lunedì 10 novembre 2014

Verba volant (143): svolta...

Svolta, sost. f.

Questa parola indica naturalmente l'atto di svoltare, un verbo a cui il prefisso s- dà un carattere intensivo: la svolta è spesso definitiva, oltre che repentina.
Ovviamente ci sono tanti tipi di svolta: qualcuno di noi, a un certo punto, ha dato una svolta alla propria vita, cambiandola radicalmente. A me è successo e l'ho cambiata in meglio: in sostanza ho svoltato, come si dice. Questa definizione però è dedicata a una svolta ben precisa, repentina e definitiva, anzi alla Svolta, quella della Bolognina.
In questi giorni ho provato a cercare chi fu il primo a parlare di svolta a proposito di quell'episodio e non ci sono riuscito; in quella giornata Occhetto parlò della necessità di "grandi trasformazioni". Partiamo da lì.
Io nel 1989 avevo diciannove anni e cominciavo a fare politica, naturalmente nel Pci. Ho partecipato con passione a quella lunga discussione, articolata in due congressi; ho visto lo smarrimento di molti compagni, come mio padre, di fronte alla decisione di cambiare il nome. Ho conosciuto tanti che non hanno più partecipato, che se ne sono andati e che non siamo più stati capaci di coinvolgere. Ma ho visto anche dell'entusiasmo.
Anche perché erano giorni entusiasmanti: il 9 novembre era caduto il Muro di Berlino, i regimi dell'Europa comunista si stavano dissolvendo. Quelli che hanno la mia età, grazie soprattutto alla televisione, hanno avuto l'opportunità di vedere questi avvenimenti mentre si svolgevano. Quel 9 novembre sentivamo, anche se in maniera confusa, che il mondo sarebbe stato migliore di quello in cui avevamo vissuto fino ad allora, perché quel muro non ci sarebbe più stato e soprattutto perché in Europa non ci sarebbero stati più quei regimi che, pur chiamandosi socialisti, tradivano gli ideali in cui credevamo - e in cui personalemente credo ancora.
La Bolognina è stata per me il segnale che anche noi partecipavamo a questi straordinari cambiamenti, che non rimanevamo indietro, ma - in qualche modo - facevamo la storia. Anche a Granarolo.
So bene che molti miei compagni pensano che quell'episodio sia l'inizio della deriva che ci ha portato, passo dopo passo, a uccidere il maggior partito di centrosinistra in Italia e a far nascere, sulle ceneri di quella troppo breve esperienza politica, un partito di centro moderato e sostanzialmente estraneo alla storia della sinistra italiana, come è l'attuale Pd. Io continuo ostinatamente ad essere convinto che nella decisione, lunga e sofferta, che portò la maggioranza delle iscritte e degli iscritti del Pci a far nascere la Cosa, che poi avremmo chiamato Pds, non ci sia in nuce il germe che ha portato al Pd e a Renzi. E quindi difendo quella scelta, difendo Occhetto e noi che lo abbiamo sostenuto.
Ricordo le discussioni in sezione e gli interventi dei "vecchi" che sostenevano che era giusto far nascere un nuovo partito, anche con un nome diverso, con convinzione e non per pigra adesione al funzionario di turno venuto dalla città che illustrava la mozione del segretario - come troppo sbrigativamente dissero quelli che non ci conoscevano e non ci amavano. Peraltro negli anni successivi ho avuto la fortuna di fare, per più di cinque anni, il "funzionario che veniva dalla città" e vi assicuro che non era mai semplice convincere quei compagni, perché erano persone abituate a ragionare e che di politica ne capivano. Parecchio.
Il Pds non fu soltanto - come qualcuno adesso dice - la risposta tattica di un gruppo dirigente che vedeva attorno a sé crollare non solo il comunismo internazionale, ma anche il quadro politico italiano. In quegli anni - bisogna sempre ricordarlo - sparirono la Dc e il Psi, travolti, oltre che dalle loro colpe, dalla storia che andava in tutt'altra direzione. Magari una parte di quel gruppo dirigente intese la svolta come questa sorta di ripiegamento tattico, ma in tanti pensavamo a qualcosa di radicalmente diverso, di più e di meglio.
Allora volevamo davvero fare un partito diverso, perché - dobbiamo per onestà ricordare anche questo ai nostalgici del Pci - quel partito era sentito da molti come una casa troppo chiusa, un luogo incapace di aprirsi. Volevamo essere un partito saldamente inserito nell'Internazionale socialista e anche - non ma anche, come hanno detto quelli venuti dopo - aperto a movimenti nuovi, penso ad esempio all'esperienza dell'ambientalismo, che in Italia è stata così sfortunata. A me allora sembrava possibile e sembrava possibile a molti altri che ci hanno creduto. Eravamo tutti degli illusi? Forse, però eravamo in tanti.
Mi è già capitato di scriverlo, io mi considero - anche se meno di altri, perché avevo un ruolo molto più secondario rispetto ad altri - responsabile degli errori che abbiamo fatto dopo la Bolognina, responsabile della progressiva perdita di identità che ci ha portati a rinunciare ad essere un partito socialdemocratico, appena pochi anni dopo che lo eravamo diventati formalmente, anche se lo eravamo già, specialmente qui in Emilia-Romagna, da molti anni.
Però è ingiusto dire che l'errore fu quella svolta. Dopo la Bolognina potevamo essere qualcosa che non siamo riusciti a diventare, anche perché ad esempio non abbiamo riflettuto a sufficienza sul tema della forma partito, un argomento allora spesso evocato, ma sui cui non lavorammo, tanto che, quando il modello di partito che eravamo si è rilevato del tutto inadeguato, non c'era altro modello con cui sostituirlo, lasciando campo libero all'ideologia delle primarie e al plebiscitarismo del leader, attraverso cui è potuto emergere un figuro come Renzi.
Soprattutto negli anni dopo la svolta non abbiamo più riflettuto su cosa voleva dire essere di sinistra e abbiamo immaginato che l'andare al governo - come abbiamo fatto, seppur in maniera indiretta e a volte rocambolesca - bastasse da solo a costruire un'identità. Personalmente - ma forse siamo ancora troppo vicini per vedere le cose in una giusta prospettiva - credo che il governo D'Alema abbia rappresentato il punto di non ritorno, l'inizio del declino che ci ha portati alla morte e a Renzi. Anche perché in quegli anni fu molto forte la teoria della "terza via" che ha indebolito - fino allo sfinimento - tutta la sinistra europea, non solo quella italiana. Non è dal governo che si costruisce un partito, tanto è vero che il Pci era stato costruito proprio perché al governo non c'era mai andato e anzi non superò mai del tutto il trauma - forse inevitabile - della solidarietà nazionale.
Ci sono stati errori di singoli - spesso gravi - per ambizione personale e ci sono stati errori collettivi, altrettanto gravi, ma almeno in buona fede. Però non era inevitabile morire. Se è successo è perché ce la siamo cercata, perché abbiamo fatto degli errori, ma non perché è nato il Pds.
La storia ha delle sue regole precise e non permette di tornare indietro. Non possiamo tornare a prima della svolta, come vorrebbero alcuni né allo spirito originario del Pds, come magari vorrei io. A questo punto, bisogna cominciare una strada nuova, radicalmente nuova. Disse Occhetto in quel brevissimo discorso:
E' necessario non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso. Dal momento che la fantasia politica di questo fine ’89 sta galoppando, nei fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che allora fu dimostrato con la Resistenza.
I punti cardinali li abbiamo, li abbiamo sempre avuti: la Resistenza e la Costituzione. Anche l'idea di costruire una società socialista è sempre lì, l'ambizione collettiva di realizzare una società dove ci sia un'uguaglianza sostanziale, non sottoposta ai vincoli del mercato, in cui sia al centro la persona, il suo diritto a un lavoro equamente retribuito; poi occorre declinarne gli obiettivi in funzione dei tempi nuovi, ma troveremo il modo, se terremo fermi i valori. Adesso però manca il coraggio. Quando lo troveremo - forse lo troveranno, perché non so se alla mia generazione sarà concessa una nuova possibilità, visti i danni che abbiamo combinato - allora ci sarà la svolta.

Giacomo Ulivi scrive agli amici, prima di essere fucilato il 10 novembre 1944

Cari amici,

vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti.
Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica - se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente, ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda.
Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo?  L'egoismo - ci dispiace sentire questa parola - è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi.
Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Giacomo Ulivi

Verba volant (142): zingaro...

Zingaro, s. m. e agg.

Dal punto di vista strettamente etimologico si tratta dell'adattamento italiano di uno dei nomi, atsigan e più tardi tsigan, con cui si indicava questo popolo nomade, sul calco del greco medievale athinganos, che significava intoccabile e che designava una setta di manichei provenienti dalla Frigia. Da qualche tempo abbiamo cominciato a chiamarli più giustamente rom, che nella loro lingua, lo zingaro o romani - una lingua antichissima che risale al sanscrito - significa propriamente uomo, marito, un po' come il latino vir.
In campagna elettorale - e non solo - gli zingari sono un facile bersaglio polemico. Lo abbiamo appena visto a Bologna, dove abbiamo assistito, proprio davanti a un campo rom, allo scontro tra due opposte schiere di cretini, a cui non importa nulla né degli zingari né dei problemi che i loro campi creano, ma volevano soltanto farsi notare dalle televisioni, come un qualsiasi esibizionista.
Ho citato l'etimologia di questa parola antica, perché in Europa gli zingari ci sono sempre stati. E ci sono sempre stati i pregiudizi verso di loro, come ci sono sempre stati verso gli ebrei. Nelle società contadine la loro capacità di allevare i cavalli e di lavorare i metalli faceva sì che i rom avessero un loro posto nell'ordine economico e sociale - uno degli ultimi certo, ma comunque un posto. Quel popolo e le nostre rappresentazioni degli zingari - e delle zingare - hanno un posto nella cultura europea, basti pensare al nostro melodramma.
Quando le loro capacità non sono più servite, sono rimasti i pregiudizi, aggravati dal fatto che per molti di loro l'unica forma di sussistenza è stata la beneficienza e l'elemosina e per troppi la delinquenza e la prostituzione.
Quindi sono nati ai margini delle grandi città - ma non in tutta Europa, perché esempi migliori ci sono - in maniera più o meno tollerata dalle amministrazioni, campi nomadi, più o meno organizzati, più o meno finanziati, che da un lato hanno esasperato quelli che già abitavano in quelle periferie, spesso appartenenti alle fasce più deboli della popolazione, e dall'altro lato hanno favorito i criminali che ci sono tra gli zingari, dando loro l'occasione di poter reclutare sempre nuovi giovani nelle loro bande. E' oggettivamente molto probabile che un giovane rom che è sempre stato respinto dalla società accetti di far parte di una banda per trafugare il rame o per spacciare droga o per commettere furti negli appartamenti. E' la stessa ragione per cui troppi giovani del sud preferiscono stare in una cosca piuttosto che vivere in maniera onesta in un paese che non ti offre nessuna possibilità.
Non in tutti i paesi è avvenuto questo. In Grecia ad esempio, anche con l'aiuto delle amministrazioni pubbliche, i rom sono diventati commercianti ambulanti, garantendo la fornitura di generi alimentari e di prima necessità ai villaggi e alle case sparse in quel territorio montuoso, dove i trasporti sono difficoltosi e la mobilità delle persone, specialmente anziane, molto complicata. Queste famiglie non vivono nei campi; certo esistono ancora pregiudizi nei loro riguardi, ma non è un problema sociale così diffuso, come in Francia, in Italia o in Spagna.
Il problema degli zingari è molto complesso e francamente non basta scandalizzarsi se un qualche amministratore propone un bus solo per loro, salvo poi dimenticarci dei problemi di quelle periferie, passata l'indignazione. Non bastano i buoni sentimenti. Anzi i buoni sentimenti, gli appelli all'integrazione non servono né alla causa dei rom né a convincere la maggioranza delle persone che, al di là delle proprie convinzioni politiche, ritiene giusto agire con durezza verso gli zingari. Per troppi anni in Italia, per l'influenza della dottrina cattolica da un lato e delle idee di sinistra dall'altro, è stato prevalente un atteggiamento che possiamo definire buonista - benché questa parola non mi piaccia molto, mi pare renda abbastanza bene l'idea.
Pubblicamente si difendevano i diritti degli zingari, trovando giustificazioni anche per chi tra loro commetteva reati, privatamente si continuavano a coltivare dei pregiudizi. Questo atteggiamento ha portato a cercare di nascondere il problema, delegando di fatto al volontariato e alle reti delle parrocchie l'aiuto delle famiglie degli zingari e sperimentando l'integrazione unicamente nelle scuole, con insegnanti spesso impreparati a questo compito. E gli amministratori hanno, un po' furbescamente, provato ad assecondare la maggioranza dei loro concittadini, cercando di non avere il "problema" sul loro territorio e magari scaricandolo su quello vicino.
Non esistono "ricette" per affrontare il problema, ma sicuramente né le false e ipocrite politiche di inclusione né le semplici politiche di repressione servono ad affrontare il problema. Bisogna davvero perseguire chi commette reati, agendo con durezza, ma allo stesso tempo si deve togliere a chi delinque la possibilità di reclutare nuovi delinquenti; per questo occorre chiudere i campi rom e dare occasioni ai ragazzi che lo chiedono di fare una vita diversa, dignitosa. Qualcuno di loro ce lo chiede, se abbiamo la voglia di ascoltarli; certo non tutti, ma questo non può diventare un alibi per noi. E dobbiamo essere consapevoli che una brutta periferia rimane una brutta periferia, anche se non c'è un campo nomadi.

domenica 9 novembre 2014

da "Esterhazy. Storia di un coniglio" di Hans Magnus Enzensberger e Irene Dische

Non si sa bene perché, ma le famiglie hanno spesso dei figli.
Gli Esterhazy ne hanno avuti da tempi immemorabili. Già duecento anni fa erano probabilmente la più grande famiglia dell'Austria. Cioè, non che fossero molto grandi, erano solo in tanti. Per dire la verità, gli Esterhazy con il passare del tempo erano diventati sempre più piccoli, perché purtroppo non mangiavano mai abbastanza insalata e carote, ma quasi solo cioccolatini, caramelle, torte alla crema e strudel di mele. E così avvenne che gli Esterhazy di cui narra la nostra storia, fossero molto molto piccoli e molto molto intelligenti.
Il Principe regnante Esterhazy era preoccupato per i suoi innumerevoli figli e nipoti. Nei negozi di scarpe li prendevano in giro visto che non gli andavano nemmeno le scarpe per neonati; anche in bicicletta avevano qualche difficoltà perché il sellino era troppo alto e con le zampe non arrivavano ai pedali. E quando il più piccolo degli Esterhazy cadde in un cestino della carta dal quale non riuscì a venire fuori, il Principe pensò: "Così non si può andare avanti! Bisogna fare qualcosa". Per tre giorni si chiuse nella sua stanza a pensare. Poi disse: "Voglio mandare tutti i miei nipoti all'estero. Ciascuno deve andare in una parte diversa del mondo, cercarsi una moglie grande e mettere su famiglia. Perché purtroppo il mondo è fatto in modo che i conigli piccoli hanno figli piccoli, mentre i conigli grandi diventano sempre più grandi e alla fine quasi non stanno più nei loro lettini. Per questo gli Esterhazy devono cercarsi mogli grandi, e più grandi sono, meglio è".
Un bel giorno, la primavera era ormai alle porte, il Principe indossò la sua giacca di velluto color vinaccia più elegante e portò tutti i suoi coniglietti alla Stazione occidentale di Vienna. "E ricordatevi - disse ai nipoti - di non accontentarvi mai, scegliete sempre solo il meglio del meglio! Carote, insalata e prezzemolo! E che ogni cosa sia fresca. E soprattutto: niente dolciumi!". I nipoti schierati iniziarono ad acclamarlo e a lanciargli praline di cioccolata.
Il nome intero del più giovane di tutti gli Esterhazy era Michele Paolo Antonio Maria, 12792º principe di Insalatinia e Carotopoli, conte di Lattughino, signore di San Prezzemoloburgo, Agliogrado e Corterapa. Ma naturalmente nessun essere umano, e a maggior ragione nessun coniglio, lo chiamava così: intanto perché è un nome troppo lungo, e poi perché ai conigli ci si rivolge chiamandoli con il cognome. Cercate di ricordarvelo! Per questo d'ora in poi chiameremo il nostro eroe semplicemente Esterhazy.
Ora, come dicevamo, Esterhazy era il più giovane di tutti gli Esterhazy e per questo fu anche l'ultimo a partire per l'estero. La famiglia aveva deciso che avrebbe dovuto tentare la fortuna a Berlino. La sera prima della partenza, il Principe lo prese in disparte e gli diede qualche buon consiglio. "Adesso o mai più, caro nipote, - disse.- Se vuoi avere una vera famiglia, è arrivato il momento che ti trovi una moglie. E mi raccomando: cercane una bella grande. E un' altra cosa, - aggiunse: - sa il cielo perché, ma i conigli di Berlino vivono tutti dietro un grande muro. Però non temere! Chi cerca, trova".
Pieno di gratitudine, Esterhazy baciò la mano al vecchio Principe e prese il treno per Berlino.
[...] "Sarebbe proprio strano, - pensò Esterhazy, - se nella grande, lontana Berlino non trovassi una moglie grande e lontana; e quando l' avrò trovata ce la spasseremo". Quando il treno arrivò a Berlino, alla stazione che si chiamava Zoo, Esterhazy aveva sulle labbra un grande sorriso malinconico. Ma a prenderlo non era venuto nessuno e nessuno lo degnava di uno sguardo. La stazione gli sembrò abbastanza malandata e triste, e faceva anche molto freddo. Le persone erano davvero strane. Si lanciavano sguardi cattivi, e a Esterhazy non piacque per niente che avessero l'aria tanto famelica.
[...] Esterhazy era ormai così lontano che non riusciva più a sentirli. Correva come un pazzo, e quando si fermò vide il muro. Era un muro infinitamente lungo e grigio, e il prato che c'era davanti aveva un odore meraviglioso. Odore di coniglio.
"Ciao, - disse una voce conigliesca. - Ci siamo già incontrati?". Tutto il prato era pieno di conigli, ed Esterhazy venne salutato con grande entusiasmo. Quando gli altri si accorsero che era un vero Esterhazy, furono molto orgogliosi. "Mancavi solo tu, - dissero. - Vieni, ti mostriamo la nostra tana".
Esterhazy era appena entrato quando vide una donna molto bella, con il pelo a macchie bianche e marroni. All'inizio si spaventò, perché non aveva mai visto una coniglia così grande. Ma lei lo abbracciò subito. "Esterhazy! Mio caro Esterhazy!" - gridò. "Mimì" - esclamò lui e le diede un bacio. Dovette alzarsi in punta di piedi, perché lei era alta quasi il doppio di lui. Ma si ricordò dei preziosi consigli del Principe. "Per avere figli più grandi, dovete trovare una donna particolarmente grande", aveva detto. E inoltre Mimì aveva un odore meraviglioso.
Poi lei gli fece vedere tutta la tana e lo invitò nel suo piccolo appartamento. Gli raccontò di quanto fosse tranquilla la vita di un coniglio dietro il muro. I soldati erano lì apposta per stare attenti che le automobili non li mettessero sotto. Quando gli avanzava una fetta di pane e burro la gettavano ai conigli, e a volte arrivavano anche delle carote. Certo, aggiunse Mimì, la cucina non era buona come a Vienna, e non c'erano nemmeno le Mozartkugeln, però in compenso si viveva in pace.
[...] Così i due vissero felici e contenti nella loro tana dietro al muro; finché un bel giorno, in piena notte, sentirono un chiasso infernale. Tutto il prato era invaso da centinaia di persone che ce l'avevano a morte con il muro. Avevano portato martelli pneumatici e altri attrezzi e iniziarono a distruggerlo. "Ma cosa succede?" - chiese Esterhazy. "Il muro deve scomparire" - gridava la gente.
La sera successiva il prato era addirittura strapieno di persone. C'erano bottiglie rotte dappertutto e del muro non restava che qualche brandello. La gente era fuori di sé dalla gioia, ma Esterhazy e Mimì non capivano per quale motivo. "Senza il muro, - disse Mimì, - Berlino è abbastanza inospitale, non trovi? Per noi conigli, intendo". "Sai cosa ti dico? - rispose Esterhazy, - andiamo a stare in campagna".
Saltellando fuggirono sempre più lontano, fino a quando non si lasciarono alle spalle le ultime case. Allora si sedettero per riposare un po'. "Mi rendo perfettamente conto di essere abbastanza piccolo, - disse Esterhazy. - Però mi potresti sposare lo stesso...". "Ma certo che ti sposo, stupidotto che non sei altro!" - disse Mimì.

sabato 8 novembre 2014

"Il brindisi di Girella" di Giuseppe Giusti


Dedicato al signor di Talleyrand buon'anima sua

Girella (emerito
di molto merito),
sbrigliando a tavola
l’umor faceto,
perde la bussola
e l’alfabeto;

e nel trincare
cantando un brindisi,
della sua cronaca
particolare
gli uscì di bocca
la filastrocca.

Viva Arlecchini
e burattini
grossi e piccini:
viva le maschere
d’ogni paese;
le Giunte, i Club, i Principi e le Chiese.

Da tutti questi
con mezzi onesti,
barcamenandomi
tra il vecchio e il nuovo,
buscai da vivere,
da farmi il covo.

La gente ferma,
piena di scrupoli,
non sa coll’anima
giocar di scherma;
non ha pietanza
dalla finanza.

Viva Arlecchini
e burattini;
viva i quattrini!
Viva le maschere
d’ogni paese,
le imposizioni e l’ultimo del mese.

Io, nelle scosse
delle sommosse,
tenni, per ancora
d’ogni burrasca,
da dieci o dodici
coccarde in tasca.

Se cadde il prete,
io feci l’ateo,
rubando lampade,
Cristi e pianete,
case e poderi
di monasteri.

Viva Arlecchini
e burattini,
e Giacobini;
viva le maschere
d'ogni paese,
Loreto e la Repubblica francese.

Se poi la coda
tornò di moda,
ligio al Pontefice
e al mio Sovrano,
alzai patiboli
da buon cristiano.

La roba presa
non fece ostacolo;
ché col difendere
Corona e Chiesa,
non resi mai
quel che rubai.

Viva Arlecchini
e burattini,
e birichini;
briganti e maschere
d’ogni paese,
chi processò, chi prese e chi non rese.

Quando ho stampato,
ho celebrato
e troni e popoli,
e paci e guerre;
Luigi, l’Albero,
Pitt, Robespierre,
Napoleone,
Pio sesto e settimo,
Murat, Fra Diavolo,
il Re Nasone,
Mosca e Marengo;
e me ne tengo.

Viva Arlecchini
e burattini,
e Ghibellini,
e Guelfi, e maschere
d’ogni paese;
evviva chi salì, viva chi scese.

Quando tornò
lo statu quo,
feci baldorie;
staccai cavalli,
mutai le statue
sui piedistalli.
E adagio adagio
tra l’onde e i vortici,
su queste tavole
del gran naufragio,
gridando evviva
chiappai la riva.

Viva Arlecchini
e burattini;
viva gl’inchini,
viva le maschere
d’ogni paese,
viva il gergo d’allora e chi l’intese.

Quando volea
(che bell’idea!)
uscito il secolo
fuor de’ minori,
levar l’incomodo
ai suoi tutori,
fruttò il carbone,
saputo vendere,
al cor di Cesare
d’un mio padrone
titol di Re,
e il nastro a me.

Viva Arlecchini
e burattini
e pasticcini;
viva le maschere
d’ogni paese,
la candela di sego e chi l’accese.

Dal trenta in poi,
a dirla a voi,
alzo alle nuvole
le tre giornate,
lodo di Modena
le spacconate;
leggo giornali
di tutti i generi;
piango l’Italia
coi liberali;
e se mi torna,
ne dico corna.

Viva Arlecchini
e burattini,
e il Re Chiappini;
viva le maschere
d’ogni paese,
la Carta, i tre colori e il crimen laesae.

Ora son vecchio;
ma coll’orecchio
per abitudine
e per trastullo,
certi vocaboli
pigliando a frullo,
placidamente
qua e là m’esercito;
e sotto l’egida
del Presidente
godo il papato
di pensionato.

Viva Arlecchini
e burattini,
e teste fini;
viva le maschere
d’ogni paese,
viva chi sa tener l’orecchie tese.

Quante cadute
si son vedute!
chi perse il credito,
chi perse il fiato,
chi la collottola
e chi lo Stato.
Ma capofitti
cascaron gli asini;
noi valentuomini
siam sempre ritti,
mangiando i frutti
del mal di tutti.

Viva Arlecchini
e burattini,
e gl’indovini;
viva le maschere
d’ogni paese.
Viva Brighella che ci fa le spese.

giovedì 6 novembre 2014

"Narrativa" di Mark Strand


Penso alle vite innocenti
delle persone nei romanzi: sanno che morranno
ma non che il romanzo finirà. Come sono diverse
da noi. Qui, la luna osserva istupidita,
tra nubi sparse, la città assopita,
e il vento ammonticchia le foglie cadute,
e qualcuno – vale a dire, io – sprofondato in poltrona,
sfoglia le pagine che mancano, sapendo che non c’è
molto tempo per l’uomo e la donna nella camera a ore,
per la luce rossa sopra la porta, per l’iris
che proietta la propria ombra sul muro; non molto tempo
per i soldati sotto gli alberi lungo il fiume,
per i feriti che vengono trasferiti
in città di retrovia dove resteranno;
la guerra che ha infuriato per anni finirà,
come pure qualsiasi altra cosa, tranne una presenza
difficile da definire, una traccia, come l’odore dell’erba
dopo una notte di pioggia o quel che resta di una voce
che ci fa sapere senza sillabarlo
di non disperare; se la fine è prossima, anch’essa passerà.

mercoledì 5 novembre 2014

Verba volant (141): dignità...

Dignità, sost. f.

Brittany Maynard è una giovane donna che ha fatto una scelta, certamente la scelta più drammatica e complicata che una persona possa fare; è una scelta che noi solitamente non facciamo, lasciamo che sia il caso o - per chi crede - Dio a fare questa scelta per noi. Neppure lei ha scelto di morire a 29 anni, aveva comprensibilmente altri progetti per la propria vita, ma il caso o Dio - per chi ci crede - ha fatto sì che i medici scoprissero un cancro nel suo cervello. Per questo Brittany ha deciso di morire con dignità, come lei stessa ha detto nel suo ultimo saluto.
Brittany non solo ha deciso quando morire con dignità, ma ha voluto anche raccontarlo al mondo. E questa seconda decisione non è stata meno coraggiosa della prima perché, facendo così, ha scatenato una discussione in cui il suo nome è stato coinvolto in banalità e sciocchezze senza fine.
Tra le cose stupide lette in questi giorni sulla morte di Brittany mi hanno colpito le affermazioni di monsignor Carrasco de Paula, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, che ha detto che "dignità è un'altra cosa che mettere fine alla propria vita". Poi, ricordandosi di essere un prete e ripensando a qualche parabola evangelica, ha aggiunto: "non giudichiamo le persone, ma il gesto in sé è da condannare". Da ateo mi piacerebbe poter sorvolare su queste piccole cose, in fondo dovrebbe essere un problema per chi crede e soprattutto per chi riconosce l'autorità e la dottrina di questo monsignore. Eppure devo anch'io occuparmene, perché di fatto una posizione come questa è quella che giustifica in questo paese la mancanza di una legislazione seria su un tema così complicato e importante. 
Al di là del fatto che anche da un punto di visto teologico ed etico fatico non poco a distinguere tra la persona che compie un gesto e il gesto in sé, credo che il monsignore e quelli che la pensano come lui sbaglino su un punto. Brittany ha scelto di morire, con dignità appunto, non per un rifiuto della vita - c'è anche chi fa questa scelta estrema - ma proprio per amore della vita.
Brittany ha scelto di morire, liberamente e senza costrizioni, perché non voleva vivere nelle condizioni che le erano imposte dalla malattia. Brittany ha scelto la libertà e la vita. E ho grande stima per la sua scelta.
Personalmente fatico a condannare chi decide di suicidarsi. Si tratta ovviamente di una scelta che mi addolora, che mi lascia sconcertato sempre, che trovo spesso incomprensibile, e su cui vorrei poter fare qualcosa per cambiarla, se ne avessi l'opportunità e l'occasione. Ma credo che sia una scelta, terribile, che dobbiamo rispettare; anche quando ci colpisce nei nostri affetti. Tanto più non posso condannare il suicidio di una persona che sa di dover morire presto, con dolore e spogliata della propria intelligenza. E proprio perché è una scelta che riguarda la coscienza e l'intelligenza di ciascuno di noi, non può essere la legge a imporci una scelta. Non può essere la stato a dire che devo vivere fino all'ultimo istante; e poi qual è l'ultimo istante? qui rischia di aprirsi una nuova querelle, come troppe ne abbiamo viste sulla pelle dei pazienti e dei loro familiari. Di fronte alla malattia io devo poter usare la mia intelligenza e posso decidere di vivere fino all'ultimo, perché credo che sia giusto così, o posso decidere che il mio momento sia arrivato.
La dignità è il rispetto che l'uomo deve a sé stesso e che gli è dovuto, proprio nella sua condizione di uomo, per il suo valore, per la sua intelligenza, per la sua libertà. Negare la sua libertà, non dare credito alla sua intelligenza, non fidarsi del suo valore è la cosa peggiore che possiamo fare a un uomo; o a una donna.
Nel finale del romanzo Il Maestro e Margherita c'è un dialogo tra Levi Matteo, il pubblicano diventato apostolo di Gesù, e Woland, il diavolo. Levi Matteo chiede, seppur a malincuore, aiuto a Woland, affinché egli prenda con sé il Maestro e lo ricompensi con il riposo.
Perché non ve lo prendete voi nella luce?
Non ha meritato la luce, ha meritato il riposo, - disse Levi con voce mesta.
Credo che anche Brittany abbia meritato il riposo.

martedì 4 novembre 2014

Verba volant (140): leggere...

Leggere, v. tr.

Non ho una particolare simpatia per Fleur Pellerin - che non conosco - né per il governo di cui fa parte - anzi, per quel governo ho pochissima stima - ma ho trovato pretestuose le polemiche seguite alle sue dichiarazioni, di cui probabilmente avete sentito parlare anche voi.
La giovane ministro della cultura di Hollande ha detto che da circa due anni non legge un libro e che non ne ha mai letto uno del Nobel Patrick Modiano, che pure ha invitato a pranzo, in maniera ufficiale, proprio per festeggiare questo importante riconoscimento. A parte il fatto che, prima del Nobel, Modiano lo conoscevano proprio in pochi, anche nel suo paese, la cosa davvero importante è che il ministro della cultura renda onore a uno scrittore del suo paese che ha vinto questo premio, quello è il suo compito istituzionale e non scrivere un saggio sulle sue opere. E comunque, se pensate che lo scrittore più importante che frequenta Renzi è Fabio Volo, la Pellerin ci fa lo stesso una gran figura.
Al di là della polemica politica, ho l'impressione che se il ministro non fosse stata una donna, per di più di origine straniera, questa polemica non sarebbe mai nata. Ovviamente madame Pellerin deve decidere lei come passare il poco - immagino - tempo libero che le rimane, visti i suoi impegni politici e di governo, e personalmente spero che lo passi per lo più con la sua famiglia, in particolare con la figlia di dieci anni, magari insegnandole anche il piacere della lettura.
Come noto il nostro ministro della cultura i libri non solo li legge, ma li scrive pure; evidentemente ha parecchio tempo libero. Dicono anche che sia un bravo scrittore, non so se per piaggeria o per un suo vero talento; non posso esprimere un giudizio perché non ho mai letto un suo romanzo e penso non lo farò mai. Abbiamo avuto anche la sventura di avere un ministro poeta: non ci facciamo mai mancare nulla in questo paese.
A proposito della lettura, e in particolare, della pubblica lettura, mi interessa raccontarvi una piccola storia che riguarda, ancora una volta, la Francia. Si tratta di una mia esperienza di quasi vent'anni fa. Era fine estate del 1995 e io frequentavo l'università, deciso finalmente a laurearmi. Andai a Parigi per un po' di giorni, ospitato da un mio compagno del liceo, che stava lavorando là. Tra una visita e l'altra - era la prima volta che andavo nella capitale francese - passai un po' di tempo alla Bibliothèque publique d'information, presso il Centre Pompidou. Per uno che conosceva solo le biblioteche italiane - frequentavo allora quella dell'Archiginnasio - con le loro burocrazie e i loro bizantinismi, quella fu davvero una scoperta. Senza essere iscritto e anche senza parlare francese, potevo consultare i cataloghi, accedere ai servizi e soprattutto leggere i libri, che prendevo direttamente, perché non c'era - e non c'è - magazzino. Ne approfittai per la tesi, che allora stavo preparando, trovai spunti per la bibliografia, riusci a consultare dei testi - anche in italiano - che non avevo trovato in Italia, presi appunti, feci fotocopie, insomma fu un'esperienza molto utile per il mio studio. La Bpi è una splendida istituzione culturale, che per me è sempre rimasta un modello, un luogo dove l'amore per i libri nasce e cresce quasi naturalmente, perché hai modo di toccarli, scoprirli, leggerli.
Spero che adesso istituzioni analoghe e soprattutto che funzionino così bene ci siano anche in Italia - a Roma, a Milano, nelle grandi città universitarie - però a Parigi la Bpi c'è dalla metà degli anni Settanta. Questo, secondo me, è un elemento che segna una differenza netta nella politica culturale dei due paesi.
Per entrare alla Bpi c'era - e spero ci sia ancora - un controllo discreto, ma efficace, che non impediva ai visitatori curiosi di entrare, anche solo per dare un'occhiata, ma evitava che la biblioteca diventasse un luogo di raccolta degli sfaccendati di Parigi. Cosa che è invece è successa alla Salaborsa di Bologna, che è sempre più un servizio sociale. Io ovviamente non ho nulla contro i senzatetto, anzi credo che l'amministrazione comunale dovrebbe fare di più per loro, ma non credo neppure che la soluzione sia permettere che passino la giornata, specialmente nei mesi invernali, dentro la principale biblioteca pubblica della città, per lasciar libera la sala d'attesa della stazione centrale dove passano la notte. E non venitemi a dire che almeno così leggono, perché sappiamo che non è vero. O Merola decide di mettere le spese per Salaborsa in capo al bilancio delle politiche sociali e non a quelle della cultura oppure fa una seria politica per i senzatetto.
La gestione delle biblioteche è un'altra cosa rispetto a quella che vediamo a Bologna, dove pure, per merito di una generazione di amministratori illuminati - che non sempre leggevano molto, ma sapevano cosa significava farlo - è stata creata una rete di biblioteche di quartiere e di paese disseminate per tutto il territorio, che hanno rappresentato un elemento in più nello sviluppo di quella città e di quella provincia.
Le città hanno bisogno di biblioteche, hanno bisogno di spazi pubblici dedicati ai libri, hanno bisogno di bibliotecari, che le curino, le facciano crescere, le mettano in collegamento con quello che di più vitale c'è nella cultura di quelle città in cui sono. E le biblioteche hanno bisogno di lettori.
A me francamente importa poco sapere se un ministro della cultura legge o non legge, o cosa legge, mi interessa che costruisca biblioteche. E che quindi i cittadini, tutti i cittadini, possano leggere.
Marguerite Yourcenar fa dire al "suo" Adriano:
Fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.
L'inverno è ormai arrivato. Non facciamo l'errore di bruciare i libri per scaldarci, perché abbiamo paura di morire di freddo. I libri li dobbiamo conservare, per leggerli e per farli leggere ai nostri figli. 

lunedì 3 novembre 2014

"Roma così non l'avevo mai vista" di Pier Paolo Pasolini


Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani.
C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla.
Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.
Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città.
Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra.
Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce.
Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine.
Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomi­ni che sono davanti a me, a uno a uno, alza­no il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po' deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle conti­nue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un'esistenza ridotta ai puro pratico, e spes­so solo all'animale, dalla corruzione dei quar­tieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s'abbassano, vedo dal loro atteggiamen­to che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi.

domenica 2 novembre 2014

"Il vuoto del potere" di Pier Paolo Pasolini

Corriere della sera, 1 febbraio 1975

"La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale Il Politecnico, cioè all'immediato dopoguerra..." Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (L'Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente.
Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul Politecnico non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa".
"Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del Politecnico, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva). Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel Politecnico: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale. Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano.
Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani. Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole 
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul Politecnico poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal Pci - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel Manifesto parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole 
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il Msi in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale.
Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla.
Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione.
Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia. Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore.
Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola. Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?". La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura. Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere. Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto.
Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto. Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico. In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare").
Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.

venerdì 31 ottobre 2014

Eduardo De Filippo interviene al Senato il 23 marzo 1982

Presidente
L'ordine del giorno reca lo svolgimento di una interpellanza concernente l'istituto "Filangieri" di Napoli. Se ne dia lettura.

Vignola
Interpellanza del Senatore De Filippo al Ministro di grazia e giustizia. Per conoscere: quale sia il giudizio del Governo, nel quadro dei drammatici problemi del Meridione e dell'area napoletana in particolare, sull'attuale ruolo e sul modo di funzionare dell'istituto "Filangieri" per la rieducazione dei minori, specchio e contemporaneamente causa dei molti problemi sociali di quella realtà così duramente colpita da eventi di carattere non solo naturale; quali provvedimenti e iniziative il Governo intenda prendere perché gli oltre mille ragazzi che annualmente passano attraverso il "Filangieri", lungi dal trovarvi incentivi e sollecitazioni ad entrare nella delinquenza abituale, vi trovino invece le condizioni per mettere il meglio di loro al servizio delle loro famiglie e della comunità nazionale.

De Filippo
Domando di parlare.

Presidente
Nel dare la parola al senatore De Filippo, che per la prima volta interviene in quest'Aula, gli rinnovo i rallegramenti per la recente nomina a senatore a vita e gli rivolgo i migliori auguri per il prosieguo della sua attività parlamentare. Il senatore De Filippo ha facoltà di parlare.

De Filippo
Onorevole Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, avrei voluto incontrarmi prima con voi, molto prima di oggi, ma non mi è stato possibile a causa di impegni assunti prima ancora di ricevere la nomina a senatore a vita dal nostro presidente Sandro Pertini, al quale da quest'Aula sento il bisogno di rivolgere un caloroso e affettuoso saluto. Non che io consideri questa nomina puramente onorifica, anzi, a me piacciono le responsabilità e non le ho mai rifiutate quando mi è sembrato giusto prendermele. In questo periodo ho lavorato moltissimo. Del resto la stampa ha sempre dato notizie sulla mia attività. Con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell'istituto "Gaetano Filangieri" di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Avrò bisogno del vostro aiuto e spero che quando ve lo chiederò mi darete una mano. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro. È essenziale che un'assemblea come il Senato prenda a cuore... (scusatemi perché questo forse avrei dovuto precisarlo prima: io sono stato operato da poco ad un occhio e devo leggere un po' piano, scusatemi tanto). Dunque si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro ed è essenziale che un'assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l'intero territorio dal Sud al Nord dell'Italia. Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi che sta facendo acqua da tutte le parti possa finalmente imboccare la strada giusta. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro. Ne ho pensate di cose nei mesi scorsi e c'è da fare, si può fare, ne sono certo. Di questi miei propositi vi farò per il momento solamente un cenno; in seguito, quando saranno meglio assestati, più completi nei particolari, chissà che non venga fuori un progetto da prendere sul serio in considerazione. Senza vanità, ve lo assicuro, vorrei parlarvi ora di quel poco che ho già fatto nelle mie commedie, le quali, anche se non sono dei capolavori, anche se forse non mi sopravviveranno come hanno sostenuto e sostengono tuttora alcuni critici, hanno però il merito di aver sempre trattato i problemi della società in cui ho vissuto e vivo proponendoli dal palcoscenico all'attenzione delle autorità e del pubblico. Lasciando da parte i testi scritti durante il fascismo, quando le allusioni alle malefatte sociali e politiche erano, a dir poco, mal viste e quindi i granelli di satira bisognava nasconderli tra lazzi, risate e trovate comiche, a partire dal 1945 in poi non c'è stata commedia scritta da me che non abbia riflettuto aspetti della realtà sociale italiana. Prendiamo la prima: Napoli milionaria, poi riprenderemo il discorso del "Filangieri". In questa Napoli milionaria ho trattato vari problemi del nostro paese, molti dei quali ancora oggi irrisolti, primo fra tutti la questione morale, poiché solo su una base morale l'uomo attraverso i secoli ha edificato società e civiltà. Tenendo conto delle proprie necessità economiche e delle fonti di ricchezza dalle quali dipende il proprio benessere, l'uomo si è sempre creato regole di comportamento etico che ha dovuto poi proteggere con le leggi. È ovvio che queste norme col passare del tempo e con l'accrescersi delle conoscenze scientifiche dell'uomo diventano anacronistiche e vanno cambiate e assieme ad esse le leggi. Il guaio succede quando si è costretti a vivere nel vortice sfrenato del consumismo di oggi obbedendo a leggi vecchie e superate. E in questo, a mio parere, consiste la presente ingovernabilità del nostro paese; insomma ogni santo giorno noi italiani ci troviamo di fronte al solito dilemma: o vivere fuori del nostro tempo o fuori delle nostre leggi. Ma torniamo a Napoli, a Napoli milionaria e alle questioni che con quella commedia ponevo sul tappeto e che sul tappeto sono rimaste. Nel 1945, finito il fascismo, finita la guerra si doveva iniziare la ricostruzione del nostro paese mezzo distrutto e messo in ginocchio dalla sconfitta. Dice Gennaro Iovine, il protagonista della commedia: "la guerra non è finita, non è finito niente" e al finale "adda passà a' nuttata". Attraverso queste semplici parole, semplici ma niente affatto sciocche, il reduce voleva significare che c'era ancora da combattere nemici potenti e agguerriti quali il disordine, la borsa nera, la corruzione, la prepotenza, la disonestà, se si pensava di costruire tutti insieme, governo e popolo, una società nuova, giusta dove il potere svolgesse le sue funzioni. Avevamo perduto la guerra e sentivamo che ci sarebbe stato bisogno di sacrifici per conquistare la libertà e il benessere sociale. In quel periodo, subito dopo la Liberazione, il popolo era pronto a farli i sacrifici; ci si sentiva come affratellati dalla speranza che valeva bene qualche privazione per essere pure noi artefici della nostra vita e di quella dei nostri figli. Ma ecco invece che cominciano ad arrivare gli aiuti e non in maniera morale, normale, accettabile e benefica, bensì in quantità esagerata che ha falsato tutto lo sviluppo delle nostre sacrosante aspirazioni. Insomma siamo entrati nella storia del dopoguerra come protagonisti non paganti, come entrano in teatro i portoghesi, che lo spettacolo se lo godono meno di tutti perché non hanno pagato il biglietto. Così noi, non avendo pagato, non abbiamo avuto la soddisfazione di chi si conquista il benessere col proprio lavoro sentendosi soddisfatto di avere collaborato con il governo. Quale è stata la conseguenza? La spaccatura che si è prodotta tra il popolo e la classe dirigente. Mi sembra che in questa Napoli milionaria siano stati profeticamente indicati problemi importanti, da prendere in considerazione ancora oggi: il rapporto cittadino-Stato; la necessità di responsabilizzare l'individuo facendolo partecipare attivamente alla ricostruzione della società, che poi di individui è fatta. Tutto questo che ho detto non è estraneo all'argomento che ho scelto per la mia interpellanza in quanto gli avvenimenti che si sono verificati dalla fine della guerra ad oggi hanno influito in maniera pesante sulle sorti dell'istituto "Gaetano Filangieri" e di tanti altri istituti di rieducazione dei minori. Alla fine del 1981, invitato dai ragazzi e dal loro direttore, dottor Luciano Sommella, ho visitato il "Filangieri" e come l'ho trovato ve lo posso dire in due parole. Camere da letto tutte con docce e servizi igienici per due o tre ragazzi; cucina enorme e pulitissima; ogni gruppo di 15 ragazzi ha un televisore e un accogliente ambiente per il tempo libero; per l'aria, un cortile molto vasto e un piccolo gruppo di ragazzi sotto controllo della magistratura va a lavorare fuori presso artigiani. In genere sono 60 ragazzi, ma durante l'anno ne passano oltre 1.500 che poi vanno smistati in altri istituti. C'è perfino un teatrino che io stesso inaugurai in occasione di quella visita! Un complesso veramente degno, dove i ragazzi vengono curati, assistiti secondo princìpi umani e civili, non solo, ma vengono istruiti e perfezionati ognuno nel mestiere da lui scelto. Naturalmente - c'è da aspettarselo - le finanze non sono adeguate alle necessità di un istituto del genere. Ma non è questo il punto nevralgico della situazione. I ragazzi di 11-12-13 anni, che sono poi le vere vittime di una società carente come la nostra nei riguardi della gioventù, entrano nell'istituto in attesa di giudizio e vi restano spesso per anni e anni in quanto, o per la mole di lavoro o per l'asmatico meccanismo burocratico, i processi subiscono sempre lunghissimi ritardi e rinvii. Compiuti i diciotto anni, poi, ancora in attesa di giudizio, i ragazzi vengono trasferiti nelle carceri di Poggioreale. Finalmente, celebrato il processo, mettiamo che l'imputato venga assolto, dove si presenta una volta messo in libertà? Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera? Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il "Filangieri". È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell'istituto che, durante la mia visita di quel giorno, chiesi (e mi fu accordato dal dottor Luciano Sommella) di avvicinare da solo a solo. I ragazzi mi dissero: "Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo". Ora bisogna tener conto del fatto che i napoletani, e in specie quelli di 18 anni, sono pieni di fantasia, pieni di spontanee iniziative in caso di emergenza, sempre vogliosi e mai appagati di un minimo di riconoscimento sincero per la loro vera identità. Ci voleva una guerra perché gli spaghetti, la pizza con la pommarola, le canzoni, le chitarre e i mandolini invadessero l'Europa e l'America, e mettessero fine finalmente ai luoghi comuni: mandolinisti mangia maccheroni, sfaticati, terroni eccetera. Adesso le canzoni le cantano pure loro, su al Nord. Illustri senatori e amici, ho girato il mondo e ho constatato con questi occhi qual è il rendimento del lavoratore italiano e qual è il suo vivere civile quando si trova all'estero. Ne ho conosciuti a centinaia, sia in America che a Londra, specialmente a Londra dove non c'è differenza, nessuna differenza, tra una tazza di tè e un bicchiere di vino del Vesuvio, dove l'emigrante, per dirla alla Troisi, trova quel riconoscimento che nel proprio paese di origine gli viene negato. Ecco che il napoletano, quello appartenente alla categoria di cui ci stiamo occupando, se vuole vivere e trovare lavoro nella città che gli ha dato i natali, come sarebbe poi suo diritto, deve ricorrere a trovate pulcinellesche o a mezzi equivoci e illegali che gli possono dare la certezza di tornare la sera a casa sua, solo che riesca a non farsi beccare dalla polizia. E sarebbe una vita questa? È necessario ora, prima di chiudere il mio intervento, che vi parli brevemente della celebre nave Caracciolo. Sono certo che molti di voi, illustri colleghi, ricordino lucidamente quale compito fu affidato a questa enorme corazzata, a questa imbarcazione. Il progetto fu ideato nel 1917 da un ammiraglio, le sue richieste furono ben viste e in breve tempo accettate dal governo di quel tempo. Fu così che il fortunato ammiraglio poté realizzare il suo sogno: ebbe in dotazione dallo Stato una vecchia corazzata su cui vennero ospitati i figli dei marinai, quelli dei pescatori e gran parte dell'infanzia abbandonata. L'intero equipaggio della provvidenziale corazzata, tutti diciottenni, si rendeva conto della disciplina di bordo: lavoro sodo, rigoroso, adatto allo sviluppo fisico, imparava a leggere, a scrivere, attraversava i mari, veniva a contatto con altri popoli e altre civiltà, aria sana, sole e volontà di vivere. Da mozzi diciottenni, diventati marinai venticinquenni, se ne tornavano alle loro case, presso le loro famiglie, orgogliosi, felici e schizzanti salute dagli occhi. L'iniziativa ebbe un successo trionfale, arrivò persino sulle tavole dei caffè chantans. Viviani - allora faceva solamente il varietà, non aveva ancora la compagnia di prosa - mise in giro una canzone. Vi dico i versi: "Addio botte co' pere, capriole pe' a città, pezzulle 'e marciapiedi non me siente chiu' ronfa'. Io tengo chi m'ha dato vitto, alloggio e civiltà. 'A folla dei scugnizzi mo' so' a meglio gioventù, fotografa 'sti pizzi che addo' vai non trovi chiu', e quanno torni in patria sviluppa e fà vede': tenimmo sempre roba megli' e te". L'ammiraglio Caracciolo dovette pensare: forse riesco a riunire i ragazzi dell'istituto "Le cappuccinelle" (così si chiamava allora l'istituto "Gaetano Filangieri" di oggi); la marina italiana ha bisogno di marinai. Dopo la guerra '14-18, la nave Caracciolo durò altri dieci anni. Non mi sono note le ragioni della sua scomparsa, ma, avendo vissuto l'epoca cui mi riferisco, posso solo ipotizzare che i fermenti fascisti, dopo quella guerra, erano agli albori. Giorno dopo giorno Mussolini guadagnava quota. Non starò qui a raccontarvi la storia di come nacque il fascismo ma, in riferimento alla nave Caracciolo, si trattava di una vecchia corazzata. Chissà, forse quell'iniziativa del vecchio lupo di mare, l'ammiraglio, fu accolta da Mussolini. Lui visse quei tempi e ci possiamo spiegare la nascita del balilla: per i diciottenni, il premilitare. E ancora, le giovani italiane, le colonie marine, i treni popolari, il dopolavoro: tutte istituzioni che hanno qualcosa in comune con la vecchia corazzata. L'Italia, diceva l'ammiraglio, ha bisogno di marinai. In sostanza, il progetto del vecchio ammiraglio, secondo le idee e abitudini mussoliniane, diventò macroscopico. Illustre signor presidente Amintore Fanfani, egregio signor Ministro di grazia e giustizia, onorevoli senatori di ogni partito e tendenza, non desidero una seconda nave Caracciolo. Propongo invece di sollecitare il Governo affinché dia il via all'assegnazione al "Filangieri" di uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e all'artigianato antico, possano abitare e lavorare ognuno per conto proprio, assaggiando in tal modo il sapore del frutto sulla loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità cui hanno diritto e che giustamente reclamano. Le infinite specializzazioni di arti e mestieri (pellettieri, fabbri, restauratori, ebanisti, pittori, sarti, cuochi, pasticcieri eccetera) renderebbero il villaggio un centro operoso di qualificati prodotti artigianali, di cui tanto si auspica il ritorno, e ciò sarebbe non solo un richiamo di ordine turistico su scala internazionale ma anche e insieme fonte di guadagno e di indipendenza economica per questi giovani del villaggio che mi augurerei potesse assumere il suo vecchio nome "Le cappuccinelle". Quel grandissimo poeta napoletano, Giuseppe Marotta, definì i napoletani in genere «gli alunni del sole».
(Applausi dall'estrema sinistra, dalla sinistra, dal centro-sinistra e dal centro. Congratulazioni).

Verba volant (139): violenza...

Violenza, sost. f.

L'aggettivo latino violentus ha la stessa radice del sostantivo vis, che significa forza, vigore, a cui è stata aggiunta la terminazione -ulentus, che indica eccesso. Quindi la violenza è un uso eccessivo della forza.
Shoshana B. Roberts è una giovane donna che, indossando un paio di jeans e una t-shirt nera, cammina tranquillamente per le strade di New York. Nulla di particolare, se non che si è trattato di un esperimento: Shoshana ha camminato per circa dieci ore e davanti a lei c'era un amico che la riprendeva con una telecamera nascosta. In quelle dieci ore, diventate un video, Shosana ha ricevuto centootto commenti, apprezzamenti, sguardi ammiccanti, da persone che non conosceva; uno di questi sconosciuti l'ha seguita per cinque minuti, senza dire nulla, ma comunque imponendo alla ragazza la sua presenza.
Purtroppo questa notizia è stata sottovalutata - anche perché nello stesso giorno qui in Italia abbiamo assistito ad altri episodi di violenza, tanto più gravi perché compiuti dallo stato contro i lavoratori - o è stata trattata con sufficienza, facendone magari l'occasione di qualche battuta - come è capitato in una trasmissione radiofonica che seguo regolarmente, CaterpillarAm, che pure di solito è attenta a certi temi e mostra una sensibilità che altri non hanno. Anche questa sottovalutazione è il segno che un problema culturale esiste. Ed è molto grave.
In quelle dieci ore nessuno ha picchiato Shoshana, eppure lei ha subito violenza.
Questo esperimento - che credo possa essere confermato da qualsiasi donna che conosciamo - ci dice che in una qualunque città una donna non è libera di camminare tranquillamente, per andare al lavoro o a scuola, o semplicemente per farsi gli affari suoi. Limitare la libertà personale di una persona, costringerla a fare una cosa diversa da quella che vorrebbe fare - anche solo farle cambiare strada o farle preferire di stare a casa piuttosto che uscire - è una forma di violenza. La stessa esperienza l'ha fatta qualche tempo fa la giovane araba america Colette Ghunim per le strade de Il Cairo e l'esito è stato lo stesso; perché la stupidità maschile è ormai globalizzata.
Probabilmente una parte dei centootto maschi che in quelle dieci ore hanno importunato Shoshana è fatta di brave persone, di uomini che non alzerebbero un dito contro una donna, che sono pronti anche a condannare la violenza contro le donne, in maniera sincera e non ipocrita; eppure quegli stessi uomini, quelle brave persone, non hanno capito che anche quel loro atteggiamento, quei loro complimenti non richiesti, quelle loro occhiate, sono una forma di violenza, non meno grave di quella fisica. Quei centootto non sono maniaci, non sono criminali, siamo noi, noi maschi "normali".
Siamo noi maschi "normali" che dobbiamo interrogarci guardando questo video, anche perché praticamente tutti i commenti lasciati dagli uomini tendono a minimizzare, a dire che in fondo non è successo niente, perché nessuno ha picchiato la ragazza. Invece qualcosa è successo ed è stata una forma di violenza, martellante, continua; dobbiamo ammirare il coraggio di Shoshana, come delle altre ragazze che in altre città hanno accettato di sottoporsi a questa prova. E Shoshana, dopo la pubblicazione del video su Youtube, ha subito delle minacce, così come le altre persone impegnate nel progetto, a testimonanianza che è stato toccato un nervo scoperto.
La violenza, in tutte le sue forme, è un problema per chi la subisce, ma si risolve soltanto se si affrontano i problemi e l'ignoranza di chi la compie. Il tema non è quello di chiedere alle donne di cambiare le proprie abitudini o di consigliare loro quali vestiti scegliere, ma quello di far capire agli uomini, in particolare ai giovani uomini, che le donne non sono di loro proprietà o preda di caccia. E infatti molti degli uomini ripresi nel video si sono arrabbiati perché Shoshana non ha risposto ai loro complimenti, la criticano per non essere stata "gentile" con loro. Bisogna far capire agli uomini che fermare una donna sconosciuta per strada solo perché ci piace non è un segno di virilità, ma solo di stupidità.
Questa esperienza rende evidente la mancanza di educazione sentimentale di molti maschi, ma anche le colpe di quelle madri che hanno allevato dei figli che non riescono a comunicare in modo naturale con l'altro sesso. Questa esperienza mette in luce ancora una volta quanto sia malata la nostra società che ha un rapporto morboso con la sessualità e in particolare con il corpo delle donne. Questa esperienza ci fa capire quanto ci sia ancora da lottare per una società giusta, di eguali, senza distinzione di genere.
Per questo dobbiamo ringraziare Shoshana e Colette, e dobbiamo ringraziare le donne che tutti i giorni, nonostante le violenze che noi maschi causiamo loro, hanno la forza di vivere la loro vita con coraggio, con serenità, con intelligenza. Per queste donne non possiamo far finta di nulla.

domenica 26 ottobre 2014

Considerazioni libere (392): a proposito di una grande manifestazione...

E' stato bello essere in piazza ieri. Come lo era stato il 23 marzo 2002.
Per chi - come me - ha avuto l'opportunità di partecipare a entrambe queste manifestazioni - le più grandi della sinistra in Italia dopo il funerale di Enrico Berlinguer - credo sia inevitabile cercare le analogie e le differenze.
Le prime sono molte ed evidenti. Entrambe sono state scatenate dalla proposta del governo - Berlusconi ieri e Renzi oggi - di abolire l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Tutte e due sono state numericamente imponenti e molto gioiose. Ovviamente eravamo di più in quella bella giornata di primavera del 2002, ma francamente credo che i numeri debbano essere letti anche nel contesto della situazione e quindi penso che in proporzione questa ultima manifestazione abbia rappresentato un successo ancora più grande. Dodici anni sono tanti, hanno cambiato nel profondo questo paese; soprattutto in questi dodici anni abbiamo assistito - quasi sempre impotenti, alcune volte purtroppo complici - alla delegittimazione delle forme di partecipazione democratica. E' calata la partecipazione al voto, sono di fatto spariti i partiti politici, hanno ristretto gli ambiti della democrazia, hanno costantemente attaccato il sindacato, presentandolo come una delle "caste" che ha danneggiato il paese. In questo clima riuscire a portare tantissime persone a Roma non è stato semplice e dobbiamo ringraziare il gruppo dirigente della Cgil per aver accettato questa sfida.
Ho avuto l'impressione anche che, nonostante tutto, la piazza fosse più gioiosa. In quella manifestazione ad esempio c'erano i toni lividi dell'antiberlusconismo, peraltro aizzati dallo stesso Berlusconi, c'era una cattiveria che ieri non visto. In questa piazza erano più i toni allegri, come quando ci si ritrova dopo uno scampato pericolo.
La grande manifestazione del 2002 - come certo ricorderete - ebbe un risultato politico immediato. Il governo ritirò sommessamente la proposta di abolire l'art. 18 e questo tema non è più stato nell'agenda politica italiana, almeno fino a quando il nostro paese non è stato commissariato dalla Troika e la riforma dello Statuto dei lavoratori è stata una delle condizioni imposte dalle autorità monetarie sovranazionali che, dall'autunno del 2011, governano di fatto il nostro paese, attraverso i loro prestanome al Quirinale e a Palazzo Chigi. E' stato anche per merito di quella manifestazione lontana se il governo Monti non ha avuto il coraggio di abolire del tutto l'art. 18, cosa che adesso è richiesta all'esecutivo guidato da Renzi.
Vista da un altro punto di vista e analizzando le vicende della sinistra italiana con un maggior respiro temporale, quella piazza ha rappresentato un insuccesso. Con quella grande manifestazione Cofferati dimostrò che era possibile una sinistra diversa da quella che stavamo costruendo, sempre più vicina al modello della cosiddetta "terza via", sempre più simile al Labour di Tony Blair, in sostanza sempre meno sinistra e sempre più piegata ai valori del liberismo e del capitalismo. Quella manifestazione fu rappresentata da una parte del gruppo dirigente dei Ds come il tentativo di Cofferati di "scalare" il partito, come il segno della sua ambizione politica - e non escludo che questa ambizione ci fu. Tanto che negli anni successivi ci fu un lavoro sistematico per depotenziare l'ex-segretario della Cgil fino ad arrivare al forzato "esilio" bolognese; e peraltro Cofferati non ebbe mai il coraggio di rompere questo assedio, accettò la candidatura a Bologna e poi si rifugiò a Bruxelles.
Ma al di là di queste vicende personali - che comunque servono a capire cosa è successo - tutte le scelte successive sono state fatte per "smontare" il potenziale di quella piazza. Cominciammo a virare sempre più destra, fino a quando la nave non è andata fuori controllo. Siamo stati sconfitti perché allora non scegliemmo il potenziale che c'era in quella piazza e preferimmo invece il dialogo con il mondo delle imprese e delle banche. Nella scelta che facemmo allora di far finta che quella manifestazione non ci fosse stata, perché "vecchia", perché non in linea con la modernità, ci sono le ragioni che ci hanno portato al suicidio della sinistra, alla nascita del Pd e infine alla degenerazione rappresentata da Renzi.
Veniamo adesso alla piazza di ieri. Certamente il fatto di essere andati in piazza e di essere stati così tanti non comporterà nessun effetto immediato. Chi ci governa - chi ci governa veramente - non si spaventerà per questa manifestazione e finalmente abolirà l'art. 18. Anzi probabilmente avranno una maggiore soddisfazione, perché - nel loro sadismo - sentiranno di incidere sulla carne viva del paese e non avranno la sensazione di fare un intervento necroscopico. Hanno bisogno di togliere l'art. 18, perché hanno bisogno di avere le mani libere, perché hanno bisogno di licenziare, come dimostra la vicenda delle acciaierie di Terni. Quindi non illudiamoci, il nostro viaggio a Roma non avrà un effetto immediato, almeno non quello da noi sperato. Sarà ininfluente nella decisione della minoranza Pd che voterà comunque la fiducia e non distoglierà un partito come Sel a continuare a fiancheggiare i renziani nelle elezioni locali. Sono lontani gli anni in cui in Italia c'era un governo eletto che - perfino quando era di destra - doveva fare i conti con gli elettori. A chi ci governa adesso, visto che nessuno li ha eletti, non importa nulla di cosa dice la piazza. In questo è stato un insuccesso. Ma lo sapevamo, temo.
Non credo invece sia stato un insuccesso per le prospettive che questa manifestazione disegna. Ieri ho visto in piazza tantissime persone che avevano bisogno di esserci, di trovarsi, di riconoscersi. In tantissimi ci siamo persi, ognuno dietro alle sue idee, qualcuno è perfino rimasto ostinatamente nel Pd, in molti è prevalsa l'idea di lasciare andare. Anche perché non avevamo più un "posto" in cui stare tutti.
Nonostante la retorica inclusiva di Renzi e dei renziadi, la Leopolda è un luogo che esclude: o con me o contro di me. La Leopolda è il luogo dove si ritrovano questi nuovi teorici del potere per il potere, purtroppo spesso molto giovani, che vivono la politica unicamente per il potere che ne possono ricavare. E quindi contano poco i valori e la storia, conta nulla il definirsi di destra o di sinistra, conta l'attualità, conta l'essere lì. Mi rendo conto che questa è probabilmente una generalizzazione che - come sempre le generalizzazioni - si scontra con una realtà che è anche più complessa, più articolata, che è stata capace anche di raccogliere entusiasmo sincero, voglia di fare, passione. Ma mi pare che queste pulsioni siano state messe velocemente in minoranza ed espunte come un corpo estraneo.
Noi in piazza ieri cercavamo un'identità, che evidentemente non riusciamo più a trovare in quel partito, che è impossibile trovare in quel partito - anche nonostante la buona volontà di qualcuno che ci rimane e di cui conosciamo la storia e le buone intenzioni - e che quindi abbiamo riversato nel sindacato che si è fatto partito, è diventato il luogo "caldo" della partecipazione della sinistra. La giornata di ieri credo rappresentarà qualcosa di importante per la sinistra italiana perché ha mostrato che in campo ci sono davvero due visioni alternative e chiaramente distinte di vedere il futuro di questo paese, a partire da come uscire dalla più grave crisi economica che abbia mai subito.
Poi, per un paradosso che è difficile da spiegare, entrambe queste visioni si dicono di sinistra, ma - come ho scritto da un'altra parte - non possiamo perdere tempo adesso a litigare sulla primogenitura o su chi ce l'ha più lungo. Io credo sia una prospettiva socialista, ma se questa parola fa paura o crea troppe discussioni, possiamo non usarla. L'unica cosa che non possiamo eliminare sono le idee, a quelle non possiamo proprio rinunciare: la difesa della democrazia rappresentativa, il considerare il lavoro come l'elemento fondante dell'economia, la difesa della funzione pubblica dello stato.
Questo è il compito che ieri oltre un milione di persone ha affidato alla Cgil e credo sia una responsabilità pesante per quell'organizzazione che deve considerare il 25 ottobre uno spartiacque della propria storia lunghissima e che ora è arrivata ad una svolta.
Ovviamente non possiamo delegare tutto all'organizzazione, noi abbiamo da fare il nostro dovere, ma credo sia più facile farlo, sapendo che non siamo da soli e che la nostra lotta si inserisce in una prospettiva più grande.