mercoledì 31 maggio 2017

Verba volant (388): insieme...

Insieme, avv.

Le operaie di una fabbrica di bigiotteria di Montreuil scoprono che Fantine ha una figlia, avuta fuori dal matrimonio, e che l'ha affidata a una coppia di osti, a cui manda regolarmente una parte del proprio stipendio affinché si prendano cura della bambina. Quelle donne potrebbero far finta di nulla, fingere di non aver mai sentito quella notizia, invece denunciano la giovane, che proprio per questo sarà licenziata, sarà costretta a prostituirsi e infine morirà. Perché lo fanno? Probabilmente per paura, per nascondere un qualche loro segreto altrettanto pericoloso, o forse per invidia per quella collega che avevano giudicato fino allora irreprensibile, nonostante gli inviti più che espliciti del laido capoturno, ma soprattutto perché pensano che la sfortuna di Fantine potrebbe essere la loro fortuna. Non c'è nessuna solidarietà in quelle donne, anche se non costerebbe loro molto un gesto di aiuto, ma quando si ha poco, si ha molta paura di perderlo. Le uniche che mostrano una qualche forma di pietà per lei sono le prostitute, le donne che hanno ormai perduto tutto, e che riconoscono la loro storia in quella di Fantine.
Si tratta, come probabilmente ricorderete, di una delle prime scene del musical Les Misérables, tratto dal grande romanzo di Victor Hugo. Ho raccontato questa storia perché la poesia spesso è più vera della verità. Essere solidali con gli altri non è sempre facile, costa fatica: è qualcosa che non ci viene naturale. E quindi quando succede lo consideriamo una notizia e quando la solidarietà non scatta, come tra le operaie di Montreuil, non ci sorprendiamo più di tanto. Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo dirci che sappiamo bene cosa dovremmo fare, ma non cosa effettivamente faremmo. Quante volte abbiamo visto qualcosa del genere durante una crisi aziendale: se quella persona verrà licenziata, anche ingiustamente, sarà più facile che io non lo sia. E troviamo subito ottime giustificazioni per questo atteggiamento non proprio altruista: ho bisogno di questo lavoro, viviamo con questo mio unico stipendio, meglio che succeda a lei che a me.
Giorni fa a Grassobio, vicino a Bergamo, è successa una cosa diversa. La Fantine di questa storia, che lavora da quindici anni alla Reggiani Macchine, una storica azienda della città che ora è di proprietà di una multinazionale americana, ha due figli, uno nato da pochi mesi. Fantine ha avuto il diritto di stare a casa per la maternità - qualcosa è cambiato dagli anni in cui era successa l'altra vicenda - ma quando è tornata a lavorare non ha trovato il posto che aveva lasciato. L'azienda non ha fatto alcun tentativo di ricollocarla - intanto è passata una legge che rende più facile licenziare, un po' come succedeva nelle fabbriche descritte da Hugo - e, passati pochi mesi, ha deciso di lasciarla semplicemente a casa. Siamo giustificati - curioso come una giustificazione la si trovi sempre - quella lavoratrice per noi è solo un costo, non sappiamo proprio cosa farle fare. Qualcosa però è scattato tra i colleghi di Fantine: tutti i 230 lavoratori della Reggiani, donne e uomini, hanno proclamato uno sciopero immediato e improvviso, per chiedere il ritiro di quel licenziamento ingiusto. 
Non sappiamo se questa protesta salverà Fantine, ma certo ora sarà più difficile per quell'azienda andare avanti. Certo quella legge ingiusta è ancora in vigore, e i padroni della Reggiani troveranno un giudice che darà loro ragione, e magari un tutore dell'ordine ligio come Javert per farla rispettare. Ma Fantine non è sola e questo cambia in maniera radicale la storia.
Fantine è stata licenziata perché è una donna, perché è una donna che ha partorito da pochi mesi: magari qualcuno dei suoi colleghi per un momento avrà pensato che quel licenziamento poteva anche essere, per lui o per lei, una cosa positiva. Un uomo o una donna senza figli potevano pensare che se se questa fosse stata la linea dell'azienda si sarebbe salvato; o salvata. Invece hanno capito che noi ci salviamo solo insieme. In questa parola c'è una radice molto antica - risale al sanscrito e la troviamo in molte lingue antiche e moderne - che significa uguale. Stare insieme non significa solo stare con qualcuno, ma riconoscere che quel qualcuno è simile a te, è come te, che quel qualcuno in qualche modo sei tu. Lo hanno capito quei 230 lavoratori quando hanno deciso di scioperare, perché quel provvedimento ingiusto colpiva direttamente ciascuno di loro. Non stavano licenziando solo Fantine, ma stavano lasciando senza lavoro e senza stipendio ciascuno di loro. E quindi non stavano lottando solo per Fantine e i suoi figli, ma anche per loro e per i loro figli.
Come avrete capito io credo che ci sia una morale in questa storia. E spesso, come nelle favole degli antichi, la morale quando ce la raccontano può sembrarci banale, eppure ce la dimentichiamo sempre. Noi vinciamo solo insieme, solo quando riconosciamo gli altri come noi.

lunedì 29 maggio 2017

Verba volant (387): campione...

Campione, sost. m.

Ammetto di invidiare un po' gli amici di Roma e della Roma, perché hanno avuto un campione come Francesco Totti. Io non ne ho mai avuto uno così: da ragazzino tifavo per il Bologna e, vista la mia età, mi sono dovuto esaltare per la promozione in serie B della mia squadra del cuore, grazie ai gol di Sauro Frutti. Ma soprattutto li invidio perché, salutando Totti nella sua ultima partita, hanno avuto l'opportunità di provare, anche se per un solo pomeriggio, anche se solo per una manciata di ore, la gioia infantile che lo sport, e il calcio in particolare, non riescono più a dare a tanti di noi. So che molti di voi sono ancora appassionati tifosi, anche se è passata per voi, come per me, l'età dell'innocenza: ovviamente sono contento per voi, ma personalmente fatico a risentire la gioia di allora. Delle domeniche a guardare 90° minuto, della lettura furtiva dello Stadio mentre stavo in edicola ad aiutare mia nonna, della schedina che facevo con mio nonno, dato che avevo il compito di ricopiare i sistemi. La schedina non c'è più, lo Stadio non c'è più e credo che 90° minuto sia ormai una delle tante trasmissioni di calcio, con i soliti ospiti e le solite polemiche.
La domenica in cui Roma ha salutato il proprio capitano ha segnato anche la conclusione del Giro d'Italia. Me la ricordo la cronometro finale del Giro dell'84 quando Francesco Moser, fino allora secondo a più di un minuto da Fignon, con una gara perfetta, riuscì a ribaltare il risultato e indossò la maglia rosa. Ricordo i pomeriggi di maggio in cui facevo i compiti il più velocemente possibile per vedere le telecronache delle tappe del Giro: in tanti abbiamo imparato così un po' di geografia. Si tratta di un ricordo bello. E' da molti anni che non guardo una tappa in televisione, anche se potrei, anche se non ho più da fare i compiti.
Probabilmente tutti tendiamo a ricordare solo le cose belle degli anni della nostra adolescenza e quindi li mitizziamo, come facevano i greci che descrivevano la giovinezza della loro stirpe chiamandola l'età degli eroi. Era il tempo della guerra di Troia, e quindi un tempo di cui avrebbero serbare memoria delle terribili conseguenze della guerra, delle uccisioni, dei riti sacrificali umani, degli infanticidi; invece, grazie a Omero e agli aedi come lui, lo hanno mitizzato. E anche lo sport e il calcio della mia giovinezza non erano probabilmente molto meglio di quelli che ci sono ora: il doping nel ciclismo non è certo una novità di questi ultimi anni e i farabutti nel calcio c'erano allora come oggi. Il Bologna finì in serie C anche a causa di avventurieri che oggi ci paiono educande, ma che comunque ebbero responsabilità precise nella rovina dello sport.
Certo ora c'è intorno allo sport, e al calcio, un'esasperazione mercantile che probabilmente allora non c'era, o di cui forse non si rendevano conto, perché altrimenti l'avrebbero sfruttata anche allora. Il calcio era ed è un grande affare, che noi contribuiamo ad alimentare con la nostra passione, con il nostro entusiasmo. Allora non lo vedevamo - non riuscivamo perché troppi giovani - e adesso non lo vogliamo vedere, anche se sappiamo che c'è, perché forse preferiamo sentirci ancora giovani, ancora ragazzini.
Francesco Totti è anche una grande operazione commerciale - ce lo ricordiamo ogni volta che ci imbattiamo in uno dei tanti spot di cui è protagonista - e quindi è una bella illusione, ma la sua storia è vera e grazie a questa storia possiamo fidarci di tornare bambini, anche per un solo pomeriggio.

mercoledì 24 maggio 2017

Verba volant (386): valore...

Valore, sost. m.

Valore è una parola difficile da definire, ma forse è meglio così, perché dovremmo parlarne meno: i valori bisognerebbe soprattutto metterli in pratica.
Prima di tutto credo occorra dire che non esistono i valori tradizionali, che pure per tante persone paiono fondamentali e grazie ai quali sono state create carriere e fortune. La tradizione è qualcosa che creiamo noi, giorno dopo giorno, e spesso non dura da sera a mattina. E' rassicurante pensare che i nostri sbagli derivino da quelli dei nostri genitori, dei nostri nonni, e ancora più in là, ma prima o poi dobbiamo prenderci una qualche responsabilità e accettare che la tradizione siamo noi, con tutti i nostri limiti.
Personalmente credo che non esistano neppure i valori della civiltà occidentale, anche questi molto celebrati. Ho perfino qualche remora a definire cosa esattamente sia questa civiltà occidentale, anche se in suo nome stiamo combattendo guerre in diverse parti del mondo. Provo a fare qualche esempio banale, preso dalla cronaca di questi giorni. Vietare a una persona di girare per strada armato di un lungo coltello è un modo per difendere questi valori occidentali? No, è semplicemente - anche se nulla è mai semplice - il criterio per applicare una legge - peraltro di buon senso - che impedisce alle persone di andare in giro armate. Non è un valore, anche perché immagino che in altri paesi - ad esempio gli Stati Uniti, che penso possiamo definire un paese occidentale o che comunque si considera tale - quell'uomo potrebbe andare tranquillamente in strada con il suo lungo coltello rituale, così come chiunque altro può tenere armi da fuoco; e usarle perfino. Dobbiamo forse invadere gli Stati Uniti per portare in quel paese il divieto di portare armi? Sembra che per alcuni popoli la forza sia l'unico criterio pedagogico e infatti siamo andati in giro a insegnare la democrazia, ma non credo sia il caso.
E i valori universali? Tendono a cambiare anche questi e quindi faccio un po' fatica a considerarli tali. Sapete quanto io ami la Grecia antica, credo che quel mondo ci insegni tantissimo. Vedo spesso citato, con tutte le migliori intenzioni, il celeberrimo discorso che Tucidide fa pronunciare a Pericle nell'occasione solenne del ricordo dei caduti ateniesi durante il primo anno della guerra del Peloponneso. Tanti considerano quel discorso un manifesto politico della democrazia. Verissimo, lo è ed è un manifesto della civiltà occidentale da voi tanto decantata, ma vorrei sommessamente ricordare che per Pericle - e anche per Protagora, a cui questo blog è indegnamente dedicato - la schiavitù era una cosa normale. Atene era una democrazia con gli schiavi: una cosa adesso inconcepibile. Non che la schiavitù oggi sia sparita, ma si esercita sotto altre forme.
So che adesso molti di voi penseranno che questo è il solito discorso "buonista", perché finendo per non riconoscere i "nostri" valori finisco per accettare i "loro", e soprattutto quelli di quegli "altri" là, quelli con cui ci dicono che siamo in guerra. Io non mi considero "buonista". Anzi spero di essere sempre più "cattivo", ma soprattutto verso di noi, perché a essere cattivi verso gli altri, verso quelli che non conosciamo, sono capaci tutti, è piuttosto facile, mentre tendiamo a essere indulgenti verso chi conosciamo. Invece proprio perché vi conosco bene, non vi sopporto.
Faccio un altro esempio, per essere pedagogico. Condanno le società in cui le donne non sono libere di studiare, di lavorare, di esprimere i propri talenti, ma non posso pensare che la nostra società, con i suoi supposti valori, sia un modello. Ovviamente se avessi una figlia preferirei che crescesse in Europa piuttosto che in Arabia saudita - lo preferirei anche per un ipotetico figlio maschio - ma penso con dolore a una società come la nostra in cui una è donna è considerata quasi esclusivamente per il suo aspetto, in cui una ragazza ha meno opportunità di un suo coetaneo maschio, anche quando è più intelligente, in cui il corpo delle donne è uno strumento per vendere e creare ricchezza. Non capisco perché dovrei combattere per far togliere il velo alle donne musulmane per poi costringerle a una nuova forma di schiavitù, non meno odiosa di quella da cui le potremmo aver liberate.
Certamente un giovane che cresce nella "loro" cultura perde enormi opportunità, conosce un sistema di valori malato, asfittico, per molti versi crudele e ingiusto, ma quando quel giovane arriva qui che valori gli facciamo conoscere? Con che valori cresciamo i nostri figli? Gli insegniamo che l'unico vero valore a cui teniamo davvero è quello di possedere, le cose e le persone, gli insegniamo che una persona vale per quello che consuma e che quando smette di consumare può essere gettato, gli insegniamo che il potere ci vuole sfruttati e consumatori e che anche lui, per essere "occidentale" come noi, dovrà diventare sfruttato e consumatore.
Questo è il vero karma di noi occidentali e comunque vada panta rei and singing in the rain.

lunedì 22 maggio 2017

Verba volant (385): rispetto...

Rispetto, sost. m.

Francamente abbiamo parlato troppo di questa storia dei vaccini - l'ho fatto anch'io in un'altra definizione - e soprattutto ne abbiamo parlato male, senza mai davvero ascoltarci. Lo facciamo sempre di più, anche su argomenti meno importanti di questo. Ora io non voglio tornarci, però credo che questa vicenda possa raccontare qualcosa di noi, di quello che siamo diventati, meglio di tanti saggi e studi sociologici.
Al netto di tutte le speculazioni politiche, delle polemiche più o meno capziose, anche dei ragionamenti in buona fede, cosa ci dice questa storia? Semplicemente che non siamo più disposti a fidarci, che non abbiamo più rispetto per gli altri, o che ne abbiamo sempre meno.
Sarà che io sono nato e cresciuto in campagna nei Settanta del secolo scorso, ma ricordo un mondo un po' diverso da questo. Mio nonno, il padre di mia madre, faceva il mio stesso lavoro: l'impiegato comunale. Era maestro elementare, scoppiata la guerra era diventato ufficiale, poi non aveva aderito alla repubblica di Salò e non appena finì la guerra, siccome era socialista e aveva un po' studiato, entrò in comune; nulla di particolarmente eroico, una storia come tante, ma mio nonno, proprio perché era un dipendente comunale, era una persona stimata nel suo paese. Il suo giudizio valeva qualcosa, anche al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti; e come lui gli altri che facevano quello stesso lavoro. Per me e per quelli della mia generazione non è così; anzi se godo di un qualche credito è nonostante il fatto che sia un dipendente pubblico.
Ora non credo che quel mondo là fosse migliore di questo solo perché si credeva a quello che dicevano gli impiegati comunali, i dottori - a cui si faceva il regalo per natale - i maestri - anche quando tiravano una sberla ai loro alunni - si credeva perfino a quello che era scritto sui giornali e a quello che dicevano i politici. Anche allora i dottori mentivano, per incapacità o per dolo, figurarsi i politici e i giornali, però in quel mondo là c'era un rispetto diverso dei ruoli. E delle persone. Un rispetto di cui non godevano le donne e questo era un problema molto grave di quella società, su cui per fortuna c'è stata una reazione, c'è stata una battaglia, il cui esito però non è così scontato come ci illudiamo che sia.
Mi piacerebbe capire quando abbiamo smesso di avere questo rispetto, quando il mondo è così cambiato. Immagino che molti di voi mi considereranno un conservatore perché faccio un discorso del genere, che avrebbe potuto fare mio nonno, che infatti lo era, nonostante fosse socialista, perché ad esempio pensava che sua moglie avesse meno diritti di lui di decidere sulle questioni importanti della famiglia; e sua figlia ancora meno. Provo a non essere come mio nonno e credo che lui su molte cose sbagliasse, però non riesco neppure a farmi andare bene una società come la nostra, in cui non ci fidiamo più di nessuno. E in cui, quando leggiamo una notizia sul giornale, pensiamo sia manipolata, in cui siamo convinti che i medici siano tutti al servizio delle industrie farmaceutiche, e potrei andare avanti così facendo molti altri esempi, ma lo sapete anche voi, lo sentite tutti i giorni.
Poi il rispetto bisogna meritarselo e so bene che non ce lo meritiamo, tutti noi. Se non ci fidiamo è perché sono più le volte che ci hanno mentito di quelle che ci hanno detto la verità, ma anche perché noi abbiamo spesso mentito, e siamo pronti a farlo per averne un vantaggio. Siccome non abbiamo rispetto di noi stessi e sappiamo che saremmo pronti a fregare gli altri, se fossimo sicuri di farla franca, non abbiamo neppure rispetto per gli altri e pensiamo siano sempre lì pronti a ingannarci per il loro tornaconto. Per questo non è un bel mondo quello che stiamo per lasciare ai nostri figli.
La parola rispetto ha un significato etimologico interessante: deriva dal verbo latino respicere che propriamente significa guardare di nuovo, guardare due volte. E noi spesso non guardiamo neppure una volta, tanto siamo convinti di sapere già tutto. Avere rispetto non è solo fidarsi in maniera cieca di quello che ci dicono, solo perché quelli che ce lo dicono sono più importanti, più ricchi, più famosi di noi, ma capire quello che ci dicono, anche non accontentandosi, capire quello che ci vogliono dire. Usare la critica, pensare con la propria testa, non è sinonimo di non fidarsi, come avviene adesso, ma di riconoscere di chi fidarsi, sapendo che gli altri si possono fidare di noi. Perché il rispetto si concede, ma si ottiene, nello stesso tempo e nello stesso rapporto; questa regola vale in famiglia, come nella società. E una società in cui ci si fida funziona un po' meglio, e forse non è un caso che vogliono che non ci fidiamo, vogliono che siamo sempre così violentemente diffidenti, vogliono che non ci parliamo e non ci ascoltiamo.    

venerdì 19 maggio 2017

Verba volant (384): segreto...

Segreto, sost. m.

Erano gli anni del confronto nucleare tra Stati Uniti e Unione sovietica, gli anni della paura della bomba. La situazione rimane in equilibrio, anzi la pace è garantita proprio da questo equilibrio muscolare, ma un giorno a una flotta di bombardieri americani viene emanato l'ordine esecutivo di dirigersi verso le basi russe e di attaccarle. Quando ci si rende conto che non è più possibile annullare l'ordine di attacco fatto scattare dal generale Ripper, il presidente Muffley convoca nella war room i generali e i suoi consiglieri più fidati e, a sorpresa, l'ambasciatore De Sadeski. Molti militari sono contrari al fatto che il rappresentante del paese nemico sia lì, ma Muffley si impone e chiama al telefono il premier Kisov, con cui concorda di abbattere gli aerei americani prima che raggiungano i propri obiettivi in Unione sovietica. Sembra che questo scambio di informazioni, assolutamente irrituale, riesca a bloccare l'attacco e quindi a salvare il pianeta, ma un aereo riesce comunque a sganciare il proprio ordigno sulla base di Laputa. Naturalmente nulla di tutto questo è mai accaduto veramente; fosse successo, non saremmo qui a raccontarlo. Sapete che si tratta di un film, del capolavoro di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
Ho raccontato questa storia come fosse vera - e forse è più vera di molte notizie che leggiamo quotidianamente sui giornali - perché in questi giorni un altro presidente degli Stati Uniti, a dire il vero molto diverso da quello interpretato da Peter Sellers, è accusato di aver fornito informazioni riservate, se non addirittura segrete, alla Russia, che non è più l'Unione sovietica, ma è pur sempre una potenza concorrente, anche se forse non la più temuta da Washington: è cambiato parecchio il mondo in questi cinquant'anni. 
Devo dire che è piuttosto ipocrita l'atteggiamento degli avversari di Trump. I governi da sempre si scambiano informazioni riservate, vere e false, segreti veri, facendo finta che siano falsi, e segreti falsi, facendo finta che siano veri. E si scambiano tutte queste informazioni anche se sono nemici, perché magari servono per combattere contro un nemico di entrambi o contro qualcuno che potrebbe diventare un nemico. Teoricamente Stati Uniti e Russia adesso dovrebbero combattere come alleati contro i terroristi islamici e quindi dovrebbe essere normale questo scambio di informazioni segrete. Ma forse nessuno di loro ha troppa voglia di far sapere all'altro quali sono i terroristi "amici". Anzi meno si combatte con le armi, anche se donne e uomini continuano a morire in tutto il mondo a causa delle guerre, più si combatte per e con le informazioni, perché da sempre sapere è potere.
Non ho alcuna stima né di Trump né di Putin, anzi credo che entrambi abbiano molto meno potere di quanto vogliano farci credere o di quanto forse loro stessi credano di avere. Sono altri, in altri luoghi, che decidono che guerre fare, contro chi e con quali obiettivi, e che decidono che informazioni possono essere scambiate e soprattutto quali possono arrivare fino a noi. Ci sono segreti ben custoditi, a cui non accedono né il presidente degli Stati Uniti né l'autocrate che siede al Cremlino, ma che sono gelosamente custoditi in qualche grattacielo di Wall street o in qualche luogo ancora più anonimo.
Era un mondo che faceva paura quello raccontato da Stanley Kubrick, era un mondo sempre sull'orlo del precipizio, un mondo che poteva essere distrutto da un generale impazzito perché diventato impotente o da un ragazzino entrato con il suo computer nel "cervellone" del Pentagono. Ma era anche un mondo più semplice, in cui si sapeva da che parte stare e in cui la politica aveva un peso: se i leader degli Stati Uniti e dell'Unione sovietica si parlavano e si mettevano d'accordo, magari scambiandosi qualche reciproco segreto, qualcosa poteva cambiare. Quando Trump e Putin si incontreranno, chi decide davvero, chi decide per loro, saprà già contro chi sarà la prossima guerra, a quanto si venderanno le armi e le materie prime necessarie per l'industria bellica, quanto guadagneranno da quel conflitto. E noi, che siamo le vere vittime di questa guerra, la guerra di classe contro i poveri, contro i lavoratori, possiamo far finta che ci siano segreti da svelare, mentre è tutto così chiaro, tutto sotto i nostri occhi.

giovedì 18 maggio 2017

Considerazioni libere (418): a proposito di un passato da lasciarci alle spalle...

Ho letto con amarezza e sconforto le ultime dichiarazioni di Pier Luigi Bersani, a cui, nonostante tutto, va riconosciuto il merito di esprimere quello che pensa in maniera chiara. In sostanza Bersani dice che occorre fare rinascere il centrosinistra - e fin qui non è una novità - attraverso una federazione di forze politiche, tra cui deve esserci necessariamente il pd renziano. Qui sta il primo dato problematico: Bersani prende atto del risultato delle primarie, che evidentemente pensava - illudendosi - sarebbero andate in modo diverso e riconosce il pd, da cui è uscito in maniera clamorosa, come elemento fondante dello schieramento di centrosinistra. Qui sta la parte più scivolosa del suo ragionamento: ne è egli stesso consapevole e infatti tenta di distinguere tra il gruppo dirigente renziano e i militanti renziani, questi ultimi secondo lui certamente legati al centrosinistra, dato non scontato per i primi. E proprio per questo Bersani spiega che renzi non può essere il federatore di questo nuovo centrosinistra. L'ex segretario del pd dice di avere in mente diverse figure che potrebbero svolgere questo ruolo, ma di questi possibili e immaginifici federatori cita soltanto Giuliano Pisapia.
Se il contributo di Bersani e dei suoi amici alla ricostruzione della sinistra in Italia si ferma qui, allora ringrazio, rifiuto e vado avanti. Conoscendo un po' Bersani e i suoi amici temevo che la montagna avrebbe partorito questo asfittico topolino. Certamente non voterò per Mdp se la prospettiva è quella di sostenere un centrosinistra con dentro il pd, perché il partito di renzi ormai non fa più parte di questo schieramento, non ne fanno più parte i suoi dirigenti né molti dei suoi iscritti: quelli del pd sono un'altra cosa, sono quello che in Francia è rappresentato da Macron, un movimento che si definisce di sinistra solo perché ha un'idea alta dei diritti civili. Ma pensare che le persone omosessuali si possano sposare non significa essere di sinistra; e infatti in Europa molti partiti dichiaratamente di destra sostengono questa tesi. Ho l'impressione che anche Bersani, che pure dice - giustamente - che "la sinistra esiste in natura" ha dimenticato cosa significhi essere di sinistra, probabilmente perché da tempo, da molto tempo prima che nascesse il pd, ha smesso di esserlo o almeno ha smesso di fare politiche di sinistra.
Naturalmente sono consapevole che nel pd è rimasta anche una quota non irrilevante di persone che davvero sono di sinistra, le conosco, so quanto valgono, ho lavorato insieme a loro troppi anni per non sapere cosa possono ancora dare, ma la scelta di rimanere in quel partito, per quanto umanamente comprensibile, è politicamente miope.
Sento che Pisapia, uno dei possibili federatori, parla di "nuovo Ulivo". No, basta. E dobbiamo dirlo prima di tutto noi, che abbiamo fatto quello vecchio, perché siamo stati noi a mettere le basi per il jobs act, per le privatizzazioni selvagge dei servizi pubblici, per la vendita ai privati dei beni comuni, per tutto quello che adesso imputiamo a renzi. E' colpa nostra se è nato renzi: o lo riconosciamo - e Bersani non mi pare disposto a farlo - o moriamo. Probabilmente a questo punto la seconda opzione è quella preferibile, perché finché noi continueremo a fare politica, ci sarà qualcuno che crederà che la sinistra è lo schifo che siamo stati noi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. La sinistra deve liberarsi di noi, del nostro buon senso, della nostra moderazione, della nostra capacità di essere corretti, deve gettarci via in maniera definitiva. E quindi dovete essere politicamente scorretti, smoderati, radicali, rivoluzionari perfino, tutto quello che noi non siamo stati, non abbiamo voluto essere. Prima lo farete meglio sarà.

mercoledì 17 maggio 2017

Verba volant (383): comune...

Comune, sost. m.

Leggendo i giornali pare che esista soltanto il comune di Roma; non è proprio così. In Italia ci sono 7.461 comuni con meno di 20.000 abitanti: sono il 93,4% di tutti i comuni italiani. E di questi, quelli molto piccoli, ossia con meno di 2.000 abitanti, sono 3.477, praticamente la metà. Un po' più del 40% di noi italiani vive in uno di questi piccoli comuni. Dovrebbe essere qualcosa di cui occuparsi, al di là delle notizie di cronaca.
A Cencenighe Agordino, nel bellunese, quest'anno avrebbero dovuto esserci le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale e del sindaco, ma i cittadini non voteranno, perché nessuno si è candidato. E lo stesso succede a Penna San Giovanni, paese delle colline maceratesi colpito dal terremoto. Il sindaco uscente del paese dolomitico, assurto per la prima volta agli onori delle cronache nazionali, ha spiegato con rammarico che nessun suo concittadino ha voluto candidarsi, perché fare il sindaco non è facile, a Cencenighe come a Roma, richiede un impegno costante e giornaliero, a Cencenighe come a Roma, e non è adeguatamente retribuito, a Cencenighe come in tutti i piccoli e piccolissimi comuni italiani. Il sindaco di Cencenighe prende 900 euro lordi al mese, quindi o lavora, non riuscendo a dedicare tutto il tempo necessario all'amministrazione del suo paese, o è ricco di suo. Oppure arrotonda in qualche altro modo non proprio commendevole, ma a Cencenighe è praticamente impossibile anche rubare.
In questi anni ci siamo giustamente indignati per i politici che si sono arricchiti grazie alla politica; anzi ci sono stati giornalisti che hanno fatto fortuna, anche economica, denunciando i politici che diventavano sempre più ricchi, e ci sono politici che hanno fatto carriera - e quindi sono diventati anche loro ricchi - tuonando contro questo malcostume. Ripensandoci, la "casta" in questi anni ha dato da mangiare a tante famiglie. E non è stato scritto un articolo - figurarsi un libro - per raccontare la quotidianità dei tanti sindaci e amministratori, migliaia visti i numeri che citavo prima, che hanno dovuto lavorare in queste difficili condizioni, che hanno comunque tirato avanti la baracca.
E comunque non è soltanto un problema di soldi, anche se i soldi sono un problema, perché un lavoro deve essere adeguatamente retribuito, sempre. Nonostante la tanta retorica spesa a favore delle autonomie - in questo paese c'è stato perfino un ministro dell'interno espresso da un partito che sosteneva il federalismo - nonostante che per tre volte sia stata proposta una riforma radicale del Titolo V della Costituzione, ossia l'insieme delle norme che regolano gli enti locali, dei comuni e di chi li amministra ci siamo sostanzialmente disinteressati.
Anzi negli ultimi dieci anni, con il pretesto della crisi, sono stati ridotti i poteri dei sindaci, le cui scelte devono districarsi in un ginepraio sempre più fitto di norme, circolari, bizantinismi burocratici. I sindaci sono diventati più deboli, li hanno fatti diventare, in maniera programmatica, più deboli, per non parlare dei consigli comunali che sono ormai simulacri di organi legislativi. Un sindaco, a Roma come a Cencenighe, ha sempre minore autonomia, può incidere sempre meno sulla vita della sua comunità, poi il sindaco di Roma viene invitato nei talk show, fa parte del circo della politica televisiva, ma quello di Cencenighe no, quando va bene prende le critiche dei suoi concittadini che non capiscono perché le tasse comunali diventano sempre più alte, perché i servizi comunali peggiorano e costano sempre di più, perché ci sono sempre meno soldi per sistemare le strade. Spesso non lo capisce neppure il sindaco perché è costretto a fare così, figurarsi gli altri.
Da quasi trent'anni ci dicono che la politica fa schifo, che i politici sono bugiardi, ladri e imbroglioni, e poi ci stupiamo che nessuno voglia fare il sindaco a Cencenighe. E infatti il sindaco di quella piccola realtà, con i suoi 900 euro lordi al mese, viene considerato "casta", perché comunque è un politico, che per lo più ratifica scelte fatte da altri e con il rischio di prendersi una denuncia. Perché uno sano di mente dovrebbe fare il sindaco di Cencenighe?

mercoledì 10 maggio 2017

Verba volant (382): cravatta

Cravatta, sost. f.

Curiosamente la cravatta è una di quelle tante cose che è arrivata in Europa con la guerra: la Guerra dei Trent'anni per la precisione, che in Italia è conosciuta soprattutto per essere stata raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Tranquilli, non mi metterò a raccontarvi le complicate dinamiche di quel conflitto, che sconvolse l'intera Europa del Seicento, mi basta ricordare che nell'esercito francese combattevano anche dei mercenari croati, che erano abituati a indossare dei piccoli foulard annodati al collo, il cui lembo scendeva lungo il petto. I parigini, che forse avrebbero fatto meglio a pensare alle sorti della guerra - ma si sa che ancora oggi preferiamo occuparci di cose più futili - si invaghirono di quella moda portata dai soldati croates e quindi cominciarono a chiamare quel pezzo di stoffa cravate.
Credo di aver indossato una cravatta per l'ultima volta al mio matrimonio, eppure una vita fa la portavo regolarmente, tutti i giorni: era una parte sostanziale della mia divisa da lavoro da funzionario di partito. A dire il vero già allora alternavo quell'outfit classico - come direbbe la collega blogger Chiara Ferragni - a camicie dalle fantasie improbabili; fortunatamente di quelle non ci sono foto nella rete e quindi quei miei reati al buon gusto sono caduti in prescrizione. La cravatta era un piccolo segno di distinzione per noi comunisti, forse soprattutto per noi comunisti, perché era un accessorio dell'abbigliamento borghese. Ricordo un compagno di Granarolo, Pietro Gardenghi, che nella sua vita aveva sempre fatto l'imbianchino e continuava a farlo nelle Feste dell'Unità, con perizia artigianale e passione politica. Eppure Pietro, che tutti i giorni indossava una tuta perennemente sporca di vernice, quando c'era una qualche manifestazione, specialmente se si andava a Roma, tirava fuori il tre pezzi; e ovviamente la cravatta. Forse memore che nel 1975 il compagno Ingrao, diventato presidente della Camera, impose l'obbligo di questo indumento per i parlamentari. Potevamo anche aver conquistato i parlamenti borghesi, potevamo anche voler fare la rivoluzione, ma con stile.
Leggo che invece alla cena con Obama a Milano era obbligo non indossare la cravatta. Era proprio specificato nell'invito. Pare che solo Monti non abbia resistito e si sia presentato incravattato, sperando che non lo avrebbero notato, ma renzi l'ha amichevolmente costretto a togliersela. E quindi siamo tornati a essere tutti uguali, tutti senza cravatta, come si usa adesso: come sono diventati democratici i padroni.
Io comunque a Monti senza cravatta continuo a preferire Gardenghi, pugno chiuso e tre pezzi.  

lunedì 8 maggio 2017

Verba volant (381): inseguire...

Inseguire, v. tr.

Voglio riprendere la questione della legge sulla legittima difesa, ma non torno sul merito - perché l'ho fatto in un'altra definizione - ma voglio provare, a partire da quello che abbiamo detto e scritto in questi giorni, a ricavarne una riflessione sul metodo: in particolare sulla debolezza della politica.
Quello della legittima difesa è evidentemente un argomento rilevante, anche se non così fondamentale come vorrebbero farci credere, che potenzialmente riguarda poche persone, ma che tocca comunque un aspetto importante del rapporto tra i cittadini - tutti noi cittadini - e la giustizia. In fondo lo stato nasce essenzialmente per sottrarre l'uso della forza agli uomini in favore di una struttura che, sola, abbia i titoli per usarla. La condizione di natura è che ciascuno di noi dovrebbe proteggere se stesso, la propria famiglia e le proprie cose, difendendosi, con ogni mezzo, compresa la forza, quando qualcuno ci attacca. Costruendo uno stato, dandoci un sistema di leggi, abbiamo più o meno consapevolmente deciso di rinunciare a questo diritto - un diritto che a dire il vero implicava molti rischi - a favore di un sistema in cui sono maggiori i doveri, ma in cui c'è evidentemente maggior sicurezza. E' naturale che nel corso del tempo, e per il mutare delle condizioni culturali, economiche e sociali questo rapporto complesso muti, e quindi che le leggi cambino, andando in una direzione piuttosto che in un'altra.
Quello che mi interessa è chi decide questa direzione. E curiosamente non è più la politica. E' qualcosa a cui dobbiamo abituarci, anche noi che siamo cresciuti in un mondo diverso, in cui la politica aveva un ruolo ben più definito rispetto a quello che ha adesso, e proprio perché non ci abituiamo - alcuni, come me, non vogliono abituarsi - facciamo fatica a capire quello che sta succedendo. Eppure dobbiamo provarci. Prendo l'esempio della legittima difesa perché è quello più recente, quello che potete ricordare meglio, ma, se vi fermate a pensare, ve ne possono venire in mente molti altri.
Guardate quello che è capitato in questi giorni: la politica è sempre stata un passo indietro, è sempre stata nella condizione dell'inseguitore e quindi è andata dove vedeva andare i cittadini. Le persone hanno espresso una richiesta di sicurezza ed è stata cambiata la legge, poi sono state fatte emergere le contraddizioni di quella legge e quindi sono state promesse delle modifiche. E quindi abbiamo assistito al paradosso che il partito di maggioranza che ha approvato la legge, l'ha sconfessata dopo qualche ora; e ora propone delle modifiche, ma non sa quali, perché non ha ancora capito quale sarà la direzione che prenderà l'opinione pubblica. E così assistiamo a questo stallo, in cui peraltro si dibattono anche altre forze politiche, a partire dal più grande partito di opposizione. Non basta a spiegare questo fenomeno la pochezza dei cosiddetti leader politici. Non è solo la ricerca di un facile consenso elettorale, è proprio l'incapacità di costruire un sistema in cui la politica stia al passo e guidi i cittadini.
Io non ho nostalgia di partiti-chiese che dettano la linea; e sinceramente questa credo sia una caricatura di un fenomeno che non è mai esistito nella nostra storia recente. Però i partiti di massa erano un'altra cosa, perché il loro obiettivo non era quello di inseguire, ma quello di guidare. Non sempre ci riuscivano, non sempre il percorso era lineare, non sempre le persone erano disposte a farsi condurre e quindi il partito doveva fermarsi o modificare il percorso, fino ad arretrare, per far sì che il cammino fosse di tutti. Pensate ad esempio al tema dei diritti in un grande partito di massa come il Pci. Al di là di quello che ne potevano pensare gli intellettuali che lo guidavano, le posizioni del partito erano meno progressiste di quello che ci sarebbe potuto aspettare, perché le persone - diciamo la base, per spiegarsi - non sarebbe stata disposta ad accettare certe idee. Penso al tema dei diritti delle persone omosessuali, in cui ci si scontrò evidentemente con un sentimento di diffuso bigottismo. Però anche in casi come questi non era mai la politica a inseguire, la politica cercava di evitare strappi, certo segnava il passo, spesso non dava il meglio di sé, ma non cedeva mai la guida, anche perché la direzione era una costruzione collettiva. Partito di massa non è una formula: i grandi partiti europei erano strutture vive nella società, che rappresentavano milioni di persone e che sentivano la responsabilità di questa rappresentanza.
Quel mondo lì è finito. Però non possiamo fare finta che siamo noi cittadini, che ci siamo resi autonomi dalla politica, che adesso conduciamo le danze. Sono altri che tirano le fila e noi inseguiamo, senza avere alcun ruolo, come invece avevamo, pur nel nostro piccolo, nel mondo dei partiti di massa. Il bisogno di sicurezza è reale o è indotto? Spesso è costruito, non è difficile farlo, così come non è difficile costruire altri bisogni o altre spinte emotive. Quando qualcuno decide che le foto dei nostri profili social devono diventare tutte arcobaleno, non fa poi così fatica a ottenere quel risultato e, allo stesso tempo, avrà creato le condizioni per cambiare le leggi a favore di una determinata fascia di persone. L'esito è stato ovviamente positivo - me ne rallegro oggi, come ne ero soddisfatto allora - ma quello è un caso in cui la politica ha certamente inseguito. E anche se la direzione è quella giusta, io sono preoccupato quando non so chi l'ha decisa. Ma spesso la direzione non è neppure quella giusta, come ad esempio nel caso della legittima difesa.
Se non è la politica che si assume il compito di guidare certi processi, altri lo faranno. E altri lo stanno facendo. Da una parte gruppi piccoli, ma coesi e motivati, finiscono per rappresentare il tutto, pensate alla chiesa cattolica in Italia, una minoranza che ha un peso decisamente maggiore rispetto a quello che effettivamente rappresenta; ma soprattutto il mercato, la cui capacità di condizionare è ben più forte: lo abbiamo visto nel corso di queste ultime elezioni, negli Stati Uniti e in Francia, lo vediamo ogni giorno nella nostra vita.
Per questo credo sia necessario che ciascuno di noi - e anche collettivamente, per quello che possiamo e per quello che ci lasceranno fare - provi a evitare di inseguire quello che tutti inseguono, quello che ci dicono che è giusto inseguire. Anche a rischio di stare fermi qualche volta.

venerdì 5 maggio 2017

Verba volant (380): bottiglia...

Bottiglia, sost. f.

L'assessore alla cultura del Comune di Bologna ha annunciato nei giorni scorsi che la collezione del Museo Giorgio Morandi rimarrà definitivamente nella sede del Museo d'Arte moderna, dove era stata trasferita, in via provvisoria, nell'ottobre del 2012, a seguito della decisione presa in quelle settimane di effettuare una serie di lavori nella sede storica di Palazzo d'Accursio in piazza Maggiore, resi urgenti anche dalle scosse di terremoto di qualche mese prima. 
Il trasferimento di un museo - seppur rilevante come questo - non dovrebbe essere una notizia, se non di servizio per informare cittadini e turisti, se non fosse che questa decisione viola un preciso impegno stipulato negli anni Novanta tra l'amministrazione comunale e la sorella dell'artista, che decise di donare questa preziosa collezione al Comune di Bologna a patto che fosse ospitata nella sede del palazzo civico e che, accanto alle opere, fosse ricostruito lo studio in cui l'artista viveva e lavorava in via Fondazza. Invece lo studio è stato riallestito nella casa dell'artista e quindi lontano dalle opere che lì sono nate - e lì rimarrà - e soprattutto la collezione di dipinti di Giorgio Morandi, la più grande del mondo, sarà ospitata in maniera permanente in una sede diversa, per quanto prestigiosa. E quindi quel patto è stato violato.
Suppongo che ci siano le condizioni legali per dire che questo trasferimento è legittimo, alcuni giuristi si sono già espressi sul tema per sostenere la tesi del Comune e io non ho certo le competenze per dire che questo trasferimento è illegale - e francamente mi interessa anche poco cosa dicono le carte - la cosa grave è che è stato violato un accordo e questo è una violenza esercitata contro chi lo ha contratto, anche se fosse stato solo informale, e quindi Maria Teresa Morandi e Renzo Imbeni, ossia tra chi possedeva in maniera legittima tutte quelle opere e quindi in qualche modo rappresentava l'artista e la sua memoria e chi rappresentava la città. 
E' una violenza che si fa a un tempo contro l'artista e contro la città. Vedendo quello che succede ogni giorno nel nostro paese questa potrà sembrare una cosa di poco conto. In fondo il museo c'è ancora, in un paese in cui i musei chiudono o vivono in maniera sempre più stentata, dopo tutto lo studio è ancora lì ed è possibile visitarlo, in un paese in cui si esercita così poco la memoria. Eppure quel patto violato credo debba essere considerato in maniera grave.
Il museo Morandi, ovunque venga aperto, merita una vostra visita, le opere sono bellissime e proprio il fatto che i quadri siano così tanti ci permette di godere in maniera piena del genio dell'artista delle bottiglie e dei vasetti. E non era un effetto per stupire, come troppo spesso si vede nelle collezioni d'arte e nei musei, né una forma di voyeurismo artistico osservare lo studio di Morandi proprio accanto alle sue opere, perché fa impressione vedere i pochi oggetti, qualche bottiglia, un paio di brocche, i vasi, le scatolette di latta, che l'artista componeva e ricomponeva, sempre gli stessi, e poi dipingeva in quadri che miracolosamente ci appaiono tutti diversi, anche se i soggetti sono sempre quelli. E vedere quello studio, i pochi oggetti dell'artista, ci serve a ricordare gli anni terribili in cui Giorgio Morandi fece quei dipinti: gli anni del regime fascista e dei totalitarismi, della guerra mondiale, della paura della catastrofe nucleare, e mentre fuori il mondo sembrava ogni momento sull'orlo del precipizio, pronto ad autodistruggersi, Giorgio Morandi creava le sue bottiglie, i suoi vasi, le sue poetiche composizioni. 
Alcuni giorni fa è stato l'ottantesimo anniversario della strage di Guernica, che noi ricordiamo per il grande quadro che Pablo Picasso dedicò a quell'episodio terribile. Mentre Picasso dipingeva Guernica, Morandi componeva le sue bottiglie, i suoi vasi. E quelle bottiglie ci raccontano comunque quel secolo, i suoi drammi, le sue speranze. Per questo Giorgio Morandi è uno dei più importanti artisti europei del Novecento, un grandissimo, il cui museo merita di essere al centro della città in cui l'artista visse, insegnò, lavorò. E soprattutto merita di essere un centro culturale, un luogo di studio, di ricerca, di formazione permanente. Ricordo l'entusiasmo con cui allora la città visse questa donazione e la possibilità di creare questo polo culturale, e anche per questo sento così forte la violazione di quel patto. Ma so anche che per molto tempo il museo Morandi è stata un'occasione persa - o non sfruttata in maniera adeguata - per la città. Non so se questo trasferimento diventerà l'occasione per ricucire un filo che si è presto interrotto, ma - al di là delle parole con cui viene annunciata - temo che non se ne farà nulla, anche per il modo in cui questa decisione è stata presa, e soprattutto perché è calata quasi nell'indifferenza della città. Non sono bottiglie, non sono vasetti, sono un pezzo rilevante della storia dell'arte europea, sono qualcosa di cui dovremmo prenderci cura. Anche rispettando i patti.

giovedì 4 maggio 2017

Verba volant (379): turbamento...

Turbamento, sost. m. 

Vorrei sinceramente sbagliarmi, ma ho l'impressione che la legge approvata alla Camera sulla legittima difesa non sia una buona legge, perché, al di là di quello che c'è effettivamente scritto e su cui dovremo ancora confrontarci, lancia un segnale molto preciso. Guardate i titoli dei due quotidiani on line più letti e vedrete che sono praticamente identici: entrambi enfatizzano sulla licenza di sparare di notte. La legge naturalmente non è così esplicita, ma questo è il messaggio che si sta facendo strada, messaggio che peraltro arriva non solo a chi dovrebbe difendersi, ma anche ai delinquenti, che probabilmente da oggi saranno più risoluti, magari più pronti a sparare loro per primi, sapendo che potrebbero subire loro stessi un attacco con armi da fuoco. E rischiamo quindi che una legge che è nata - anche con le migliori intenzioni - per garantire maggiore sicurezza, finisca per farla diminuire.
Ci sono due aspetti della legge che mi lasciano molto perplesso.
Il primo è quello di avere introdotto una sorta di criterio oggettivo, ossia quello dell'ora: in pratica se si sorprendono i ladri di notte è quasi automatico far scattare la legittima difesa. A tutta prima sembra un criterio di buonsenso, ma riflettendoci credo sarà un elemento su cui i giudici si troveranno spesso a dibattere. Cosa ci fa davvero paura? La notte o il buio? Le due cose non sono esattamente uguali: ci sono notti in cui le luci ci permettono di vedere molto bene e di capire se qualcuno è armato o meno, e ci sono giorni in cui è impossibile distinguere cosa una persona abbia in mano. Penso a certe giornate di nebbia della nostra pianura: sfido a capire perfino chi avete davanti, figurarsi se ha in mano una pistola.
Poi curiosamente questo criterio si applica anche quando vengono derubati uffici e negozi, che di notte dovrebbero essere chiusi e dove non dovrebbero esserci, specialmente a quelle ore, le persone a cui teniamo di più. Forse allora la questione non è difendere le persone, ma la roba. E quindi la legge diventa molto più debole.
L'altro elemento che non mi convince è il criterio soggettivo, ossia quello del "turbamento psicologico". Non deve essere facile per un giudice capire quanto ciascuno di noi può rimanere turbato. Personalmente non ho mai posseduto un'arma né vorrò mai possederla: avrei paura di come la potrei usare se mia moglie fosse in pericolo, anche se solo mi sembrasse in pericolo. Perché il turbamento è qualcosa che ciascuno di noi sente in maniera diversa e che cambia, nel tempo e a seconda delle circostanze esterne. Pensate alle persone che vivono nella campagna tra Bologna e Ferrara, che da un mese vivono con la costante presenza di un latitante, che ha già ucciso, che non si fa scrupoli a uccidere; lì il turbamento è qualcosa di palpabile, di molto concreto. Ma il turbamento si può anche costruire, creare dal nulla. Non è poi così difficile, bastano alcuni titoli a effetto sui giornali, ripetuti giorno dopo giorno, bastano un po' di servizi in televisione e qualche bel dibattito nei talk show pomeridiani e il gioco è fatto: si crea isteria, si diffonde paura. E quanto questa paura creata, indotta ad arte, può condizionare un giudice, oltre che creare turbamento tra i cittadini?
In sostanza questa legge non mi piace perché è essa stessa che alimenta la paura e la paura fa commettere errori, anche gravi, anche irreparabili. Personalmente ho sul tema un'idea molto radicale: io credo che le persone "normali", quelle come noi, non potrebbero per nessuna ragione possedere armi, e che le armi dovrebbero essere usate soltanto dalle persone che hanno titolo per farlo, dai rappresentanti delle forze dell'ordine o comunque, anche quando usate da "civili", in contesti molto definiti, ad esempio in un poligono per attività sportiva. Mi rendo conto che è una proposta che a molti di voi non piacerà, che va nella direzione opposta a quella verso cui tende anche questa nuova legge, ossia al riconoscere ai cittadini un sempre maggiore diritto a difendersi, in ogni modo, quando vengono attaccati. Magari è un pensiero banale, ma io credo sia meno sicura una società in cui molte persone possano sparare, di giorno e di notte.

lunedì 1 maggio 2017

Verba volant (378): sbarramento...

Sbarramento, sost. m.

Fossi un cittadino francese, al ballottaggio per le presidenziali non voterei Emmanuel Macron, pur consapevole che questo mio non voto potrebbe in qualche modo favorire Marine Le Pen. So che questa mia posizione è sinceramente incomprensibile per molti di voi - parlo degli antifascisti sinceri, non di quelli indottrinati sul tema da Repubblica - e per qualcuno è perfino scandalosa, ma ne sono convinto, così come alle presidenziali degli Stati Uniti non avrei votato per Hilary Clinton, nonostante Trump, e così come non voterò in Italia uno del pd solo per fermare Berlusconi o Salvini o chiunque vogliate immaginare. Naturalmente sarebbe per me un dolore indicibile vedere all'Eliseo una rappresentate della Francia vandeana, reazionaria, ultracattolica, razzista, una persona che incarna tutto il contrario di quei valori che la Francia ha insegnato al mondo e per cui io amo quel paese. Marine Le Pen presidente della repubblica sarebbe una ferita quasi impossibile da rimarginare. Eppure sento di non poter fare altro.
Anch'io, se mi guardassi con gli occhi di un po' di anni fa, forse non mi riconoscerei: nel 2002 avrei certamente votato Chirac per contrastare il padre di Marine. Adesso però credo che quel barrage, quello sbarramento repubblicano che unì partiti di destra e di sinistra contro la possibilità che un fascista diventasse presidente, sia stato un errore, che alla fine è servito soltanto a rendere più forte quel movimento, contro cui non abbiamo opposto la forza della politica, ma solo una serie di parole d'ordine che, per quanto per me fondamentali, rischiano di suonare vuote a tante persone. Per anni ci hanno spiegato che destra e sinistra sono valori superati, che la stessa dicotomia fascismo-antifascismo è un retaggio del passato, e perché mai adesso, proprio in nome di questa contrapposizione, dovremmo unire la Francia contro Le Pen?
Marine Le Pen è pericolosa non solo perché è la rappresentante di una forza fascista, ma perché è riuscita a nascondere questi valori negativi dietro la maschera di una generica critica al sistema. Le Pen tuona contro la "casta", contro un potere che è sempre uguale a se stesso, e cosa c'è di meglio per aiutarla a rafforzare questa immagine del barrage di tutti contro di lei? A questo punto lo sbarramento repubblicano non viene più sentito come lo schieramento di tutte le forze antifasciste contro il fascismo, ma come il potere che cerca in ogni modo di difendere se stesso, i propri privilegi, le proprie ricchezze.
Dopo una campagna elettorale molto dura, in cui i candidati si sono contrapposti su molti temi, dopo cinque anni in cui tutte le forze politiche - compreso la sua - si sono schierate contro Hollande, che effetto può fare al cittadino francese, per cui la parola antifascismo non significa più nulla, vederli tutti insieme, Hollande compreso, sostenere un unico candidato? Quello di rafforzare Marine Le Pen. Che forse non vincerà neppure questa volta, come non vinse suo padre quindici anni fa, ma che è ancora lì e sarà ancora lì nei prossimi anni. E alla fine, continuando su questa strada, qualcuno di loro riuscirà a superare quello sbarramento e ci ritroveremo, anche per colpa nostra, un presidente fascista.
Io credo che il fascismo si sconfigga con la politica e anche con la forza della verità. E la verità ci impone di dire che Macron è il rappresentante di quelle forze del capitale contro cui non possiamo più abbassare la guardia, perché si stanno facendo sempre più violente, sempre più arroganti, sempre più decise a eliminare ogni forma di difesa dei diritti sociali e a rendere più deboli le istituzioni democratiche. Per questo Macron, con quella faccia da bravo ragazzo, con le credenziali delle sue competenze tecniche, con la retorica ottimista del "stiamo tutti uniti", è pericoloso perfino più della Le Pen e per questo io non sono disposto a votarlo.
Noi sappiamo che chiunque domenica sarà eletto presidente sarà un nostro nemico, un nemico della democrazia e dei diritti sociali, e per questo dovremo combatterlo, con coraggio e con tenacia. Il risultato del primo turno è stato, nonostante tutto, incoraggiante per la sinistra francese. Il rappresentante della sinistra che ha tradito, della sinistra delle larghe intese, della sinistra che si è piegata alle logiche del capitale. è stato tramortito. Nel 2002 Jospin era arrivato terzo e non imparammo la lezione, quest'anno Hamon è quinto e speriamo di non ripetere gli errori del passato. La fine dei partiti che hanno aderito al Pse è un passaggio necessario affinché possa nascere una sinistra nuova. Mélenchon ha ottenuto un risultato buono, nettamente migliore a quello di cinque anni fa, segno che nella società francese qualcosa si è mosso, che una reazione c'è stata. E va coltivata. Credo che non votare Macron sia il primo modo per farlo. Ma non ci basterà: da lunedì la nostra opposizione alle forze del capitale - chiunque le rappresenti all'Eliseo - dovrà essere frontale, punto su punto. Con una determinazione rivoluzionaria.