Mentre in Italia ogni nostra attenzione è ormai diretta a scoprire l'identità della misteriosa, quanto provvidenziale, fidanzata del capo del governo, in Tunisia è successo qualcosa le cui conseguenze sono al momento difficili da prevedere, ma di cui dovremo, in ogni caso, tenere conto.
Come è noto, si è letteralmente disciolto il regime autocratico del presidente Ben Ali. Per chi ha un po' di memoria non credo sfugga l'analogia con il modo in cui finirono una ventina d'anni fa i regimi comunisti nell'Europa dell'est. Non a caso ho usato il verbo "disciolto", perché ciò che colpì allora - e colpisce oggi, pur nelle mutate condizioni - è il fatto che all'improvviso quei regimi, fino ad allora potenti e temuti, si rivelarono gusci vuoti, incapaci di resistere a dei moti popolari, che probabilmente non si attendevano quell'esito imprevisto e imprevedibilie.
In Tunisia è avvenuto più o meno lo stesso. Il regime di Ben Ali, nonostante abbia cercato di mantenere un volto presentabile, per compiacere i propri alleati occidentali, è stato un regime che ha fortemente compresso, anche con metodi violenti, le libertà fondamentali e in cui il potere era accentrato nelle mani, sempre più voraci, della famiglia del presidente. Per inciso trovo penoso il tentativo di De Michelis di giustificare quel regime, per cui ha coniato la formula "democratura": in Tunisia c'era una dittatura, semplicemente, difesa da Craxi prima, che ne ottenne in cambio protezione quando divenne latitante, e in seguito da Berlusconi, i cui interessi economici, attraverso il fido Ben Ammar sono ben noti. De Michelis non scorda di essere stato - e di essere ancora - servo di qualche potente. Il sistema di potere di Ben Ali ora non c'è più, i membri della famiglia si sono dati disordinatamente alla macchia , rubando quello che ancora potevano rubare, e la potente polizia tenta un'inutile, quanto cruenta, difesa delle proprie casematte.
Il regime è crollato sotto il peso di manifestazioni dettate più dalla disperazione e dalla fame che da un preciso disegno politico. La fine del regime è cominciata come una rivolta per il pane. Due giorni fa ho pubblicato su questo blog alcuni paragrafi de I promessi sposi, quelli in cui Manzoni racconta le cause e le conseguenze del cosiddetto tumulto di San Martino, in cui immagina rimanga coinvolto il povero Renzo. Guardando le immagini di Algeri prima e di Tunisi poi, la disperazione di quelle folle, fatte soprattutto di donne, le meschinerie dei tanti Ferrer, i calcoli dei troppi profittatori, mi era sembrato un testo quanto mai attuale. Ma poi è successo qualcosa in più.
Grazie anche alla potenza di internet, alla diffusione di Facebook e dei blog. La rivolta di Tunisi è anche la prima in cui la rete è stata ben più influente di qualunque altro mezzzo di comunicazione.
Vedremo quali saranno le conseguenze, soprattutto se la rivolta avrà la forza di estendersi nel resto del Maghreb: i segnali ci sono. I veri democratici dovrebbero sperare che davvero da Tunisi possa partisse un effetto a catena, come è stato quello che ha portato al crollo, uno dopo l'altro, dei regimi del patto di Varsavia; speriamo che da Rabat fino al Cairo quei regimi abbiano dentro si sé un tarlo che ne abbia ormai minato le radici. Leggo stamattina che il nostro sedicente ministro degli esteri - che ha qualche problema con i fondamentali della democrazia - si augura che Gheddafi e Mubarak rimangano ben in sella; ma questa è un'altra storia.
C'è purtroppo una grande differenza con quello che è successo in Europa all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Quei paesi che all'improvviso si erano trovati - perdonate il gioco di parole - letteralmente spaesati, avevano però la prospettiva di poter far parte del processo di integrazione europea, avevano una meta, un luogo verso cui dirigersi. Con tutti i suoi limiti, l'Europa per quei paesi è stata un punto d'arrivo, raggiungibile, per quanto lontano. E l'Europa, dal canto suo, seppe fare la sua parte; disse Willy Brandt, quando cadde il muro di Berlino "oggi cresce assieme, ciò che assieme appartiene". A parte il fatto che mancano ora voci come quella di Brandt, oggi nessun leader europeo saprebbe offrire la stessa prospettiva ai paesi della costa meridionale del Mediterraneo. Eppure la loro storia è anche la nostra storia: nessuno, ad esempio, può negare che l'algerino Agostino sia uno dei più influenti pensatori occidentali. L'ho già scritto a proposito della Turchia - nella "considerazione" nr. 181, per la precisione: la nostra storia, la nostra cultura, il nostro sentire profondo di europei è inseparabile dalla storia, dalla cultura, dal sentire profondo di quei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. I nostri attuali governi, nella loro piccineria, guardano con paura alla fine dei regimi dittatoriali nell'Africa del nord, perché temono l'arrivo di nuovi immigrati. Dovrebbero provare - e noi con loro - a immaginare invece le grandi opportunità che potrebbero nascere da quelle rivolte.
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