giovedì 4 agosto 2022

Storie (XXXII). "I fatti di Parma. Cent'anni fa io c'ero"

Parma, 5 agosto 1922

“Signora, dobbiamo aspettare il commendatore per servire il pranzo?”.
“Sì, dovrebbe tornare tra pochi minuti. Intanto fate mangiare i bambini in cucina. Mio marito sarà di pessimo umore dopo l’incontro con il prefetto. Meglio che non lo disturbino”.

Leonora torna in cucina. Da quando è a servizio in quella casa, è la prima volta che in quei giorni di agosto non sono già in villeggiatura a Salsomaggiore, ma quest’anno, con lo sciopero degli operai nella fabbrica del commendatore e gli scontri in città, i signori hanno preferito rimanere a Parma, nonostante il gran caldo. Dopo pochi minuti suona il campanello: la giovane cameriera si affretta a raggiungere la sala da pranzo. La signora ha ragione: il commendatore è davvero molto arrabbiato. “Svelta, porta il pranzo. Non posso aspettare i tuoi comodi”. E così anche Leonora viene a sapere cosa sta succedendo in Oltretorrente.

“Credevo che Balbo sarebbe riuscito a spezzare la schiena a questi porci di comunisti”.
“Caro, contieniti, siamo a tavola”.
“Accidenti, ci sei solo tu, potrò pur sfogarmi, almeno a casa mia. Lo abbiamo pagato e doveva far finire lo sciopero. E adesso è bloccato lì, sulla Parma, da quei quattro straccioni”.
“Il prefetto cosa dice?”.
“È un debole, teme che la situazione ci sfugga di mano, che muoia qualcuno. Ma gli operai capiscono solo le botte. E devono avere paura di noi. Quel napoletano, come il vescovo, pensa che sia possibile trovare un accordo: dicono che vogliono evitare lo spargimento di sangue. Rammolliti… adesso è proprio il momento di colpire, qualcuno di quei comunisti deve morire. Certo non possiamo uccidere Picelli: non abbiamo bisogno di un martire comunista. Questo l’ha capito anche Balbo. Ma quei porci di operai devono sapere che se si mettono contro di noi possono anche morire. Serve un esempio, anche perché quei comunisti fanno figli come conigli. Dobbiamo insegnargli la paura, fin da piccoli. Altrimenti faranno come in Russia. Per questo ci servono i fascisti. E invece il prefetto vuole mandare via le squadre di Balbo e trasferire la gestione dell’ordine pubblico all’esercito”.
“E non è buona cosa?”.
“Ma cosa ti dice la testa? Così sembrerà che l’abbiamo data vinta ai comunisti, quei cani penseranno di poter fare la rivoluzione”.
“Ma vedrai che prima o poi si stancheranno, è agosto, anche loro vorranno andare in villeggiatura”. Leonora non vuole perdere nulla di quella conversazione - perché ci sono anch’io, commendatore, non sono “nessuno” - anche se le sta montando una rabbia a sentire quelle parole. Gli operai, cara signora, non vanno in villeggiatura, devono stare qui, al caldo. Da quando è cominciato lo sciopero e sono arrivati i fascisti, non sa nulla di quello che succede davvero in Oltretorrente, se non quello che dice il padrone a tavola. Quei porci, come li chiami tu, io li conosco, sono la mia famiglia, i miei amici. Non ha notizie di sua madre. Immagina stia aiutando gli uomini di Picelli. E tu, con tutti i tuoi soldi, non sei neppure degno di allacciargli le scarpe a uno come Picelli. Sa che lo fa per suo fratello, che è morto in guerra. La guerra che voi padroni avete fatto combattere a noi poveri. E combatte anche per lei. Io invece me ne sto qui, a servirvi. Voi sì che siete cani. I pensieri affollano la testa di Leonora. Cosa ci sto a fare ancora qui? Sono stata contenta quando mi hanno preso a servizio. Una delle più belle case di Parma. Una fortuna, dicevano le mie amiche dell’Oltretorrente. Qualcuna di loro mi ha invidiata, perché andavo a vivere di là dal fiume. E adesso io invidio loro, che sono rimasti di là e che possono fare la loro parte, contro i fascisti e soprattutto contro quelli come i miei padroni. Se sto qui, lo faccio anche per te, mamma, perché la guerra ha portato via Manrico e la spagnola mio padre. Ma mi vergogno a non essere là con i compagni, a combattere.

È notte ormai. Carlo, tenendo il moschetto tra le gambe, è seduto vicino al ponte di mezzo. Dall’altra parte della strada c’è Gino, anche lui viene da Sermide, si conoscono da quando erano bambini.

Che caldo… Non resisto più. Perfino di notte non si respira. Se fossi a casa potrei scendere nel Po, nuotare sotto la luna, ma qui… Certo questo non è grande come il mio fiume, ma sentire il rumore dell’acqua e non potersi bagnare… In queste notti è un vero tormento. Potessi almeno metterci dentro i piedi… Ma se scendo da qui, sicuro uno dall’altra parte mi spara.
Il comandante ci aveva detto che in un paio di giorni sarebbe finito tutto. Come dalle altre parti: noi siamo arrivati, ne abbiamo picchiati un po’, tutti gli altri si sono spaventati e hanno smesso di fare sciopero. Nelle altre città hanno capito subito che noi siamo più forti, che contro di noi non ha senso resistere. E così ce ne siamo tornati a casa dopo pochi giorni, con qualche soldo in tasca. I miei amici li hanno spesi subito in osteria. Io invece li ho dati a mia madre… Le sono rimasto solo io. Se continuo a obbedire, a fare quello che il comandante mi dice di fare, tra poco tempo avremo messo via abbastanza soldi per affittare una piccola casa. Io lo faccio per lei, mica per ubriacarmi. Lo faccio anche perché mi fido di Balbo, e perché siamo noi, solo noi, che possiamo costruire un’Italia migliore.
Questa invece è una strana città… Non solo non hanno smesso di scioperare, ma hanno anche cominciato a combattere. Hanno costruito perfino delle barricate. Il comandante è furioso: non riusciamo neppure ad attraversare questo torrente che di giorno è quasi asciutto. Sono giorni che siamo fermi qui e loro ci prendono in giro, sventolando quelle loro bandiere rosse.
Non capisco… Anche loro hanno disegnato un fascio sulle loro bandiere. Come il nostro, solo che il loro è spezzato. Ugo dice che sono fascisti anche loro, anche se sono strani. Sono reduci come noi, arrabbiati per come è andata la pace. Come noi. Io non voglio più farla la guerra. Ho sofferto troppo in quelle trincee. Ho rischiato di morire chissà quante volte, di non rivedere più mia madre, seguendo gli ordini assurdi dei miei comandanti. Ma a quei bellimbusti non fregava nulla di noi, volevano solo far bella figura con lo stato maggiore. Dovremmo essere noi a fare i comandanti, noi sappiamo cosa serve ai soldati che stanno nelle trincee. Per loro invece noi fanti potevano pure morire. Che se non ci sparava un austriaco, ci ammazzava la spagnola, o la debolezza per la fame. O i nostri generali con i loro errori: morire in guerra è brutto, ma morire per colpa dei tuoi è ancora peggio. Io quelli che sono scappati li capivo… Qualche volta sarei scappato anch’io… se non fosse stato per mia madre. Il comandante però è diverso da quei damerini, sta insieme a noi, combatte con noi, e non ci dice di attaccare solo per fare bella figura.
Però se fosse davvero come dice Ugo, che anche loro sono dei reduci, gli arditi si chiamano tra loro, non ci sparerebbero, perché nessuno è più ardito di noi, saprebbero che noi abbiamo ragione, che facciamo bene a far smettere i loro scioperi. Loro dicono di essere come noi, ma invece sono bolscevichi, vogliono mandare via i padroni. Lo so anch’io che ci sono dei padroni che bisognerebbe proprio ammazzarli, per come ci trattano. Il padrone che ci ha mandati via, dopo che è morto mio padre, dopo vent’anni che i miei si sono spaccati la schiena per lavorare i suoi campi… Meriterebbe di essere buttato nel Po con un sasso legato ai piedi. E alla fine noi fascisti li cacceremo questi padroni, Balbo ce l’ha promesso. Però ci ha spiegato che i padroni ci vogliono, che mondo sarebbe senza padroni, lo dice anche il parroco. I bolscevichi non vogliono che ci siano più i padroni. Non li vorrei neppure i padroni, ma come si fa a star senza.
E poi loro non credono in niente, neppure in dio. In mezzo alle trincee, quando vedevo morire i miei compagni, anch’io qualche volta ho pensato che dio sia una cosa che si sono inventati i preti. Ma poi quando guardo gli alberi, quando ascolto il rumore dell’acqua, quando mi metto sdraiato a osservare le stelle, non puoi mica credere che dio non ci sia.
Se solo riuscissimo a fargli capire che lo stiamo facendo per loro, per i loro figli. Che poi a me non fa piacere picchiare quelli che fanno sciopero, perché quelli là sono come me. A me dispiaceva anche sparare contro gli austriaci, perché quelli che avevo davanti io erano sicuro contadini come me. Poi dovevo sparare, prima che loro sparassero a me… Ma non è mica naturale spararsi tra contadini. Però questi bolscevichi proprio non la vogliono capire che noi lo stiamo facendo per loro. E se ci sparano allora noi dobbiamo sparare a loro. È che io mi imbroglio quando c’è da parlare davanti agli altri, ma vorrei andare di là, davanti alle loro barricate, per dirgli che noi siamo poveri come loro. Che siamo uguali a loro, che vogliamo tutti la giustizia. Che per i poveri non c’è differenza di qua e di là del fiume.
Ma prima o poi ce la faremo a farci capire.
Che strani pensieri che mi vengono questa notte… Sarà il caldo… Spero che si arrendano presto così potrò tornare a casa… Però sono cocciuti, sono gente strana questi di Parma.
E poi ho visto perfino delle donne lungo le barricate, come se combattessero insieme agli uomini. Questa davvero non la capisco. Io non vorrei che mia madre combattesse a fianco a me… Che mondo verrà se anche le donne si devono mettere a combattere.


Un rumore interrompe i pensieri di Carlo. “Chi va là?”.
“Lasciami passare, sto tornando a casa”.
Il giovane fascista si trova di fronte questa ragazza, dall’aria fiera. I grandi occhi neri di Leonora sembrano sfidarlo. Carlo pensa che sia la ragazza più bella che abbia mai visto.
“A casa?”.
“Sì, devo tornare da mia madre, di là, nell’Oltretorrente, ne ho abbastanza di servire nella case dei padroni”.
“Ma è pericoloso, ci sono le barricate”.
“Non è pericoloso, se stai dalla parte giusta”.
Carlo vorrebbe dirle che questa è la parte giusta, quella dove c’è lui.
Intanto Gino si è svegliato. “Cosa c’è? Con chi parli? Hai preso un bolscevico?”.
Senza pensarci Carlo fa segno a Leonora di stare zitta e di accucciarsi dietro al parapetto. “No, non c’è nessuno, torna pure a dormire”. I due giovani stanno seduti vicini, senza parlare. Aspettano che l’uomo dall’altra parte si addormenti. Carlo sa che ci metterà poco, ma vorrebbe che quel momento non finisse, guarda quegli occhi, come guarda le stelle nel cielo. Sentono che Gino comincia a russare. Leonora si alza. “Grazie, sei un bravo ragazzo per essere un fascista”. Carlo avrebbe da dirle tante cose, ma quando c’è da parlare si imbroglia. La giovane è già di là. Nel buio non la vede più, Carlo immagina ci sia un qualche passaggio che lui ovviamente non conosce. No, non mi piace stare in un mondo in cui le donne devono combattere.




Nota. Con la locuzione fatti di Parma s’intende l’assedio operato dagli squadristi, comandati prima da un quadrumvirato locale e successivamente da Italo Balbo, alla città di Parma, in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del Popolo e le formazioni di difesa proletaria, all’inizio dell’agosto 1922.

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