lunedì 31 agosto 2015

Verba volant (109): giusto...

Giusto, agg.

In questi giorni Benjamin Netanyahu ha detto che la guerra di Israele contro Hamas è giusta. Da un certo punto di vista mi auguro che sia sincero, che ci creda davvero, perché se avesse scatenato quel conflitto solo per ragioni politiche o economiche o peggio elettorali, sarebbe il segno che non c’è limite alla malvagità umana. Ma per un altro verso spero stia mentendo, che sappia anche lui che quella guerra non è giusta, in questo caso infatti sarebbe probabilmente più facile fare la pace. Con un malvagio che si muove solo in base al proprio interesse, al proprio tornaconto, è più semplice trovare un accordo che con un onesto fanatico. Comunque sia, anche per Hamas la guerra contro Israele è giusta, anzi è addirittura santa. In fondo, da sempre, ognuno pensa che la propria guerra sia giusta.
Noi facciamo fatica ormai a considerare giusta una guerra, qualsiasi guerra; probabilmente anche chi è più vicino alle posizioni di Israele, chi giustifica le scelte di quel governo, in base al diritto di quel popolo di difendersi e di tutelare la propria sicurezza, non è disposto a sottoscrivere con la stessa enfasi le parole di Netanyahu.
Per la nostra sensibilità la guerra è ingiusta, sempre, anche perché abbiamo avuto la fortuna di nascere e di crescere in paesi che da decenni non conoscono un conflitto. E noi personalmente non abbiamo conosciuto la guerra, un’esperienza che invece ha toccato, drammaticamente e profondamente, i nostri genitori, i nostri nonni prima di loro e tutti i nostri avi. Noi siamo la prima generazione senza guerra.
Eppure anche noi siamo stati educati nel mito di una guerra giusta, che effettivamente è stata tale. La seconda Guerra mondiale è stata combattuta contro i fascismi e noi abbiamo imparato a credere nella bontà di quel conflitto, sia vedendo i film americani sia ascoltando le storie dei partigiani. Io non ho alcun dubbio che quella guerra sia stata giusta, non so se avrei avuto allora il coraggio di combatterla, ma quella era una guerra che bisognava fare. L’ultima guerra di cui si può dire questo.
La nostra Repubblica nasce da quella guerra, la nostra Costituzione - per cui in questi giorni siamo preoccupati e che vorremmo difendere contro gli attacchi scomposti ed eversivi che le arrivano da tante parti - è nata da quella guerra. Eppure in quella stessa Costituzione si dice che l’Italia “ripudia” la guerra. Questo verbo non è stato scelto a caso dai Padri - e dalle Madri - Costituenti: nella nostra lingua è più forte di rifiutare o condannare. C’è una sorta di contraddizione etimologica nell’art. 11, perché nel verbo ripudiare c’è la radice del termine latino pes, pedis, intendendo quindi che la cosa ripudiata è allontanata, respinta con i piedi, con un calcio. Si deve usare una parola che ha una radice di violenza, anche fisica, per indicare il nostro rifiuto totale della violenza della guerra.
Non è facile spiegare come siamo arrivati fin qui, come siamo arrivati alla scelta di quel verbo ripudiare, come siamo arrivati in sostanza all’idea che la guerra non può essere mai giusta. Non bastano a giustificare questo mutamento gli orrori del conflitto, il numero delle vittime, anche civili, la tragedia della Shoa, che pure è un elemento che ha inciso in maniera profonda nelle nostre coscienze.
Anche durante la prima Guerra mondiale le vittime civili raggiunsero un numero incalcolabile, le “nuove” armi provocarono morti e distruzioni fino ad allora impensabili - la Grande guerra è stato un conflitto completamente diverso da quelli dei secoli passati - eppure pochi anni dopo la prima c’è stata la seconda Guerra mondiale, perché l’orrore non è stato sufficiente e, a parte i sogni di alcuni utopisti, la pace non è riuscita a diventare un valore.
C’è una battuta illuminante scritta da Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità.
Quando uno dei suoi personaggi, l’Ottimista, comincia a dire
I popoli impareranno dalla guerra…
il Criticone lo interrompe:
… a non dimenticare di farla di nuovo.
Alla fine della seconda Guerra mondiale le cose sono cambiate. Io credo fondamentalmente per una ragione. Perché quella guerra, giusta - santa, se mai una ce n’è stata una da meritarsi un tale aggettivo - è stata conclusa con qualcosa di profondamente ingiusto, le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Quei due ordigni hanno dimostrato, una volte per tutte, che il sostantivo guerra e l’aggettivo giusta non possono più essere legati.
Tra l’altro questo richiama alla storia etimologica di questo aggettivo, in cui si riconosce la radice indoeuropea yu, che significa appunto legare; è la stessa ad esempio che si ritrova nella parola giogo. Perché lo jus, la giustizia, è ciò che unisce gli uomini. E la guerra è ciò che li divide.

prima pubblicazione 30 luglio 2014

domenica 30 agosto 2015

da "Racconti di uno" di Erri De Luca


Vogliono rimandarci, chiedono dove stavo prima,
quale posto lasciato alle spalle.

Mi giro di schiena, questo è tutto l'indietro che mi resta,
si offendono, per loro non è la seconda faccia.

Noi onoriamo la nuca, da dove si precipita il futuro
che non sta davanti, ma arriva da dietro e scavalca.

Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo.
Nemmeno gli assassini ci rivogliono.

Rimetteteci sopra la barca, scacciateci da uomini,
non siamo bagagli da spedire e tu nord non sei degno di te stesso.

La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi,
nostra patria è una barca, un guscio aperto.

Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata.

venerdì 28 agosto 2015

Verba volant (209): anti...

Anti, pref.

E così renzi ha scoperto che tutti i mali dell'Italia vengono da questi vent'anni di berlusconismo e di antiberlusconismo, mettendo tutto e tutti sullo stesso piano. Perché lui è l'uomo nuovo, capace di superare e di fare sintesi degli opposti: e infatti è stato caldamente applaudito da quelli di Cl, che si ricordano bene di essere stati berlusconiani fino a ieri e hanno voglia di espiare questa loro "colpa", per continuare a lucrare con i loro affari, più o meno leciti.
Effettivamente l'antiberlusconismo dei guai ne ha fatti parecchi in questo paese. Io ho la sfortuna di avere una buona memoria e mi ricordo un giovane bolognese, senza particolari virtù, che a un certo punto si mise a capo di un comitato della "società civile" per difendere l'informazione pubblica televisiva contro il predominio e lo strapotere di Berlusconi; grazie a quel comitato, fieramente antiberlusconiano, che il partito ovviamente sostenne, quel giovane - ormai anche lui credo comincerà, come me, ad avere i primi capelli grigi - ha fatto un'imprevedibile carriera politica e adesso è uno dei capi indiscussi dei renziani di Bologna. E magari ora spiegherà anche lui, come il suo capo, che occorre superare l'antiberlusconismo, grazie al quale ha goduto - e gode - di prebende che mai avrebbe potuto ottenere grazie alle sue sole qualità. E così ce ne sono molti altri come lui: mi spiace, ma vi ricordo tutti.
Allo stesso modo, tempo prima, ci avevano spiegato, con altrettanta sfrontata sicumera, che la distinzione tra fascismo e antifascismo era una cosa superata, che era una roba del passato, del Novecento. Andatelo a spiegare agli ungheresi che i fascisti non ci sono più, visto che loro li hanno al governo e costruiscono i muri di filo spinato. Andatelo a spiegare a quegli stranieri che sono stati picchiati dai militanti di Alba dorata, andatelo a spiegare a Stefano Cucchi e a Federico Aldrovandi che i fascisti non ci sono più nelle istituzioni del nostro paese. Io fino a quando vivrò continuerò a dire che sono antifascista, perché quella parola lì non dice solo cosa non sono, ma dice anche cosa sono, quali sono i miei valori, valori di cui vado orgoglioso. Peraltro i fascisti sono tornati con tale prepotenza, proprio grazie al fatto che in tanti hanno cominciato a dire che fascismo e antifascismo sono idee superate: per questo non possiamo abbassare la guardia.
Per la stessa ragione credo di aver fatto bene in questi vent'anni a essere antiberlusconiano - lo rivendico - perché Berlusconi e i suoi alleati hanno rappresentato la parte peggiore di questo paese, sono quelli che ci hanno trascinati nella merda in cui si troviamo adesso. Anzi mi dovete ringraziare di essere stato antiberlusconiano: è anche grazie all'antiberlusconismo se nel '96 siamo riusciti a dare a questo paese, seppur per un tempo troppo breve e con limiti innegabili, uno dei migliori governi che abbia mai avuto.
Poi l'antiberlusconismo non bastava - e troppe volte ce lo siamo fatti bastare. Solo perché erano antiberlusconiani ci siamo alleati con un pezzo di destra, abbiamo perfino cominciato a dire che Montanelli dopotutto non era così male, mentre è stato per tutta la vita un coerente anticomunista, che ha sostenuto le cose peggiori - compreso Berlusconi, finché non l'ha licenziato - in nome di un'ottusa, livida e retrograda ostilità verso la sinistra. Proprio perché eravamo acriticamente antiberlusconiani abbiamo raccolto un po' di tutto, in nome di una fantomatica alleanza repubblicana, e oggi molta di questa feccia lì è finita nel pd di renzi. Per essere antiberlusconiani abbiamo finito per dimenticare di essere di sinistra e anche di questo ha approfittato il fantoccio di Rignano per scalare il partito, grazie anche a quell'antiberlusconosmo che adesso gli va così così stretto. Perché alla fine la destra va a destra, per natura.
Pur con questi limiti, che ovviamente non sono quelli a cui si riferisce renzi in questa sua sparata qualunquista, io sono ancora antiberlusconiano, non solo perché credo nei valori costituzionali, in cui Berlusconi e i suoi non hanno mai creduto, ma soprattutto perché mi sento antropologicamente diverso da un berlusconiano. E anche migliore. Non dobbiamo avere paura di usare questa parola: in questi vent'anni noi abbiamo rappresentato un'Italia migliore di quell'Italia maschilista, clericale, autoritaria, disonesta che ha votato per Berlusconi perché Berlusconi la rappresentava in maniera così plateale e sfacciata, senza alcun infingimento. I democristiani avevano sempre fatto finta di essere migliori dell'Italia che votava per loro, Berlusconi invece ha chiesto di essere votato proprio in nome della sua immoralità e la maggioranza degli italiani l'ha votato perché faceva schifo come loro. E in tanti sarebbero pronti a rivotarlo, perché continuano a fare schifo allo stesso modo.
Naturalmente adesso molti di loro preferiscono votare renzi, perché capiscono che in fondo è come loro, ma non è così volgare, e poi è giovane, ha tempo per garantire i loro affari, i loro privilegi, le loro rendite, la loro corruzione.
Per questo io adesso non ho problema a dire di essere antirenziano, anche se tra qualche anno verrà qualche solone a spiegarci che abbiamo sbagliato ad essere antirenziani, anzi che proprio questo antirenzismo ha rovinato il paese. No, il paese lo avete rovinato voi e continuate a farlo, voi che avete usato prima i fascisti e poi i democristiani, che avete usato Berlusconi e che ora usate renzi. Con l'unico obiettivo di impedire la crescita democratica di questo paese, per difendere le vostre ricchezze, per difendere il vostro potere. Per questo dobbiamo continuare ad essere anti-voi.

martedì 25 agosto 2015

Verba volant (208): sindaco...

Sindaco, sost. m. e f.

Renato Zangheri è stato uno studioso di economia, uno storico del movimento socialista, un dirigente politico di primo piano del Pci, capogruppo alla Camera negli anni immediatamente successivi alla morte di Enrico Berlinguer - anzi, in quei tragici giorni di giugno dell'84, fu uno dei pochissimi a cui si pensò come possibile segretario generale del partito - ma è stato soprattutto il sindaco di Bologna - così in tanti lo hanno ricordato nei giorni scorsi - dal 1970 al 1983, anni difficili, drammatici, per quella città. E per il paese.
Di questo, ossia del sindaco, vorrei parlare anch'io, benché Zangheri l'abbia conosciuto e apprezzato soprattutto grazie ai suoi libri. Poi ho avuto la fortuna di incontrarlo di persona, diverse volte, quando io ero un funzionario di provincia e lui era Zangheri - Zangheri e basta - e ricordo l'estrema gentilezza, la cortesia un po' fuori del tempo di quel professore aristocratico e comunista.
In tanti hanno fatto dei paragoni con il tempo presente. Francamente credo sia sciocco confrontare le persone: rischia di essere non solo ingeneroso per quelli che - a volte anche indegnamente - si sono seduti su quello scranno, ma soprattutto irrispettoso verso di lui. Come sarebbe stato sciocco fare dei paragoni tra lo stesso Zangheri e Dozza, tra quel professore dai toni pacati e l'eroe della guerra di Liberazione.
Credo sia utile invece provare a confrontare il contesto, in particolare il rapporto tra la società e la politica, a Bologna e in Italia, proprio a partire dalla figura del sindaco, di quel sindaco; anche per provare a trarne un qualche insegnamento, e non solo per fare un'operazione di mera nostalgia.
Ovviamente oggi in giro di Zangheri non ce n'è nessuno, ma immagino che, se ci fosse, non diventerebbe mai sindaco, non vincerebbe mai le primarie, e noi dovremmo continuare a scegliere tra gli scartini che abbiamo in mano. Questa differenza non sta ovviamente in un limite di comunicazione, in una diversa capacità di saper usare i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, il problema non è che Zangheri oggi non saprebbe "bucare lo schermo", come si dice con una brutta espressione, o non avrebbe la capacità di interagire nel mondo social, quello che cambia - e che rende Zangheri e quelli come lui così drammaticamente inattuali - è il fatto che loro non ragionavano solo per l'oggi, come invece fanno i politici con cui ci confrontiamo quotidianamente.
Quelli erano uomini dai pensieri lunghi, non solo perché avevano a disposizione molto tempo per sviluppare le proprie politiche - Zangheri ha governato Bologna per tredici anni e avrebbe potuto continuare ancora per un po', di fatto doppiando il tempo che adesso ha a disposizione un sindaco "moderno" - ma perché per loro quella era la dimensione della politica. Guido Fanti, che ha preceduto Zangheri a Palazzo d'Accursio, ha governato la città per soli quattro anni, eppure le scelte fatte da quell'amministrazione hanno "progettato" Bologna per i decenni successivi. E' proprio questa prospettiva che oggi manca alla politica e che allora invece era normale avere, perché la politica era fatta di tempi lunghi e non era usa-e-getta come quella in cui noi abbiamo la sfortuna di vivere. Riguadagnare tempo alla politica credo sia la prima lezione che dovremmo imparare per riconquistarla, per farla tornare al posto che le spetta. Perché se la politica smette di essere visione, se smette di immaginare il futuro, magari con la voglia di cambiarlo, finisce per essere la schifezza che è oggi.
Zangheri, a differenza di quello che fa l'attuale sindaco di Bologna, di quello che fanno tutti i sindaci di tutte le città, piccole e grandi, non inseguiva una popolarità dettata dai sondaggi, ma un'ideale e aveva le idee per realizzarlo. Perfino le scelte che oggi, con la nostra lente deformata, rischiamo di vedere come meramente populiste erano figlie di un ragionamento complesso. In uno dei ricordi più belli e più intellettualmente densi, scritto all'indomani della morte di Renato Zangheri, Fausto Anderlini ci ha spiegato come la scelta di rendere gratuito il trasporto pubblico, che oggi ci può sembrare una trovata elettorale, fosse legata allo studio e alle riflessioni del Zangheri professore delle tesi economiche di Sraffa e di Boccara, al tentativo di mettere in pratica un modello di sviluppo economico diverso da quello capitalista. Era a suo modo rivoluzionario Zangheri, perché era comunista, comunista italiano certo, con tutto quello che significò in quegli anni, nel bene e nel male - socialdemocratico direbbe, con ragione, qualcuno - ma comunque aveva l'obiettivo di immaginare un modello di sviluppo diverso, avendo la possibilità politica, oltre che gli strumenti intellettuali, per farlo. Adesso mi pare francamente che questa capacità di unire teoria e prassi, riflessione e azione, sia decisamente caduta in disuso, l'importante - lo vediamo anche nell'attuale classe dirigente - è fare, non importa cosa, basta fare, muoversi in fretta, non stare fermi. E, sia detto senza polemica, forse Zangheri e quella generazione di amministratori là erano più "rivoluzionari" di quelli che andavano in piazza a contestarli e che oggi spesso votano a destra.
Per inciso rileggere le scelte politiche di quell'amministrazione, di quelle amministrazioni, ad esempio riferito al tema dei servizi pubblici - che si volevano universali, gratuiti, di qualità - a quello che ancora non si chiamava welfare, ma che pensava davvero al benessere delle donne e degli uomini - e delle bambine e dei bambini - fa capire cosa significa davvero la parola riformismo, che adesso viene usata indifferente a destra come a sinistra e ha perso ogni carattere. Oggi riforme non significa più niente, mentre per uomini come Zangheri, che riformisti lo erano davvero, era una parola piena di senso. Ecco noi dobbiamo riconquistare anche questo senso, perché riforme è una parola nostra, le riforme servono per fare stare meglio le persone, tutte le persone, a partire dagli ultimi, dai poveri, da chi è partito in ritardo o è rimasto indietro. Le riforme non sono tali se, come quelle di renzi, servono ai ricchi per diventare ancora più ricchi.
Poi c'è un'altra cosa che immediatamente si percepisce come una differenza di sostanza tra ieri - o l'altro ieri - e oggi. Zangheri era certamente un sindaco autorevole, una persona capace di condizionare le scelte delle persone che stavano intorno a lui, ma non era l'uomo solo al comando, di cui sembra nutrirsi la politica nei giorni nostri. Zangheri era Zangheri anche perché c'era un partito forte e autorevole dietro e di fianco a lui, un partito fatto da migliaia di iscritti, un partito che promuoveva le persone, le faceva partecipare, le formava, chiedeva il loro parere, le faceva essere partecipi di un progetto di governo. Quell'amministrazione funzionava così bene non solo perché Zangheri era un bravo sindaco, ma perché c'era una città, una comunità che funzionava bene, che si prendeva cura della cosa pubblica, che partecipava alle scelte, che condivideva una speranza e lottava per realizzarla. Per questo anch'io posso dire di aver conosciuto Zangheri: l'ho conosciuto attraverso le persone di quella generazione con cui ho avuto la fortuna e l'opportunità di lavorare, attraverso quelle compagne e quei compagni, attraverso un modo di fare politica, un impegno volontario e diretto per gli altri. E' impossibile astrarre l'esperienza politica e amministrativa di Renato Zangheri dalla storia della città, della sua città, dalla storia del partito, del suo partito, un partito che si identificava con la città, che la amava.
E che questo legame profondo esistesse lo testimonia prima di tutto il fatto che era riconosciuto dai nemici, da quelli che volevano spezzare la resistenza della città e che misero la bomba nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione: strage fascista e strage di classe, attentato a Bologna, a quella Bologna di sinistra, che funzionava, che dimostrava che qualcosa di diverso era possibile, grazie all'impegno solidale di tanti, attentato a cui i bolognesi, grazie anche a Zangheri, reagirono con un dolore composto, con una rabbia operosa, benché le ferite siano rimaste e abbiano cambiato per sempre e nel profondo la città.
Nessuno può realmente pensare di tornare a quel tempo - se qualcuno ci crede o è un illuso o mente - ma riscoprire quello spirito solidale e partecipativo, quella voglia e quella capacità di prendersi cura delle città, come dell'intero paese, e degli altri, riappropriarsi della politica come una cosa bella e utile è l'unica condizione per sperare che qualcosa cambi, per sperare di non essere condannati a vivere questo eterno presente così nauseabondo.

domenica 23 agosto 2015

"Ora sono morti" di John Dos Passos


Questa non è una poesia
sono due uomini in grigie casacche di detenuti.
Un uomo siede guardandosi la carne malata delle mani
- mani che non hanno lavorato per sette anni.
Ma tu lo sai quant'è lungo un anno?
Lo sai quante ore ci sono in un giorno
quando il giorno è ventitre ore su una branda in una cella
in una cella in una fila di celle in un braccio di file di celle
tutte vuote del soffocante vuoto di sogni?
Tu li conosci i sogni di uomini in carcere?
Ora sono morti.
I neri automi hanno vinto.
Loro sono completamente bruciati.
Le loro carni sono passate nell'aria del Massachusetts
i loro sogni sono passati nel vento.
"Ora sono morti", dà di gomito la segretaria
del governatore al governatore.
"Ora sono morti", dà di gomito il giudice della Corte d'Appello
al giudice della Corte Suprema.
"Ora sono morti", dà di gomito il rettore dell'università
al rettore dell'università.
Una risata secca sale da tutti i morti,
morti in colletto bianco, morti in cappello da seta;
morti in mantello.
Salgono e scendono dalle automobili
respirano a fondo con sollievo
mentre vanno su e giù per le strade di Boston.
Essi sono liberi dai sogni.
Dai sudici panni del carcere
le loro voci esplodono in mille linguaggi
cantando una canzone
da far scoppiare i timpani al Massachusetts.
Scrivici su una poesia se te la senti!

mercoledì 19 agosto 2015

Verba volant (207): museo...

Museo, sost. m.

A onor del vero credo sia la prima volta che in questo paese si apre una qualche discussione, seppur ferragostana, seppur relegata nelle pagine interne dei giornali - perché in prima può starci solo la Boschi in bikini - sulla nomina dei direttori dei principali musei italiani e sarebbe anche una cosa positiva - Dio sa quanto bisogno ci sarebbe di discutere in maniera approfondita di cultura nel nostro paese - se non fosse che si sentono quasi esclusivamente delle incredibili stupidate. Da far girare la testa, e non solo la testa.
Capisco - anche se non giustifico - quelli che sono stati esclusi o che si sentono esclusi - quasi sempre le due categorie non coincidono - immagino che abbiano da criticare, nel merito e nel metodo, la scelta fatta dal ministero. Anche se, per carità di patria, farebbero meglio a stare zitti; spesso questi che criticano hanno già dato cattiva prova di sé in ruoli analoghi e anzi tanto più strillano tanto più sono stati direttori, assessori, curatori incapaci e insipienti.
Quelli che invece proprio non riesco a sopportare sono quelli che criticano la scelta perché dei venti nominati sette sono stranieri. Mi spiegate per quale arcana ragione solo un italiano potrebbe dirigere un museo italiano? Curioso poi è l'atteggiamento di questi nazionalisti in servizio permanente effettivo che plaudirebbero se un italiano fosse chiamato a dirigere un museo tedesco e invece deplorano come un'offesa alla dignità italiota se avviene l'inverso. Per professioni come queste non esiste il criterio della nazionalità, perché la cultura, come l'arte e la scienza, non ha nazionalità. Il direttore del Cern di Ginevra dovrebbe essere svizzero solo perché quel centro di ricerca si trova nella confederazione elvetica? E magari proprio originario di uno dei cantoni francofoni, per non urtare la loro sensibilità etnica. E un direttore d'orchestra deve essere nato nella città in cui ha sede l'orchestra che dirige? Pensate che in Lombardia potrebbero esserci solo musicisti leghisti. C'è anche un dato meramente statistico: visto che l'Italia detiene da sola quasi il 50% del patrimonio artistico mondiale, solo noi italiani, che siamo così pochi, dovremmo essere incaricati di occuparcene? E uno studioso tedesco o francese o addirittura cinese non potrebbe mai sperare di diventare direttore di un museo italiano, solo perché tale carica deve essere assegnata per forza a un nostro compatriota?
La questione non è la nazionalità di chi è chiamato a dirigere questa o quella istituzione culturale o scientifica, ma la sua competenza. Ora di questo non posso davvero dire nulla, non conosco nessuno di questi venti, o meglio ho la fortuna di conoscerne uno, perché bolognese e perché è un collega comunale. Lui so che è bravo, molto bravo, e farà bene a Caserta come ha fatto bene a Bologna, ma, con questa eccezione, visto chi ha scelto queste venti persone, non ho una grande fiducia nel risultato finale di questa selezione, di cui peraltro non sono chiarissimi i criteri e gli obiettivi. Il problema non è avere sette direttori stranieri, il problema vero è avere il ministro italiano. Il problema sono i consigliori, tutti rigorosamente italiani, del ministro. Magari potessimo avere al ministero tutti giovani - donne e uomini - provenienti dall'estero, non cresciuti in questa burocrazia asfittica e melmosa, non figli di, non amici di, non iscritti a, ma soprattutto potessimo avere persone capaci di sapere cosa succede nel mondo e non solo in tre o quattro ristoranti di Roma. E magari finalmente un ministro che un po' ne capisce, di politica e di cultura.
Il tema non è sapere se questa o quella persona è in grado di dirigere un museo, o almeno non è la più importante. Fondamentale è decidere che musei vogliamo, e investire di conseguenza. Il museo deve essere una struttura viva, in cui si fa conservazione, ma anche ricerca. E si fa di tutto per mettere a disposizione del pubblico, di tutto il pubblico, il patrimonio di quel museo.
I nostri musei si chiamano così perché così si chiamava il Museo - con l'iniziale maiuscola - che Tolomeo I e i suoi successori vollero costruire ad Alessandria come luogo di incontro tra studiosi, tra persone care alle Muse appunto, e come luogo di insegnamento. Peraltro il Museo era cosmopolita, come lo era la città che lo ospitava, perché quei sovrani vollero che vi arrivassero studiosi, artisti e scienziati di tutte le parti del mondo. Ed era felicemente promiscuo e contaminato, perché arte e scienza devono convivere, anche nel tempo moderno delle iperspecializzazioni. Certo anche nel Museo di Alessandria, al cui interno si trovava la grande biblioteca, la conservazione era importante, ma non era nato per questo, tanto che è stato distrutto, è andato a fuoco - e in quel rogo, o quei roghi, noi abbiamo perso tante opere degli antichi - ma quella distruzione non ha potuto distruggere la cultura di quei sapienti. E noi siamo figlie e figli di quella cultura, nonostante i roghi, perché il loro insegnamento è arrivato fino a noi. Perché la cultura la fanno le donne e gli uomini, non solo i libri, i quadri, le opere d'arte, per quanto splendidi, per quanto preziosi. E la fanno soprattutto quelli che con il loro lavoro riescono ad insegnare agli altri, ai loro contemporanei e a quelli che verranno dopo di loro.
A Eike Schmidt e ai suoi nuovi colleghi forse non potremo chiedere questo, perché si troveranno legati in una pania di regole assurde, di vincoli solo formali, perché avranno a disposizione poche risorse e un personale spesso demotivato, deliberatamente voluto così, perché non valorizzato, non riconosciuto, non pagato in maniera sufficiente. A loro non possiamo chiedere di cambiare il mondo, ma almeno di offrirci dei musei più simili a quelli che si vedono nelle città europee. Capire invece che tipo di museo vogliamo riguarda tutti noi, perché riguarda la politica - e quindi escludiamo Franceschini e i suoi complici - riguarda che idea abbiamo di società e di futuro.

domenica 16 agosto 2015

da "Satyticon" di Petronio

Dov'è ora la tua irascibilità, dove la tua prepotenza? Eccoti qui in balia dei pesci e delle belve e tu, che fino a poco fa vantavi la potenza del tuo dominio, di una nave tanto grande, dopo il naufragio, non hai neppure una tavola. Avanti, ora, mortali, e riempitevi il petto di idee grandi! Avanti, con le vostre precauzioni, e programmate un uso che duri mille anni per le ricchezze procacciate con la frode! Senza dubbio costui ancora ieri fece il bilancio del suo patrimonio, senza dubbio fissò in cuor suo anche il giorno in cui intendeva far ritorno in patria. Dei e dee, come lontano dalla sua meta egli giace! Ma ai mortali non sono solo i mari che danno questa bella prova di lealtà. Quello, mentre combatte, le armi lo piantano in asso, quell'altro, mentre espleta i doveri sacrificali agli dei, vien sepolto dalla rovinosa caduta dei suoi penati. Quello, caduto dalla vettura, resta per sempre senza fiato, lui che si affannava per far presto, il cibo strozza chi è ingordo, il digiuno consuma chi è astinente. A ben fare i calcoli, da ogni parte c'è un naufragio.

venerdì 14 agosto 2015

"Tra tutte le opere" di Bertolt Brecht


Tra tutte le opere
io prediligo quelle usate.
I bacili di rame ammaccati, appiattiti sugli orli,
le forchette e i coltelli dai manici di legno
che molte mani hanno logorato: queste mi parvero
le più nobili forme. Così anche i selci
che circondano le vecchie case,
smussati dai molti piedi che li calpestarono,
coi ciuffi d'erba che vi crescono in mezzo: queste
sono felici opere.

Entrate nell'uso molteplice, sovente variando aspetto,
migliorano la loro guisa, si fanno pregevoli
perché sovente saggiate.
Persino i frammenti di sculture
con le loro mani mozze m'incantano. Per me
vissero anch'essi. Furono portati anche se poi lasciati cadere.
Anche se travolti stettero pure a non grande altezza.
Gli edifici mezzo diroccati
riprendono l'aspetto di maestosi disegni
ancora incompiuti: le loro belle misure
sono già intuibili; è necessario però
il nostro intendimento. Eppure
hanno già servito, sono anzi già sorpassati. Il sentirlo
mi rende felice.

martedì 11 agosto 2015

Verba volant (206): fame...

Fame, sost. f.

Scena: la piccola sala colazione di un piccolo albergo italiano, sul lago Maggiore. Umile, ma onesta, come avrebbe detto Massimo Troisi. Per alcuni giorni gli ospiti dell'albergo - e quindi della sala colazione - sono quasi tutti stranieri e questo spiega il consumo mattutino di salumi, formaggi e uova sode. L'unica famiglia italiana, pur concedendosi il lusso di eccedere un po' rispetto alla normale colazione casalinga, si limita alle offerte dolci del ricco buffet e osserva stupita questo uso, che ci pare - nonostante tutto - barbarico dei clienti di altri paesi. Peraltro la preponderante presenza di stranieri spiega - anche se non giustifica, ai nostri palati italici - il fatto che il caffè sia così così: loro non se ne accorgono. La sala colazione, anche se quasi piena e occupata da diverse famiglie con bambini, è comunque silenziosa e conosciamo le nostre rispettive nazionalità solo dal saluto con cui ci siamo augurati il buongiorno o da un rimprovero a voce un po' più alta rivolto a un bambino vivace; peraltro le sgridate suonano praticamente uguali, da una lingua all'altra.
L'ultimo giorno - il nostro ultimo giorno di vacanza - la proporzione si inverte e gli italiani diventano maggioranza. Di colpo cambia la scena, ma soprattutto l'audio della sala colazione: dopo pochi minuti sappiamo con precisione come ciascuno dei nostri "colleghi" ha dormito la notte precedente, sappiamo cosa faranno nel corso della giornata e sappiamo anche cosa hanno detto i parenti rimasti a casa. Colpisce che, nonostante siano italiani come noi e quindi immaginiamo abituati alla coppia cappuccino e brioche, diminuisca rapidamente il numero di fette di salume e di formaggio sui vassoi del buffet, più rapidamente di quando c'era una maggioranza di tedeschi. Dopo che uno dei nuovi avventori ha chiesto - rumorosamente come al solito - al cameriere un'ulteriore dotazione di tovaglioli di carta, capiamo: sui loro tavoli sono allineati, regolarmente incartati, i panini - due a testa - che si sono nel frattempo preparati e che vengono riposti nello zainetto, che uno di loro ha pronto per la bisogna.
Occorre precisare che non ci trovavamo in una landa desolata, in cui sarebbe stato impossibile procurarsi un qualsivoglia genere di sostentamento, ma in una rinomata località di villeggiatura dove sono si possono trovare - senza sforzo - ristoranti, bar, pizzerie, focaccerie, gelaterie, insomma ogni sorta di locale dove la fame può essere domata, naturalmente dietro l'esborso di una cifra in denaro. Supponiamo anche che non si tratti di una fame atavica, come quella di Totò in Miseria e nobiltà. I nostri rumorosi connazionali si possono evidentemente permettere di andare in vacanza e di fare i tre regolari pasti al giorno. Non li abbiamo seguiti durante la giornata, ma - vedendo in azione altri esemplari di quella specie - siamo certi che abbiamo mangiato, prima, dopo e durante il pranzo al sacco gentilmente "offerto" dall'albergo, delle cose comprate lungo la strada. La figlia dei connazionali rumorosi è un'adolescente, pensiamo particolarmente attenta a quello che mangia - per evidenti ragioni di look - e forse i suoi due panini, preparati dalla mamma con le provviste dell'albergo, neppure li mangerà e magari saranno gettati; anche questo può essere facilmente verificato osservando un gruppo di persone in vacanza.
Naturalmente non voglio trarre da questo piccolo episodio una morale: so bene che ci sono tedeschi rumorosi - e forse anche qualcuno di loro che si prepara i "panini di scorta" approfittando del buffet dell'albergo - e italiani che sembrano svizzeri. Però qualcosa vorrà dire. Farsi i panini per il pranzo al buffet della colazione è il segno di una mancanza di rispetto per quelli che vengono a mangiare dopo di te, di una furbizia da quattro soldi, di un'incapacità di rispettare le comuni regole del vivere civile che sono preponderanti nel nostro paese, che sono ormai le nostre caratteristiche dominanti. A tutti i livelli e in tutte le circostanze. Beati gli ultimi, se i primi sono onesti, dice un conosciuto adagio del nostro paese e per questo noi italiani, conoscendoci, cerchiamo sempre di arrivare per primi al buffet.