giovedì 31 marzo 2016

Verba volant (258): trivella...

Trivella, sost. f.

Ci sono diverse ragioni dettate dal buon senso per votare no al prossimo referendum abrogativo sul tema della durata delle concessioni già attive per le estrazioni in mare, quello che ci siamo abituati a chiamare, per amore di sintesi e soprattutto per pigrizia, il referendum sulle trivelle o, ancora più sbrigativamente, No-triv. Eppure io voterò . Probabilmente qualche anno fa, quando facevo un altro mestiere, anch'io avrei votato no, perché cercavo di far prevalere in ogni occasione il buon senso, ma oggi sento che ne siamo rimasti vittima. E ormai a questo preteso buon senso ho deciso finalmente di ribellarmi.
Il prossimo 17 aprile noi cittadini saremo chiamati a decidere su una questione di cui, in un paese normale - ossia in un paese in cui funzionano normalmente i meccanismi di una democrazia rappresentativa - i cittadini non dovrebbero occuparsi. Siamo arrivati a questo referendum perché due diversi livelli istituzionali - l'amministrazione centrale e quelle regionali - non sono riuscite a risolvere in maniera adeguata un conflitto di competenze, perché in questo paese ci siamo inventati una forma di federalismo, che federalismo non è, in cui, a stagioni alterne e senza alcuna riflessione, siamo passati da un eccesso di centralismo a forme improprie e pasticciate di autonomia, in cui su questioni anche molto rilevanti - e la politica energetica è certamente una di queste - non si capisce chi deve decidere e assistiamo a un perenne conflitto di competenze. Sulla durata delle concessioni - come su altri aspetti così tecnici - utilizzare lo strumento del referendum abrogativo è francamente un'assurdità, perché si tratta di una materia complessa e che ha molte implicazioni di carattere economico e industriale. Non ha senso chiedere ai cittadini se abrogare o non abrogare questo o quel comma di una legge, mentre dovrebbe essere scritta una legge, chiara, esaustiva, precisa, su questo tema, che determini tutti gli aspetti della questione. E chiaramente questo è un compito che deve essere delegato a chi queste materie le studia, a chi ne ha competenza, e soprattutto a chi ha un mandato democratico per farlo.
In un paese normale - o almeno nel paese in cui vorremmo vivere - le diverse forze politiche dovrebbero confrontarsi su alcune questioni di fondo, ad esempio se sfruttare o meno le risorse energetiche non rinnovabili presenti al di sotto dei fondali marini, i cittadini dovrebbero scegliere una forza politica anche in base a cosa quella propone su un tema come questo, e infine gli eletti espressi da quella forza politica dovrebbero scrivere un insieme di norme coerenti con quella impostazione, scelta dalla maggioranza dei cittadini. Se vi sembra una cosa astrusa, è perché ormai queste elementari regole della politica vengono sistematicamente ignorate. Ad esempio io - da quel vecchio sinistro che sono - voterei per una forza politica che avesse nel proprio programma la proposta di non sfruttare quelle risorse, perché tutti gli investimenti dovrebbero essere indirizzati all'utilizzo di fonti alternative e rinnovabili. Fatta questa scelta di fondo - dal momento che non sono un estremista come qualcuno mi dipinge - capirei se si decidesse, per gli impianti già in essere, di sfruttarli fino a esaurimento, con le necessarie e dettagliate misure di sicurezza, ad esempio con l'obiettivo di tutelare le aziende e i lavoratori impegnati in quelle piattaforme.
Questo referendum non servirà a nulla. Anche se si raggiungerà il quorum, anche se vinceranno i , non ci sarà nessuna vera conseguenza. Quel comma sarà abrogato e probabilmente nei mesi successivi sarà approvata una norma per eludere questa abrogazione. Questo referendum non inciderà sulle scelte di politica energetica dell'Italia, che continueranno a essere dettate da interessi privati che poco hanno a che fare con gli interessi del paese, anzi spesso ne sono in contrasto. Interessi spesso opachi, in cui clientele, complicità, connivenze - come dimostrato anche dalla brutta vicenda in cui sono implicati ministre, fidanzati di ministre e vertici di società petrolifere, all'ombra di mamma Eni - sono l'elemento predominante. Soprattutto noi cittadini non saremo mai interrogati su scelte di fondo che avranno su di noi, sui nostri figli, sull'ambiente in cui viviamo, un impatto fortissimo. Su queste scelte - che ci riguardano molto di più della durata delle concessioni in alcune piattaforme petrolifere - nessuno chiederà mai cosa ne pensiamo, che sacrifici saremmo disposti a fare, che opportunità vorremmo avere per il futuro delle prossime generazioni.
Io voterò , nonostante tutte queste riflessioni, perché almeno, seppur attraverso questo strumento inadeguato, in questa maniera indiretta e obliqua, in questo modo potrò esprimere la mia opinione su questo tema. Abbiamo un bisogno disperato di costruire un modello di sviluppo diverso da quello in cui noi siamo cresciuti e in cui stiamo facendo crescere i nostri figli; abbiamo bisogno di costruire modelli in cui ci sia bisogno di meno energia, in cui l'energia non sia sprecata, e che l'energia di cui avremo comunque bisogno venga prodotta da fonti rinnovabili; abbiamo bisogno di ridurre in maniera drastica i livelli di inquinamento del pianeta; abbiamo bisogno che l'accesso alle fonti naturali ed energetiche sia libero e non sottoposto alle leggi del mercato. In sostanza abbiamo bisogno che ci siano beni sottratti una volta per sempre alla logica del profitto capitalista. Votare al referendum non significa ovviamente risolvere tutti questi problemi, ma almeno è il segnale che non ci vogliamo adeguare al buon senso, al compromesso, alla mediazione sempre e comunque, che alla fine vuol dire accettare il sistema capitalista, accontentarsi del modello di sviluppo che altri hanno deciso per noi, perché a loro fa comodo così, perché loro guadagnano così. Io voto perché so che un mondo diverso è possibile, anche contro quelli che dicono no o che dicono che votare non è importante, e che ci rassicurano che il mondo lo cambieranno loro, piano piano, un passo alla volta, sotto la guida dei capitalisti. Un mondo diverso è possibile soltanto se lo ribaltiamo, se cominciamo a fermare il lavoro di una trivella o la costruzione di un treno inutile. Per questo il mio , indipendentemente dallo stretto merito della questione o dalle possibili conseguenze sulla stabilità del governo - che comunque un po' danneggeremo votando contro di loro - è un voto politico, con cui voglio esprimere la mia disobbedienza. E la mia speranza.

venerdì 25 marzo 2016

Verba volant (257): croce...

Croce, sost. f.

Sarà che in fondo la pasqua è un'antica festa ebraica, le cui radici risalgono a una tradizione così estranea alla nostra, sarà che la storia di quel cadavere che a un certo punto esce dal sepolcro per noi atei è davvero troppo, ma per me la ricorrenza di domenica è qualcosa di lontanissimo, una festa che lascio a chi crede. Anche gli auguri, a cui rispondo per educazione, mi lasciano una strana sensazione, e vorrei non averli fatti, subito dopo che li ho pronunciati.
Però il venerdì - che chi crede chiama santo - è un'altra cosa. La storia degli ultimi giorni di quell'uomo morto in croce - una morte volutamente infame - la storia di quel processo sommario dall'esito scontato, la storia di quel tradimento dai motivi oscuri, in qualche modo riguarda noi tutti, anche noi che non crediamo che quell'uomo sia il figlio di dio, anzi dio stesso.
Quante volte la folla ha scelto Barabba, quante volte Pilato ha rinunciato a fare la cosa giusta, pur di difendere il regime di cui era un ingranaggio, quante volte Caifa ha pronunciato la sua arringa per difendere i propri privilegi contro chi avrebbe voluto sovvertire l'ordine costituito, quante volte i collaborazionisti hanno sacrificato qualcuno del loro popolo per ingraziarsi i padroni, quante volte Giuda ha tradito e quante volte Simone ha giurato di non conoscere quel condannato, di cui pure era stato seguace. Gesù sbaglia quando lancia il suo ultimo grido dalla croce: sapevano benissimo quello che facevano. E quante madri hanno pianto per il figlio ucciso, quante Maddalene hanno urlato di fronte al cadavere dell'uomo che amavano, strappato loro da un potere arrogante e violento. E quante donne hanno sfidato l'ordine costituito solo per pulire il sangue dal viso di colui che stava per raggiungere il patibolo. In questa storia - come spesso nella vita - le donne fanno miglior figura degli uomini. E gli ignoranti di quelli che hanno studiato. E i poveri di quelli che hanno molte ricchezze. La storia di quel morto in croce ci parla ancora, indipendentemente dal fatto che dopo tre giorni sia risorto. E ci interroga.
Io sono uno di quelli che pensa che quella croce non dovrebbe stare nelle scuole, nelle aule di tribunale, negli edifici pubblici, perché quella croce è diventata molto presto un simbolo di potere, perché in nome di quella croce sono stati commessi crimini terribili. Io ho combattuto e combatto contro quel potere, che si fa forte di quella croce, perché troppi preti sono come Caifa. Però quella storia di ingiustizia rimane per tutti noi un monito, forse soprattutto per noi che abbiamo l'ambizione - o forse la follia - di voler eliminare l'ingiustizia da questo mondo, visto che non speriamo in un altro mondo dopo questo. E allora questo venerdì di passione è anche un po' nostro, e a quella croce ci rivolgiamo anche noi, con rabbia e con spirito di ribellione. E lottiamo perché nessuno muoia più in croce. Se non ci proveremo, nessuno potrà perdonarci: sappiamo quello che non abbiamo fatto.

mercoledì 23 marzo 2016

Considerazioni libere (409): a proposito di vittime e di colpevoli...

Ieri era il giorno della commozione, non potevamo far altro che stringerci, in qualche modo - ciascuno con la nostra sensibilità - intorno alle vittime. Oggi la commozione non deve bastarci più.
Nella notte del 18 marzo scorso l'Europa ha subito un attacco violento, uno dei più duri che abbia dovuto patire in questi anni, un attacco probabilmente mortale. I responsabili di questo vero e proprio attentato all'Europa sono Merkel, Hollande, Cameron, renzi e gli altri leader che hanno sottoscritto un accordo giuridicamente illegale e politicamente vergognoso con il governo di Erdogan. Con quel trattato l'Unione europea ha delegato la gestione dei profughi alla Turchia, un paese che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951: inviare dei profughi in un paese che non rispetta quell'accordo significa violare il diritto internazionale. I profughi saranno deportati in massa, senza che le loro richieste d'asilo siano valutate individualmente: anche in questo caso una violazione del diritto internazionale. Per fortuna in queste ore il governo greco sta facendo resistenza, proprio in nome delle regole del diritto che vuole siano comunque rispettate, ma temo che anche in questo caso l'Unione riuscirà ad accerchiare il governo Tsipras, con la minaccia che, se non si piegherà, i profughi saranno tutti a loro carico, un peso che evidentemente quel paese - già stretto dai tagliagola inviati da Draghi e da Lagarde - non può sopportare.
In base a questo accordo la Turchia si impegna ad accogliere i profughi che si trovano già ad Idomeni e negli altri campi in Grecia e soprattutto a impedire che nelle prossime settimane avvengano nuovi sbarchi in Europa attraverso l'Egeo. Da parte sua, l'Unione europea si impegna ad accogliere tanti profughi siriani - che ora si trovano in Turchia - quanti saranno forzatamente rimpatriati dalla Grecia - ma comunque non più di 72mila - e soprattutto a versare al regime turco sei miliardi di euro, in due rate. Al di là di generiche buone intenzioni, non ci sono garanzie che verranno rispettati i diritti dei rifugiati, non ci sono assicurazioni su come verranno scelti i 72mila siriani di cui il regime di Erdogan vuole liberarsi. I governi europei hanno consapevolmente e colpevolmente deciso di girare le spalle a questi poveri cristi, di gettare alle ortiche i più elementari principi di umanità e di solidarietà, di affidare a un sicario prezzolato - i cui metodi sono stati più volte denunciati - le vite di migliaia di donne e di uomini, la cui unica colpa è quella di essere poveri, di aver tentato di fuggire da una realtà spaventosa, dalle guerre di cui i governi occidentali sono responsabili, dai disastri ambientali provocati dalle multinazionali che finanziano quei governi. Quei profughi li hanno creati i governi occidentali e adesso pagano il regime turco perché elimini il problema.
Questi stessi personaggi, che si sono macchiati di questa infamia, oggi piangono le vittime di Bruxelles, come ieri hanno pianto le vittime di Parigi, si avvolgono nelle bandiere - che sono anche le nostre - cantano gli inni - che sono anche i nostri - sfoderano tutta la loro retorica, per condannare la strage di vittime innocenti nella capitale belga. Ci dicono che saranno loro a difendere la "nostra" civiltà, così duramente colpita, e che ci condurranno in questa guerra sanguinosa, ma necessaria. Ci spiegano che dovremo fare dei sacrifici, che dovremo rinunciare alla nostra libertà, per avere maggior sicurezza. Anch'io piango quei morti, anch'io voglio cantare quell'inno d'Europa, che è un pezzo importante della nostra identità - perché davvero mi sento più europeo che italiano - ma non voglio combattere con i terroristi di stato, con i governi che sono più pericolosi di quelli da cui dovrebbero, almeno formalmente, difenderci.
Questa consapevolezza non significa sottovalutare il pericolo che il terrorismo islamico rappresenta per noi e per le donne e gli uomini che lo subiscono, a differenza di noi, ogni singolo giorno, in quei paesi che, secondo la retorica guerresca dei nostri mezzi di informazione, dovrebbero essere nostri nemici, senza distinzioni. Non posso e non voglio considerare miei nemici le donne e gli uomini dell'Africa e del Medio oriente solo perché hanno un colore diverso dal mio o professano una religione diversa da quella che io ho conosciuto da bambino. E dobbiamo lavorare affinché loro non ci considerino nemici, anche se i governi - nostri e loro - fanno di tutto per convincerci del contrario.
I terroristi sono un pericolo reale, che dobbiamo temere, ma evidentemente gli strumenti utilizzati fino ad ora per contrastarli sono inefficaci, nonostante i governi ci rassicurino di essere capaci di difenderci. Fermare un folle che ha deciso di farsi saltare in aria in un aeroporto o in una stazione della metropolitana è impossibile, impedire un attacco suicida è come voler svuotare il mare con un cucchiaio. Per neutralizzare il terrorismo bisogna tagliare la testa del serpente, ma questa testa è quella degli emiri del Golfo, è quella della famiglia degli Saud, è quella dei signori del petrolio; la testa del serpente è ospite d'onore nelle cancellerie occidentali, è un alleato temuto e riverito e soprattutto è qualcuno con cui ogni giorno le compagnie internazionali fanno i loro affari. Troppo comodo incolpare un Salah Abdeslam qualsiasi e allo stesso tempo stringere le mani insanguinate di Mohammed ben Nayef, a cui Hollande ha dato la Legion d'onore. I governi occidentali non vogliono e non possono tagliare la testa del serpente, perché è la loro testa, e quindi gli attentati continueranno, il problema non è sapere se, ma solo quando e dove. Continueranno perché servono ai governi occidentali che - come è avvenuto in Francia - possono instaurare uno stato di emergenza perenne e servono a chi con il terrorismo conduce la propria lotta politica.
I terroristi hanno ucciso persone a caso, a Bruxelles come a Parigi, come ovunque, ma non hanno colpito dei bersagli a caso. Nei giorni scorsi hanno fatto esplodere una bomba in Turchia - uccidendo anche lì nostri fratelli innocenti, per cui non abbiamo alzato bandiere - perché gli emiri del Golfo persico considerano il regime di Erdogan come un loro nemico nella complicata scacchiera mediorientale e volevano dare un segnale forte proprio mentre l'Unione europea faceva affari con quel regime, sulla pelle dei profughi. Bruxelles è stata scelta perché è la città dell'Europa - e della Nato - e perché in questi mesi il governo di quel paese ha tentato di scendere a patti con il serpente: ma si tratta di un gioco pericoloso, in cui la sconfitta è quasi certa.
L'altra cosa da fare per eliminare il terrorismo è svuotare quei serbatoi di possibili esecutori di attentati che sono le grandi periferie delle nostre città. Ci sono migliaia di ragazze e di ragazzi, di donne e di uomini, che facciamo vivere in brutti palazzi, che facciamo lavorare senza diritti, a cui facciamo frequentare scuole spesso inadeguate. Ci sono migliaia di persone che vedono ogni giorno la parte peggiore di quella che noi chiamano pomposamente la civiltà occidentale, che ogni giorno sfruttiamo, di cui ogni giorno compriamo i corpi e di cui vorremmo spezzare le anime. A queste persone chiediamo solidarietà dopo ogni attentato, ma ogni giorno vedono i nostri sguardi torvi e sospettosi quando li incrociamo nella metropolitana o sono davanti a noi in una fila. Chiediamo loro di aiutarci a sconfiggere i terroristi, ma poi votiamo per partiti razzisti che fanno campagna incitando l'odio contro di loro. Neghiamo loro i diritti e pretendiamo che conoscano solo i doveri, che noi per primi non rispettiamo. Noi ogni giorno ci facciamo odiare e poi non possiamo stupirci se qualcuno di questi giovani si sveglia una mattina e pensa che la soluzione sia uccidere qualcuno di noi.
I governi occidentali, le multinazionali che li sostengono e da cui prendono ordini, sono responsabili degli attentati di Bruxelles, come di quelli di Parigi, non solo perché fanno affari con il serpente, ma perché tengono in piedi questo sistema, dal momento che la paura garantisce il loro potere e il razzismo paga elettoralmente, perché le nostre società sono razziste, perché noi non siamo disposti a dividere il nostro con chi ha più bisogno, perché ci siamo convinti che il mio nemico sia Mohamed, mentre il vero nemico è il capitalista che sfrutta allo stesso modo Mohamed e me.
Per questo dobbiamo ribellarci alla guerra che vogliono farci combattere, dobbiamo ribellarci allo scontro di civiltà, e dobbiamo combattere contro chi guadagna da questa situazione, di qua e di là del Mediterraneo, a nord e a sud del mondo, e dobbiamo condurre questa lotta insieme a tutti gli oppressi, a tutti i poveri del mondo, perché un povero, qualunque sia il suo paese, ha un solo nemico, quello che lo sfrutta. Allora quando ti chiedono da che parte stai?, tu rispondi dalla parte delle vittime, degli ultimi, degli sfruttati; è la parte giusta.

lunedì 21 marzo 2016

Verba volant (256): viaggio...

Viaggio, sost. m.

La parola latina viaticum - da cui deriva, attraverso il provenzale viatge, la parola italiana che oggi provo a raccontare - indicava non l'andare da un luogo a un altro, ma quello che serviva per compiere quello spostamento.
Chissà quante cose ha messo in valigia Barack Obama per il suo viaggio a Cuba? Forse meno di quante ne abbia messe a suo tempo Calvin Coolidge, che impiegò tre giorni per arrivare in quell'isola dei Caraibi. E forse anche Obama - come capita praticamente a tutti noi mariti "normali" - ha discusso con sua moglie perché lei ha preso troppi vestiti e troppe scarpe.
Certamente Obama ha portato con sé la valigetta nera attraverso cui il presidente degli Stati Uniti può scatenare un conflitto nucleare e distruggere il nostro pianeta: Potus è così potente proprio perché ha quella valigetta da cui non si separa mai, anche se tutti sanno - e lui per primo - che non la userà mai. Con il passare degli anni ci siamo scordati di quella valigetta, che pure per alcuni decenni ha dominato le fantasie e le paure del mondo, perché una guerra nucleare allora sembrava possibile. Il viaggio a Cuba è anche un viaggio nel tempo, è un viaggio all'indietro, in quel mondo là, che è ormai finito. E Fidel Castro è l'ultimo grande testimone della Guerra fredda, che - non per caso - rischiò di diventare "calda" proprio durante la cosiddetta crisi di Cuba; Kennedy è morto, Krusciov è morto, Castro è ancora vivo. Obama va a Cuba da vincitore, come il rappresentante della potenza che ha vinto la Guerra fredda, ma ci va senza aver sconfitto Cuba, nonostante il suo paese ci abbia provato molte volte. E quindi anche i fratelli Castro possono dire di accogliere Obama da vincitori, perché Cuba non è stata mai davvero sconfitta e ha saputo resistere per decenni di fronte a un nemico così potente, così agguerrito, così violento.
E noi, anche se non lo abbiamo mai ammesso fino in fondo - perché ci sono tutti i se e tutti i ma che sappiamo e conosciamo bene - abbiamo sempre parteggiato per Cuba, non solo perché parteggiamo sempre per i più deboli, per quelli che sappiamo che sono destinati a essere sconfitti, ma soprattutto perché a Cuba ha vinto la rivoluzione, perché Cuba ha saputo resistere a un embargo durissimo, perché, per quanto possa non piacerci il regime comunista dei Castro - e per molte ragioni non ci piace - è molto meglio di quello di Batista e di quelli che gli americani hanno sostenuto in tutti questi decenni in America latina, da Pinochet a Videla, per tacere tutti gli altri di un elenco lunghissimo che rappresenta la pagina più nera, più drammatica, più vergognosa, della storia degli Stati Uniti, un paese che pure amiamo, perché ce l'hanno fatto amare poeti come Edgar Lee Masters e i grandi autori del cinema. E siamo contenti perché questa volta Troia non è caduta, per colpa del vile tranello di Ulisse e della forza arrogante degli Achei, ma ha saputo resistere. E ci fa piacere vedere il presidente degli Stati Uniti scendere a patti con l'antico nemico, sottostare anche a un cerimoniale forse non del tutto adeguato e un poco irrispettoso. Quella pioggia che cadeva su Obama, costringendolo a tenere l'ombrello per non fare bagnare Michelle, ci è sembrata l'ennesimo simbolo della nostra vittoria.
Poi ci riflettiamo e sappiamo che è cambiato tutto. Lo sa bene Obama e lo sanno bene anche Fidel e Raul Castro. Gli Stati Uniti sono stati sconfitti e Cuba è stata sconfitta, perché hanno vinto loro, quelli che ogni quattro anni decidono chi farà il presidente degli Stati Uniti, investendo milioni di dollari per garantirsi l'elezione di qualcuno che non intralci troppo i loro affari, quelli che hanno deciso che è giunta l'ora di smetterla con questo residuo del Novecento e che è arrivato il momento di tornare a fare affari con Cuba, perché l'isola è bella, perché è ricca di risorse, perché è un mercato da conquistare. Le grandi compagnie hanno sconfitto sia Obama che Castro, uno può continuare a tenersi stretta la sua valigetta, simulacro di un potere che non ha più, e l'altro deve accettare i soldi indispensabili a tenere in piedi l'isola, perché senza quei dollari questa volta davvero la revolucion sarebbe destinata alla fine. Quello è il nostro nemico, è il nemico del popolo cubano, ed è il nemico del popolo degli Stati Uniti. Per questo la nostra lotta ha ancora un senso, per questo ha ancora senso la parola rivoluzione, per questo è un viaggio che dobbiamo ancora - e di nuovo - cominciare, e dovranno cominciare di nuovo i nostri figli. Anche se abbiamo così poco da portare con noi.

domenica 20 marzo 2016

Verba volant (255): voucher...

Voucher, sost. m.

Un vocabolario non serve soltanto a verificare il significato delle parole o a controllarne l'esatta grafia, ma soprattutto ha la funzione di condividere una lingua, di far crescere un lessico comune, in modo che le persone si capiscano e usino gli stessi codici. Verba volant è un vocabolario partigiano, politicamente scorretto, ma coltiva l'ambizione di costruire una lingua comune, almeno per noi che proviamo, ostinatamente, a tenere in vita l'idea che sia ancora possibile costruire una società socialista. Spero che questa definizione serva proprio a questo.
Per alcuni di noi lo stipendio, qualunque ne sia l'entità, adeguato o insufficiente a seconda delle nostre necessità, proporzionato o meno al lavoro che facciamo, è comunque qualcosa che arriva in maniera regolare, ci viene accreditato direttamente sul conto corrente sempre lo stesso giorno ed è, più o meno, sempre lo stesso ogni mese. In sostanza, a fronte del nostro lavoro, per una serie di leggi e di accordi, ci viene dato mensilmente un certo salario, che è tutelato e garantito proprio da questo sistema normativo. La storia del movimento dei lavoratori è appunto la storia della progressiva conquista di queste leggi e di queste tutele. Dal momento che noi godiamo di queste leggi, senza essercele conquistate come hanno fatto le generazioni precedenti alla nostra, troppo spesso ci dimentichiamo che per molte persone questa non è la condizione normale. Questo non sapere, questa mancanza di consapevolezza, crea un divario non solo economico tra noi che riceviamo un regolare salario e quelli che non hanno questo diritto, ma segna una cesura, che finisce anche per rappresentare un limite di comunicazione: parliamo due lingue differenti e così non ci capiamo. Naturalmente il fatto che non ci parliamo è un grande vantaggio per i nostri nemici, che sfruttano queste divisioni per tenerci sempre più in soggezione.
Nella lingua di quelli che non ricevono un regolare stipendio negli ultimi anni è entrata con prepotenza la parola voucher. Per molte persone ricevere lo stipendio significa che il tuo datore di lavoro - per dirla in maniera corretta - o il tuo padrone - come preferisco dire io - viene lì e ti dà un buono, un voucher appunto, che a lui è costato 10 euro e che per te ne vale 7,5. Nel 2015 sono stati staccati 115 milioni di questi voucher e si calcola che siano oltre un milione e mezzo, in tutta Italia, i lavoratori che vengono pagati in questo modo. Se non ci mettiamo in relazione con questi lavoratori, se non capiamo quello che succede a quel nostro collega - che spesso fa il nostro stesso lavoro, ma viene pagato in questo modo - allora siamo destinati davvero alla sconfitta, perché lui ci considererà per sempre come dei privilegiati, solo perché prendiamo lo stipendio, e noi non capiremo perché, nonostante tutto, non voglia partecipare alle nostre lotte, e magari preferisca votare per Trump piuttosto che per Sanders.  
Il sistema dei voucher è qualcosa di ancor più pericoloso dell'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, perché scardina del tutto il rapporto tra padrone e dipendente, perché mette chi riceve il voucher in totale balia del suo padrone. Formalmente quel voucher rappresenta il salario per un'ora di lavoro, ma di fatto non c'è nulla che garantisca questo rapporto, solo il buon cuore del padrone, che come noto, è molto meno ascoltato del portafoglio. Io ti dò un voucher e tu devi lavorare un'ora, due, tre, tutta la sera, oppure devi cucire un certo numero di maglie o raccogliere una certa quantità di frutta o pulire un certo numero di camere. Il voucher reintroduce nel rapporto di lavoro il cottimo, senza alcun controllo. E naturalmente chi riceve i voucher non ha alcun altro diritto: se ti ammali non lavori e non ricevi il voucher, punto e basta.
Questo sistema era nato per regolare i rapporti di lavoro davvero occasionali, come uno strumento per far emergere il lavoro nero - e recuperare un po' di contributi previdenziali - per quei ragazzi che danno le ripetizioni o fanno i baby-sitter, o per quei pensionati a cui chiediamo di sistemare il giardino. Invece è diventato qualcosa di molto diverso e ormai è la forma di retribuzione abituale per chi lavora nell'agricoltura e nell'edilizia. E davvero non credo che valga l'adagio fatta la legge, trovato l'inganno. In questo caso la legge è stata fatta proprio per creare l'inganno, per far aumentare il lavoro nero, per favorire i padroni e per rendere i lavoratori sempre più poveri e deboli. I governi, complici dei padroni, hanno da un lato creato una massa di persone povere e disoccupate, disposte ad accettare ogni tipo di lavoro, e hanno escogitato questo sistema dei voucher per far sì che i padroni possano evadere le tasse e avere a disposizione una forza lavoro debole, ricattabile, pronta ad accettare non un vero e proprio salario, ma la carità di un voucher.
Il lavoro in Italia sta diventando questa schifezza, anche per colpa nostra, perché per troppi anni abbiamo creduto nel mito della flessibilità, perché ci siamo convinti che un sistema fosse più forte quanto più era dinamico, e abbiamo votato per personaggi che, fingendoci di far crescere l'economia, hanno solo favorito i padroni, hanno tutelato i loro interessi, li hanno fatti diventare più ricchi. E' anche colpa nostra perché troppo spesso ci siamo accontentati delle briciole di questa ricchezza, senza renderci conto che quella miseria che ci elargivano veniva comunque tolta a qualcuno ancora più sfortunato di noi. Ormai siamo così deboli che non hanno neppure più bisogno di fingere, la crescita del sistema dei voucher racconta questa loro tracotanza, la consapevolezza che possono fare quello che vogliono, perché ormai ci hanno sconfitto, perché siamo troppo deboli per ribellarci. E forse hanno ragione.

martedì 15 marzo 2016

Verba volant (254): graffito...

Graffito, sost. m.

In inglese per descrivere le opere di Banksy e di quelli come lui si usa la parola italiana graffiti, anche se naturalmente l'artista inglese non "graffia" i muri, ma li dipinge con le bombolette. Evidentemente per quella lingua l'arte, così come la musica, si declina ancora in italiano. Nonostante Franceschini. E anche se noi ovviamente, nel nostro irrimediabile provincialismo, per descrivere le stesse opere usiamo una locuzione inglese, street art, che fa tanto moderno.
Naturalmente non voglio intrattenervi su queste piccole quisquilie etimologiche, che pure sono interessanti, e raccontano parecchio di cosa sia l'arte in Italia e nel mondo, ma - come certo immaginerete - voglio dirvi quello che penso sulla decisione del graffitaro italiano Blu di cancellare tutte le opere che ha realizzato nel corso degli anni a Bologna, per impedire che vengano staccate da quelle pareti ed esposte in una mostra che sta per essere aperta in quella città da un importante e prestigiosa istituzione culturale.
Io sto dalla parte di Blu. E credo che stare dalla parte di Blu rappresenti una scelta di campo: o stai con il potere o stai con chi è contro quel potere.
Blu e quelli come lui creano le loro opere in quelle parti di una città dove il potere si manifesta con avida violenza o con inerzia supponente. Blu e quelli come lui creano le loro opere d'arte dove il potere ha fatto costruire brutte case, destinate ai poveri, dove il potere tiene in piedi strutture fatiscenti, fabbriche chiuse perché ormai è più conveniente fare le cose da un'altra parte, dove il potere ha fatto il deserto, magari dopo averci costruito intorno multisale e centri commerciali. Le opere di Blu e di quelli come lui ci fanno scoprire pezzi di città che non vorremmo vedere, consegnati alla rendita finanziaria e immobiliare. A Bologna questo potere ha molti volti - purtroppo anche quelli di persone con cui ho condiviso un pezzo della mia vita politica o quello di tanti cooperatori - ma certamente uno dei più lividi e dei più laidi è quello di Fabio Roversi Monaco, che, tra le molte altre cariche, è anche presidente di quell'istituzione che ora vorrebbe esporre le opere di Blu. Per questo Blu ha fatto bene a ribellarsi, contro Roversi Monaco che da decenni incarna questo potere, che ha fatto più brutta Bologna, perché l'ha consegnata alla rendita, perché ha impedito la riconversione di tanti edifici, perché ne ha snaturato tante parti, creando brutti centri commerciali e brutte aree residenziali, perché ha impedito le occupazioni che cercavano di dare una nuova vita ad alcune di quelle strutture abbandonate, perché per anni ha impedito che gli artisti come Blu potessero esprimersi liberamente, facendo cancellare le sue opere. Quel potere ha occupato la città - spesso con la complicità di una classe politica connivente e di una burocrazia pigra e incapace prima che collusa - l'ha resa una merce. Per questo Blu ha fatto bene a ribellarsi a Roversi Monaco e a tutti quelli come lui, che adesso tentano di "normalizzare" anche la street art, di farne merce, riconducendola all'unico valore che capiscono, ossia il denaro.
Il tema non è dire se le opere di Blu ci piacciano e meno: a me ad esempio spesso non piacciono, ma quelle opere nascono perché la città è ferita e quei segni - in questo caso davvero la parola graffiti acquista tutto il suo senso etimologico - rappresentano l'occasione, forse l'unica, di far vedere il sangue, anche a chi non lo vuole vedere. Il tema non è neppure quello di decidere a chi appartiene un'opera d'arte: è ancora dell'artista, anche se lui l'ha in qualche modo donata alla città? O è piuttosto dei cittadini a cui comunque Blu in questi giorni ha sottratto qualcosa? Qualcuno critica Blu per le conseguenze del suo gesto, nato probabilmente da un moto di rabbia e forse neppure troppo meditato: Bologna da oggi è più povera, perché è più brutta senza quei graffiti, e Roversi Monaco è ancora più ricco, perché il suo museo è l'unico che ha ancora qualche opera di Blu, sottratta prima della "ripulitura" della scorsa notte. Ci sono gesti però che non devono essere valutati dalle conseguenze, ma da quello che è avvenuto prima, e la scelta di Blu racconta quello che è successo prima, ossia che il potere ha stuprato Bologna, come ha fatto con tutte le altre città, e Blu e quelli come lui hanno raccontato, più o meno bene, più o meno efficacemente, quello stupro. Che qualcuno non vuole dimenticare. Quel gesto significa che la nostra memoria non è in vendita. Il gesto di Blu è un segno di ribellione e oggi più che mai Bologna - come tutto il nostro paese, come tutta la nostra supposta civiltà - ha bisogno di ribellione, netta, radicale, senza sconti. Ed è importante - e bello - che si cominci dall'arte. Anche solo con un graffio.

lunedì 14 marzo 2016

Considerazioni libere (408): a proposito di due filosofi...

Se questo blog si intitola i pensieri di Protagora è anche merito di Hilary Putnam, nei cui testi mi sono imbattuto - e spesso gli incontri casuali sono molto fecondi, mi è successo anche con Borges, ma questa è un'altra storia - ai tempi dell'università. Il relativismo di Putnam - morto ieri, il 13 marzo 2016 - mi è stato indispensabile per capire il pensiero di Protagora, per dare un senso a quella sua celebre massima l'uomo è misura di tutte le cose, che fino ad allora mi era sembrata una formula retoricamente efficace, ma sostanzialmente vuota.
Dice Protagora che di ogni cosa si può discutere con pari attendibilità da punti di vista opposti; ed anche di questo stesso principio, se cioè ogni cosa si possa discutere da opposti punti di vista.
sono le parole con cui Seneca condensa per il suo interlocutore il pensiero del sofista di Abdera.
In sostanza tutto il sapere della civiltà greca, la religione, la filosofia, l'etica, il diritto, sono oggetto della tecnica antilogica di Protagora: non c'è nulla che possa resistere di fronte al suo abile argomentare, non c'è verità che possa essere accettata. Quindi la teoria dell'homo mensura ha un deciso senso antidogmatico: la verità non è qualcosa di dato una volta per sempre, non è qualcosa che aspetta di essere rivelato a uomini ignari da una superiore casta di sapienti. Protagora, autore di un libro intitolato Aλήθεια - che significa appunto verità - ci insegna ad avere paura della verità, della verità che diventa dogma, culto, latria. E gli uomini che credono in essa, come quelli che alzano per troppo tempo gli occhi verso il sole, rimangono accecati e non riescono più a vedere nient'altro. La filosofia di Protagora invece è la ricerca di una delle tante verità, che proprio per il fatto di riconoscersi come una in mezzo ad altre, è relativa e tollerante.
La verità allora è sempre in un rapporto dialettico, in una misura che l'uomo, che ogni uomo, trova di volta in volta. La ricerca della verità è lo scopo di ciascuno di noi e pure dobbiamo sapere che quando l'abbiamo raggiunta può essere già cambiata: come il vano e incessante inseguimento della tartaruga da parte di Achille. Per Protagora la saggezza e la felicità non stanno tanto nel possedere una verità, quanto nel cercarla.
Anche tutto il sapere della civiltà contemporanea, in cui la scienza fa progressi strabilianti, tanto da rendere gli uomini così poco coscienti dei propri limiti, può essere messo in discussione. Non esiste una sola verità che possa reggere a una forma raffinata di scetticismo, come ben dimostra Cartesio con il dubbio iperbolico: non si può mai escludere che un genio cattivo, scaltro e mendace quanto potente impieghi la sua sovrumana capacità per illudere e per ingannare gli uomini. Davvero ciascun uomo può dire di sé soltanto che esiste. Questa forma di relativismo, portato alle sue conseguenze più estreme, dà un'immagine drammatica dell'umanità: gli uomini sono come perfette e autosufficienti astronavi in viaggio nell'universo, ciascuna delle quali, avendo perso memoria delle altre astronavi e finanche dell'universo in cui si sta muovendo, immagina di trovarsi in una propria realtà, e anche se le comunicazioni tra le varie astronavi fossero possibili, sarebbero inutili, non essendoci comuni criteri per giudicare le cose. Oppure per dirla con Putnam, tutti gli esseri umani sono cervelli in un'ampolla o lo stesso universo non è null'altro che dei macchinari automatici che badano a un'ampolla piena di cervelli.
Protagora però ci spiega che gli uomini hanno il dono della parola e riescono a comunicare, a fare una breccia in quella sorta di capsula in cui è racchiuso ciascuno di noi: un uomo riconosce, attraverso la forza del logos, che ciò che gli sta di fronte è un uomo come lui e decide che vuole avere una qualche forma di rapporto con quest'altro essere, tanto simile a lui. Protagora accetta, senza dimostrare - e non riuscirebbe a farlo - il fatto che esistono gli altri uomini e che c'è la possibilità di comunicare con essi. E infatti Putnam, approfondendo in qualche modo il pensiero di Protagora, dice
Quando produco le mie parole quel che succede è che gli impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io "senta" la mia stessa voce che dice quelle parole e "senta" la lingua muoversi, ecc., e anche che voi "udiate" le mie parole, mi "vediate" parlare, ecc. In questo caso, in un certo senso io e voi siamo davvero in comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull'esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi.
Naturalmente Protagora non lo spiega allo stesso modo, ma in qualche modo accetta questo assunto, quando riconosce una forma di verità legata alla polis, alla comunità in cui vive l'uomo. Per questo Protagora decide di vivere nel suo mondo, e anzi cerca cerca di migliorarlo attraverso l'insegnamento e la politica.
La cosa che mi ha affascinato di Protagora è proprio questa sua capacità, forse perfino non del tutto consapevole, di mettere in evidenza il dramma dell'uomo, la cui ragione lo porta a negare ogni verità, ma che allo stesso tempo non si rassegna a rinunciare alla vita. Proprio il rapporto con gli altri uomini permette a ogni singolo uomo di salvarsi dal relativismo: o amando un'altra persona o sforzandosi di vivere nello stesso posto assieme agli altri, dopo essersi dati delle regole; comunque alla base di ogni rapporto c'è la forza della comunicazione, del logos. Lo scopo degli uomini è quello di fuggire dalla solitudine in cui siamo immersi e di far parte di quella rete di rapporti umani che è il mondo. In questo senso la politica assume un valore alto, di arte della convivenza nella polis.
Ammetto di non aver studiato abbastanza negli anni successivi per sapere se su questa tesi Putnam sarebbe stato d'accordo, perché poi nella vita mi è capitato di fare altre cose, ad esempio la politica. Anche per colpa di Protagora. Comunque ringrazio ancora Hilary Putnam per quell'incontro casuale.

domenica 6 marzo 2016

Lettera a un bambino nato il 6 marzo 2015

Caro bambino,

oggi tu ed io festeggiamo il compleanno: io il quarantaseiesimo e tu il primo. Verosimilmente quando tu avrai gli anni che io ho oggi, sarò morto e questo mi dà un innegabile vantaggio su di te: posso immaginare il tuo futuro senza che tu possa rinfacciarmi di avere sbagliato.
Non ti stiamo consegnando un bel mondo; a onor del vero qualcuno ci ha provato a renderlo almeno un po' meglio di come l'abbiamo trovato o almeno di evitare la caduta - anch'io qualcosa ho fatto, nel mio piccolo - ma evidentemente non ci siamo riusciti. Devo ammettere che a volte mi capita di considerare i tuoi genitori un po' sconsiderati, proprio perché ti hanno fatto nascere, ma io sono un vecchio pessimista e loro, fortunatamente per te e per tutti noi che ti vogliamo bene, non lo sono abbastanza, o comunque sono stati abbastanza matti da lanciarti in questo gioco.
Naturalmente tu farai quello che vorrai, senza ascoltare i nostri consigli; più o meno come abbiamo fatto noi che non abbiamo ascoltato i consigli dei nostri vecchi. Questa tua ostinazione ti farà commettere degli errori, alcuni saranno gli stessi che abbiamo fatto noi e quindi potremo prenderci la soddisfazione di dirti che te l'avevamo detto. Imparerai che quegli errori ti serviranno.
In questo tuo primo anno di vita nel mondo non sono capitate cose degne di nota, quelle che devi studiare nei libri di storia - e chissà se ci saranno ancora i libri - quelle che segnano il passaggio da un'epoca all'altra: le solite guerre, le solite catastrofi, le solite ingiustizie. Durante questo anno, in cui tu sei incredibilmente cresciuto, sono morte due persone. I tuoi genitori ti racconteranno meglio di me le loro storie, o, se vuoi, le potrai leggere nel vocabolario che scrivo, anche per te. Non ho la presunzione che tu lo legga proprio tutto, ma noi che scriviamo abbiamo bisogno di un pubblico, presente - e per questo c'è "zia" Zaira - e futuro - e, purtroppo per te, ho deciso che sei tu il mio pubblico futuro.
La prima persona che è morta è un bambino poco più grande di te, si chiamava Aylan ed era siriano (a dire la verità importa poco sapere la sua nazionalità, basta sapere che era un bambino e che fuggiva da un paese in cui stava male). Voglio che tu sappia di lui, perché spero che tu lotterai affinché nessun bambino muoia più tentando di fuggire dal suo paese. Sono sicuro che succederà ancora quando sarai adulto e spero davvero che ti arrabbierai, e farai tutto quello che è in tuo potere per impedirlo. Ti dico già che non ci riuscirai, che sarà sempre più difficile, perché nei prossimi anni saranno sempre di più i poveri che tenteranno di fuggire dalla miseria e dalla guerra, che i nemici contro cui dovrai combattere saranno sempre più forti e più potenti. L'altra persona che è morta durante questi mesi si chiamava Giulio ed era uno studente, uno che si era messo in testa di capire com'è il mondo e, siccome lo stava capendo troppo bene, lo hanno ammazzato. Ovviamente non ti chiedo di farti ammazzare, ma Giulio era uno che studiava e che lottava, che credeva che il mondo potesse cambiare. E di quelli come lui ti dovrai ricordare, quando farai le tue scelte.
Mi rendo conto che parlare di persone morte durante il tuo primo compleanno può non sembrare il massimo dell'augurio. I tuoi genitori mi perdoneranno perché sanno che ti voglio bene e tu leggerai questi auguri così poco convenzionali tra molti anni, quando sarà il momento giusto.
Comunque adesso tocca a te, auguri.

venerdì 4 marzo 2016

Verba volant (86): santo...

Santo, agg.

Lo so che, da ateo ostinato, mi dovrei esimere da questo delicato argomento, seguendo l'antico adagio:
scherza con i fanti e lascia stare i santi
Però devo ammettere che sono abbastanza stanco di parlare sempre di mezze figure - da Renzi in giù - e ogni tanto sento il bisogno di affrontare argomenti un po' più elevati. Poi la giornata del 27 aprile, con due papi vivi che canonizzano due papi morti, è uno di quegli eventi che coinvolgono in qualche modo tutti, anche noi che non crediamo.
Ovviamente mi scuso in anticipo con chi invece crede e potrà considerare queste mie riflessioni banali o peggio irriverenti. Vi assicuro che non è così: non sono anticlericale, anche se non amo le gerarchie vaticane - come non amo altre strutture di potere altrettanto sclerotizzate - e anzi guardo con interesse alla vostra cultura che è una di quelle che ha contribuito a fondare la nostra civiltà.
Ho deciso di partire dalla parola santo perché ho l’impressione che queste due canonizzazioni segnino una novità profonda nella vita della chiesa cattolica.Roncalli e Wojtiyla meritano di essere venerati dai cattolici come santi? Ho qualche dubbio.
Ovviamente non voglio mettere in discussione l’iter che ha portato a questa decisione, non ne ho la competenza, ma soprattutto non ne ho il diritto, essendo completamente al di fuori di quella comunità. Ho l’impressione però che nella scelta di canonizzare queste due figure, tra l’altro accelerando di molto i tempi lunghi solitamente necessari per questo tipo di decisioni, abbiano pesato fattori che non erano stati valutati in altre occasioni, sottovalutandone altri. Certo so che per entrambi ci sono agli atti le guarigioni miracolose - un elemento da cui non si può prescindere evidentemente - ma oggettivamente né Roncalli né Wojtyla sono diventati santi per questi meriti.
Di Giovanni XXIII viene messa in risalto la capacità di capire i tempi nuovi e la feconda intuizione del Concilio, vengono valorizzati i testi, le encicliche famose, viene enfatizzato il suo essere uomo di pace in un’epoca in cui la guerra era qualcosa di imminente, percepita e temuta dalle persone. Giovanni Paolo II è ricordato per il suo apostolato planetario, per i viaggi, per la capacità di mettersi in comunicazione con le generazioni più giovani. Si tratta in sostanza di due persone che, in modo diverso, hanno fatto la storia, non solo della chiesa - il ruolo del papa polacco nella fine dei regimi dell’Europa orientale è stato costante, per quanto sempre non lineare - che la chiesa vuole ricordare nel modo più sacro che quell’istituzione prevede, ossia proprio la canonizzazione.
Sono due santi di tipo nuovo, in cui il miracolo conta meno e conta di più l’azione, l’opera di apostolato, anche la forza della comunicazione. Insomma non si tratta di due santi che si mettono l’aureola e trovano posto tranquillamente nel calendario. Nel caso di Wojtyla si tratta poi di un processo di canonizzazione che ha avuto un aspetto democratico e dal basso - scusate gli anacronismi, ma mi servono per farmi capire - assolutamente inedito. Quanto ha pesato quel grido “santo subito”, che abbiamo sentito riecheggiare tra i fedeli di ogni angolo del mondo, già nel momento della sua morte? Io credo molto.
Per un curioso paradosso credo che gli storici dovranno ricordare Benedetto XVI come un radicale innovatore della chiesa, nonostante non ne abbia certo né il physique du role né la fama. Eppure il rigido - tedesco - prefetto della congregazione della dottrina della fede, divenuto papa, ha fatto due cose non tradizionali, che hanno segnato il suo pontificato e rappresentano uno spartiacque nella storia della chiesa: si è dimesso e ha voluto far diventare santo il suo predecessore, saltando molti dei passaggi previsti, in qualche modo inventando un “santo contemporaneo”, dettando un nuovo criterio di santità. Mi ha colpito che invece lo storico antagonista di Ratzinger, il cardinal Martini, che è sempre stato considerato il capofila degli innovatori, abbia espresso delleriserve sull’opportunità di canonizzare Giovanni Paolo II. E’ un segno che probabilmente certi passaggi, e certe discussioni, sono un po’ più complicate di come possono apparire da una superficiale indagine giornalistica.
Certo adesso essere santi è oggettivamente diverso da secoli fa. Di un santo del Duecento o del Seicento - per non parlare di quelli dei primi secoli della cristianità, le cui storie sono spesso leggendarie - sappiamo quello che i suoi seguaci hanno voluto farci sapere. Di un santo odierno conosciamo - grazie ai mezzi di informazione - letteralmente vita, morte e miracoli. E, visto che è difficile essere santi 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, emergono delle contraddizioni.
Pensate a chi sarà papa tra cinquanta o sessant’anni. Verosimilmente è un ragazzo - quasi impossibile sia una ragazza - che adesso ha una ventina d’anni; sicuramente ha un profilo su Facebook e probabilmente ci scrive delle stupidate, come tutti i suoi coetanei, che salteranno fuori non appena salirà sul soglio di Pietro. Evidentemente anche l’agiografia deve fare i conti con la società della comunicazione. E probabilmente la chiesa - anche la chiesa “antica” di Ratzinger - lo ha capito, se ha deciso di far diventare santo uno come Wojtyla, un personaggio che ha in sé delle contraddizioni, inevitabili in chi ha avuto responsabilità pubbliche per un periodo così lungo e così travagliato della storia mondiale.
Immagino non sarà mai facile diventare santo. E comunque speriamo che non sia vero anche l’altro vecchio proverbio
passata la festa, gabbato lo santo.

scritto il 27 aprile 2014 

giovedì 3 marzo 2016

Verba volant (67): schiena...

Schiena, sost. f.

Questa parola di derivazione germanica indica, come noto, la parte dorsale del torace dell'uomo, quella compresa tra le spalle e le reni; in sostanza è la forma più familiare di dorso.
In questi giorni questa parte del corpo è balzata agli onori delle cronache per il fotogramma in cui compare la schiena nuda di Elio Di Rupo, che dal dicembre 2011 è il primo ministro del Belgio. Di Rupo è un politico belga molto noto, francofono, di origini italiane - è figlio di due emigrati abruzzesi - socialista, bon vivant, omosessuale dichiarato. E’ riuscito a diventare primo ministro del suo paese, dopo una lunghissima crisi politica, che sembrava destinata a concludersi con la fine del Belgio come paese unito. Questo rischio non è ancora scongiurato, viste le spinte dei fiamminghi a creare uno stato indipendente dai cugini valloni. Di Rupo è comunque riuscito in un piccolo miracolo politico.
In questi mesi il primo ministro belga è stato accompagnato quasi continuamente da una troupe della televisione fiamminga Vier, che sta realizzando una sorta di reality sulla vita pubblica e privata di Di Rupo.
Le telecamere hanno colto un veloce cambio di camicia dell’elegantissimo primo ministro belga - noto per il papillon rosso - il 21 luglio scorso, poco prima della cerimonia di incoronazione di Filippo, diventato il settimo monarca della nazione dopo l’abdicazione del padre Alberto II. L’immagine in anteprima della schiena nuda di Elio Di Rupo, anche se il docufilm non è ancora stato trasmesso, ha già suscitato scandalo nel piccolo paese e c’è addirittura chi pensa possa danneggiare Di Rupo nelle elezioni politiche della prossima primavera.
I belgi arrivano tardi. I politici italiani sono stati gli antesignani di questa moda. Non so quanti di voi ricordano l’immagine dell’allora sindaco di Milano Gabriele Albertini, che si fece ritrarre per due volte in mutande, una volta erano perfino di cachemire. Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare che anche il sindaco di Bologna Vitali e quello di Roma Francesco Rutelli imitarono il collega milanese e sfoggiarono, con eguale infelice risultato, una tal mise semiadamitica. D’altra parte eravamo ancora nella “primavera dei sindaci” e i primi cittadini italiani potevano osare tanto, nonostante il loro fisico non consentisse tali dimostrazioni.
Quelle comunque erano foto in posa, non eravamo ancora al tempo dei reality. Un programma dello stesse genere è stato realizzato con protagonista Julia Gillard, la rossa premier dell’Australia. A dire il vero quel reality non le ha portato particolare fortuna, visto che poco tempo dopo venne sfiduciata dal suo partito, come un enricoletta qualsiasi.
Le larghe intese parevano averci fatto fare alcuni passi indietro: ve lo sareste mai potuto immaginare Mario Monti che si cambia i calzetti in diretta televisiva, prima di andare al Quirinale? Evidentemente no. Adesso però, con l’arrivo di Matteo Renzi, l’Italia può aspirare a tornare all’avanguardia della politica spettacolo. Il Corriere e la Repubblica si stanno già esercitando nell’agiografia del presidente del consiglio più giovane della storia repubblicana. L’arrivo al Quirinale in Smart, la moglie che decide di restare a Firenze, i viaggi in treno con il fidato Del Rio, stanno diventando rubrica fissa dei giornali mainstream.
Tra qualche mese su Canale 5 - per cementare ulteriormente l’alleanza costituente con Berlusconi - comincerà finalmente un nuovo reality show: Tutto quello che avreste voluto sapere su Matteo (ma non avete mai osato chiedere). Immagino già le telefonate in cui Renzi da palazzo Chigi racconta la favola della buonanotte ai suoi figlioletti.
Alla fine questa cosa potrebbe perfino essere una cosa positiva: se sarà impegnato con la televisione avrà meno tempo per governare e fare danni.

scritto il 19 febbraio 2014

Verba volant (92): sposa...

Sposa, sost. f.

Meriam Yehya Ibrahim è una donna di 26 anni, nata e cresciuta nel Sudan. Non sappiamo molto di lei: laureata in medicina, è sposata con un suo connazionale, ha un figlio di 20 mesi ed è incinta all'ottavo mese; vive, insieme alla sua famiglia, in una fattoria a sud di Khartum. Di lei abbiamo visto soltanto una foto del matrimonio, piuttosto formale, lui seduto in giacca e cravatta e lei in piedi con un abito bianco - un abito da sposa, come si dice - piuttosto tradizionale, almeno secondo la moda europea; probabilmente in Africa alla sposa sarà sembrato un abito stravagante, qualcosa per rendere ancora più indimenticabile un giorno così importante.
Sarà l’effetto dell’immagine, piuttosto sgranata, o quello della posa e dei vestiti: potrebbe sembrare la foto del matrimonio di vent’anni fa di un qualche nostro parente e non il recentissimo ricordo di due giovani sposi. Questa foto, che avrebbe dovuto rimanere nell’album di Meriam, tra le sue “buone cose di pessimo gusto”, è diventata una prova nel processo contro la donna, perché il marito è un cristiano e lei, secondo la famiglia di suo padre, sarebbe di religione musulmana. Il padre di Meriam lasciò la moglie, cristiana ortodossa di origine etiope, quando la bambina era ancora piccola e quindi Meriam dice di essere anche lei cristiana, essendo stata cresciuta ed educata soltanto dalla madre.
I giudici di Khartoum hanno creduto alla famiglia del padre e non alla sposa, quindi lei è in carcere dal febbraio di quest’anno - insieme al primo figlio - con l’accusa di apostasia, ossia di aver tradito la fede islamica, e con quella di adulterio, perché il suo matrimonio sarebbe irregolare e quindi non riconosciuto dalla legge di quel paese, in cui sono particolarmente stringenti i vincoli imposti dalla sharia. Meriam è stata condannata all’impaccagione, anche se per ora la pena è sospesa, visto che la donna è incinta, e grazie anche alla mobilitazione internazionale che c’è stata - fortunatamente - intorno alla vicenda. E che speriamo continui.
Sposa deriva da sponsa, il participio passato del verbo latino spondere, che significa propriamente promettere ufficialmente come fidanzata. Presso gli antichi Romani una ragazza era detta sperata, quando era semplicemente corteggiata, pacta dopo che lo spasimante l’aveva chiesta in sposa in maniera ufficiale e rituale, sponsa quando c’era stato l’effettivo scambio della promessa tra i due, davanti ai familiari, e infine nupta, a nozze avvenute. Curiosa quindi la storia etimologica di questa parola, che nasce come termine femminile ed è passata poi a indicare sia l’uomo che la donna che decidono di contrarre questo reciproco impegno.
In un vocabolario semiserio - anche se alcuni lettori lo prendono troppo sul serio - come Verba volant, non posso non citare l’uso che in Emilia facciamo di questa parola: una sposa - pronunciata con la nostra caratteristica esse alveolare - è una bella donna, giovane - ma non giovanissima - formosa e piacente, insomma la donna in fiore, nell’acme della sua bellezza, un attimo prima di avere il più classico dei culi da sposa.
Per tornare alla sposa promessa, come direbbe il nostro don Lisander, tra gli antichi la donna era sostanzialmente un soggetto passivo di questo contratto, che veniva stipulato sempre tra uomini, spesso i padri dei due giovani, che si ritrovavano quindi sposi, ossia impegnati, senza alcuna loro partecipazione attiva. Purtroppo in molte parti del mondo questa è ancora la regola ed è qualcosa contro cui dobbiamo lottare, prima di tutto noi uomini. Non possiamo lasciare sole le donne in questa fondamentale battaglia di civiltà.
Naturalmente io spero che gli avvocati di Meriam riescano a dimostrare che la ragazza non è mai stata musulmana: la cosa importante, a questo punto, è che non venga uccisa e possa tornare libera a fianco del marito e dei figli. Al di là della sorte della giovane sudanese, una sentenza di questo genere, per quanto auspicabile, sarebbe comunque una sconfitta: Meriam - come ogni altra donna - dovrebbe essere libera di sposare chi vuole, qualunque sia la sua razza e la sua religione. In questo processo la vera vittoria sarebbe quella di riconoscere il diritto di Meriam di sposare semplicemente l’uomo che ha scelto. Come ho detto, adesso l’obiettivo primario è la vita di Meriam e quindi va bene andare avanti così, ma dobbiamo continuare la battaglia affinché il matrimonio, in ogni paese dal mondo, sia un istituto libero, in cui i due sposi siano gli unici responsabili dell’impegno che stanno per contrarre.
Come sa chi è sposato, si tratta di un impegno serio, che richiede a volte sacrifici, sempre dedizione, ed è per questo che deve essere accompagnato dall’amore e dal rispetto. Come sapete, io sono un così strenuo difensore del matrimonio da voler concedere questo diritto anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso; su questo punto sono pronto a sfidare Giovanardi su chi sia il più accanito difensore della famiglia, certo di riuscire a vincere.
C’è però nella storia di Meriam qualcosa di più. Se la giovane avesse accettato di rinunciare alla sua fede, anche solo esteriormente, la sua vita sarebbe già salva. Meriam non l’ha fatto e questa scelta le fa onore. La storia della giovane sudanese richiede a ciascuno di noi non solo di impegnarci, con ogni sforzo possibile, affinché sia impedita un’ingiustizia e siano rispettati i diritti e la dignità di ogni essere umano, in qualunque parte del mondo, ma ci chiede anche di accettare e di riconoscere questa sua testimonianza di fede e di amore.
So che qualcuno può credere che in questa vicenda si confrontino due forme di integralismo e in un certo senso questo rischio c’è. Per questa ragione c’è bisogno di quelle regole, laiche e universali, che troppe volte la stessa religione cattolica non ha voluto accettare, in nome della superiorità della propria dottrina. Quando le persone che hanno una fede, qualunque essa sia, capiranno che i diritti dell’uomo non sono qualcosa che va contro le religioni, ma anzi un elemento fondamentale per tutelare chi crede, avremo fatto un passo avanti, tutti, credenti e non credenti.
Anche a difesa delle spose e delle donne che rifiutano un matrimonio che non vogliono.

scritto il 18 maggio 2014

Verba volant (88): ultra...

Ultra, sost. m.

Questa parola ha una storia curiosa, che merita di essere raccontata.
Deriva naturalmente dalla preposizione latina ultra, che significa oltre. Nella Francia della Rivoluzione dell'89 ha cominciato ad indicare, come abbrevazione di ultrarévolutionnaire, chi spingeva all'eccesso la propria ideologia e, di conseguenza in quegli anni in cui pensiero ed azione andavano di pari passo, la propria prassi politica. In seguito, durante la Restaurazione, ha indicato - in questo caso come abbreviazione di ultraroyaliste - i partigiani intransigenti della monarchia assoluta, avversari della Carta costituzionale concessa da Luigi XVIII nel 1814. Dopo un periodo di oblio, la parola è tornata in auge, sempre in Francia, nel secondo dopoguerra, quando, almeno a partire dal 1950, è stata usata per indicare i nazionalisti intransigenti e oltranzisti, che si opponevano alla decolonializzazione dell'Algeria. Ultra insomma ha sempre avuto un significato squisitamente politico.
Nella lingua italiana, dove è ormai invalso l’uso di accentarne l’ultima lettera, questa parola è passata ad indicare il tifoso fanatico di una squadra di calcio, spesso appartenente a gruppi organizzati, quelli che in Gran Bretagna e nell’Europa continentale sono conosciuti come hooligans. Anzi sono stati proprio questi gruppi ad usare per primi questa parola per indicare se stessi. Secondo alcuni studiosi i primi a usare il termine furono, agli inizi degli anni Settanta, i tifosi della Roma, organizzati nel Commando Ultrà Curva Sud; anche se naturalmente il tifo violento e organizzato c’era già prima che gli ultras cominciassero a chiamarsi così.
Ho deciso di scrivere questa definizione domenica mattina, leggendo i resoconti - ovviamente pomposamente sdegnati - della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. I fatti sono noti, come è ormai nota l’immagine di Genny ‘a carogna, uomo della camorra, pregiudicato e capo della tifoseria del Napoli, il quale, dietro alle sollecitazioni dei dirigenti della propria squadra e verosimilmente delle stesse forze dell’ordine, ha permesso che la partita cominciasse, nonostante alcuni tifosi napoletani fossero stati aggrediti prima del match. Davanti alle facce impotenti dei massimi vertici dello sport nazionale e dei rappresentanti delle istituzioni, Genny ‘a carogna ha “concesso” l’autorizzazione a giocare, bloccando le proteste dei suoi uomini in curva.
C’è effettivamente stata la “trattativa” tra il signor ‘a carogna e i rappresentanti della Questura? Verosilmente sì, nonostante le imbarazzate smentite del questore di Roma, visto che il capo ultra, oltre ad essere un pregiudicato - ma, d’altra parte, che volete che sia di questi tempi - indossava una maglietta con la scritta Speziale libero. Speziale è il criminale che ha ucciso sette anni fa l’ispettore capo Filippo Raciti, nel corso di una partita di calcio a Catania; Genny e quelli come lui chiedono da tempo la liberazione del loro compare. La reazione composta, ma molto dura, della vedova Raciti e il malessere tra gli stessi poliziotti, ha costretto il questore di Roma e i suoi indegni pari a smentire se stessi.
In un paese in cui le riforme istituzionali vengono fatte con un pregiudicato e in cui è stata avviata, ai massimi livelli, una trattativa tra lo stato e i capi della criminalità organizzata, figuratevi se un figuro come il questore di Roma non chiedeva a Genny ‘a carogna di garantire l’ordine pubblico alla stadio Olimpico, per fare bella figura con il premier seduto in prima fila.
E’ verosimile che la trattativa sia avvenuta, perché avviene sostanzialmente tutte le domeniche, in tutti gli stadi italiani. Le squadre danno soldi - spesso molti soldi - ai gruppi del tifo organizzato, per garantirsi il loro appoggio e la loro“protezione”; le forze dell’ordine chiudono qualche occhio nel controllo agli accessi degli stadi e gli ultras si “impegnano” a non esagerare, a non farci scappare il morto. Non sempre ci riescono, ma è su questo equilibrio, pericoloso, che si regge troppo spesso la connivenza tra squadre e ultras, con la benevola complicità dello stato. Si fa in modo che non succedano problemi alle città, masi lasciano gli stadi alla mercé del tifo violento. La trattativa sabato sera è avvenuta perché i vertici del calcio, le autorità del Viminale e quelli come Genny ‘a carogna si conoscono da tempo, “lavorano” insieme tutte le domeniche e sanno come aiutarsi gli uni con gli altri. Quindi bando alle ipocrisie di chi oggi dice di volere la tolleranza zero verso questi criminali.
Ovviamente mantenere in piedi la rete del tifo violento e organizzato è utile anche per molti altri motivi e per interessi difficili da confessare. Gli ultras possono essere utili in molte occasioni sia alla criminalità organizzata sia a pezzi dello stato. Quando serve qualcuno che meni in piazza, quando serve qualcuno che crei disordini, basta allungare qualche soldo e si trova subito chi si mette sempre a disposizione. Servono dei facinorosi per ingrossare le fila di un movimento di protesta, come è avvenuto con i forconi? Basta chiedere alla carogna. Serve qualcuno per dare la caccia ai neri a Rosarno? ‘A carogna te li fornisce, in questo probabilmente perfino gratuitamente. Ai vertici della polizia servono un po’ di teppisti per organizzare disordini in piazza a Roma, magari in concomitanza con qualche altra manifestazione a loro sgradita? Arrivano anche quelli, vestiti di nero e con le mazze. Quei “lavoretti” che un tempo i fascisti facevano per lo stato adesso li fanno gli ultras, che hanno anche meno pretese e pensano meno.
Questa è la vera trattativa che avviene da anni tra lo stato e i violenti del crimine organizzato; forse siamo davvero troppo oltre.

scritto il 4 gennaio 2014

mercoledì 2 marzo 2016

Verba volant (252): utero...

Utero, sost. m.

La lingua a volte è davvero strana e infatti questa parola, così esclusivamente femminile, è di genere maschile: purtroppo siamo stati noi maschi a "inventare" le parole e siamo ancora noi maschi a scrivere i vocabolari.
Immagino sappiate perché proprio in questi giorni ho deciso di scrivere questa definizione.
Io so, con assoluta certezza, che, se volessi un figlio, se lo desiderassi più di ogni altra cosa, non riuscirei mai a utilizzare la surrogazione di maternità. Sento che la mia coscienza, le mie convinzioni etiche, quello che mi hanno insegnato, in sostanza quello che sono, mi impedirebbero di chiedere a un'altra persona di tenere nel proprio grembo per nove mesi il figlio mio e di mia moglie, per poi consegnarcelo una volta venuto alla luce. Allo stesso tempo non riesco a trovare una ragione, ultimativa, definitiva, assoluta - vorrei dire - per dire che fare questa scelta sia contrario a un'etica condivisa. Provo a fare un esempio per spiegarmi meglio: io so che non ucciderei mai un'altra persona e allo stesso tempo so, con altrettanta certezza, che questa regola dovrebbe valere per tutti gli uomini, vale per tutti gli uomini, ma sulla maternità surrogata non riesco a dire la stessa cosa.
E' un tema a cui mi è capitato di pensare - e di scrivere - anche prima di adesso, prima che diventasse di moda. Nell'aprile del 2010 scrissi un articolo di questo blog per raccontare quello che avveniva - e avviene - in India, dove questa pratica costituisce una fonte di sostentamento per tante famiglie. Devo anche dire che il dibattito di questi giorni si sta caratterizzando per una volgarità che è evidentemente frutto di questi anni infelici. Manca l'elementare rispetto per le persone coinvolte, prima di tutto per i bambini che, al di là del cognome che porteranno, dovrebbero essere tutelati e non essere costretti a leggere tra vent'anni - visto che la rete è impietosa e conserva ogni cosa - un tale carico di contumelie. Purtroppo l'aver sovrapposto il tema della maternità surrogata a quello delle unioni civili ha finito per scaricare su questo tema così delicato l'omofobia imperante nella nostra società. La maternità surrogata non è qualcosa che riguarda le coppie omosessuali, ma è una pratica medica che coinvolge le coppie "normali", probabilmente anche qualcuna di quelle andate al Family day. Voglio poi dire, a conto di conquistarmi qualche ulteriore antipatia, che è altrettanto volgare farsi un'opinione, favorevole o contraria, sul tema solo in base alla simpatia o meno che si ha per Vendola, come mi pare stia accadendo in troppi casi.
Per questi motivi provo a partire da quello che penso io, non pretendendo che sia quello che pensate voi.
Una delle ragioni che mi impedirebbero di utilizzare la maternità surrogata è che si tratta di una violazione molto radicale dell'ordine naturale. E' una riflessione simile a quella che mi capita di fare a proposito della morte. Quando stiamo per morire - o a seguito di una malattia o a causa di un grave incidente - ora ci sono degli strumenti tecnici che possono ritardare, anche di molti anni, quel fatale momento. E' successo ad Eluana Englaro: se avesse avuto lo stesso incidente qualche anno prima - o se i soccorsi non fossero stati così tempestivi - sarebbe morta, perché quello era nell'ordine delle cose, e non ci sarebbe stato tutto quello che è successo dopo, nel troppo lungo intervallo tra le sue due morti. In tante occasioni, che diventano adesso oggetto di conflitti etici, la natura avrebbe già preso una propria decisione, drammatica e crudele quanto la natura sa essere. Con il progredire degli studi scientifici gli uomini hanno ottenuto in diversi casi la forza per avere il sopravvento sulle leggi della natura. Ed è evidente che gli uomini che hanno deciso di prendersi questo enorme potere, così terribile, non sanno come usarlo o almeno non sanno come affrontare le conseguenze delle proprie decisioni. Così è diventato tecnicamente possibile fare nascere un bambino nell'utero di un'altra donna che non sia la madre, ma quali sono le conseguenze, per il bambino, e per le due madri? Questa valutazione per me è molto importante, quasi definitiva, ma a suo modo anche debole, perché non riuscirei a imporla ad altri. Anche un trapianto è qualcosa che viola le leggi della natura, eppure oggi nessuno - o quasi - pensa che i trapianti siano eticamente sbagliati. Io non lo penso: se un trapianto servisse a salvare la vita di una persona a cui voglio bene, sarei disposto a donarle quel mio organo, quella parte di me. Eppure non è naturale, non è nell'ordine delle cose. E allora che diritto ho di dire che questo è lecito e la maternità surrogata no. Posso deciderlo per me, ma come faccio a deciderlo per gli altri?
Tra chi chiede che la maternità surrogata sia vietata - o continui a essere vietata - ci sono coloro che dicono che in fondo questa è una forma di egoismo, che essere genitore non è un diritto. Personalmente credo sia vero e che sia un discorso condivisibile. Il legittimo desiderio di diventare madre - o padre - finisce per prevalere su ogni altra valutazione, finisce per prevalere sul diritto di chi sta per nascere e su quello della donna che svolge quel compito così intimo. Ma anche questa è inevitabilmente una mia valutazione: chi sono io, chi siamo noi, per dire che quei genitori non saranno bravi genitori, solo perché hanno fatto quella scelta? Che diritto abbiamo di dare un giudizio etico di una persona in base a una scelta del genere?
Come sapete io sono una persona di sinistra e quindi lotto contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, contro la sua mercificazione. E indubbiamente dietro al fenomeno della maternità surrogata c'è un incredibile e florido mercato, che sfrutta la povertà delle donne. La vicenda delle donne indiane ci racconta proprio questo. Anche questo però non riesce a essere un argomento ultimativo. Intanto perché ci sono donne che fanno questa scelta indipendentemente dal bisogno economico, perché ci sono donne che considerano, in maniera consapevole, quel loro servizio, anche se pagato, non come una mercificazione. Se una donna ricca accettasse, gratuitamente, di essere la madre surrogata di una donna povera, dovremmo essere d'accordo, mentre consideriamo scandaloso il contrario?
A chi oggi scopre che esistono delle donne che affittano il loro utero perché sono povere - e si scandalizzano per questo - vorrei ricordare che loro spesso sono clienti di donne che "affittano" il loro corpo per lo stesso motivo. Sapete che l'ipocrisia proprio non la sopporto. Non potete tollerare la prostituzione e scagliarvi contro la maternità surrogata. Non potete accettare che le donne nei paesi poveri producano in condizioni bestiali i vostri telefoni e i vostri pantaloni e dire che non possono fare le madri surrogate. In alcuni paesi fare la madre surrogata è decisamente meglio che fare l'operaia perché, almeno per nove mesi, chi ti sfrutta deve darti da mangiare a sufficienza, devi farti dormire, deve assicurarti delle cure mediche, cosa che normalmente non avviene per quelle donne. Se una donna indiana, grazie a quella maternità, riesce ad assicurare un futuro ai propri figli, come possiamo pretendere che dica no, grazie. E allora la questione non è solo accettare o meno la maternità surrogata, è cambiare le regole del gioco, ribaltare i rapporti di forza, tra poveri e ricchi, tra donne e uomini, tra sfruttati e sfruttatori. Lo so che a qualcuno di voi appaio noioso ed estremista perché alla fine riconduco tutto alla lotta di classe, ma non posso farci niente se i rapporti di forza sono così violentemente e ingiustamente squilibrati, se c'è chi ha moltissimo e chi ha pochissimo. E anche lo sfruttamento del corpo della donna, in tutti i modi in cui viene sfruttato - e sono tanti, e sono troppi - è parte di questo conflitto.
In un divertente film francese di molti anni fa un personaggio diceva: un giorno verrà il comunismo e non ci saranno più pene d'amore. Probabilmente non è vero né che arriverà il comunismo né che finiranno le pene d'amore. E forse, anche se verrà il comunismo, non è detto che non ci sarà più il bisogno di trovare, ad ogni costo, il modo per diventare padri e madri; anche con la maternità surrogata. Io continuo - e continuerò - a credere che sia sbagliato e, se fossi chiamato a decidere su una legge in materia, direi che è giusto vietarla. Ma senza urlare, e con tanti dubbi. E su questo vorrei davvero che si esercitasse la saggezza delle donne, a cui dovremo, una buona volta, far riscrivere i vocabolari.