domenica 28 agosto 2016

Verba volant (299): nottata...


Nottata, sost. f.

Una tragedia serve a far capire un popolo, perché ne svela l'anima, nei pochi pregi e nei molti difetti. E' come questo terremoto che ci ha colto nel cuore della notte, quando non indossiamo le maschere che siamo abituati a portare di giorno, e ha lasciato le nostre case aperte alla curiosità morbosa degli altri. Una tragedia fa vedere quello che non vogliamo far vedere.
Leggendo le cronache del terremoto di Accumoli e di Amatrice emerge un'Italia solidale, che si mette in fila per donare sangue, che dona generi alimentari e vestiti, che in molti casi si organizza e parte per andare là dove c'è bisogno, in sostanza un'Italia di cui andare fieri. Questa spinta altruista - in gran parte sincera - ha portato molti a dire che in fondo l'Italia vera è migliore di come ci siamo abituati a raccontarla. Mi spiace: è un'illusione. L'Italia vera è perfino peggiore di come ci siamo abituati a raccontarla. E questa tragedia ce lo ricorda ogni giorno.
Oggi piangiamo trecento vittime che, come si usa dire ai funerali, sono state tutte brave persone, oggi siamo solidali con chi ha subito questa catastrofe, ma quanti di quelli che hanno subito il terremoto avevano commesso un qualche abuso edilizio, poi prontamente condonato? Quanti di loro si erano lamentati perché per ristrutturare la vecchia casa del nonno sarebbero stati necessari pareri e nullaosta particolari e magari hanno cercato di superare l'ostacolo chiedendo un favore al parente geometra o pagando una piccola una tantum al funzionario di turno? Quanti avevano preso una finta residenza nel paesello in campagna, pur non abitandoci, per non pagare le tasse comunali, lasciando così quelle amministrazioni con sempre meno risorse? Ovviamente non è colpa di questi comportamenti se è venuto il terremoto proprio lì - Posideone, il dio dei terremoti, non è aduso a queste vendette così dirette, come non ci ha voluto punire per le unioni civili o per i gay pride - e forse non è neppure colpa di questi comportamenti se proprio quelle case sono cadute, ma certo non hanno aiutato alla cura e alla manutenzione del territorio, considerando quanto queste pratiche siano diffuse, in tutto il paese, anzi ne costituiscano un tratto unificante, da nord a sud.
Tra chi ha subito questo terremoto - e prima quello dell'Emilia e prima ancora quello dell'Abruzzo - quanti hanno considerato come Cassandre gli esperti che in questi anni hanno inutilmente tentato di metterci in allarme rispetto al nostro modello di sviluppo? Quanti hanno continuato a votare per quei politici che, pur spendendo bellissime parole a difesa del territorio, hanno continuato a far costruire anche dove sarebbe stato meglio non farlo? Quanti hanno in sostanza anteposto i loro interessi a quelli della comunità in cui vivevano? Perché, ammettiamolo pure, sia che sventoliamo il tricolore sia che lo dileggiamo, quello che ci importa davvero non è rendere più forte la comunità in cui viviamo, ma solo difendere i nostri piccoli privilegi, le nostre piccole ricchezze. Non ci importa che la casa del vicino sia crollata, siamo contenti perché la nostra non lo è, oppure ci rammarichiamo perché lui prende gli aiuti e noi no. E se li prende lui li pretendiamo anche noi.
Immagino che un po' di persone avranno già smesso di leggere questo articolo così poco rispettoso verso i morti, verso i feriti, verso chi ha perso la propria casa. Non dico affatto che se lo siano meritato, nessuno merita una simile punizione - nemmeno chi ha scientemente costruito male pur di guadagnare di più, chi ha lucrato sulla ricostruzione, chi ha rubato in occasione degli altri terremoti e chi ruberà su questo - ma voglio invitare tutti noi a smetterla con questa retorica melensa e a guardare in faccia la realtà, per quanto nauseabonda. Voglio che pensiamo a quanto del peggio di noi mette in luce questa tragedia. A molti hanno fatto schifo quelli che in questi giorni hanno sfruttato il sisma per fare propaganda contro i migranti, ma si tratta di un pensiero largamente diffuso, che molti in maniera ipocrita preferiscono non mettere in piazza, salvo poi votare quei politici, di tutti i colori, che garantiscano che "quelli là" abbiano un po' meno diritti.
A tutti quelli che in questi giorni hanno detto che è uno scandalo che i terremotati dormano nelle tende mentre i migranti stanno negli alberghi vorrei chiedere dove dovrebbe dormire uno straniero che ha perso la sua casa ad Amatrice: in albergo perché è un terremotato o nella tenda perché si chiama Mohammed?
Magari di questo terremoto parleremo qualche giorno in più perché, rispetto all'Emilia, gli amici di Amatrice e di Accumoli hanno avuto la "fortuna" di subire il terremoto in un momento in cui ci sono poche notizie, prima che ricominci settembre, prima che entrino nel vivo la campagna per il referendum, le presidenziali americane, il campionato di calcio, ossia cose ben più importanti che le quattro vecchie case di paesini dimenticati nell'Italia centrale. Ancora per qualche giorno gli organi di informazione ci offriranno un po' di quella pornografia che ci piace tanto: storie di bambini senza genitori e di genitori senza bambini, di cani senza padroni e di padroni senza cani, e magari di un cane che è morto per salvare un bambino che ancora non sa di essere orfano: con una storia del genere certi personaggi ci campano per interi pomeriggi. Poi ci puliamo la coscienza inviando un sms solidale, per pentircene immediatamente dopo aver premuto il tasto invio, perché siamo convinti che qualcuno si ruberà quei nostri due euro. Forse perché noi li ruberemmo.
Sono cinico? Certamente si, ma quanti sciacalli si sono scatenati in queste ore. E non mi riferisco a quei poveri sfigati che sono arrivati fin lassù per andare a rubare nelle case lasciate incostudite dai legittimi proprietari, ma da tutti quelli che hanno approfittato - e approfittano - del sisma per scrivere un articolo commovente, per scattare una fotografia da prima pagina, gli editori che già hanno in cantiere un instant book sul sisma, i manager musicali che organizzeranno i concerti benefici, i benefattori a uso delle telecamere, i politici locali che già si immaginano a Roma, perché a qualcuno degli amministratori terremotati tocca sempre far carriera. Magari qualcuno che ha perso la casa sarà chiamato al Grande fratello, allora sì che avrebbe "svoltato": il terremoto di Amatrice vende meglio perfino del naufragio della Concordia. Ognuno per sé, perché la mia fortuna dipende soltanto dalla sfortuna di tutti gli altri, a cui non rimane che l'invidia.
La malcelata meraviglia con cui in questi giorni raccontiamo i gesti di gratuita generosità, descriviamo l'efficienza di alcuni interventi, lodiamo l'abnegazione di tanti volontari, è il segnale che questi comportamenti non sono la regola, ma le eccezioni, a cui si guarda con invidia, perché non ne saremmo stati capaci, ma soprattutto con stupore, perché non sappiamo più riconoscerne i caratteri. In un mondo in cui tutti abbiamo un prezzo, in cui ogni nostra azione viene valutata per quello che fa guadagnare, i gesti gratuiti sono scandalosi e infatti pensiamo che lo facciano con qualche secondo fine. E probabilmente molti fanno del bene soltanto perché pensano al modo di guadagnarci, magari anche solo un'intervista televisiva o qualche like in più sotto una foto di Facebook. Eppure qualche sacca di resistenza ancora rimane: persone che fanno bene il proprio lavoro e perfino qualcuno che fa qualcosa per gli altri in maniera gratuita, senza chiedere nulla, neppure un piccolo posto in paradiso. Personalmente credo che siano destinati a soccombere anche loro finalmente, così la smetteranno di farci sentire peggiori. Sgominate queste persone perbene saremo liberi di essere tutti sciacalli con attaccato sulla schiena il codice a barre del prezzo.
Uno dei pochi episodi che mio padre considerava degno di nota della storia così poco eroica della nostra famiglia, ma che pure citava con una certa ritrosia, fu la decisione di ospitare per diverse settimane delle persone che erano sfollate a seguito dell'alluvione del Polesine del 1951. Fu una scelta difficile, perché la guerra era finita da pochissimi anni, perché la vita era dura per tutti, però quello è stato un gesto capace di raccontare una comunità. C'era in quella decisione l'orgoglio di dimostrare che i comunisti potevano organizzare gli aiuti a quelle famiglie così duramente colpite meglio dello stato e soprattutto meglio della chiesa, ma c'era soprattutto la solidarietà tra poveri, tra persone che sentivano di far parte della stessa storia, nel bene, non molto allora, e nel male, molto di più.
In fondo da allora è passata soltanto una generazione, qualcuno che ha vissuto quella stagione vive ancora, eppure siamo lontani secoli da quel mondo. Solo qualche anno prima di quella lontana catastrofe ambientale un grande intellettuale capì cosa saremmo diventati: è la forza della poesia. Eduardo in Napoli milionaria! ci fa vedere come la sua città - e tutto il paese - sia passata attraverso la tragedia della guerra: ci svela le bassezze, quello che non avremmo voluto vedere, quello che molti fingevano di non vedere, quanto l'ossessione del denaro, delle mille lire, avesse corrotto le persone. La protagonista, diventata ricca con la borsa nera, capisce solo alla fine cosa sia successo alla sua famiglia, quando tutti quei soldi non le servono neppure per comprare la medicina che può salvare la vita di sua figlia malata. Ormai sappiamo quello che Eduardo non ci ha voluto dire o che forse sperava ancora che non sarebbe accaduto: è passata la nottata e quella bambina è morta.

giovedì 25 agosto 2016

Verba volant (298): silenzio...

Silenzio, sost. m.

Le persone colpite da questo terremoto meritano prima di tutto il nostro rispetto, il rispetto che dobbiamo alla morte e a quel dolore che ci lascia senza parole. E questo rispetto della morte richiede il silenzio (so di essere vecchio, ma sono uno di quelli che ancora accoglie con fastidio gli applausi durante i funerali). Poi le persone colpite da questo terremoto meritano la nostra solidarietà; e anche in questo caso il silenzio è necessario, perché una generosità esibita rischia di essere utile più a chi dona che a chi riceve. Infine le persone colpite da questo terremoto meritano il nostro senso di responsabilità e in questo caso il silenzio non serve più, anzi è dannoso per noi e per loro. In molti oggi ci invitano al silenzio, peccato che in alcuni casi siano gli stessi che portano delle responsabilità per quanto è accaduto, per quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, per quello che si è fatto e non si sarebbe dovuto fare. Allora il loro invito al silenzio è interessato perché fatalmente le nostre parole finiscono per accusarli. Altri invitano al silenzio perché vogliono essere gli unici a parlare, magari per usare questa tragedia per fare propaganda all'idea che non ci si salva insieme, ma che io mi posso salvare solo se un altro soccombe o che sfruttano questa occasione per mettere, ancora una volta, gli ultimi contro i penultimi, i terremotati contro i migranti, i poveri contro i poveri.
Il senso di responsabilità che dobbiamo a quelle persone ci obbliga a dire, con sempre maggior foga, anche urlando se necessario, che questo terremoto ha colpito così duramente quelle città del Lazio, delle Marche, dell'Umbria, perché non abbiamo voluto ascoltare la lezione che ci è venuta dall'Emilia, dall'Abruzzo, da chi negli anni passati ha subito lo stesso dramma. Perché il terremoto non si può prevedere, ma non è un fenomeno imprevedibile, noi non potevamo sapere che una scossa così violenta si sarebbe scatenata alle 3.36 del 24 agosto sotto la terra di Accumoli, ma dobbiamo sapere che praticamente tutto il nostro paese è un'area in cui fenomeni del genere possono succedere e quindi occorre prendere le precauzioni del caso. Bisogna seguire determinati standard per le nuove costruzioni, bisogna rispettare certe regole quando si ristrutturano costruzioni antiche e non considerarle un'inutile perdita di tempo e di denaro, occorre mettere in sicurezza edifici che non vogliamo perdere, che non possiamo perdere, perché altrimenti perderemmo una parte rilevante della nostra storia, della nostra cultura, della nostra identità. E dobbiamo imparare tutti a convivere con questi eventi, dobbiamo imparare a come comportarci in situazioni del genere affinché i danni possano essere limitati.
Il senso di responsabilità che dobbiamo a quelle persone ci obbliga a dire, sempre urlando fino a che non avremo più fiato in gola, che non possiamo accettare ancora una volta di perdere un pezzo dell'Italia, che non vogliamo perdere Amatrice come abbiamo perso L'Aquila, che non vogliamo perdere il centro di Arquata del Tronto come abbiamo perso il centro di San Felice sul Panaro. Bisogna ricostruire, costi quel che costi, ma soprattutto bisogna cominciare a investire risorse affinché i nostri paesi non vengano distrutti. Per questo non possiamo stare in silenzio, non siamo disposti a stare zitti per non disturbare il guidatore. Anzi abbiamo il dovere di dire al guidatore che sta sbagliando direzione, che ci sta portando in fondo al baratro e lo dobbiamo fare oggi, anche se queste nostre parole sembrano irrispettose verso chi piange i propri cari morti, soffre per le ferite causate dal sisma, è sgomento e impaurito per il proprio futuro e quello della propria famiglia. Proprio per l'amore che dobbiamo a quelle persone, proprio per l'amore che abbiamo per la cultura di questa terra, oggi non è il giorno del silenzio, ma di una rabbia operosa, di un'indignazione attiva, di un urlo per il nostro futuro.

lunedì 22 agosto 2016

Verba volant (297): scarto...

Scarto, sost. m.

Dopo una travagliata e controversa crisi, culminata nelle dimissioni del sindaco, sfiduciato dagli esponenti del suo stesso partito, a Monculio di sotto ci sono state le elezioni. Come ampiamente previsto dai sondaggi, il nuovo sindaco è il rappresentante di un partito che non aveva mai governato quella città, perché i monculianesi erano stanchi di tutti quelli che c'erano stati prima e che oggettivamente non avevano dato grande prova di sé.
Uno dei problemi più sentiti dai cittadini di quel ridente paese è certamente quello dei rifiuti, uno di quelli su cui si è animata la campagna elettorale, e quindi il sindaco, proprio su questo tema, vuole dare un immediato segnale che le cose cominciano a cambiare. Naturalmente il suo primo atto è stato la nomina dell'assessore e il sindaco ha deciso di affidarsi a qualcuno che ben conosce il tema dei rifiuti, uno di quelli che ci siamo abituati a chiamare tecnici, insomma una persona considerata ferrata. Ma subito si è trovato di fronte due opzioni: scegliere un esperto di rifiuti che non conoscesse affatto Monculio di sotto o qualcuno che, avendo già lavorato lì, conoscesse bene non solo il tema, ma anche le specifiche vicende monculianesi? Al sindaco è parso più saggio affidarsi a uno con queste ultime caratteristiche. E ovviamente sono cominciate le polemiche au quello che l'assessore aveva fatto - o non fatto - durante gli anni in cui aveva collaborato con la società incaricata della gestione dei rifiuti. Naturalmente a fare più polemica sono quelli dei partiti che c'erano prima, quelli che hanno fatto più danni, quelli che hanno ampiamente lucrato sui rifiuti di Monculio.
L'errore del nuovo sindaco di Monculio non è stato scegliere quella persona piuttosto che un'altra; ovviamente se avesse scelto qualcuno di un'altra città, magari di Monculio di sopra, quelli dell'opposizione - ossia sempre quelli che hanno fatto il danno - avrebbero detto che era inadeguato proprio perché non conosceva i problemi della città, quei problemi che loro avevano creato con pazienza e determinazione per tanti anni. L'errore - o forse l'ingenuità - di quel sindaco è stato credere che i rifiuti siano un problema tecnico.
Nella nostra società c'è un curioso paradosso. I sindaci hanno sempre meno poteri, sempre meno risorse, sempre meno possibilità concrete di incidere davvero nella vita dei propri concittadini, eppure proprio ai sindaci si chiede di risolvere il problema dei rifiuti. Invece si tratta di qualcosa su cui i sindaci possono fare oggettivamente poco. Un sindaco può gestire - bene o male - la raccolta dei nostri rifiuti, può decidere se questi dovranno essere bruciati o riciclati o nascosti da qualche parte, può fare qualcosa affinché tutti noi riusciamo a differenziarli, ma non può incidere sul fatto che i rifiuti continuino a crescere. Nei supermercati di Monculio di sotto da qualche tempo sono in vendita le arance già sbucciate e divise in spicchi, il che richiede un imballo in plastica e della pellicola trasparente; e il sindaco non può vietare che questo prodotto venga venduto. Così come non può vietare la vendita delle uova già sode e sbucciate, ovviamente protette da un contenitore di plastica.
Il problema è che ciascuno di noi, voglia o non voglia, indipendentemente dal sindaco per cui ha votato, produce una montagna di rifiuti, è costretto a farlo, è indotto a farlo, perché più butti, più consumi e più consumi più guadagnano i padroni. E siccome i padroni governano le nostre vite molto più dei sindaci, noi continueremo a produrre rifiuti, perché così vuole il mercato. Tanto più che i padroni hanno scoperto che ci guadagnano parecchio a raccogliere, a trasportare, a bruciare e ovviamente a nascondere - con l'aiuto dei loro soci della mafia - i nostri rifiuti. Gli abitanti di Monculio di sotto non sono cittadini, ma consumatori e quindi produttori di rifiuti e valgono tanto più quanti  più rifiuti producono, anzi uno che ne produce pochi, uno che ancora sbuccia le arance, viene considerato un eccentrico. Tra un po' cucinare un uovo sodo sarà considerato un gesto da estremista, roba da comunisti.

mercoledì 10 agosto 2016

Verba volant (296): bikini...

Bikini, sost. m.

Per quello che posso capire io, da uomo e da "sportivo da divano", immagino che per una donna sia più semplice giocare a beach volley indossando un bikini piuttosto che un costume intero come quello usato dalle atlete egiziane, per quanto questo sia stato studiato appositamente per lo sport.
Io, come molti di voi, so bene cosa quel velo rappresenti per i fondamentalisti cristiani e per quelli musulmani: il segno che la donna deve essere sottomessa all'uomo. E quindi spero che arrivi un giorno, non troppo lontano, in cui le donne islamiche possano finalmente liberarsi di questa imposizione, come hanno fatto le donne cristiane, neppure troppi anni fa.
Credo però che anche quel bikini, in fondo, sia una forma di imposizione di noi maschi verso le donne. Fate un piccolo esperimento: provate a cercare in rete immagini di giocatrici di beach volley e poi ditemi cosa rappresentano gran parte di quelle foto. Culi. Culi molto belli, culi molto atletici, ma comunque culi. Il beach volley è un bello sport, spettacolare, che richiede doti particolari, forza e tecnica, le atlete che lo praticano a livello professionistico sono donne dotate di grandi qualità, sono campionesse da ammirare, eppure troppo spesso finiamo per valutarle solo per il culo.
In questi giorni in tanti, giustamente, abbiamo scritto su un titolo cretino e offensivo dedicato alle tre campionesse di tiro con l'arco, eppure non ci siamo indignati abbastanza per un altro titolo altrettanto cretino e altrettanto offensivo sulla ragazza che è arrivata seconda nella sciabola: argento a Rio e oro in bikini: le foto da urlo, lato B disegnato col compasso.
Dopo le proteste di tante persone solidali con le arciere "cicciottelle", l'editore, maschio, ha sollevato dall'incarico il direttore responsabile, maschio, di quel giornale. Credo sia stata una decisione giusta, magari dettata dall'ipocrisia, ma comunque giusta, perché segna una piccola vittoria. Ho letto molti commenti, anche di donne, indispettiti per questa decisione dell'editore del Carlino: quelli che si è trattato di una decisione esagerata, quelli che non si è può essere schiavi delle emozioni dei social, quelli che i problemi sono ben altri. No. Il problema non è un altro, ma è proprio questo. Non possiamo indignarci quando una donna viene uccisa e poi fare finta di niente quando si alimenta quella cultura che fa sì che le donne vengano uccise. Non possiamo dire, dopo ogni morte, che è un problema culturale, che è un problema di come vengono educati i maschi, e poi accettare che su un giornale sportivo, che leggono prevalentemente i maschi, continuino a essere usate queste categorie che rappresentano un vero e proprio razzismo di genere.
Nella nostra società un'atleta vale di più se è bella. Federica Pellegrini non sarebbe diventata un personaggio così popolare solo grazie alle sue indubbie doti sportive, così come altre campionesse ugualmente belle. Le atlete belle hanno più sponsor, guadagnano di più, hanno maggiori possibilità di carriera. E naturalmente lo stesso discorso lo potremmo fare per le giornaliste, per le avvocate, per le donne che fanno politica. E non è un caso che spesso sui bikini delle giocatrici di beach campeggi il logo dello sponsor, non solo perché è il solo spazio possibile, ma perché quel piccolo rettangolo di tessuto gode di un'attenzione morbosa, va sulle prime pagine dei giornali "seri", è sempre tra le immagini più cliccate in rete, perché in sostanza noi maschi, nel nostro infantilismo, nel nostro analfabetismo sentimentale, vogliamo vedere dei culi, e gli sponsor ci fanno vedere quello che desideriamo, li mettono in mostra e in vendita come laidi mezzani. E così le donne per noi sono quei culi così desiderabili e poi non scandalizziamoci se qualcuno di noi maschi, più debole e più imbecille, pensa di poter prendere quel culo, esposto come un pezzo di carne sul banco di un supermercato, e dimentica che quel culo è una donna, con la sua intelligenza, con le sue passioni, anche con i suoi difetti naturalmente - le donne devono essere libere di essere stronze esattamente come noi uomini - è il culo di una campionessa, è il culo di nostra figlia.
Io spero in una società in cui le donne non siano più costrette a indossare il velo, ma in cui possano anche indossare un bikini senza per questo essere considerate solo un pezzo di carne, in cui vengano considerate per quello che sono, per quello che sanno e per quello che fanno. Spero in un mondo in cui si parli allo stesso modo di un uomo come di una donna, in cui una donna guadagni quanto un uomo. In un mondo in cui le donne siano libere dalla stupidità, dall'egoismo e dalla violenza dei maschi.

"Siria" di Eugenio Montale


Dicevano gli antichi che la poesia
è scala a Dio. Forse non è così
se mi leggi. Ma il giorno io lo seppi
che ritrovai per te la voce, sciolto
in un gregge di nuvoli e di capre
dirompenti da un greppo a brucar bave
di pruno e di falasco, e i volti scarni
della luna e del sole si fondevano,
il motore era guasto ed una freccia
di sangue su un macigno segnalava
la via di Aleppo.

domenica 7 agosto 2016

Verba volant (295): scuola...

Scuola, sost. f.

Qualcuno di voi già lo sa, perché mi è capitato di raccontare questa storia in un'altra definizione di questo inconsueto vocabolario: molto tempo fa, alla fine del secolo scorso, mi sono occupato di servizi all'infanzia - asili nido e scuole materne - perché ero l'assessore alla pubblica istruzione nel comune del contado bolognese in cui sono cresciuto e ho cominciato a fare politica. Ci ho ripensato in questi giorni perché mi è capitato di vedere in televisione il bel documentario di Mauro Bartoli e Lorenzo K. Stanzani dal titolo Non arretreremo! - Zangheri, il sindaco professore. Tra le altre cose proprio Zangheri, in pochissime parole, con la sua consueta chiarezza e la sua tipica lucidità intellettuale - nell'intervista fatta dagli autori prima che Renato ci lasciasse e che è una delle parti più interessanti del film - spiega la filosofia con cui nacquero negli anni Settanta i servizi all'infanzia: i bambini sono persone e devono essere trattati come tali e quello che viene loro insegnato nei primissimi anni di vita incide profondamente su quello che saranno da adulti.
Ovviamente nel corso del documentario si sottolinea anche che questi servizi hanno offerto a molte donne l'opportunità di trovare un lavoro e questo ha rappresentato un elemento determinante della ricchezza di quella città e della nostra regione, però l'accento è posto, giustamente, soprattutto sul valore educativo dei servizi all'infanzia. Credo che questo sia qualcosa di cui dovremmo sempre tener conto, per il bene dei bambini. E per la crescita democratica e civile della nostra società.
L'altra ragione che mi ha spinto a scrivere questa definizione è la notizia - l'ennesima purtroppo - di un'educatrice accusata di maltrattamenti verso i bambini che le erano stati affidati. Sono molti i casi che sono emersi - 65 negli ultimi sette anni - tanto da far nascere un certo livello di allarme nelle famiglie e nella società, che si traduce, ad esempio, in petizioni per richiedere l'installazione di telecamere in tutti gli asili - l'ultimo invito a firmare una di queste petizioni on line mi è arrivato puntualmente dopo la notizia del caso di Milano - e a cui il parlamento sta cercando di dare risposta con una nuova legge che, temo, sarà frutto di questa emozione e farà ben poco per affrontare il vero nodo della questione, ossia la qualità del servizio, partendo dall'idea che i bambini sono persone e che l'educazione è una delle funzioni essenziali di uno stato.
Il ragionamento che voglio fare ovviamente non vuole sminuire le singole responsabilità, che devono essere verificate e, nel caso, sanzionate molto duramente. Credo però che occorra fare un ragionamento un po' più ampio, che parta proprio dalla qualità di questi servizi così importanti. Se ripenso alla mia esperienza di quegli anni lontani posso dire con certezza che un episodio del genere non sarebbe mai potuto accadere. Le insegnanti erano ragazze motivate, alcune di loro avevano cominciato agli inizi degli anni Settanta quando i servizi erano stati istituiti e quindi avevano tutto l'entusiasmo di quegli anni e il legittimo orgoglio di aver cominciato quell'avventura, per alcuni versi pionieristica. Io visitavo con molta frequenza le strutture, conoscevo molto bene le educatrici e le "dade", parlavo spesso con loro e naturalmente con i genitori, con cui c'era un confronto continuo, facilitato - lo devo riconoscere - dal fatto di vivere in una comunità piccola. C'era una coordinatrice pedagogica che svolgeva un lavoro prezioso, incontrava regolarmente il collettivo - si usava questo nome dal sapore sessantottesco, non so se si faccia ancora - gestiva la programmazione e l'aggiornamento. Erano servizi che gestivamo con cura, perché rappresentavano uno dei caratteri che definiva il "nostro" modo di amministrare.
Insegnare in un asilo nido o in una scuola materna era - ed è - un lavoro non facile, che impegna molto, da un punto di vista fisico e soprattutto psicologico, e per alcune insegnanti era faticoso continuare a farlo dopo molti anni, con il crescere dell'età. In quei casi cercavamo di trovare una soluzione: in un comune grande era più facile, in uno piccolo come Granarolo più difficile, ma in qualche caso siamo riusciti a trasferire alcune educatrici negli uffici amministrativi, facendo fare a loro esperienze nuove e mettendo a disposizione la loro capacità in nuovi lavori, e così ottime educatrici sono diventate ottime impiegate. Nessuna di queste cose era fatta con l'intenzione dichiarata di prevenire atti come quelli di cui stiamo parlando - e di cui ci stiamo preoccupando - o con l'intento di organizzare dei controlli, ma con l'obiettivo di gestire meglio i servizi, di migliorare la qualità dell'offerta educativa, che era il fine a cui tutti, amministratori, pedagogisti, personale prima di tutto, eravamo impegnati. Uno sforzo in cui erano coinvolti anche i genitori e le famiglie, che erano consapevoli del valore pedagogico di quel servizio. E credo che tutto sommato - anche al netto della nostalgia - siano stati raggiunti risultati significativi: personalmente ritengo il mio impegno di quegli anni sui servizi all'infanzia una delle cose più importanti che abbia fatto nel mio lavoro politico.
Molto è cambiato da allora. Quasi sempre i servizi all'infanzia non sono più gestiti direttamente dai comuni, ma dal privato, lasciando al pubblico solo una funzione di controllo, alcune volte - troppe volte - più formale che sostanziale. Mi arrabbio molto quando sento quelli che in maniera manichea criticano il pubblico ed esaltano il privato e non voglio commettere lo stesso errore: so che ci sono servizi gestiti da privati che funzionano bene, con personale preparato e motivato. Però certamente il privato ha l'obiettivo primario di ridurre i costi e in un'azienda di servizi l'unica voce su cui si può risparmiare è quella del personale. Naturalmente il fatto di essere pagata poco o di non essere pagata affatto non giustifica una persona che maltratta un bambino, ma in una struttura in cui i costi sono ridotti all'osso, in cui non si investe sulla formazione, in cui non c'è un referente pedagogico e psicologico, in cui le persone lavorano per molte ore alla settimana, per molti giorni in un anno, per un periodo molto lungo della loro vita, anche quando non sono più in condizioni di farlo, in una struttura del genere possono succedere episodi così gravi.
E comunque, anche se in tante strutture per fortuna non succede nulla del genere, si tratta di servizi in cui manca la qualità, in cui i bambini sono "parcheggiati" per molte ore al giorno e non sono educati. E' naturale che i genitori si preoccupino che i loro figli non vengano maltrattati a scuola, ma dovrebbero preoccuparsi anche di quello che imparano, di come sono educati e non solo di quanto costa il servizio o di quante ore è aperto. In questa mancanza di consapevolezza abbiamo fatto certamente dei passi indietro.
Il tema non è se mettere o meno le telecamere - peraltro ci sono forme di violenza, ad esempio quella psicologica, che non sempre possono essere riprese - ma che tipo di servizio vogliamo offrire alle nostre figlie e ai nostri figli, che investimenti vogliamo fare nell'educazione dei nostri concittadini più piccoli, che ruolo deve avere il pubblico in questo settore così importante. Io rimango ostinatamente ancorato a quelle parole di Zangheri, all'idea che l'asilo nido e la materne siano scuole a tutti gli effetti, con un valore pedagogico uguale - se non superiore - a tutte le altre, università compresa, ossia la schola per definizione. Se adottiamo questo punto di vista allora la questione non è sapere quanto costa un asilo nido - e infatti le istituzioni pubbliche investono sempre meno, vogliono che questo servizio incida sempre meno sui propri bilanci, con tutte le conseguenze che conosciamo, appalti al massimo ribasso, nessun controllo sul reclutamento del personale e così via - ma valutare che ricchezza rappresenta. Ed è una ricchezza che ovviamente non si può quantificare, perché non c'è un indice numerico che misuri la crescita culturale, la capacità di integrazione tra diversi, il rispetto tra generi, la capacità di gestire i conflitti e di attivare momenti di solidarietà, tutte cose che le bambine e i bambini cominciano a imparare proprio all'asilo nido e che possono imparare meglio qui, a contatto con gli altri, piuttosto che in famiglia, che è importantissima, ma che non può sostituire questo servizio come vorrebbero quelli che sostengono che le risorse per l'infanzia possono essere date direttamente alle famiglie e che si fanno forti proprio di questi episodi, di cui amplificano le conseguenze.
Una delle cose più pericolose che ci sta succedendo in questi anni di dominio del capitale è proprio utilizzare i soldi come unico criterio di giudizio. A noi quei comunisti là hanno insegnato che c'è anche altro e vogliamo con testardaggine non perdere questa memoria. A partire dall'idea che le bambine e i bambini sono persone. E che nella scuola, pubblica, potranno crescere.