mercoledì 27 dicembre 2017

Verba volant (470): surgelato...

Surgelato, sost. m.

Una vita fa, quando facevo un altro mestiere, avevo la responsabilità di diversi ristoranti e ogni sera, seppur per un solo mese all'anno, davo da mangiare a qualche migliaio di persone. E credo di poter dire che in quei ristoranti si mangiava bene, spesso molto bene. Ovviamente non per merito mio, ma grazie al lavoro di un esercito di volontarie e volontari che mettevano a disposizione, oltre al loro tempo, il loro saper fare.
C'erano - com'è giusto che sia - delle regole che dovevamo rispettare e venivamo controllati affinché le rispettassimo; e in quegli anni chi doveva controllarci lo faceva con particolare zelo, visto che non ci era molto amico.
Quando una coppia disse di essere stata male dopo aver cenato da noi, fui dispiaciuto per loro, ma non ero affatto preoccupato delle possibili conseguenze, non perché sapessi che avevamo formalmente rispettato le regole, come avevamo fatto, ma perché sapevo che eravamo capaci e scrupolosi. E infatti le autorità sanitarie che avevano ricevuto quella denuncia accertarono che quei due erano stati male perché in una sola serata avevano incautamente mangiato e bevuto quello che avrebbero dovuto consumare in alcuni giorni.
Non ho idea di come sia andata nel caso del cuoco stellato e personaggio televisivo di cui si parla in questi giorni, il cui errore pare sia stato omettere qualche informazione dal menù e tenere in frigorifero alimenti non tracciati. Certamente quel ristorante ha le risorse per garantire il rispetto formale delle regole. E immagino che chi ci lavora sappia lavorare, ossia abbia la passione e la cura delle sfogline che ai miei tempi facevano i tortellini per le Feste dell'Unità: se è così Cannavacciuolo è a posto.
Le regole sono naturalmente importanti, anzi è indispensabile che ci siano per tutelare sia i consumatori sia coloro che lavorano con scrupolo e coscienza. Ma non pensiamo che un sistema articolato e complesso di regole serva a garantirci quando andiamo a mangiare in un ristorante. Anzi rischiamo che troppe regole - come spesso succede nel nostro paese, non solo in questo settore - creino l'effetto opposto. Chi vuole servirci porcherie potrà continuare a farlo, riuscendo a dimostrare  che sulla carta tutto è in regola e, se scoperto, che le norme sono così complesse da dar adito a lunghi contenziosi. Chi, al contrario, è capace di fare e fa bene perché è l'unico modo in cui lo sa fare, rischia di perdere tempo e risorse per sistemare le carte, magari facendo un po' meno bene quello che saprebbe fare così bene oppure decide di lasciar perdere perché seguire tutte le regole formali gli costerebbe troppo. Non è il caso dello chef di cui si parla, che non ha il diritto di fare l'offeso: può permettersi di lavorare bene e di rispettare le regole. Ma per molti - meno personaggi - non è sempre così.
Il problema anche in questo caso è il valore che diamo al lavoro e al saper fare un lavoro. In una società come la nostra in cui il lavoro non ha valore, non è riconosciuto e infatti non viene pagato in maniera equa, rischiamo di considerare un sistema di regole come l'unico modo per garantire che qualcosa venga fatto bene. Ma non è mai così: una serie di regole - anche se fossero ben scritte, cosa peraltro rarissima - non può sostituire la capacità e la passione, non sostituisce quel quid che ad esempio garantisce che quello che mangiamo sia fatto come deve essere fatto. Surgelato o meno.

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