domenica 31 luglio 2016

Verba volant (294): orchestra...

Orchestra, sost. f.

Le cose acquistano un senso e assumono un particolare significato anche per dove succedono. La città di Saint-Étienne-du-Rouvray nel 1923 - solo tre anni dopo il congresso di Tours - è stata una delle prime in Francia a essere guidata da un'amministrazione comunista. E qui la sinistra più radicale è sempre stata maggioranza, tanto che il sindaco è ancora un esponente del Pcf, un partito che in altre regioni è quasi sparito. In questa piccola città del nord della Francia c'è stato negli ultimi anni un dialogo attivo tra le varie chiese: i musulmani per qualche tempo hanno usato come sala di preghiera uno spazio della parrocchia e la moschea è successivamente sorta su un terreno vicino alla chiesa, messo a disposizione dalla diocesi. Dopo la strage di Charlie Hebdo i rappresentanti delle varie confessioni religiose hanno messo in piedi un comitato per rendere più stabile questo dialogo interreligioso, un gruppo di lavoro a cui partecipava tra gli altri padre Jacques Hamel. In sostanza Saint-Étienne-du-Rouvray racconta la Francia migliore, quella a cui molti di noi sono particolarmente legati. Eppure proprio qui è successo quell'episodio così grave, capace di modificare la storia di quel paese e dell'Europa e di travolgere per molti anni i rapporti tra i paesi occidentali e il mondo islamico. Al di là di quello che succederà - e di quello che riusciremo a fare noi donne e uomini di buona volontà - l'uccisione di padre Jacques segna comunque un momento di cesura, di rottura, è uno di quegli episodi che raccontano un prima e un dopo.
La strage di Charlie Hebdo e l'uccisione di padre Jacques - pur con le differenze di cui dopo dirò - ci hanno particolarmente segnato, perché in entrambi questi attacchi l'obiettivo è stata appunto questa Francia, la Francia capace di insegnare qualcosa al mondo. Quel paese è da sempre diviso, c'è una Francia conservatrice, vandeana durante la Rivoluzione, ferocemente e ottusamente antisemita ai tempi dell'affaire Dreyfus, fascista con Petain e la Repubblica di Vichy, razzista e coloniale con l'Oas, la Francia che in questi ultimi anni è rappresentata dal Front national dei Le Pen. E c'è una Francia che si è sempre battuta contro questa anima nera, una Francia di cui erano rappresentanti, seppur in modo assai diverso, sia i disegnatori anarchici e blasfemi di Charlie Hebdo sia quel vecchio canonico che presumibilmente non aveva in gran simpatia quel giornale, ma che ha tentato di costruire, a partire da quella parrocchia lontana da Parigi, un paese diverso, più accogliente, meno violento, più umano.
L'uccisione di Charb, di Cabu, di Tignous, di Wolinski e delle altre persone che si trovavano quel 7 gennaio nella redazione di rue Nicolas-Appert non è stata un caso, perché quell'attentato è stato pianificato, quel giornale e i suoi redattori erano l'obiettivo di quei fanatici nemici della libertà di espressione, della satira e soprattutto di un mondo finalmente libero dal fascismo in tutte le sue forme. La morte, così violenta e drammatica, di padre Jacques invece è frutto di un caso, della decisione di due ragazzi che, senza un piano, senza un obiettivo preciso, hanno pensato che fosse giusto attaccare una chiesa e uccidere un prete, chiunque fosse. Anzi pare che proprio la strage del gennaio 2015 sia stato l'episodio che ha spinto il giovane Adel Kermiche a radicalizzarsi, a cambiare il proprio atteggiamento verso la religione fino a convincerlo a lasciare il paese in cui era nato per raggiungere la Siria, dove avrebbe voluto unirsi alle forze dell'Isis. Ovviamente quelli dell'Isis hanno gioito, perché quella morte fa il loro gioco, tende ad approfondire il fossato tra il mondo occidentale e quello musulmano, e altrettanto hanno gioito qui da noi quelli che hanno interesse che questa guerra venga combattuta, per distrarci dalla guerra di classe, per imporci, nel nome della sicurezza, una drastica riduzione dei diritti civili e sociali e una revisione in senso autoritario delle costituzioni democratiche.
Proprio questa casualità, il fatto che l'uccisione di padre Jacques non sia stata programmata, ci fa - se possibile - ancora più male e quindi dovrebbe interrogarci di più, dovrebbe farci riflettere su quello che in questi anni abbiamo - ed evidentemente non abbiamo - fatto. Quei due ragazzi che hanno deciso di uccidere quel prete avevano dei problemi psicologici e personali che né le loro famiglie né le strutture di quella comunità hanno saputo riconoscere nella loro gravità. E anche su questo dovremmo interrogarci, perché anni di mancati investimenti sulla scuola e sui servizi sociali di comunità provocano anche questa incapacità di riconoscere il disagio, quando comincia a manifestarsi, prima che diventi un problema da affrontare esclusivamente con la forza della polizia. Ma questa vicenda ci colpisce soprattutto perché quei due ragazzi sono cresciuti in un contesto in cui qualcosa si era tentato di fare affinché crescesse una cultura del rispetto, della tolleranza, della conoscenza reciproca. Evidentemente non è stato fatto abbastanza - o è stato fatto in maniera sbagliata - se anche lì, nella "rossa" Saint-Étienne, nella città in cui il prete e l'imam collaborano, ragazzi nati e cresciuti in Francia si sono radicalizzati così in fretta. Almeno nel caso di Adel non possiamo neppure parlare di un contesto di povertà e di degrado, perché la sua famiglia non viene dalle banlieue.
Pur in questo momento di smarrimento, proprio perché sentiamo che la risposta che abbiamo dato fino a ora è stata debole e inefficace, credo che occorra non farsi prendere dallo sconforto e soprattutto non cedere a chi ci dice - e in questi giorni sono tanti - che lo scontro è inevitabile, perché - è una tesi che va per la maggiore - il mondo musulmano sarebbe per natura nemico dei diritti e della democrazia. A parte che è curioso che molti di quelli che fanno un discorso del genere si richiamino a un cristianesimo che ha avuto le stesse - se non peggiori - caratteristiche di quelle oggi criticate nell'islam, noi dobbiamo rifiutare questa impostazione troppo semplicistica, che finisce per danneggiare prima di tutto noi, perché inaridisce ogni forma di dialogo e di confronto.
Per fortuna anche dall'interno delle due religioni si levano voci che tentano di mettere in minoranza queste opinioni, sono state importanti le parole del papa, che ha messo in evidenza che una guerra si combatte sempre per le risorse economiche e sono importanti le manifestazioni di partecipazione comune ai riti. Ma io credo che da parte nostra, da parte di chi non crede, oggi sia necessario uno scatto in più, perché altrimenti rischiamo di lasciare un tema che coinvolge tutti solo a una parte della società. Il confronto tra le religioni interessa tutti non solo perché tutti possiamo finire vittima di un attentato - cristiani, musulmani, atei - ma perché forse possiamo offrire un terreno di dialogo, se rinunciamo a un laicismo isterisco.
Anche dopo quello che è successo in quella chiesa vicino a Rouen, anzi tanto di più dopo quella morte, e quelle di Nizza e quelle di tante città siriane - in un elenco di cui ormai non riusciamo più a tenere il conto - occorre costruire un confronto che non sia scontro, nel quale ciascuno di noi porti i propri valori e la propria identità con orgoglio. Atene, Alessandria, Roma, erano città multiculturali in cui non mancarono gli scontri, in cui tantissimi uomini vennero uccisi per le proprie idee e la propria fede, eppure divennero grandi proprio al fatto di aver fatto vivere questa complessità, di aver trovato un equilibrio grazie alla cultura, all'educazione, all'arte. L'errore più grande che potremmo fare è quello di costruire una società in cui queste differenze vengano annullate, che abbia come meta l'identificazione di tutti in un'unica società globalizzata che, proprio per il fatto di essere di tutti non è più di nessuno. Ho l'impressione che una parte del disagio di Adel e di tanti ragazzi che, pur nati in Europa e negli Stati Uniti, vorrebbero combattere per l'Isis, nasca da questa società omologata e omologante che francamente credo faccia paura anche a ciascuno di noi. Se siamo sempre più consumatori piuttosto che cittadini, se ci vogliono sempre più uguali, allora il rischio che la debolezza di qualcuno si trasformi in pazzia sarà sempre più alto. Come sarà sempre più facile che qualcuno offra un'identità possibile, anche la peggiore, di cui comunque faranno vedere solo gli aspetti positivi.
Alla fine degli anni Settanta Federico Fellini diresse Prova d'orchestra, un film complesso, pessimista, amaro, sulla società di allora, perché quei musicisti non sembravano più capaci di trovare la capacità di suonare insieme e su di loro pesava, non solo metaforicamente, la palla da demolizione che squarciava i muri della sala in cui stavano provando. Credo che il nostro obiettivo sia proprio quello di ripensare alla nostra società come a un'orchestra, perché è nell'orchestra che nasce l'armonia a cui tutti contribuiscono solo se se suonano al meglio il proprio strumento. Anche se, ora come allora, la sala in cui dovremmo suonare, sta per essere distrutta.

mercoledì 27 luglio 2016

Verba volant (293): giocare...

Giocare, v. intr.

Non gioco a Pokémon Go. Vi assicuro che non è per snobismo, ma temo il caldo e francamente sono troppo pigro per questa attività, che richiede una qualche tempra sportiva, che purtroppo non ho. E poi ho già il mio gioco per il computer: da quasi tre anni colleziono parole.
Per quello che mi hanno raccontato non sono un detrattore di questo gioco, anzi. Per anni ci siamo lamentati che i nostri ragazzi stavano chiusi in casa, attaccati ai loro videogiochi, e adesso non possiamo lamentarci ancora, visto che c'è questo gioco che li obbliga a uscire di casa, a camminare, a scoprire luoghi meno noti delle nostre città. Ovviamente bisogna vedere dove vanno a camminare: non vorrei che mio figlio andasse a caccia di questi strani animaletti in mezzo a un'autostrada o dentro il recinto di una base militare o all'interno di Auschwitz, ma evidentemente questo è anche un problema mio come educatore, se non gli ho insegnato che andare a giocare in certi luoghi è troppo pericoloso o è vietato o è semplicemente immorale. Se mio figlio andasse a cercare un pokemon in un luogo dove hanno ucciso migliaia di persone, sarei io quello da criticare e da fermare, non la casa produttrice del gioco.
Di questo nuovo gioco mi piace inoltre che in qualche modo spinga le persone - specialmente le giovani persone - a incontrarsi non solo virtualmente e credo che questo faccia loro bene.
Sinceramente c'è un aspetto di questo gioco che un po' mi inquieta molto e non sono le persone che in giacca e cravatta si fermano all'improvviso perché hanno sentito il bip che annuncia che il mostriciattolo è lì vicino. Mi preoccupa il fatto - ma vale non solo per questo gioco - che qualcuno possa sapere con incredibile precisione cosa abbiamo fatto, dove siamo andati, chi abbiamo incontrato. Ogni giorno ciascuno di noi rinuncia a un po' della propria libertà. Io per primo lo faccio: se domenica vado a fare una gita a Monculio di sotto, state pur tranquilli che vedrete in tempo reale le foto di questa ridente cittadina, e se poi decido di andare a pranzo alla pizzeria Bella Napoli di Monculio di sotto anche di questo verrete informati, con un bel primo piano della pizza. Curiosamente a volte mi tocca faticare per avere un'informazione dal cittadino che viene da me allo sportello, perché mi dice che c'è la privacy, mentre potrei tranquillamente verificare quella stessa informazione su di lui su Facebook, perché lì l'ha messa senza pensarci. Noi qui ci mettiamo a nudo, a volte non solo in senso metaforico, e mettiamo tutte queste informazioni a disposizione di qualcuno di cui forse dovremmo avere paura. Credo non sarebbe male se cominciassimo davvero a rifletterci, non per fare fantascienza, ma per capire cosa ciascuno di noi guadagna e perde mentre sta su questo mezzo che offre tantissime opportunità e nasconde altrettanti pericoli: la libertà a volte ha questa doppia faccia.
Però, anche se abbiamo paura, credo che non dovremo smettere di giocare, perché giocare è un'attività rivoluzionaria, anche quando lo facciamo con gli strumenti che ci mette in mano il capitale. Il tema non è il gioco in sé - stupido o intelligente che sia - ma quando, come e perché si gioca. Anzi io, sulla scorta dell'art. 31 della Convenzione sui diritti dell'infanzia, sono convinto che le bambine e i bambini abbiano il diritto di giocare e noi "grandi" dobbiamo fare di tutto, il possibile e l'impossibile, affinché questo diritto sia garantito. E ricordiamoci che il diritto di giocare non è meno importante di quello di studiare. E anche noi - che bambini non lo siamo più da un pezzo - abbiamo diritto di giocare. Anzi io sono comunista anche perché penso che le donne e gli uomini debbano lavorare di meno e quindi avere più tempo da dedicare a se stessi e agli altri. E dedicare tempo a se stessi vuol dire anche giocare. Ora non è che penso che Pikachu sia un agente della Terza Interzionale, ma certamente giocare fa bene, anche alla politica.
Il problema è che giocare non è facile: le bambine e i bambini sanno bene che è un'attività che richiede tutta la loro intelligenza e la loro passione: giocare è una cosa maledettamente seria. Bisogna imparare le regole del gioco e allo stesso tempo sapere quando è possibile - o necessario - trasgredire a quelle regole, perché magari sono ingiuste o penalizzano qualcuno. Bisogna imparare a giocare insieme agli altri, a quelli che sono molto bravi, a quelli che lo sono meno, e a quelli che non sono proprio capaci e a cui bisogna avere la pazienza di insegnare. Bisogna sapere quando è il momento di smettere di giocare, perché quel gioco non piace più a uno dei giocatori: ad esempio quante donne muoiono perché ai maschi non insegnano quando è il momento di non giocare più. Bisogna fare giochi diversi, perché fare sempre lo stesso gioco non solo finisce per essere poco divertente, ma fa andare di matto. Certamente gli scacchi sono un gioco un po' più intelligente di Pokémon Go, ma, se avessi un figlio, non vorrei che diventasse maniaco degli scacchi, che passasse a giocarci tutto il suo tempo. Cambiare gioco e cambiare le regole del gioco è importante. E soprattutto bisogna imparare a vincere e a perdere e soprattutto a rispettare chi perde.
Vostro figlio gioca a Pokémon Go? State tranquilli, mi preoccuperei davvero se giocasse solo a Pokémon Go. Come mi fate preoccupare voi grandi che giocate solo a Pokémon Go. Se ci giocate, intanto è importante che lo facciate insieme con vostro figlio, magari riuscirete a imparare qualcosa da lui.

lunedì 25 luglio 2016

Verba volant (292): voltagabbana...

Voltagabbana, sost. m. e f.

Sarebbe bello e confortante se il 25 aprile 1945 fosse la data capace di raccontare questo nostro sfortunato paese, ma purtroppo non è così. Il 25 aprile racconta la storia di una minoranza, quella migliore, di italiane e di italiani - magari non così pochi come una propaganda interessata vorrebbe farci credere, ma pur sempre una minoranza - che con il proprio coraggio e il proprio sacrificio, anche estremo, hanno testimoniato quei valori altissimi che ancora noi dovremmo avere come guida. Quei pochi - quei pochi felici, avrebbe detto Shakespeare - hanno riscattato l'ignavia e la codardia della parte peggiore del nostro paese, quella numericamente maggiore.
Se dovessimo, con onestà e senza autocompiacimento, indicare una data per raccontare la maggioranza delle italiane e degli italiani allora dovremmo scegliere il 25 luglio 1943. Ovviamente anche in quella data non mancarono gli esempi di un fiero, coraggioso e mai nascosto antifascismo e giustamente ogni anno in questa data ricordiamo la pastasciutta antifascista che la famiglia Cervi preparò per festeggiare la fine del regime, da offrire a tutti i loro concittadini di Campegine. Ma il 25 luglio è soprattutto l'occasione per ricordare, e rimarcare, alcuni comportamenti che in qualche modo possono essere considerati i nostri veri caratteri originari.
Il 25 luglio racconta il tentativo, peraltro riuscito, delle classi dirigenti di questo paese di scaricare ogni colpa su Mussolini, mentre tutti loro, dal re agli alti gradi dell'esercito, dalla chiesa cattolica alle banche, dagli agrari ai grandi industriali, ebbero le stesse, se non maggiori, colpe nella nascita e nel consolidarsi del regime, nelle persecuzioni razziali e nella sistematica eliminazione di ogni forma di opposizione, fino alla scellerata decisione di scendere in guerra a fianco della Germania nazista. L'Italia divenne fascista perché i padroni avevano bisogno del fascismo per uccidere i capi socialisti e comunisti, come Matteotti e Gramsci, perché avevano bisogno di qualcuno che bruciasse le camere del lavoro, che picchiasse i sindacalisti, che impedisse al movimento operaio di crescere in Italia. L'Italia divenne fascista perché gli agrari avevano bisogno di difendere i loro latifondi dall'idea che la terra era di chi la coltivava e perché i padroni delle fabbriche avevano bisogno di operai che non chiedessero aumenti di stipendio o migliori condizioni di vita. L'Italia divenne fascista perché tutti questi non volevano che diventasse socialista.
Tolto di mezzo il duce - che proprio per questo sarebbe stato ucciso comunque, anche se non ci avessero pensato i partigiani - il re, i generali, i banchieri, gli agrari, gli industriali poterono tornare a governare l'Italia, come se niente fosse successo. Qualche anno dopo fu necessario sacrificare anche il re, ma fu per loro una perdita da poco. Anzi fu un modo per presentarsi in maniera più credibile come democratici, anche se dentro rimanevano fascisti.
Bisogna dire però che questa vile ipocrisia, questa sistematica mancanza di memoria, questo oblio istituzionalizzato, non furono solo appannaggio delle classe dirigenti, ma coinvolsero appunto la stragrande maggioranza degli italiani di allora, che in fretta gettarono via la camicia nera. Molti, più spudorati, dissero che loro non erano mai stati fascisti, cominciarono a criticare gli eccessi del regime e a denunciarne le malefatte, spesso si trasformarono in delatori, quando questo garantiva loro qualche vantaggio. Altri, forse ancora di più, in maniera meno appariscente, silenziosamente fecero finta di nulla, continuarono a fare quello che avevano sempre fatto, sicuri che alla fine tutto si sarebbe messo a posto, sarebbero arrivati i nuovi padroni - o meglio sarebbero stati gli stessi di prima, ma con in tasca una diversa e finalmente più rispettabile tessera di partito - e quindi anche loro sarebbero rimasti al loro posto. A questi servi poco importa chi siano i padroni, pur che la paga sia la stessa e soprattutto che il loro piccolo potere rimanga intatto.
E quindi questi nostri compatrioti, remissivi di fronti ai potenti che stavano sopra di loro e prepotenti verso i deboli che stavano sotto, maschilisti - non erano così perché lo voleva il fascismo, ma era il fascismo che era così per adeguarsi alla maggioranza degli italiani - bigotti e puttanieri - anche in questo Mussolini era non un modello, ma il prodotto della società italiana - sempre pronti a fregare gli altri, a non pagare le tasse, a chiedere favori, facendoli poi diventare diritti, a eludere i doveri, magari denunciando gli altri perché non rispettavano quelle regole che loro puntualmente violavano, quel 25 luglio divennero i "nuovi" italiani antifascisti. Loro ormai sono morti, ma i loro figli, i loro nipoti, sono qui, li conosciamo assai bene.
Il 25 luglio racconta la meschineria, l'ipocrisia, l'opportunismo, la slealtà degli italiani: prima o poi dovremo fare questa giorno festa nazionale.

sabato 23 luglio 2016

Verba volant (291): epurare...

Epurare, v. tr.

A questo punto è ormai irrilevante sapere se il colpo di stato in Turchia sia stato condotto in maniera dilettantesca dai militari che lo hanno promosso o sia stato organizzato a bella posta da quello stesso regime che avrebbe dovuto abbattere, per avere un pretesto per cominciare la durissima reazione a cui assistiamo sgomenti in questi giorni. La questione rilevante dal punto di vista politico è cosa diventerà quel paese nelle prossime settimane.
Il piano di epurazione messo in atto dal regime è stato così rapido e così esteso - ha interessato migliaia di persone, militari, magistrati, funzionari pubblici, insegnanti - da far credere che fosse già pronto da tempo; anche alcuni passaggi formali, come la veloce istituzione di un tribunale speciale, sono il segnale che questa svolta autoritaria era pianificata da tempo. Quello di Erdogan è un colpo di stato studiato in maniera troppo meticolosa per essere solo la reazione rabbiosa all'attacco di una parte dell'esercito. Anche dal punto di vista della comunicazione il dittatore turco ha dimostrato una cinica precisione: le foto di quei corpi nudi, gettati a terra come oggetti, in attesa di una qualche ipotetica punizione, sono un messaggio potente per fiaccare ogni possibile resistenza all'interno del paese e sembrano ricalcare, non a caso, gli antichi dagherrotipi in cui è stato raccontato il genocidio armeno.
Al di là delle dichiarazioni di facciata e anche della retorica islamista e religiosa sempre più pervasiva in quel paese, l'obiettivo sempre più evidente di queste mosse è consolidare il regime, eliminare ogni residuo di garanzia democratica legato alla costituzione, accentrare il potere nelle mani di Erdogan e dei suoi uomini, garantire i privilegi della classe dominante, riducendo i diritti dei lavoratori. Mi pare che qui da noi, quando si commentano le vicende del regime islamista di Erdogan, si sottolinei più l'aggettivo del sostantivo, che invece per me è centrale.
In Turchia in questi giorni è nato un regime, che incidentalmente è islamico, ma poteva essere anche di segno diverso. Erdogan aveva bisogno di un'ideologia, non aveva il tempo e i mezzi per costruirla - come invece fecero i regimi fascisti all'inizio del secolo scorso - e ha usato quella che aveva pronta, quella che è sostanzialmente pronta in ogni paese, ossia la religione, a cui sono legati una serie di valori tradizionali e conservatori che fanno sempre comodo in contesti del genere. La modernità fa paura, le novità di un mondo che cambia fanno paura - a volte anche a ragione, ad esempio tutti noi rimaniamo perplessi e impauriti di fronte ai cambiamenti imposti dalla scienza e dalla tecnologia - e quindi chi intercetta questa paura, chi sembra difenderci da questi cambiamenti così repentini, che non ci sentiamo capaci di capire e di gestire, finisce per imporsi, per averne un vantaggio anche politico.
A ben guardare il regime che è nato in questi giorni in Turchia, a seguito del colpo di stato - questo sì riuscito - di Erdogan ha molti punti in contatto con quelli fascisti impostisi in Europa all'inizio del secolo scorso: l'uso politico della religione e della tradizione, l'enfasi nazionalista, il prepotente maschilismo e l'esaltazione della forza, la chiusura verso l'altro, il diverso, dentro e fuori i confini. Ma è simile a quei regimi non solo per questi aspetti esteriori: il regime turco è la maschera che serve ai poteri economici per controllare un paese decisivo dal punto di vista strategico per la sua posizione, per la sua capacità di gestire la produzione e il commercio di alcuni beni fondamentali, come il gas naturale. Oppure per il ruolo che ha nel controllo dell'acqua: in Turchia ci sono le sorgenti del Tigri e dell'Eufrate e questo dà a quel paese un potere enorme su tutta la regione. Il regime di Erdogan serve a garantire i privilegi di questi poteri economici e di conseguenza a impedire lo sviluppo di una cultura dei diritti, politici ed economici. E infatti uno dei bersagli del regime sono le donne, a cui si vuole togliere il ruolo che hanno conquistato - a fatica là come qui da noi - in quella società, perché il regime è consapevole che la crescita del movimento delle donne - a ogni latitudine - finisce per far crescere la democrazia e la democrazia alla lunga fa crescere la consapevolezza dei diritti economici. Lo sapevano bene i nostri padri Costituenti che vollero mettere insieme, nell'art. 1 della legge fondamentale del nuovo stato nato dopo la dittatura fascista, i concetti di democrazia e di lavoro. E lo sanno bene i nostri nuovi padroni, che cercano di toglierci insieme la democrazia e i diritti del lavoro conquistati in anni di lotte.  
Molti si stupiscono della timidezza con cui gli Stati Uniti e i paesi europei reagiscono alle decisioni di Erdogan. Francamente il problema non è solo tattico, perché la Turchia è nella Nato - anzi ha il secondo esercito per numero di uomini all'interno dell'alleanza - ma perché quello che sta facendo Erdogan è quello che chi comanda davvero vorrebbe imporre anche negli altri paesi. E' notizia di questi giorni che in Francia è diventata legge senza un passaggio parlamentare la Loi travail, ossia la nuova norma che regola il mercato del lavoro in quel paese, rendendo più facili i licenziamenti, togliendo potere alla contrattazione nazionale, limitando i diritti dei lavoratori - esattamente come il jobs act, perché quelli che impongono queste leggi non stanno né a Roma né a Parigi. Il governo ha sfruttato ogni escamotage costituzionale e soprattutto ha approfittato, molto cinicamente, del clima di emergenza creato dal pericolo del terrorismo: non credo sia un caso che il definitivo passaggio istituzionale che ha portato alla promulgazione di questa legge abbia coinciso con l'ultimo, terribile, attentato a Nizza. In Francia ormai da un anno vige lo stato d'emergenza, che evidentemente non è servito a impedire nuovi attentati, ma che si sta rivelando molto utile a tenere sotto controllo i cortei sindacali.
Hollande è meglio di Erdogan? Certamente sì, perché so bene che in queste cose conta anche la misura, conta il modo in cui le cose si fanno, ma l'idea che sta dietro alle scelte dell'uno e dell'altro sono purtroppo le stesse e sono ad entrambi suggerite - o sarebbe dire meglio imposte - da poteri incontrollati e incontrollabili che detengono gran parte della ricchezza del pianeta.
So che discorsi del genere fanno storcere il naso a molti miei lettori e vi assicuro che capisco la differenza tra il regime turco e i regimi in cui viviamo noi: io posso scrivere queste cose, posso criticare, anche aspramente, il capo di stato del mio paese senza aver paura di perdere il mio posto di lavoro, la mia casa, la mia vita, mentre un blogger turco che dicesse queste cose sarebbe già imprigionato. Proprio per il fatto che abbiamo ancora questa possibilità - temo di dover dire questo privilegio, visto quello che succede nel mondo - non possiamo stare zitti. E dobbiamo dire che certamente Erdogan è nemico della democrazia, ma che anche i governi europei - anche quello italiano nella sua insipienza - non hanno particolare cura di questa forma di governo che è difficile da mantenere viva, che va protetta e salvaguardata, proprio perché ha nemici potenti. Stiamo correndo verso un mondo dove c'è meno democrazia - o spesso ci sono soltanto le sue forme esteriori - perché ci stanno facendo credere che la democrazia non sia in grado d proteggerci dai pericoli di questo mondo che cambia così velocemente. Per questo io ho paura di Hollande, di Merkel, di Hillary Clinton, come ho paura di Erdogan e li considero nostri nemici, perché nostri nemici sono quelli che li sostengono, li finanziano, in alcuni casi estremi - come quello italiano - li creano dal nulla. Diciamo allora la verità, ossia che il colpo di stato di Erdogan sta facendo nascere in Turchia un regime non islamista, ma capitalista, in cui il potere è concentrato nelle mani dei pochissimi che controllano le ricchezze e il cui scopo è aumentare queste ricchezze, a spese della maggioranza dei cittadini e dell'ambiente. Per questo, soprattutto in questi giorni, urliamo forte che i nostri veri nemici sono i fondamentalisti capitalisti. Questa dovrà essere la nostra lotta, in Turchia, in Francia, in tutto il mondo.

mercoledì 20 luglio 2016

¡No pasarán!


17 luglio 1936: comincia la guerra civile spagnola.
Se devo pensare a un solo avvenimento che possa raccontare a un ragazzo nato nel nuovo millennio tutto il Novecento - nella sua grandezza e nella sua meschinità, con i suoi crimini e con le sue speranze - inevitabilmente penso alla guerra di Spagna, alla nostra sconfitta nella guerra di Spagna.
Davvero nelle vicende drammatiche di quei pochi anni e di quel solo paese possiamo leggere tutta la storia europea del secolo scorso. L'affermazione di un fascismo violentemente antidemocratico, creato, fatto crescere e sostenuto fino alla fine dal capitale e alleato con tutte le forze retrive della società, dalla chiesa all'esercito. La debolezza e l'ipocrisia di quei democratici, anch'essi al soldo del capitale, che decisero di sacrificare i valori della democrazia - che pure a parole dicevano di difendere - pur di contrastare le forze popolari che stavano emergendo. La presa di consapevolezza da parte della nuova classe dei lavoratori che il mondo poteva essere finalmente cambiato, se loro fossero entrati nelle istituzioni democratiche da cui, fino allora, erano stati esclusi. Il germinare fecondo dell'idea che la democrazia si può realizzare davvero solo se si sovvertono i rapporti di forza economici, se i contadini diventano padroni delle terre che coltivano, se gli operai controllano le fabbriche e i mezzi di produzione, se i lavoratori diventano protagonisti della vita economica, perché non ci può essere democrazia dove c'è povertà, dove c'è lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La nascita di una resistenza internazionale, la consapevolezza che quello che succede in un paese riguarda anche la vita delle persone che vivono negli altri paesi, che i lavoratori possono vincere solo se rimangono uniti: le migliaia di volontari, donne e uomini, di tutte le età, di tante idee politiche, che formarono le Brigadas Internacionales rappresentano una delle pagine più gloriose della storia antifascista del secolo scorso. Il riconoscimento che troppe volte le divisioni tra le forze che rappresentano i lavoratori, l'affermazione di categorie dottrinali, il prevalere di interessi nazionali e delle forme più deteriori della tattica politica finiscono per indebolire, in maniera esiziale come è avvenuto appunto in Spagna, la lotta delle classi più povere. L'uso senza limiti della violenza, una violenza cieca, inumana, che lascia senza fiato, che solo un grandissimo artista come Pablo Picasso poteva raccontare, in quella che - non a caso - è l'opera d'arte che racconta da sola tutto il Novecento.
La guerra di Spagna è tutto questo. E per questa ragione, a ottant'anni dall'inizio di quel conflitto, quella storia ci parla in maniera così chiara, così diretta. Quella storia è la nostra storia, qui e ora. Perché quella lotta continua ancora, seppure in forme molto diverse rispetto a un secolo fa. Il capitale in questi ottant'anni si è fatto ancora più violento, più spietato, più egoista, ha ucciso e uccide milioni di persone: Guernica è ovunque, in ogni angolo del mondo. La nostra reazione è invece più debole, le divisioni tra i lavoratori, tra gli oppressi, tra gli sfruttati, sono sempre più nette e finiscono per farci soccombere. Per questo abbiamo bisogno di studiare il nostro passato, abbiamo bisogno di raccontare storie che ci vogliono far credere che siano lontane, ma che invece sono attualissime, abbiamo bisogno di esercitare la memoria. E abbiamo bisogno di studiare la realtà, di svelare quello che vogliono nasconderci, di indignarci di fronte alla verità che scopriamo. E soprattutto abbiamo bisogno di lottare, senza arrenderci, anche se è così dura, anche se ci sentiamo così deboli, anche se pensiamo che saremo sconfitti.
Ora come allora ¡No pasarán!

lunedì 18 luglio 2016

Verba volant (290): passaggio...

Passaggio, sost. m.

Per una mia inveterata abitudine diffido delle versioni "ufficiali", ma allo stesso tempo cerco di non dare credito neppure a quelle più fantasiosamente ricche di retroscena: ad esempio non credo che Lee Harvey Osvald abbia ucciso Kennedy, ma non ho mai creduto neppure al "grande complotto", in cui sarebbero stati coinvolti tutti, da Johnson a Hoover, escludendo solo quello che pulisce i gabinetti alla Casa bianca. Provando a capire quello che è successo lo scorso 14 luglio a Nizza credo sarebbe sbagliato partire dalle versioni fornite dal governo francese e dall'Isis, visto che entrambi i soggetti - anche se ovviamente per ragioni diverse - hanno bisogno di accreditare quella strage come un episodio della guerra tra il mondo occidentale e quello musulmano, a cui tutti stanno tentando di portarci. Siccome io non credo a questa guerra, non credo neppure a chi la fomenta. Come noto io credo alla guerra di classe, e sapete anche da che parte sto in questo conflitto.
Leggo che in queste ore le forze di polizia si affannano a catturare i presunti complici di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, a costruire la rete islamista di cui avrebbe fatto parte, che gli avrebbe fornito il piano, anche se evidentemente non serve un piano per ammazzare delle persone con un camion: bisogna solo scegliere il momento in cui su una strada ci sono molte persone ferme, ad esempio lo spettacolo pirotecnico del 14 luglio. Al di là di ogni altro disegno politico - di cui dirò - è comunque rassicurante dimostrare che Mohamed era un terrorista, perché un terrorista può essere scoperto, intercettato, perfino fermato, prima che compia il suo disegno di morte. Ma un matto non può essere fermato, se non dopo che ha colpito. Non so se Mohamed fosse pazzo - e non vorrei aprire un dibattito su cosa sia la pazzia - ma certamente dalle notizie che sono state raccolte immediatamente dopo l'attentato, prima che si riuscisse ad accreditare la versione ufficiale, l'attentatore di Nizza non sembra affatto un terrorista islamico. Intanto non era religioso, anzi aveva lasciato la sua famiglia, che invece era molto religiosa, per sposare una donna per metà francese, da cui aveva poi divorziato. Mohamed non frequentava la moschea, non rispettava i precetti del ramadam, Mohamed non era - a dispetto del nome - un musulmano. ma solo uno che era nato in una famiglia di musulmani. Anche'io sono stato battezzato e sono andato all'oratorio da piccolo - come tutti i miei amici - eppure non sono un fondamentalista cattolico.
Mohamed era certamente una persona violenta, era forse disturbato, era uno dei tantissimi che non ha gli strumenti per affrontare un passaggio così difficile, da una famiglia profondamente attaccata a valori tradizionali a una società in cui quei valori sono ostentamente rifiutati. Mohamed viveva in una realtà sociale in cui non era integrato e in cui la maggioranza dei francesi non vuole che questa integrazione avvenga. Il sud della Francia è allo stesso tempo la regione dove vivono più immigrati e quella in cui è da molti anni più forte la destra nazionalista e fascisteggiante dei Le Pen e dove operano gruppi apertamente nazisti e razzisti. E' difficile in tutta Europa essere un immigrato, nella Francia del sud è decisamente più difficile. E ovviamente in un contesto del genere è più facile essere sfruttato, magari da quegli stessi che non vorrebbero che tu fossi lì, come fanno i leghisti di Salsomaggiore - e di tutta Italia - che non vogliono i negri, ma poi danno loro in affitto le case, regolarmente in nero. Ovviamente questo non giustifica che a un certo punto Mohamed abbia preso un camion e lo abbia scagliato contro la folla assiepata sulla promenade des Anglais, ma fa capire che quel camion era impossibile da fermare e che probabilmente la questione religiosa non è così fondamentale, come tutti adesso cercano di spiegare.
Qualcosa del genere è avvenuto nelle settimane scorse ad Orlando. Omar Mateen era probabilmente una persona che viveva come un dramma la propria omosessualità - succede anche ad altre latitudini e anche in contesti dove le persone omosessuali godono di maggiori diritti e di un diverso riconoscimento sociale - che non ha saputo gestire questa contraddizione e ha compiuto quella strage. Anche questo non giustifica l'attentatore, ma ci dovrebbe far riflettere sul fatto che le cose non sono così nette come vogliono farci credere.
Pensate che fortuna inaspettata che sono stati per Isis gli attentati di Orlando e di Nizza: senza fare nulla, senza perdere un uomo, senza sforzi, i capi di quell'organizzazione hanno potuto rivendicare due attentati così spettacolari. E temo che questo succederà ancora molte altre volte, perché stiamo facendo di tutto per far sì che questo avvenga. E che fortuna è stato quell'attentato anche per Hollande e per Valls, che ormai erano costretti a rinunciare allo stato d'emergenza, che è così utile per ostacolare le dimostrazioni dei sindacati e per far passare leggi che altrimenti non sarebbero mai state approvate. Quanto è meglio per tutti - e soprattutto per chi paga sia l'Isis che Hollande - tenere in piedi questa situazione, piuttosto che affrontare le vere questioni, di cui loro sono responsabili.
Io credo che dovremmo fare uno sforzo per non cercare sempre la soluzione più facile, più semplice, più rassicurante. Io sono ateo, non ho una particolare simpatia per i preti - soprattutto per i capi dei preti - qualunque sia la religione che professano, ma sinceramente credo sia sbagliato dare la colpa di tutto quello che sta avvenendo alle religioni. Mi sembra troppo facile, troppo comodo. Proviamo a capire quanto sia difficile vivere nelle nostre società, non solo per chi è immigrato qui, non solo per chi è nato qui da genitori immigrati - e comunque si tratta di condizioni molto diverse, che sarebbe utile cominciare a studiare - ma anche per noi che qui ci siamo nati, da genitori nati qui. Esistono nelle nostre società contraddizioni profonde, di natura economica, sociale, culturale, che spesso non riusciamo ad affrontare e le contraddizioni alla fine sono destinate a scoppiare. E c'è sempre qualcuno più debole, più stupido, più manipolabile, che decide di essere la miccia.
Quando io ero un adolescente intuivo un dramma nei miei genitori, che avrei capito solo qualche anno dopo. Tanti ragazzi un po' più grandi di me caddero nella droga, qualcuno morì, qualcuno ne ha portato i segni per anni. Io vivevo in un piccolissimo paese, allora ci conoscevamo tutti, eravamo famiglie molto simili da un punto di vista sociale, famiglie di lavoratori, di persone che avevano fatto molti sacrifici e che erano riuscite a uscire da una condizione economica difficile: si erano comprate la casa, spesso la seconda auto, cominciavano ad andare in vacanza, magari anche per la "settimana bianca". Evidentemente però c'era qualcosa che non andava, c'erano dei problemi irrisolti, se tanti dei loro figli si sono persi in quel modo drammatico: quel passaggio veloce da un mondo all'altro fu vissuto come un trauma. Noi che eravamo di qualche anno più piccoli ci siamo in qualche modo - e per fortuna - salvati, perché i nostri genitori, vedendo quello che stava succedendo, sono stati più accorti, hanno riflettuto su quello che avveniva, ne hanno parlato; e quel fenomeno che sembrava così grave - e che è stato così grave per tante famiglie - si è molto ridimensionato. Magari sono poi nate altre contraddizioni, perché intanto venivano altre famiglie, portandosi dietro altri problemi, ma il trauma di quel passaggio è stato superato.
Non credo di essere andato fuori tema, ma volevo provare a spiegarvi che credo andrebbe usato un po' dello stesso buon senso, cercando di capire quali sono i problemi veri che hanno queste persone che sono arrivate fin qui e quali sono i problemi dei loro coetanei che qui sono nati, indipendentemente dalla religione delle loro famiglie. Credo che la difficoltà di trovare un lavoro o il fatto di essere sistematicamente sottopagati quando se ne trova uno - condizione che unisce i giovani di tutti i colori, a parte i figli dei ricchi - sia un problema per questi ragazzi - e ancora di più per queste ragazze - molto più che la religione, eppure la mancanza di lavoro o lo sfuttamento dei giovani lavoratori non sono vissuti come un allarme sociale, così come la costruzione di una moschea.
Per nessuno di noi è stato semplice crescere, spesso questo ha comportato un conflitto con i nostri genitori. In alcuni casi i conflitti hanno avuto esiti violenti. Questo secondo me, dal momento che avviene ancora adesso, ha un peso maggiore che la religione. Certo la religione contribuisce a creare questo conflitto. Lo percepisci quando vedi per strada camminare insieme madre e figlia, una con il velo e una senza; quella decisione è stata certamente un'occasione di conflitto in quella famiglia, e non sappiamo quali discussioni ci siano state dietro. Ma non è stato semplice neppure per mia madre affrancarsi dal controllo patriarcale di mio nonno, che non era meno rigido solo perché era socialista, ma in un periodo in cui questa parola si declinava al maschile. Pensate quanto sia sempre più difficile per una giovane donna trovare un proprio ruolo in questa società così spietatamente maschilista, e pensate quanto sia più complicato per quella giovane donna, che già deve lottare contro una società che le è ostile, trovare una stessa ostilità - seppur di segno diverso - nella propria casa. O quanto sia difficile per un ragazzo di una famiglia rigidamente tradizionale scoprirsi omosessuale, bastonato - magari non solo metaforicamente - sia dal padre sia dai razzisti del paese in cui vive, che ovviamente sono anche omofobi.
Stiamo tutti vivendo un passaggio complicato, anche perché siamo vittime di uno sfruttamento economico che ricorda quello della seconda metà dell'Ottocento: le nostre metropoli dovrebbero trovare un nuovo Dickens che ne racconti la povertà e lo sfruttamento. Andare a uno scontro tra noi e loro non ci servirà, anzi peggiorerà solo le cose, perché alla fine di questa terza guerra mondiale che qualcuno dice che stiamo già combattendo, gli unici che ne usciranno più forti saranno i ricchi, i padroni, quelli che adesso sono già forti perché sfruttano la nostra paura e la loro disperazione. Noi e loro - ma siamo sempre noi, solo con una diversa pigmentazione e storie diverse che ci hanno raccontato da bambini - saremo definitivamente sconfitti. Riconoscere che siamo dalla stessa parte sarà un passaggio difficile, ma è l'unico che ci può salvare.

venerdì 15 luglio 2016

Discorso di insediamento di Francesco Zanardi come SIndaco di Bologna il 15 luglio 1914

Egregi Colleghi, 

la sorte dell'urna mi offre l'incarico gradito ed onorifico di iniziare i lavori di questo Consiglio, eletto dopo un'aspra battaglia in virtù del suffragio universale, ed io sono lieto di porgere a tutti un cordiale e deferente saluto, perché qualunque sia la vostra opinione politica, a Voi è sopra ogni cosa di guida l'amore a questo glorioso Comune, che raccolse molti fra noi, giovani ed inesperti della vita, nelle austere e serene aule universitarie, dove educava ed ammoniva l'altissimo Poeta e dove Augusto Murri, al quale è doveroso di rivolgere un augurio di pace alla dolorante vecchiaia, Augusto Righi onore di Bologna, Pietro Albertoni ed il nostro collega Giacomo Ciamician, mio illustre maestro, spandono fiumi di sapere in tutto il mondo, riaffermando in una superiore cooperazione questa verità incontrovertibile; che la scienza non consente limiti angusti e confini artificiosi.
Sono altresì lieto che questo Consesso, aperto fino a ieri soltanto agli uomini delle sfere dirigenti, raccolga oggi una larga rappresentanza del lavoro, dando in tal modo al Comune la nobile funzione di difesa delle classi socialmente utili; né l'importanza di questo fatto può essere diminuita dal dileggio e dallo scherno della stampa avversaria ché gli operai i quali siedono su questi banchi sono il legittimo orgoglio dei loro compagni di fatica, e non poterono raggiungere gradi accademici soltanto per un'ingiustizia sociale, che permette i benefizi della cultura quasi esclusivamente a coloro che possono godere di una eredità comunque acquisita. Si è molto scritto e discusso, e non sempre in termini obiettivi, intorno alla vittoria socialista, e pure questa è il logico coronamento di una nuova situazione creata in Bologna dal suffragio universale; il fenomeno dell'urbanesimo porta qui di giorno in giorno numerosi operai, consapevoli della loro funzione sociale attraverso le battaglie combattute contro il diritto padronale, mentre lo sviluppo dei pubblici servizi crea una falange innumere di travets, flagellati dal padrone di casa ed assillati da una forte pressione tributaria che impedisce loro perfino il soddisfacimento dei più elementari bisogni della vita; orbene tutta questa gente minuta che prima era un numero allo stato civile, dopo la riforma elettorale ha acquistato una forza politica, che si esprime in una adesione entusiastica alle ragioni ideali e pratiche del partito socialista.
Questa affermazione di forza, che nessuna armata antisocialista può diminuire, non crea illusioni né a noi né alle nostre masse elettorali: noi sappiamo che la nostra tendenza, che aspira alla abolizione di ogni sfruttamento, urta contro la granitica potenza di consuetudini tradizionali, di istituti politici organizzati, di leggi che sono la sanzione del privilegio economico, ma abbiamo viva fede che da questo gigantesco duello si delinei il trionfo della pia giustizia del lavoro.
La recente battaglia amministrativa non è che un episodio di questi fecondi contrasti di idee e di interessi, ed il popolo di Bologna ci ha data questa responsabilità amministrativa che noi accettiamo con animo sereno e tranquillo; il Comune, liberatosi per opera della democrazia della spesa per le guardie di città, attende oggi a funzioni civili, come la scuola e l'igiene, che noi intendiamo difendere nell'interesse di tutti, ed in questa opera contiamo sulla cooperazione della minoranza, perché essa è un presupposto ad ogni forma superiore di convivenza sociale.
Invece i rapporti del Comune con lo Stato, la lotta contro le camorre imperanti, i mezzi per rinsanguare il bilancio, la erogazione del danaro pubblico, la distribuzione dei lavori, le manifestazioni di carattere politico essendo noi per definizione repubblicani, daranno luogo a dissensi, e noi domandiamo il vostro controllo, la vostra critica; e tale opera, o colleghi della minoranza, desideriamo estesa a tutte le Amministrazioni dipendenti dal Comune. Noi siamo troppo gelosi dei vostri diritti, che sono anche i nostri, per poter seguire la politica dei predecessori per i quali doveva essere abolita ogni parola di critica, là dove si curano i più delicati interessi cittadini.
Infine, interprete del pensiero della maggioranza posso assicurare la più larga libertà di pensiero e di parola, perché sarebbe indegna per uomini civili l'offesa alle più squisite prerogative della minoranza.
Con tali propositi, che sono un augurio di opere feconde, iniziamo - amici ed avversari - per la difesa delle nostre convinzioni, per l'avvenire di Bologna i nostri lavori; e ad essi presiedano due cose: il culto del dovere fino al sacrificio ed il disinteresse personale, ché la più fulgida virtù dei pubblici amministratori.

mercoledì 13 luglio 2016

Verba volant (289): binario...

Binario, sost. m.

Nei prossimi giorni saranno valutate - speriamo con discernimento ed equità e senza la volontà di trovare comunque un capro espiatorio - le responsabilità dirette per il terribile incidente ferroviario avvenuto il 12 luglio nelle campagne pugliesi, sulla tratta Corato-Andria. Ma se ci fermeremo a questo livello, a un macchinista o a un capostazione o a un addetto della manutenzione, non avremo fatto alcun passo in avanti per accertare le vere responsabilità di questa tragedia e quei morti saranno gli ennesimi morti di questo sfortunato paese. E non saranno gli ultimi.
Immagino che qualche mio lettore penserà adesso che si tratta del solito discorso che, allargando le responsabilità, finisce per annullarle. E' vero, è il solito discorso, e purtroppo un discorso di questo genere lo hanno già fatto in tanti - in tante altre occasioni - ma evidentemente è stato inutile, se ci ritroviamo puntualmente a dire le stesse cose, a scrivere le stesse cose, ogni volta che succede un fatto del genere. Per qualche giorno il cordoglio sarà molto forte, perfino sincero, poi lentamente la tristezza svanirà - anche perché cominciano le ferie - per lasciare il posto alla consueta indifferenza, aspettando l'anniversario il prossimo 12 luglio. E ci dimenticheremo di loro, come ci siamo dimenticati degli altri. E soprattutto dimenticheremo le ragioni per cui tutto questo è avvenuto.
Le cause di queste morti sono tante, ma credo che una delle più gravi sia che il Mezzogiorno è stato considerato per decenni come una colonia italiana, come una terra da sfruttare, con la complicità delle classi dirigenti di quelle stesse regioni. Giustamente ci scandalizziamo quando leggiamo della corruzione delle élites politiche nei paesi dell'Africa, di come i governi di quei paesi siano dipendenti di quelli dei paesi occidentali o direttamente delle multinazionali che controllano lo sfruttamento delle loro materie prime, lasciando nella povertà la stragrande maggioranza della popolazione. Francamente non c'è poi molta differenza con quello che è avvenuto - e avviene - nel sud Italia. Naturalmente il problema dell'inadeguatezza delle classi dirigenti di questo paese, della corruzione dilagante, dell'affermazione continua degli interessi privati su quelli pubblici, è qualcosa che riguarda tutto il nostro paese - così come l'infiltrazione delle mafie è forte al nord quanto al sud - ma in quelle regioni questo istinto di rapina, favorito anche dal razzismo che le persone che sono nate lì hanno subito e subiscono da parte di noi del nord, è stato sistematico. In quelle regioni costruire una ferrovia o una strada era - ed è - un'occasione per rubare sugli appalti, per ottenere voti, per lucrare sulle terre espropriate, non importa se quella ferrovia o quella strada serva veramente, e, se serve, non importa in che modo venga gestita, anzi quella gestione diventa un'occasione per rubare ancora, per attivare altre clientele, per far arrivare più denaro alle aziende che sfruttano da sempre quel territorio. Una strada, una ferrovia, dovrebbero essere uno strumento di progresso per un territorio, ma a chi ha guadagnato da quella ferrovia non interessa che cresca la ricchezza collettiva, si preoccupa solo della propria. E discorsi analoghi lo potremmo fare per tanti altri settori, dal turismo alla gestione dei rifiuti, fino a un ambito fondamentale come quello agroalimentare.
Quel binario unico lungo la campagna pugliese diventa allora l'immagine e la metafora del nostro sud e dell'intero paese. Un servizio pubblico, eppure gestito da privati - quanti casi conosciamo in cui gli utili sono stati privatizzati mentre le perdite sono rimaste pubbliche? - un servizio ferroviario poco efficiente - così le persone continuano a comprare automobili e si possono costruire nuove strade - servizi pubblici, o presunti tali, gestiti in modo da far crescere gli utili e ridurre le spese, diminuendo il personale, non formandolo, non investendo sulla sicurezza e sulle nuove tecnologie, a meno che non ci sia da acquistare qualche inutile marchingegno da qualcuno dei soliti noti.
Il nostro paese è una malmessa carrozza ferroviaria che viaggia su una rete a binario unico, sperando che quel fonogramma arrivi in tempo o che non ci sia un guasto nell'impianto semaforico. E dobbiamo sperare che non ci arrivi addosso un altro treno, perché c'è qualcuno che specula, perché qualcuno non spende i fondi destinati a raddoppiare la linea, perché c'è qualcuno che ingrassa sui nostri bisogni e sul nostro lavoro.
Alcuni di noi sono cresciuti con le parole di una bella canzone di Francesco Guccini, cantando di quella locomotiva lanciata a bomba contro l'ingiustizia. Ora su quel binario non c'è più traccia di quel ferroviere anarchico che sperava, con il suo gesto folle, di riparare a qualche torto. Su quel binario corre un altro treno, in quella calda mattina di luglio, su quel binario unico tra Corato e Andria, è l'egoismo del capitale che ha scagliato quel treno contro di noi.

sabato 9 luglio 2016

Verba volant (288): razzismo...

Razzismo, sost. m. 

Per anni nel nostro paese ci siamo illusi - e ci hanno fatto illudere - che il razzismo da noi non esistesse: italiani brava gente era il motto di questa forma strisciante e asfissiante di revisionismo storico. Perfino quando il tema era ineludibile, ad esempio di fronte all'antisemitismo di epoca fascista che si tradusse nelle cosiddette leggi razziali, tanti hanno minimizzato, sostenendo che si è trattato del tentativo maldestro da parte di Mussolini di imitare Hitler e che quelle leggi hanno rappresentato il primo vero e proprio scollamento tra il regime e il paese, in maggioranza contrario all'antisemitismo. Balle. Gli italiani erano allora - e sono oggi - razzisti.
Sembra che qualcuno se ne accorga solo oggi, dopo che un razzista italiano ha ucciso un nigeriano, colpevole di non aver "accettato" gli insulti rivolti a lui e alla compagna. A molti di questi che oggi si indignano consiglierei di salire su un autobus all'ora di punta o di prendere un treno per pendolari e di guardare il modo in cui tanti nostri connazionali scrutano i loro vicini stranieri, specialmente quando sono neri. Fate una fila alla posta o andate in un ufficio pubblico, sentirete battute sprezzanti, vedrete occhiate cariche di disprezzo.
In Italia poi esiste una forma di razzismo di stato. Il vicepresidente del Senato ha chamato "orango" un'avversaria politica di origini congolesi e la stragrande maggioranza dei senatori, compresi quelli del pd, non hanno censurato questo comportamento. E quel personaggio lì è ancora vicepresidente del Senato.
Otto anni fa ci eravamo illusi che il fatto che i cittadini degli Stati Uniti avessero eletto per la prima volta un presidente di origini afroamericane fosse il segnale che qualcosa stesse cambiando anche in quel paese, in cui pure le questioni razziali sono state - ed evidentemente sono ancora - molto sentite. Le vicende di questi giorni sembrano raccontarci tutt'altra realtà. Forse pensavamo che la lotta per sconfiggere il razzismo fosse un cammino inarrestabile, magari lento - troppo lento - ma con una direzione segnata. I più pessimisti di noi pensavano che quel cammino avrebbe conosciuto delle battute d'arresto, ma adesso dobbiamo constatare che abbiamo fatto dei passi indietro, la direzione di marcia si è invertita e, nonostante Obama, il razzismo negli Stati Uniti è più forte, al netto delle dichiarazioni ipocrite, degli appelli retorici, e anche dello sforzo sincero di tanti.
Purtroppo non basta l'ignoranza a spiegare il razzismo. Io credo invece che il razzismo venga alimentato, diffuso, fatto crescere nelle nostre società. Perché il razzismo serve. In fondo la storia qualcosa dovrebbe pure insegnarci. Al di là delle farneticazioni pseudoscientifiche di alcuni intellettuali, a cosa è servito l'antisemitismo nella prima metà del secolo scorso? A creare un nemico. I "bravi" cittadini della Germania, che avevano perso la guerra, che avevano perso l'impero, che erano finiti sul lastrico a causa delle condizioni imposte dalle potenze vincitrici, potevano finalmente spiegarsi di chi era la colpa: non dei generali che li avevano portati a quel conflitto folle, non degli industriali e dei banchieri che erano diventati ricchissimi con le forniture all'esercito e con i crediti di guerra, la colpa era degli ebrei. E visto che molti ebrei erano ricchi il premio per credere a questa menzogna così palese erano i soldi degli ebrei, e poi le case degli ebrei, e ancora i posti di lavoro degli ebrei, dalle fabbriche fino alle università.
E oggi vogliamo forse dare la colpa ai banchieri, ai padroni delle multinazionali, a chi ogni giorno ci sfrutta? Come è più facile dire che è colpa di quella scimmia, di quel negro di merda. E poi anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo il nostro vantaggio a essere razzisti, affittiamo loro in nero le nostre case cadenti, li facciamo lavorare pagandoli una miseria, risparmiamo perfino sulle puttane: le nere costano di meno. Italiani brava gente.

lunedì 4 luglio 2016

da "Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie"...

Sotto un albero di rimpetto alla casa c'era una tavola apparecchiata. Vi prendevano il tè la Lepre di Marzo e il Cappellaio. Un Ghiro profondamente addormentato stava fra di loro, ed essi se ne servivano come se fosse stato un guanciale, poggiando su di lui i gomiti, e discorrendogli sulla testa. "Un gran disturbo per il Ghiro" - pensò Alice - "ma siccome dorme, immagino che non se ne importi nè punto, nè poco."
La tavola era vasta, ma i tre stavano stretti tutti in un angolo: "Non c'è posto! Non c'è posto!", gridarono, vedendo Alice avvicinarsi.
"C'è tanto posto!", disse Alice sdegnata, e si sdraiò in una gran poltrona, a un'estremità della tavola.
"Vuoi un po' di vino?", disse la Lepre di Marzo affabilmente.
Alice osservò la mensa, e vide che non c'era altro che tè. "Non vedo il vino", ella osservò.
"Non ce n'è", replicò la Lepre di Marzo.
"Ma non è creanza invitare a bere quel che non c'è", disse Alice in collera.
"Neppure è stata creanza da parte tua sederti qui senza essere invitata", osservò la Lepre di Marzo.
"Non sapevo che la tavola ti appartenesse" - rispose Alice - "è apparecchiata per più di tre."
"Dovresti farti tagliare i capelli", disse il Cappellaio. Egli aveva osservato Alice per qualche istante con molta curiosità, e quelle furono le sue prime parole.
"Tu non dovresti fare osservazioni personali" - disse Alice un po' severa - "è sconveniente."
Il Cappellaio spalancò gli occhi; ma quel che rispose fu questo: "Perchè un corvo somiglia a uno scrittoio?"
"Ecco, ora staremo allegri!" - pensò Alice - "Sono contenta che hanno cominciato a proporre degli indovinelli... credo di poterlo indovinare" - soggiunse ad alta voce.
"Intendi dire che credi che troverai la risposta?", domandò la Lepre di Marzo.
"Appunto", rispose Alice.
"Ebbene, dicci ciò che intendi", disse la Lepre di Marzo.
"Ecco" - riprese Alice in fretta - "almeno intendo ciò che dico... è lo stesso, capisci."
"Ma che lo stesso!" - disse il Cappellaio - "sarebbe come dire che «vedo ciò che mangio» sia lo stesso di «mangio quel che vedo»."
"Sarebbe come dire" - soggiunse la Lepre di Marzo - che «mi piace ciò che prendo» sia lo stesso che «prendo ciò che mi piace»?"
"Sarebbe come dire - aggiunse il Ghiro che pareva parlasse nel sonno - che «respiro quando dormo» sia lo stesso che «dormo quando respiro»?"
"È lo stesso per te", disse il Cappellaio. E qui la conversazione cadde, e tutti stettero muti per un poco.

Verba volant (287): cucchiaio...

Cucchiaio, sost. m. 

C'erano anche i soldati semplici a combattere sotto le mura di Troia, ci furono anche alcune battaglie campali, ma in sostanza quella lunghissima guerra - almeno come la racconta Omero - è un susseguirsi di duelli. E i duelli avvengono tutti più o meno allo stesso modo. Dopo la vestizione, che segue anch'essa un suo preciso rituale, i contendenti arrivano nel luogo dove si svolgerà il duello, sui loro carri; Omero sa che nei tempi antichi i capi delle tribù in guerra combattevano sui carri, ma non aveva mai visto uno scontro del genere e quindi non sa raccontarlo, per cui nelle sue storie il carro ha la funzione più o meno di un taxi, che porta al luogo designato allo scontro, poi viene parcheggiato e ripreso quando tutto è finito. Tutt'attorno - e comunque prudentemente a distanza - sono disposti gli eserciti, che ovviamente fanno il tifo per i loro rispettivi campioni. Questi si scrutano, in genere si conoscono assai bene, perché in dieci anni di guerra hanno già ripetuto quel rito diverse volte, poi cominciano a insultarsi. Gli insulti possono durare anche per un certo numero di versi e solo alla fine si combatte veramente. Quegli insulti servono evidentemente a fiaccare l'autostima dell'avversario, a intimidirlo, a mostrarlo più vulnerabile. A volte anche a far perdere del tempo - anche se questo Omero non lo dice - perché comunque il duello finisce quando cala il sole e più durano gli insulti meno si combatte. Omero non racconta neppure questo, ma immagino che i soldati-tifosi, assiepati sugli spalti delle mura di Troia o intorno all'accampamento greco, accompagnassero con boati questi insulti. A guardare gli eroi troiani c'erano anche le loro mogli e le loro fidanzate, e anche queste facevano il tifo, perché una vittoria del loro compagno rappresentava un successo anche per loro.
Ovviamente quando l'eroe tornava vincitore, avesse ucciso o meno il proprio avversario - a volte un dio si incaricava di togliere di mezzo quello che stava per soccombere, in modo che potesse combattere in un'altra occasione - veniva accolto dalle alte urla dei suoi soldati. Immagino non fosse solo piaggeria, ma vero entusiasmo, in fondo una vittoria in più avvicinava al momento in cui la guerra sarebbe davvero finita, i greci sarebbero ritornati a casa e i troiani alle loro consuete occupazioni, e poi ogni vittoria era occasione per far festa, per ottenere licenze e premi. Omero non ci racconta come veniva accolto l'eroe che tornava sconfitto - quando tornava - magari qualcuno tra i suoi servi si complimentava comunque, questa volta sì per piaggeria - o per paura - qualcuno dei suoi amici incitava, anche se con un po' meno foga, il guerriero sconfitto, specialmente se lo scontro era stato duro - grazie lo stesso, ce l'hai messa tutta, bravo, vedrai che la prossima volta andrà meglio. Certamente qualcuno era pronto a giustificare la sconfitta - non è colpa tua, sono le armi a essere di una lega scarsa, e poi non vale, avevi il sole negli occhi; quando si cercano scuse, se ne trovano sempre.
C'erano poi quelli - erano i più numerosi - che quando il loro eroe tornava vittorioso si mettevano in prima fila per complimentarsi, organizzavano feste di benvenuto, declamavano poemi per celebrarne le gesta. Ed erano pronti a ripetere, parola per parola, tutti gli insulti che aveva detto al suo avversario, anzi aggiungevano loro stessi nuovi insulti, perché è sempre divertente infierire su chi è stato sconfitto ed è utile portare in trionfo chi ha vinto. Ma, se per un malaugurato caso il loro eroe veniva sconfitto, allora questi si giravano dall'altra parte, facevano finta di non conoscerlo, stracciavano i biglietti che si erano scambiati e anzi erano pronti a deprecare quelle parole offensive - che avevano imparato a memoria - dicendo che il disonore sarebbe ricaduto su quel guerriero e sulla sua progenie, proprio a causa di quelle parole offensive. Spiegavano che non era leale offendere un avversario e cose del genere, che si usavano dire in quei tempi lontani.
Allora le cose andavano così. Certo che se Omero ci avesse raccontato di quella volta che Aiace, armato di tutto punto, sceso dal carro, ha guardato Ettore e gli ha detto "adesso ti faccio il cucchiaio"...