttosto che comprare un partito. E quindi quando guardiamo questo o quel personaggio non sappiamo esattamente chi sia, come sia arrivato fin lì. A un certo punto lo vediamo in televisione, prima una volta alla settimana, poi sempre più frequentemente, e alla fine ci siamo abituati a considerarlo un leader, qualcuno la cui opinione merita di essere ascoltata. Magari la sua opinione merita davvero, ma chi lo ha deciso? E soprattutto quell'opinione rappresenta l'opinione di altri?
Non voglio fare il nostalgico dei tempi andati, prevengo tutte le vostre critiche: so bene che prima non andava meglio, perché i fenomeni di corruzione c'erano anche allora, perché la selezione avveniva spesso in maniera opaca, perché ci siamo ritrovati a guidare i partiti e al governo persone incapaci. Però la politica era un'altra cosa. Adesso molti dei protagonisti della vita politica sono stati scelti, più o meno volontariamente, da quelli che fanno le scalette e scelgono gli ospiti dei talk show. Non mi convincerete che è meglio adesso.

domenica 28 giugno 2015

da "La tempesta" (atto IV, scena I) di William Shakespeare


Prospero
I giochi di magia son terminati. 
Come t'avevo detto, quegli attori 
erano solo spiriti dell'aria, 
ed in aria si son tutti dissolti, 
in un'aria sottile ed impalpabile. 
E come questa rappresentazione 
- un edificio senza fondamenta - 
così l'immenso globo della terra, 
con le sue torri ammantate di nubi, 
le sue ricche magioni, i sacri templi 
e tutto quello che vi si contiene 
è destinato al suo dissolvimento; 
e al pari di quell'incorporea scena 
che abbiam visto dissolversi poc'anzi, 
non lascerà di sé nessuna traccia. 
Siamo fatti anche noi della materia 
di cui son fatti i sogni; 
e nello spazio e nel tempo d'un sogno 
è racchiusa la nostra breve vita.

mercoledì 24 giugno 2015

Verba volant (197): ipocrisia...

Ipocrisia, sost. f.

Uno dei motivi per cui il nostro paese fa così schifo è che l'ipocrisia ha ormai raggiunto un intollerabile livello di guardia.
In questi ultimi giorni mi hanno lasciato questa sensazione amara gli articoli dedicati alla morte improvvisa di Laura Antonelli, che immagino abbiate letto anche voi, magari di sfuggita. A me hanno colpito per una serie di motivi.
Laura Antonelli era una donna molto bella, di una bellezza particolare, innocente e sensuale insieme, che è stata usata - e sfruttata - in una stagione non particolarmente felice del cinema italiano. Per altro - a proposito di cosa allora veniva considerato osé - si vede molta meno "carne" in uno di quei film che in uno spot di qualunque azienda di telefonia mobile che passa all'ora di cena sulle reti nazionali. Non è stata una grande attrice, non è stata neppure messa in condizione di diventarlo, visto che a lei veniva chiesto soltanto di solleticare le bramosie dei maschi italiani, più o meno govani. Però sarebbe stato giusto ricordarla per quello che aveva rappresentato, per quell'ideale di bellezza che aveva turbato tanti spettatori, perché il cinema in fondo è anche questo. E farlo senza la pruderie che è stata usata in troppi articoli, scritti in fretta, senza alcuna passione e con colpevole sciatteria.
Poi è stata una donna che non ha saputo gestire la sua fama e la sua vita, che si è perduta, che ha fatto molti sbagli e che li ha pagati. Riguardo a questo aspetto della sua vita invece è stato sparso sulla sua memoria una strato di pietosa melassa ipocrita: le vicende brutte sono state non dimenticate, non obliate per pudore, ma sussurrate, dette e non dette, con quell'aria da pettegolezzo di provincia così tipico dell'informazione italiana. Poi in tutti gli articoli abbiamo potuto leggere questa chiosa: "alla fine ha trovato conforto nella fede". E questo, nella bigottissima società italiana, ha salvato tutto e tutti, sia la povera donna perduta sia gli estensori degli articoli che magari, da ragazzi, si erano masturbati pensando alle sue forme, immaginate più che viste.
Un altro topos ricorrente in questi articoli è la denuncia che è stata lasciata sola, che non è stata aiutata quando aveva più bisogno. E tutti hanno fatto finta di scandalizzarsi, quando sappiamo benissimo che è la cosa che succede a tutti, di cui tutti siamo vittime o colpevoli, prima o poi. Peraltro, quando qualche tempo fa qualcuno si è ricordato di lei e ha proposto che le fosse assegnato il mantenimento previsto dalla cosiddetta legge Bacchelli - che lei comunque rifiutò - si levarono molte voci indignate, perché i suoi seni non potevano essere considerati arte.
In Italia non sappiamo affrontare senza ipocrisia neppure la memoria di un'attrice e poi ci stupiamo che ci siano manifestazioni come il Family day, promosse e sostenute da bugiardi che non sono neppure omofobi, ma semplicemente vigliacchi che sfruttano la religione per ricavare una qualche popolarità. E' un ipocrita quel pingue oratore divorziato che si è risposato a Las Vegas, sono ipocriti quei politici che un giorno sostengono la famiglia "tradizionale" e il giorno dopo candidano Cosimo Mele, sono ipocriti quei prelati che tuonano contro i matrimoni tra le persone dello stesso sesso e poi tollerano i loro "colleghi" accusati di pedofilia. Grava sul nostro paese questa cappa di ipocrisia che ad esempio impedisce a un intellettuale come Adriano Sofri, che è stato a lungo in carcere per scontare la pena di un delitto grave e per questo ha scritto tanto su chi vive e lavora in quei luoghi di pena, di partecipare a un convegno promosso dal ministero, solo perché il direttore di un giornale molto influente è il figlio della persona che Sofri è accusata di avere ucciso. E ipocriti sono i direttori che fanno campagne contro il femminicidio e poi tengono sui siti delle edizioni on line dei loro giornali molte foto di donne mezze nude - sempre più di quanto sia stata Laura Antonelli nei suoi film - perché comunque quelle sono le foto più guardate da noi maschi "guardoni", fanno aumentare i contatti e quindi la pubblicità. Sono ipocriti quegli industriali che promuovono la cultura etica in Italia e sfruttano i loro lavoratori in Asia, che sottoscrivono la Carta di Milano e poi non si curano da dove viene il grano che mettono nei loro prodotti. E la lista potrebbe essere molto lunga.
Ypokrités in greco antico è la parola che indica l'attore. Tra i ricordi ipocriti, qualcuno ha detto che Laura Antonelli, anche nel pieno del successo, era rimasta quella ragazza venuta da Pola, che faceva fatica a nascondere l'accento veneto. Forse era troppo poco attrice per questo paese.

domenica 21 giugno 2015

Verba volant (196): radice...

Radice, sost. f.

Per diversi anni abbiamo ragionato e discusso sulle radici dell'Unione europea, ci siamo divisi, anche aspramente, su cosa mettere - e non mettere - nel preambolo di una futuribile Costituzione. Evidentemente questa discussione è stata vana, visto quello che sta succedendo in queste settimane. Quelle riflessioni si sono fermate sugli scogli di Ventimiglia, davanti a un vecchio posto di confine che ormai consideravamo abbandonato, di fronte al muro alzato in una notte dal governo ungherese sul confine serbo, nel mezzanino della stazione centrale di Milano, accanto ai turisti che arrivano in città per Expo; quella Costituzione è affondata nel mare di Lampedusa.
Io, da ateo, sono convinto che in quel testo avremmo dovuto citare le radici cristiane, perché è impossibile pensare l'Europa, la sua storia, la sua cultura, la sua civiltà, senza l'apporto di quella religione, anche se le chiese - specialmente quella cattolica - nella loro secolare azione politica, hanno quasi sempre rappresentato un freno violento allo sviluppo dei diritti alla persona e della democrazia. Così come avremmo dovuto richiamare l'eredità del mondo greco e romano, quella dell'illuminismo e della Rivoluzione francese e quella, per me altrettanto importante, del socialismo, nonostante i crimini che, nel nome di queste due rivoluzioni, sono stati commessi nel nostro continente e nell'intero pianeta. L'Europa è tutto questo, è figlia di questa complessità, di questa storia, anche dei conflitti legati inevitabilmente a queste vicende. Adesso però abbiamo perso il filo di quella storia e pare addirittura che non siamo più in grado di ricucire una tela irrimediabilmente strappata.
Non sappiamo ascoltare le parole del papa che, in forza degli elementi fondanti di quella religione, della carità di cui parla con accenti così forti Paolo di Tarso, in nome di quell'esule morto crocifisso, in cui dicono che il loro dio abbia voluto incarnarsi, chiede di aprire le porte delle nostre città a questi nuovi esuli, a questi poveri cristi, a queste famiglie che cercano di mettere in salvo i loro figli dai tanti Erode che ci sono nel mondo.
Non siamo più capaci di capire il significato delle storie degli antichi. L'esule era sacro per i greci. Eschilo racconta che quando le figlie di Danao, fuggendo dal loro paese per non essere costrette a sposare contro la loro volontà i figli di Egitto, raggiungono Argo, il popolo di quella città, riunito in assemblea, decide, anche se questo provocherà la guerra, di proteggere quelle vergini: 
Avrete qui la vostra casa, libere,
sicure da rapina e da saccheggio:
nessuno né straniero né del luogo
vi scaccerà: se ci sarà violenza,
chi non vi porti aiuto tra questi uomini
sia esule, senza legge e senza onore.
L'ho scritto in una delle prime definizioni di questo inconsueto vocabolario: in questa tragedia si trova la prima attestazione, seppur in perifrasi, del termine democrazia. Mi sembra significativo che la prima volta che un greco usa questa parola sia proprio quando vengono sanciti, nel modo più solenne possibile, i diritti degli esuli. Quante donne, nuove Danaidi, arrivano in Europa per sfuggire un mondo che non dà loro alcun diritto, che le costringe a sposarsi bambine con uomini che non hanno scelto?
Io credo che dovremmo bandire espressioni come "guerra di civiltà", l'Europa non è in guerra con il mondo musulmano, è quello che vogliono farci credere quelli che lucrano sul conflitto. I nostri veri nemici sono quelli da cui queste donne e questi uomini fuggono. La loro fuga è il segno che non vogliono piegarsi a una visione barbara di quella religione, ma quando noi li respingiamo facciamo il gioco dei fondamentalisti, ributtiamo quelle donne e quegli uomini nelle loro braccia: è come se dicessimo a quei popoli che è meglio che diventino tutti fondamentalisti. Se l'Europa non è più capace di mostrare il lato positivo della nostra cultura, non riesce a rendere evidente che la democrazia e i diritti sono un elemento positivo e di progresso, milioni di persone si rifugeranno nella falsa sicurezza delle loro religioni, nella grettezza dei fondamentalismi. Per questo non possiamo permetterci di sostenere i fondamentalisti, in casa nostra e in casa loro.
Non sappiamo più leggere quello che è scritto nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Per chi, come me, si emoziona quando ascolta la Marsigliese, vedere il governo francese che tradisce quello spirito fa particolarmente male, perché la Francia è la patria dei diritti umani. E tanti profughi vogliono andare in quel paese anche in forza di questa storia. E non è vero che accogliendo i profughi rischiamo di favorire il Front national e le altre forze nazionaliste che basano la loro propaganda su questo tema. Anzi in questi giorni i governi europei, nella loro incapacità di affrontare un arrivo tutto sommato contenuto di migranti - centomila su cinquecento milioni di cittadini dell'Unione - sono i migliori alleati di questi professionisti della paura, di questi mestatori di odio; questi tentennamenti, queste incertezze, costituiscono un vantaggio per questi partiti, permettono loro di continuare a dire che i profughi sono un pericolo. Occorre togliere loro questa arma e l'unico modo per farlo è quello di organizzare un'accoglienza ordinata e solidale.
Da socialista mi vergogno che il movimento socialista europeo sia muto di fronte a tutto questo, che non riesca a dire una parola, a spiegare che questi disgraziati fuggono l'ingiustizia, fuggono la povertà, fuggono la fame, ed è nostro compito lottare contro l'ingiustizia, contro la povertà, contro la fame. I giovani di quei paesi si affacciano alla storia e chiedono un futuro diverso, un futuro più giusto; contro queste nuove generazioni si sono armati i terroristi e i loro alleati del capitale. Per questo noi socialisti dobbiamo considerare quei popoli in fuga nostri compagni di lotta, perché combattiamo dalla stessa parte, perché combattiamo gli stessi nemici. Il socialismo è internazionalista o non è. I socialisti che un secolo fa rinunciarono a questa idea per sostenere i governi borghesi che scatenarono la guerra furono travolti; così saremo travolti noi, per non avere saputo tendere la mano a questi compagni in difficoltà, per non aver saputo capire che la loro lotta è la nostra lotta.
Tutte le radici si sono seccate e l'albero è destinato a cadere.

giovedì 18 giugno 2015

Verba volant (195): imbecille...

Imbecille, agg. e sost. m. e f.

Il più celebre paradosso dell'antichità è certamente quello attribuito al cretese Epimenide, quando affermava che i cretesi sono bugiardi: non sapremo mai se mentiva o diceva la verità. E chi scrive sui social media, dicendo che i social media hanno dato il diritto di parola agli imbecilli? Non sapremo mai se è anch'egli imbecille. Posso legittimamente credere che Umberto Eco non legga regolarmente il mio blog e, qualora gli capitasse sotto gli occhi questo post, spero non se ne abbia troppo a male. Esimio professore, non mi riferisco certo a lei.
Comunque sia, chiunque frequenta la rete - e specialmente chi, come me, prova a usarla come strumento di informazione - sa bene che Eco ha ragione: ci imbattiamo spesso in imbecilli, ce li ritroviamo di continuo tra i piedi, ci fanno perdere molto, troppo, tempo. Tanti imbecilli in questi giorni hanno rilanciato la frase di Eco, l'hanno sottolineata, l'hanno fatta propria, anzi si sono vantati di averlo detto prima di lui. E oggettivamente gli imbecilli sono tantissimi, sono legioni - come dice giustamente il professore - ed è molto più probabile incontrare uno di loro piuttosto che un premio Nobel.
Però ci sono sempre stati, e sempre sono stati più numerosi dei premi Nobel. E comunque non sono i social media ad avere dato a questi personaggi un particolare diritto: lo hanno sempre avuto e utilizzato, con la stessa incurante e volgare baldanza. I lettori più giovani, i cosiddetti nativi digitali, non lo possono sapere, ma noi vecchi ce lo ricordiamo il mondo prima della rete e gli imbecilli imperversavano anche allora.
Il problema era allora - ed è adesso - riconoscere un imbecille e cercare di renderlo innocuo. Come dice Eco, vanno messi a tacere, come facevano i nostri genitori e i nostri nonni quando li incontravano nei bar o al mercato. Naturalmente - lo dico a scanso di equivoci, ad uso dei miei lettori imbecilli - l'essere imbecilli non coincide con il livello di istruzione. Personalmente ho imparato tantissimo da persone che non sono andate a scuola e ho conosciuto laureati che sono perfetti imbecilli.
Io non credo che esista un mondo avanti internet e un mondo dopo internet. La rete è uno strumento - certamente molto potente - e proprio per questo ciò che conta è chi la usa. La rete è un'opportunità che sta a ciascuno di noi usare o non usare, usare bene o male. Non è la rete che ci rende più imbecilli. Siamo noi che siamo imbecilli in senso etimologico, ossia siamo deboli, e non riusciamo più a riconoscere i veri imbecilli, quelli che fanno danni, perché non sanno di esserlo. E spesso, quando li riconosciamo, li lasciamo parlare, li lasciamo fare, per quieto vivere, o peggio per interesse, perché sono i nostri capi o i nostri insegnanti o sono quelli che ci governano. O magari sono quelli che hanno vinto il premio Nobel: succede anche questo, come hanno dimostrato le cronache recenti.
Ecco in questo tempo ci sono più imbecilli, ma non per colpa della rete; anzi nonostante la rete, gli imbecilli sono più diffusi, più potenti, più influenti, più ricchi. E naturalmente più orgogliosi di esserlo. 
Per questo occorre organizzare delle forme di resistenza contro questa invasione degli imbecilli. E la rete è uno degli strumenti che possiamo - e dobbiamo - utilizzare in questa lotta, che sarà dura e che forse sarà vana, perché il numero fa forza e loro sono tantissimi, anche perché la loro madre, come si sa, è sempre incinta. Per questo io credo - e penso sia d'accordo anche il professor Eco - che l'accesso alla rete sia un elemento essenziale del progresso democratico, sia un diritto che dovrebbe essere inserito tra quelli fondamentali garantiti nella prima parte della Costituzione. Ma, proprio per quello che ho scritto prima, non facciamoci illusioni: anche in una società ideale in cui tutti abbiano accesso libero e gratuito alla rete, non ci sarà maggiore condivisione delle informazioni, non ci sarà più conoscenza, perché gli imbecilli continueranno a esserci e anzi rischiamo che amministrino la rete. La crescita della consapevolezza democratica e civile, la diffusione dell'intelligenza, passa - e passerà sempre - attraverso l'educazione, la sua libertà e il suo pluralismo. Nonostante gli imbecilli. 

mercoledì 10 giugno 2015

Verba volant (194): casa...

Casa, sost. f.

Alla notizia non è stato dato un particolare risalto, ma è legge il nuovo regolamento sugli alloggi popolari approvato dal Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, che prevede, tra le altre novità, l'obbligo di avere tre anni di residenza stabile e pregressa nella nostra regione per poter accedere ai bandi di assegnazione. Ne voglio parlare perché non si tratta di un semplice atto amministrativo, come si potrebbe pensare, ma di un elemento che ci fa capire che qualcosa di radicale è capitato nella nostra regione e, di conseguenza, nella sinistra italiana.
Si tratta evidentemente di un provvedimento, profondamente ingiusto, che non è dettato soltanto dal tentativo di bloccare il consenso alla Lega - come qualcuno ha detto in questi giorni, banalizzando la questione - ma di qualcosa che è ormai stato interiorizzato nei valori e nella cultura politica del mal partito. Infatti tutti i consiglieri pd hanno votato a favore - renziani ortodossi, renziani convertiti, cuperliani più o meno osservanti, civatiani pentiti - e che raccoglie un'istanza diffusa sul territorio, nelle amministrazioni a guida pd. In molti casi i regolamenti comunali prevedono già punteggi molto alti per i "nativi" - o almeno quelli che da più tempo risiedono nel territorio - a sfavore dei "nuovi", che sono per lo più stranieri, ma non solo.
In tempi di sempre più evidente mobilità sociale e geografica si tratta di una legge fortemente ingiusta. Due ragazzi - maschio e femmina italiani, così non urtiamo la sensibilità dei benpensanti - che si sono appena laureati all'università di Bologna - mantenendo nel frattempo la residenza con i rispettivi genitori nelle città di origine - che si sono fidanzati e hanno deciso di stabilirsi nella città dove hanno trascorso tanti anni da fuori sede, non sono meno bolognesi di chi in città ci è nato. Anche loro la sera vanno giù a buttare il rusco e, se hanno dimenticato le chiavi, per rientrare in casa devono farsi dare il tiro, ma soprattutto hanno vissuto la città, ci hanno speso soldi e dovrebbero essere considerati una risorsa. Invece sono un po' meno bolognesi degli altri e, se vogliono la casa, devono comprarla o affittarla, senza poter sperare di avere un alloggio pubblico. Cosa c'è di più tipico del parmigiano? E il cittadino sikh che ha vissuto per anni a Suzzara ed è diventato un esperto allevatore di mucche, trasferitosi nel parmense per continuare a svolgere il suo lavoro, non potrà sperare di avere un alloggio pubblico, perché non vive qui da tre anni. Anche se il suo lavoro è indispensabile per tenere in piedi la più fiorente attività della nostra provincia. Questi sono cittadini emiliano-romagnoli come me, che in questa regione ci sono nato, da genitori di pura razza emiliana, e che ho sempre vissuto qui, tra la via Emilia e il west. Se quelli del pd non lo capiscono - e non lo capiscono evidentemente - vuol dire che parliamo ormai lingue diverse.
Qualcuno di loro potrà dire: ma ci sono poche case e dobbiamo trovare dei criteri. Capisco il tema, ho fatto l'amministratore pubblico anch'io nel secolo scorso, ma questo non è un criterio. Il reddito è un criterio, il numero dei figli è un criterio, le condizioni di salute sono un criterio, ma non la residenza stabile e pregressa. Discutiamo di questi criteri e soprattutto dei modi per determinarli e valutarli. Chi conosce un po' queste cose sa che tra i moltissimi che vivono nelle case popolari, avendone pieno diritto, ce ne sono alcuni che questo diritto non ce l'hanno, perché hanno fatto i furbi, perché hanno trovato il modo di imbrogliare un sistema amministrativo spesso farraginoso e complicato, che ovviamente favorisce i disonesti a scapito degli onesti. Voglio segnalare per altro che questi furbi sono praticamente tutti italiani, spesso nativi.
E poi c'è un altro tema che questa discussione sui criteri elude: le case disponibili non sono affatto poche. Forse sono poche le case destinate a questa specifica funzione, le brutte case nelle periferie delle città che solitamente assegniamo con questi bandi. Tra l'altro sarebbe un tema di sinistra anche chiedersi perché i poveri, che hanno già la sfortuna di essere tali, dovrebbero vivere soltanto in case brutte, ma mi rendo conto che qualcuno mi farebbe internare come un pazzo. Al di là di questa provocazione, il punto è che le case vuote sono tante, troppe, in gran parte sono beni privati, ma a volte sono anche beni pubblici ed è un delitto che queste case, pubbliche e private, continuino a rimanere vuote.
Io sono contrario alle occupazioni, ma non per la radicalità del gesto, che invece approvo, ma per il fatto che le occupazioni quasi mai premiano chi ha più bisogno, ma soltanto chi ha più coraggio, più faccia tosta, a volte chi è meno onesto. Tante case vuote sono soltanto l'occasione per tanti italiani - e questi sono tutti rigorosamente nativi, dal sas come diciamo qui - di guadagnare dei soldi "sporchi", evadendo le tasse, quando li affittano in nero agli studenti o ai lavoratori stranieri o alle puttane, ossia a tutti quelli che dicono di voler cacciare dalle nostre città, perché sporchi e rumorosi. Come sapete io non amo questi ipocriti, che la domenica vanno a messa alla mattina e a puttane alla sera, che votano Lega e poi affittano in nero agli extracomunitari. O quelli che quanto è bella l'integrazione, quanto siamo progressisti noi che mangiamo il cous cous e poi votano il pd che impedisce agli stranieri di partecipare ai bandi per le case popolari.  
La casa è un diritto. Chi ce l'ha non deve perderla, come succede a troppe famiglie che, a causa della crisi, non riescono più a pagare le rate del mutuo che hanno contratto per acquistarla. E chi non ce l'ha, indipendentemente da quanto vive in questo o quel paese, deve essere messo in condizione di poterne affittarne una a un prezzo equo o magari impegnandosi a sistemarla, a restaurarla. E questo risolverebbe anche il problema del degrado dei centri storici delle nostre città. Invece lucrare sulle case è un delitto; avere tante case vuote è un delitto; impedire che le persone vivano in case dignitose è un delitto. Come ci hanno insegnato i compagni spagnoli, questo è uno dei temi più importanti su cui potrà ritrovarsi la sinistra.

lunedì 8 giugno 2015

Verba volant (193): grande...

Grande, agg. 

Immagino ve lo sarete chiesto anche voi: di preciso a cosa servono questi periodici vertici dei sette "grandi"? Cosa hanno di così urgente da dirsi questi sette signori - da qualche tempo una signora e sei uomini, per la precisione - che non può essere detto in una conversazione telefonica o scritto in una mail? Non siamo ai tempi di Roosvelt e di Stalin, quando una lettera ci metteva giorni per attraversare l'oceano e quindi se i due volevano parlarsi - ad esempio per spartirsi il mondo - dovevano per forza di cose incontrarsi. E se ad Obama viene una voglia improvvisa di mangiare wurstel e crauti non ha certo bisogno di spostarsi da Washington per soddisfarla; a meno che non voglia evitare le ire salustiste di Michelle. Sappiamo che Berlusconi usava i vertici del G7 per andare a puttane - specialmente quando era ospitato dall'amico Putin - ma comunque trovava il modo di averne anche a casa. Capisco l'entusiasmo di renzi e del premier canadese: di solito non se li fila nessuno, a parte Rainews24 e TeleQuébec, invece, almeno una volta l'anno, le loro faccette appaiono sulle televisioni di tutto il mondo. Ma davvero Obama aspetta di incontrare renzi per decidere come impostare la propria politica estera? Davvero in questi vertici i sette, a cui si aggiungono ora due sconosciuti rappresentanti dell'Unione europea, decidono qualcosa che interessa le nostre vite?
Diciamo la verità: questi vertici non servono a nulla, se non per le foto che ci arrivano sempre più numerose in queste occasioni. Un tempo c'era praticamente solo la foto di rito scattata alla fine del vertice, con i sette leader, più i soliti personaggi di contorno, belli allineati davanti a un muro con tutte le bandiere a far da fondale. Da qualche anno invece vanno di moda le foto informali, in particolare quelle "rubate", ossia quelle in cui i protagonisti fingono di non stare in posa, pur sapendo benissimo di essere inquadrati dall'obiettivo del fotografo. In sostanza questi vertici sono solo l'occasione per qualche photo opportunity, come dicono quelli che parlano bene. E per far fare una gita a giornalisti e tecnici dell'informazione, pagati per enfatizzare questi appuntamenti, che altrimenti passerebbero sotto il silenzio che meritano.
Questi vertici infatti servono soltanto a ricordarci che quei sette sono i "grandi" del mondo, anche se effettivamente non lo sono da tempo. Questi vertici sono la rappresentazione teatralizzata di quello che vogliono farci credere sia il mondo, ossia una serie di stati indipendenti, di cui noi mortali - almeno una parte di noi, quelli appunto che vivono nei paesi rappresentati al G7 - possiamo sceglierci i governanti, che poi, in occasione di questi appuntamenti, garantiranno gli interessi dei rispettivi paesi. Forse questi vertici servono ad illudere gli stessi sette protagonisti di essere davvero i "grandi", ossia quelli che decidono le sorti del mondo, mentre si tratta, quando va bene, di comprimari più o meno all'altezza, e per lo più di fantocci, messi lì a tenere il posto e ad incassare le critiche.
Perfino le manifestazioni antagoniste e no global, che ormai regolarmente accompagnano questi vertici, servono a far credere che si tratti di appuntamenti importanti, financo decisivi, durante i quali sia indispensabile far sentire la voce del dissenso. Tanto che, se i manifestanti non arrivano spontaneamente, il governo del paese ospitante si impegna ad organizzare una bella manifestazione, pagando qualche black bloc, che ormai hanno trovato il modo di sbarcare il lunario, grazie a questi continui vertici internazionali.
La domanda quindi che dovremmo porci non è a che servono questi vertici dei "grandi"? ma "questi sono davvero i "grandi"?
Io credo che questi vertici dovremmo semplicemente ignorarli, o al massimo considerarli per quello che sono, la vacanza di lusso che un gruppo di persone più o meno note si ritaglia per un paio di giorni all'interno dei propri svariati impegni. Mentre quelli che decidono veramente, quelli che sanno cosa succederà nei prossimi mesi, quelli che determinano nel bene, e soprattutto nel male, come andrà il mondo, sono da un'altra parte, si riuniscono - quando hanno proprio bisogno di farlo - senza convocare i giornalisti e si parlano utilizzando tutti i mezzi che la tecnologia mette loro a disposizione. I grandi capitalisti, i capi delle corporation, i banchieri d'affari governano questo pianeta, ne determinano le scelte di fondo, in molte occasioni decidono i nomi di quelli che noi poi saremo chiamati a ratificare con il nostro voto, in un'illusione di democrazia. Contro questo questi noi siamo chiamati a combattere, contro l'ideologia che questi pochissimi uomini contribuiscono a diffondere, contro il capitalismo, contro le ingiustizie di cui loro sono i garanti, in quanto ne sono i massimi beneficiari.
Naturalmente è una battaglia ben più dura di quella contro il fantoccio di turno, il renzi o il Berlusconi che loro, di volta in volta individuano, perché più in grado di difendere i loro interessi. Però è l'unica battaglia che vale la pena di essere combattuta.

"Il manifesto delle duemila parole" di Ludvìk Vaculìk

In principio l'esistenza del nostro popolo fu minacciata dalla guerra. Poi seguì un triste periodo i cui avvenimenti misero in pericolo la sua esistenza spirituale e il suo carattere. La maggioranza della popolazione aveva accettato con speranza il programma socialista. Ma la direzione dello Stato pervenne nelle mani di uomini inadatti. Il fatto che non avessero sufficiente esperienza negli affari di Stato né conoscenze scientifiche e preparazione filosofica non avrebbe avuto troppo peso se essi avessero posseduto una maggiore dose di comune buonsenso e di decoro, se avessero ascoltato il parere degli altri e lasciato gradualmente il posto ai più capaci.
Il partito comunista, che dopo la guerra godeva della grande fiducia del popolo, la sostituì gradualmente con la burocrazia e ben presto non gli restò altro. Possiamo ben dirlo, perché tra noi comunisti la delusione per i risultati è grande quanto la delusione degli altri.
Una linea di direzione sbagliata trasformò il partito da associazione ideologica in organizzazione di forza, che offriva grandi occasioni a chiunque fosse assetato di potere, al tornaconto dei codardi e delle coscienze poco pulite. Il loro esempio influiva sul comportamento del partito, la cui struttura non permetteva agli individui onesti di far sentire la loro voce senza incorrere in conseguenze, né di contribuire alla sua trasformazione e di adeguarlo al mondo contemporaneo. Numerosi comunisti si batterono contro questo stato di cose, ma non riuscirono a cambiare niente.

La situazione all'interno del partito comunista serviva da modello per un'analoga situazione nello Stato. La fusione tra il partito e lo Stato fece perdere al partito la capacità di ritirarsi dalle responsabilità esecutive. Non era ammesso criticare l'operato delle organizzazioni statali ed economiche. Il Parlamento dimenticò le sue procedure, il governo dimenticò in qual modo si governa, i direttori dimenticarono come si dirige. Le elezioni non avevano alcun significato, le leggi non contavano. Non potevamo aver fiducia nei nostri rappresentanti né in alcun corpo rappresentativo; se la avevamo, essi non erano in grado di fare alcunché per noi. Ma la cosa peggiore era che ormai non potevamo fidarci l'uno dell'altro. Era in declino l'onore personale e collettivo. L'onestà non portava in nessun posto ed era inutile elogiare la capacità. La maggioranza della popolazione aveva perduto ogni interesse per la cosa pubblica e si occupava solo dei fatti propri. I rapporti umani si erano deformati e il popolo aveva cessato di trovare soddisfazione nel lavoro; in altri termini, si era inaugurato un periodo che minacciava l'integrità spirituale e il carattere del popolo.
Dall'inizio di quest'anno stiamo attraversando un processo di rinnovamento e di democratizzazione. Esso è cominciato all'interno del partito comunista. Bisogna dirlo, sebbene tra di noi lo sappiano anche i non comunisti che finora non si attendevano niente di buono. Bisogna aggiungere soprattutto che tale processo non avrebbe potuto essere iniziato altrove. Perché in tutto questo ventennio soltanto i comunisti hanno avuto modo di vivere una qualche vita politica, soltanto la critica comunista era presente nelle cose che si facevano, soltanto l'opposizione nel partito comunista aveva il privilegio di essere in contatto con l'avversario.
Ecco perché l'iniziativa e gli sforzi dei comunisti democratici rappresentano una parte del debito che tutto il partito deve ai non comunisti per averli tenuti in una posizione di inferiorità. Perciò al partito comunista non è dovuto alcun ringraziamento, anche se bisogna riconoscere che si sta onestamente sforzando di approfittare degli ultimi avvenimenti per salvaguardare il rispetto suo e del popolo.
Il processo di rinnovamento non apporta niente di particolarmente nuovo. Avanza proposte e idee che in gran parte sono più vecchie degli errori del nostro socialismo, e alcune altre emergono da sotto la superficie di quel che è visibile. Avrebbero dovuto essere espresse da molto tempo. Ora, non illudiamoci che per il trionfo di queste idee sia stata determinante solo la forza della giustizia. Determinante per la loro vittoria è stata la debolezza del vecchio sistema di direzione.

Ci rivolgiamo a voi con una speranza che ancora oggi è minacciata. Sono dovuti trascorrere alcuni mesi perché molti di noi si convincessero che possono cominciare a parlare, ma molti altri ancora dubitano che ciò sia possibile. Tuttavia abbiamo cominciato a parlare, scoprendo che se vogliamo sviluppare i nostri pensieri non ci rimane che umanizzare questo regime. Altrimenti la vendetta delle vecchie forze sarebbe crudele. Ci rivolgiamo principalmente a coloro che finora hanno atteso. I giorni che arrivano saranno determinanti per molto tempo.
Si avvicina l'estate con le vacanze, durante le quali, secondo le vecchie abitudini, vorremmo dimenticar tutto. Possiamo essere certi che i nostri cari avversari non si concederanno alcuna vacanza, e mobiliteranno tutte le loro forze per trascorrere poi in pace il Natale! Attenzione dunque a quanto accadrà, cerchiamo di comprendere e di agire conseguentemente. Rinunciamo all'impossibile pretesa che ci sia sempre qualcuno in alto pronto a fornire delle cose una sola interpretazione e una soluzione semplice e unica. Ognuno deve trovare la soluzione per conto suo e assumersene la responsabilità. Soluzioni comuni e concordi possono scaturire soltanto dalla discussione basata sull'indispensabile libertà di parola, che in effetti è certo l'unica nostra possibilità democratica per il presente.
Nei prossimi giorni dovremo dimostrare spirito autonomo di iniziativa e di decisione.
In questi ultimi tempi la gente è inquieta perché il processo di democratizzazione si è arenato. Questa sensazione riflette in parte la stanchezza per i molti giorni di eccitazione e in parte corrisponde allo stato delle cose. Quello trascorso è stato un periodo di sorprendenti rivelazioni, di dimissioni di personalità e di appassionanti dibattiti d'insolita audacia. Ma la lotta tra le varie forze è ancora sotterranea, adesso si combatte per il contenuto e per l'applicazione delle leggi, per la portata delle misure pratiche. Inoltre, ai nuovi ministri, procuratori, presidenti e segretari dobbiamo lasciare del tempo perché possano lavorare. Essi ne hanno diritto per poter giustificare o smentire la fiducia riposta in loro. Oltretutto non ci si può attendere miracoli dagli organi politici centrali. Anche se a malincuore, si sono dimostrati meravigliosamente saggi.

Se in questo momento non è possibile attendersi di più dagli organi politici centrali, bisogna ottenere di più nei circondari e nei distretti, specialmente per quanto riguarda i comunisti. Esigiamo che se ne vadano coloro che hanno abusato del loro potere, dilapidato il patrimonio pubblico e agito non da uomini onesti ma da tiranni. Bisogna solo trovare il modo di farli andar via. Ad esempio: con la critica pubblica, con le risoluzioni, con le dimostrazioni, con lo sciopero, con il boicottaggio delle loro iniziative. Ma bisogna rinunciare all'uso di metodi illegali, sconvenienti e grossolani, che essi potrebbero denunciare a Alexander Dubcek, per tentare d'influenzarlo. La nostra avversione per l'invio di lettere insolenti dev'essere tale che essi, ogni volta che ricevono una lettera, devono poterla considerare come se l'avessero scritta loro stessi. Rilanciamo l'attività del Fronte Nazionale. Esigiamo che le riunioni dei comitati nazionali siano pubbliche. Formiamo speciali comitati di cittadini e commissioni per discutere i problemi volutamente ignorati dai dirigenti. La cosa è semplice: alcune persone si riuniscono, eleggono un presidente, stendono dei verbali, rendono note le loro decisioni, ne chiedono l'attuazione e non permettono di venire messi a tacere. Trasformiamo la stampa distrettuale e locale, degenerata in portavoce dell'apparato, in una libera tribuna di tutte le forze politiche; esigiamo che nei collegi redazionali ci siano rappresentanti del Fronte Nazionale, oppure fondiamo altri giornali. Istituiamo dei comitati per la difesa della libertà di espressione. Organizziamo presso tutte le nostre assemblee un servizio d'ordine. Quando sentiamo strani comunicati, verifichiamoli con l'invio di delegazioni presso le autorità competenti e rendiamo pubbliche le risposte ottenute. Appoggiamo i servizi di sicurezza quando agiscono per la repressione della criminalità; la nostra aspirazione non è il caos né l'incertezza generale. Sottraiamoci agli attaccabrighe, non perdiamo la testa per le questioni politiche. Smascheriamo i confidenti e gli spioni.

In questi ultimi tempi si nota una grande inquietudine per la possibilità che potenze straniere interferiscano nel nostro sviluppo. Di fronte alle superpotenze l'unica nostra alternativa è tener duro, senza assumere iniziative. Possiamo garantire ogni sostegno al nostro governo, se occorre anche con le armi, se esso realizzerà il mandato che gli affideremo; e assicureremo i nostri alleati che terremo fede ai trattati di alleanza, amicizia e commercio.
La trascorsa primavera ci ha nuovamente ridato, come dopo la guerra, una grande occasione. Abbiamo di nuovo la possibilità di riprendere in mano la nostra causa comune, che in ogni caso chiamiamo "socialismo", e darle il volto che meglio corrisponda alla buona opinione che un tempo avevamo di noi stessi. La primavera è appena finita e non tornerà mai più. Il prossimo inverno ci chiarirà tutto.
Concludiamo così il nostro proclama agli operai, ai contadini, agli impiegati, agli artisti, agli scienziati, ai tecnici e a tutti gli altri.

domenica 7 giugno 2015

"La ginestra, o fiore del deserto" di Giacomo Leopardi

E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19


Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor nè fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.
al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama se nè stima
ricco d'or nè gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma se di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così, qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto Seren brillar il mondo.
e poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel, profondo
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
sull'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
e se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontano l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch'alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri, per li templi
deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino,
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

Verba volant (192): volgare...

Volgarità, sost. f.

Ci sono molte ragioni per essere preoccupati ed arrabbiati per tutto quello che è emerso - e per quello che emergerà ancora - dall'inchiesta che, grazie ai giornali, ci siamo ormai abituati a chiamare Mafia capitale. Lascia sbigottiti - perfino noi pessimisti cronici - il livello di pervasività raggiunto da questo sistema di corruzione, la sottomissione di moltissimi politici e di tanti funzionari pubblici ai voleri di questa banda criminale, capace di condizionare il voto, di far eleggere e nominare consiglieri, assessori, dirigenti in Comune e in Regione, di determinare le scelte politiche di queste amministrazioni. Ormai non siamo più davanti a fenomeni di ingerenza, più o meno radicata, della criminalità nella politica, ma alla sua sostituzione tout court: è la criminalità che ha preso il posto della politica, che si è fatta sistema. Qui - deve essere ormai chiaro a tutti - non abbiamo a che fare con alcune mele marce, ma con un fruttivendolo disonesto.
Poi mi fa infuriare l'ipocrisia di chi da un lato lucra sull'accoglienza ai migranti, guadagna sulla pelle di questi poveri cristi, attraverso la loro permanenza sine die in centri inadeguati, senza offrire loro alcun servizio, e dall'altro lato sobilla l'opinione pubblica, lamentando che si assegnano troppe risorse a queste persone. Così come mi fanno infuriare quelli che nella mia città affittano in nero le loro case fatiscenti agli extracomunitari, poi si lamentano, quando vengono allo sportello, perché hanno dovuto aspettare, seduti accanto a cittadini stranieri. Sono questi "bravi" italiani che puzzano di carogna e non i "negri" che loro osservano con aria schifata e ipocrita.
C'è però un altro aspetto su cui mi voglio soffermare, apparentemente meno importante, ma - almeno secondo me - non meno significativo. Provate ad ascoltare o leggere le intercettazioni che hanno permesso ai magistrati di scoprire parte di questa rete criminale. Nessuno di questi sembra saper parlare italiano, tutti usano per lo più il romanesco, ogni loro conversazione è infarcita di parolacce e almeno ogni tre parole dicono cazzo. Il livello di queste conversazioni è sempre grossolanamente volgare, quando poi parlano di una donna scendono a un livello ancora più basso.
E non solo i criminali usano un linguaggio che sembra scimmiottato da quello dei protagonisti di Romanzo criminale, ma anche i politici, gli alti funzionari, i presidenti delle cooperative, i professionisti a libro paga, insomma tutti gli interlocutori di queste conversazioni parlano così, in questa nuova lingua franca delle classi dirigenti italiote. Il livello culturale di tutti costoro è una miscellanea nauseabonda del Bagaglino e dei peggiori film dei Vanzina, il loro maitre a penser è il compianto Bombolo, che pure quando non recitava non parlava così. Mi ha colpito la foto di uno di questi criminali, uno dei capi: un selfie con Belen e il fidanzato; per questo cretino il potere è farsi una foto con la starlette vista in televisione, come l'ultimo degli sfigati.
C'è un'opera letteraria che racconta meglio di tutti gli storici antichi la decandenza e la lunghissima fine dell'impero romano: il Satyricon di Petronio. La cena di Trimalcione, il lusso ostentato, l'ignoranza volgare dei personaggi, descrivono una società vanamente opulenta e potente, vincente - come direbbero oggi questi "signori" - ma destinata a morire, perché incapace di memoria, disabituata alla cultura, dimentica di qualsivoglia valore etico. Trimalcione e i suoi compagni di libagioni sono destinati a soccombere non perché moralmente cattivi, ma perché sono stupidi. Oggi non c'è un Petronio a raccontare le cene di questi personaggi, ma dalle intercettazioni emerge lo stesso squallore, la stessa ignoranza, la stessa grettezza, la stessa volgarità. Certo sono vincenti, sono loro a dettare le regole del gioco, ma sono destinati alla sconfitta. E noi con loro, perché quelle intercettazioni raccontano anche com'è davvero questo paese.
Non sappiamo come si svolgevano le conversazioni tra i capi mafiosi e i capi della Democrazia cristiana: non ci sono intercettazioni. In un film di qualche anno fa ha provato a descriverli - credo con una certa verosimiglianza - il regista Paolo Sorrentino: non c'è familiarità tra Andreotti e Riina, certo c'è la condivisione di obiettivi comuni, c'è il bisogno l'uno dell'altro, c'è il potere che li lega, ma non c'è - e non poteva esserci - consuetudine tra persone che parlavano comunque lingue diverse. C'è tra i due un rapporto formale, non la volgare familiarità che lega tutti i protagonisti delle vicende di cui parliamo.
E come Trimalcione raccontava la società dei suoi tempi, così, Carminati, Buzzi e tutti i loro compagni di abbuffate descrivono la nostra società, maschilista, ignorante, che riconosce il denaro come unico fine. Fossero soltanto dei criminali potremmo avere la speranza di scoprirli, arrestarli, condannarli, renderli in qualche modo inoffensivi, ma questi sono lo specchio della nostra società, sono la parte peggiore di noi, raccontano il ventre molle di questo paese. E quindi non è sufficiente eliminare queste persone per rendere l'Italia meno indecente. E' questa volgarità la nostra vera nemica, quello che impedisce al nostro paese di crescere, di scrollarsi di dosso una classe dirigente evidentemente inadeguata al proprio compito, di darsi un obiettivo che non sia avere i soldi sufficienti per comprarsi un'auto di lusso o avere il potere di piazzare in una municipalizzata l'amante di turno. Queste intercettazioni non raccontano un disegno criminale raffinato, ma proprio una serie di comportamenti meschini e di bassezze amorali.
L'unica speranza è che la nostra fine arriverà molto più velocemente di quella dell'impero romano.  

mercoledì 3 giugno 2015

Verba volant (191): indeterminato...

Indeterminato, agg.

Fino a qualche tempo fa una delle conseguenze più tangibili del fatto di avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato - il posto fisso, come si chiamava una volta - era la possibilità di ottenere un mutuo dalla banca, ad esempio per acquistare l'agognata "prima" casa. Per molte persone - anche chi scrive questa definizione - questo è stato il percorso abituale per mettere su famiglia. E infatti uno degli effetti più evidenti della precarizzazione dei rapporti di lavoro e della proliferazione di contratti atipici è stata proprio la difficoltà, per tantissimi ragazzi, di ottenere un finanziamento. Niente contratto a tempo indeterminato, niente mutuo. E, a meno che non intervenissero i genitori, niente casa.
Poi è arrivato il jobs act, ossia - per la propaganda del regime renzista - l'opportunità per tutti di avere finalmente il tanto desiderato contratto a tempo indeterminato, anche se ormai non si parla più di posto fisso. E infatti il pacioso ministro del lavoro di questo tutt'altro che pacioso esecutivo non perde occasione per snoccialare i numeri dei nuovi contratti stipulati in Italia da quando è stata approvata questa nuova legge. Ma perfino il pingue e bugiardo Poletti non si azzarda a dire che all'aumento di questi nuovi contratti a tempo indeterminato corrisponde una crescita di nuovi posti di lavoro. Si tratta semplicemente della trasformazione di contratti a tempo determinato già in essere.
Infatti questo governo, amico dei padroni, ha deciso che per ogni nuova assunzione il padrone godrà di un consistente beneficio fiscale e che potrà licenziare quando vorrà quel nuovo assunto, senza troppe conseguenze, limitandosi a pagare una piccola penale e soprattutto senza essere costretto a una lunga e costosa causa giudiziaria, che finisce per lo più a favore del lavoratore licenziato. Naturalmente i padroni licenziavano anche prima, anche quando c'era l'art. 18, la loro fantasia in questo campo era sfrenata, ma adesso sono infinitamente più liberi, non serve neppure che si sforzino per inventare scuse o per escogitare cavilli contrattuali o per commettere veri e propri reati, come costringere i lavoratori a firmare, insieme al contratto, la lettera di licenziamento in bianco. Grazie al jobs act  ogni nuova assunzione significa per il padrone un guadagno netto, anche calcolando il magro indennizzo dovuto per il licenziamento. Per questo il contratto a tempo indeterminato non corrisponde più al posto fisso, ma solo a una nuova forma di precarietà.
E se il lavoratore neo assunto vuole fare un mutuo? Teoricamente può esibire il suo bel contratto a tempo indeterminato, ma quelli delle banche - che tra l'altro sono molto amici dei padroni e quindi di questo governo - sanno che quell'aggettivo, senza il baluardo dell'art. 18, assume tutto un altro valore. E non si fidano più. Proprio ieri, passeggiando per Parma, mi è capitato di vedere una pubblicità della più grande banca italiana; in questo manifesto è scritto che chi accenderà un mutuo entro il 30 settembre avrà un tasso di interesse particolarmente agevolato, anche se ha un contratto a tutele crescenti. Anche se: ecco la parola chiave che ci fa capire cosa succede a chi chiede un mutuo.
Quindi la regola è che il mutuo a chi ha questo "nuovo" contratto indeterminato non viene più erogato, a meno che la banca non sia particolarmente benigna e non faccia speciali offerte per il periodo estivo. Quindi è cambiata le regola: anche se c'è il contratto a tempo indeterminato, niente mutuo. E, a meno che intervengano i genitori, niente casa. Per altro i genitori possono intervenire sempre meno visto che o sono pensionati o lo stanno per diventare e quindi faticano sempre più ad aiutare i figli.
E quindi cresce una generazione sempre più indeterminata. 

lunedì 1 giugno 2015

Verba volant (190): partito...

Partito, sost m.

Mi lascia una strana sensazione - e ne parlo anche un certo imbarazzo - il triste epilogo umano, prima ancora che politico, di Pier Luigi Bersani, una persona, un compagno, che - nonostante tutto - ho continuato a stimare, anche quando le nostre posizioni politiche sono diventate divergenti, perché una storia non si cancella dall'oggi al domani. Anche una storia di partito; soprattutto del nostro partito.
Bersani è andato nei giorni scorsi a fare campagna elettorale per Raffaella Paita, a Genova, nei quartieri di sinistra in cui le primarie le aveva vinte Sergio Cofferati e dove c'è una maggiore ostilità verso il renzismo, è andato proprio lì perché sapeva - come è stato poi dimostrato dai risultati elettorali - che in quelle zone della città la candidata del pd era più debole, è andato lì per cercare di essere utile al "suo" partito. Il suo appello dell'ultimo giorno non è servito, ma questa è ormai un'altra storia. In questo modo Bersani ha dato un colpo di spugna alla primarie di quella regione, in cui ci sono stati brogli dimostrati, e che la candidata di renzi ha vinto di misura, grazie all'appoggio manifesto di una forza politica del centrodestra come l'Ncd e a quello, sotterraneo e occulto, ma ben più politicamente significativo, degli uomini di Scajola. E Bersani, che queste cose le sa, è andato comunque, per rendersi utile, perché quella roba lì continua a essere il suo partito, e nella sua idea - che del resto è anche la mia - al partito si deve disciplina. O doverismo, come ha detto lo stesso Bersani con un brutto neologismo, per giustificare il suo sostegno a De Luca, che non aveva bisogno di questo appello al voto, che ha finito soltanto per danneggiare l'onorabilità di chi l'ha fatto. 
E' vero, Pier Luigi, la disciplina è importante, però si deve disciplina prima di tutto alle idee. Questo è il nostro primo dovere.
La decisione di Bersani mi lascia perplesso, perché so che nel suo caso non c'è un bisogno "alimentare", Bersani non si è piegato perché deve comunque mandare avanti la famiglia; il conformismo politico a lui non serve per mantenere il posto di lavoro o per garantirsi una carriera, che Pier Luigi ha già fatto. Ne potrei citare tanti che hanno fatto così, ne conosco diversi che sono diventati renziani perché hanno il mutuo e una famiglia da sostenere, l'unico lavoro che hanno fatto in vita loro è la politica e quindi non possono permettersi di perderlo. Così come conosco quelli che sono servi nell'animo e che dicono al potente di turno, chiunque esso sia; anche questo non è il caso di Bersani, evidentemente. Questi sono motivi che non condivido naturalmente, ma che capisco, che sono in qualche modo spiegabili.
Ma Bersani non lo capisco e la cosa mi cruccia. Evidentemente c'è una ragione politica, che però fatico davvero a comprendere, nonostante una comune militanza, nonostante una comune formazione politica. Per me è importante cercare di capire cosa ha spinto Bersani a questa infelice scelta di sostenere - tra l'altro fuori tempo massimo - la candidata dell'uomo che l'ha estromesso dal partito, che lo tratta con plateale sufficienza e che egli giudica pericoloso per una serie di scelte, prima di tutte quelle delicatissime in materia costituzionale, e di appoggiare un candidato ineleggibile e così compremesso come quello che il pd ha schierato in Campania. In sostanza cercare di capire comunque Bersani e la sua apparentemente ottusa fedeltà alla "ditta", credo sia utile anche per capire noi, che quella storia l'abbiamo condivisa.
Immagino che Bersani non voglia staccarsi dai suoi compagni. Questo lo capisco da un punto di vista psicologico: anche a me manca quel partito, il senso di comunità, il fatto di potersi riconoscere in nome di una comune militanza, di un impegno condiviso, di idee e di valori diventati tuoi e insieme di tutti. Mi manca quel modo di stare nel partito e mi manca quella comunità, in cui avevo gran parte dei miei amici. E infatti quando da quel partito mi sono staccato mi ha fatto male. Trasferirmi in un'altra città, sufficientemente lontana da quella dove avevo fatto politica, mi è servito molto per superare questo distacco; e infatti torno sempre malvolentieri a Bologna, anzi se non sono costretto, non ci torno proprio, perché lì questa separazione si sente più forte. E per lo stesso motivo non vado alle "loro" feste, neppure per salutare gli amici che sono rimasti lì. Naturalmente ciascuno di noi vive quel rapporto in maniera diversa - perché ognuno di noi è diverso - ma ve l'ho raccontato per dire che per molti noi la politica è questa cosa qui, l'abbiamo vissuta così, con questa intensità; e così ancora la viviamo.
In questi anni in cui ho smesso di fare politica la rete e l'impegno di scrivere con una certa regolarità su questo blog mi hanno aiutato un po' a ricostruire una comunità, simile a quella che noi abbiamo conosciuto solo fino a qualche anno fa, ma è oggettivamente diverso, perché questo strumento è diverso dalla "cosa" in cui noi abbiamo vissuto. La rete non è il partito. Il gruppo di amici che commenta e condivide quello che scrivo non è la mia sezione, anche se allora non ho mai avuto tante persone ad ascoltarmi quante ne ho adesso. Non è una questione di quantità, ma di qualità, fatto salvo che sono ovviamente felicissimo che voi ci siate. Quindi posso intuire la difficoltà di Bersani di staccarsi da tutto questo.
Continuo però a non capirlo, almeno per due ordini di ragioni.
Prima di tutto la comunità che è diventata adesso il pd - per quello che posso intuire, guardandoli da fuori - mi sembra molto diversa da quella che noi abbiamo conosciuto, che abbiamo costruito e che - va detto, per onestà intellettuale - abbiamo contribuito a distruggere. E' volutamente una cosa diversa. L'enfasi sulle primarie, la decisione di utilizzare questo strumento per scegliere non solo i propri candidati nelle istituzioni, ma perfino gli organismi dirigenti, a partire dal segretario, è la negazione in nuce dell'idea di partito. Il pd è nato per non essere più quel partito che abbiamo conosciuto e con l'ambizione di essere un'altra cosa ed infatti è diventato un'altra cosa: di fatto il pd è la struttura che amplifica e diffonde la propaganda del leader, che ne difende le scelte e che gestisce sui territori il potere - per altro sempre meno - che il leader gli concede. Siamo lontanissimi dall'idea dei partiti come libere associazioni di cittadini legati da comuni valori, a cui noi siamo ostinatamente legati e che trova legittimazione nell'art. 49 della Costituzione.
Peraltro, come è evidente osservando anche i risultati di questa recentissima tornata elettorale, un partito strutturato così è preda, a livello locale, delle forze peggiori della società, di gruppi di potere, di lobbies, della criminalità organizzata. Il pd dove vince, ad esempio nelle regioni del Mezzogiorno, è ostaggio di boss locali, di gerarchi sempre più autonomi, di figuri che si sono costruiti la loro rendita di posizione e la mettono sul mercato. In queste regionali non ha vinto il pd, ma hanno vinto i vari De Luca, Emiliano e compagnia cantante, gente con nessuna etica, personaggi che, forti dei loro voti, della loro rete di affari e, temo, capaci di ricatti inconfessabili, tengono per le palle - peraltro non proprio d'acciaio - il povero renzi. E la situazione degli altri partiti "tradizionali" non è certo migliore.
Anche su questo punto credo che occorra essere onesti. Quell'idea di partito è morta e qualsiasi tentativo di ricostruirlo dall'alto è destinato al fallimento. Anche per questo noi che siamo cresciuti con quell'idea facciamo sempre più fatica a fare politica in questi tempi tristi, perché ci muoviamo con schemi che non esistono più e che forse non esisteranno più nel modo in cui li abbiamo conosciuti. Per questo noi siamo fatalmente inadeguati e dobbiamo aspettare una nuova generazione che sia in grado di risollevare una storia che noi abbiamo distrutto.
La cosa che però mi sembra più grave nel ragionamento di Bersani - e di quelli come lui - mi pare lo scarto tra il mezzo e il fine. Per quanto il partito sia importante - e lo è anche per me, naturalmente - dobbiamo ricordare che il partito è lo strumento che una parte della società, quella più debole - per quanto numericamente più consistente - si è data per difendersi dagli attacchi della parte più forte, più ricca, più potente. Il partito è lo strumento con cui combattiamo la guerra di classe che i ricchi hanno da sempre scatenato contro di noi. Se però perdiamo di vista questo contesto, se perdiamo di vista questo obiettivo, se dimentichiamo i valori e le idee, magari interiorizzando quelle del nemico - come abbiamo fatto progressivamente noi in questi ultimi trent'anni - allora lo strumento diventa fine a stesso, diventa soltanto per alcune persone un mezzo di promozione sociale o un'occasione per arricchirsi o per dare sfogo alla propria sete di potere.
Proprio questo progressivo slittamento verso l'ideologia neoliberista, questa incapacità di ammettere che abbiamo sbagliato in questi anni, questa ostinazione a non volersi fermare per cambiare finalmente strada è quello che sta progressivamente allontanando una parte di cittadini dalla politica, che fa commettere a Bersani questi gesti che appaiono meschini,  che contribuiscono a costruire un fossato sempre più profondo tra persone che hanno militato insieme. Penso spesso a quegli anni, cerco di ricordare qual è il momento in cui ci siamo persi definitivamente, in cui non potevamo tornare indietro. E probabilmente non c'è un fatto così, ma è la somma di tanti piccoli passi verso l'abisso che ciascuno di noi ha fatto. Ci sembravano irrilevanti, pensavamo che avremmo potuto tornare indietro e invece il burrone ci ha inghiottiti.
Ricordo bene un discorso che fece proprio Bersani, ormai molti anni fa, in un incontro a Milano, prima che nascesse il pd, in un passaggio delicato, quando ci schierammo contro Cofferati, perché ci sembrava volesse bloccare un percorso che invece sarebbe stato meglio fermare. Tra le altre cose disse più o meno (scusate, la memoria può giocare brutti scherzi): la sinistra esiste in natura, perché, dal momento che esistono le diseguaglianze, le ingiustizie, le differenze, la sinistra c'è - c'è necessariamente - per ristabilire l'uguaglianza, la giustizia, la parità. Lo disse anche Mauro Zani (questo lo ricordo meglio), anni dopo, quando tentò, con coraggio e con ostinazione, di opporsi alla nascita del pd. A quel punto credo che ormai non ci fosse più niente da fare, anche perché molti di noi l'avevano data per persa. E' vero, la sinistra esiste in natura; io a quell'idea sono rimasto fedele.