lunedì 26 febbraio 2018

Verba volant (493): scavo...

Scavo, sost. m.

"Occorre che i siciliani risolvano da soli i loro problemi e decidano se siano più importanti quelle pietre allineate o cento posti di lavoro nella provincia italiana in cui la disoccupazione giovanile è la più alta del paese", con queste parole il presidente della Fassa Bortolo ha commentato il parere negativo della Sovrintendenza regionale siciliana ai beni archeologici alla realizzazione di un nuovo impianto estrattivo ad Agira, in provincia di Enna, in quanto in quell'area è stato ritrovato un insediamento umano pre-ellenico.
Al di là dell'arroganza di questo padrone delle ferriere - a cui io, da comunista e da amante delle civiltà antiche, vorrei reagire di getto dicendo che la sua fabbrica se la può anche infilare su per il culo - la questione credo meriti di essere affrontata con più calma, perché questa domanda è stata posta molte volte nel nostro paese e lo sarà molte altre volte, magari senza questi toni ultimativi, chiedendoci di scegliere tra sviluppo e conservazione. Spesso è stato preferito salvaguardare quelle "pietre" e questo ha in qualche modo reso più aspro questo conflitto. Anche perché - e questo credo sia doveroso sottolinearlo - troppe volte il divieto di costruire una strada o una fabbrica o qualsiasi nuova infrastruttura in nome della salvaguardia dei beni archeologici e storici non è stato poi seguito da un lavoro serio su quei resti. Va bene che decidiamo di fermare una nuova costruzione perché lì ci sono dei reperti, ma poi occorre trovare le risorse per studiarli e valorizzarli, altrimenti avranno sempre ragione i padroni come Paolo Fassa e quelle persone che legittimamente speravano che quella fabbrica avrebbe portato nuovo lavoro e che vedono frustrate le loro aspettative in nome di qualche pietra che viene lasciata lì e alla fine dimenticata.
Agira è uno dei primi insediamenti umani in Sicilia, quando quella regione non era ancora un'isola ed era attaccata al resto della penisola. Fu scelto da quei popoli antichissimi perché era facilmente difendibile e perché in quei terreni c'erano ricchezze naturali. E per queste stesse ragioni quel luogo è sempre stato abitato, dai ciclopi e dai lestrigoni - come i greci chiamavano quei popoli antichi, che diventarono protagonisti della loro poesia - dai sicani, dai greci, dai romani e poi da tutti quelli che sono venuti dopo di loro. E per questa stessa ricchezza naturale è stato scelto come sito estrattivo dalla Fassa Bortolo. 
Agira è anche la città in cui nacque Diodoro Siculo, l'autore di una monumentale storia universale. E, anche attraverso l'opera di questo illustre figlio della Sicilia, sappiamo che nessuno di quei popoli si preoccupò di conservare ciò che avevano fatto quelli che li avevano preceduti, a meno che non servisse loro e, anche in quel caso, modificandolo in maniera sostanziale. Noi siamo i primi a pensare come conservare davvero il patrimonio lasciato da chi ci ha preceduto, lo facciamo spesso male, ma almeno siamo consapevoli che dobbiamo farlo, anche quando non ha un valore artistico, ma solo storico e documentale. Per questo quelle "pietre allineate" sono importanti, perché testimoniano qualcosa che sappiamo già, ossia che in quella terra gli uomini ci sono sempre stati e perché non sono state distrutte o riutilizzate da quelli che sono venuti dopo.
Se però la domanda continua a essere posta in questo modo, come un aut aut tra sviluppo e conservazione, continueremo a dare una riposta sbagliata, perché non si può dare una risposta corretta a una domanda errata. E alla lunga, una domanda così articolata, anche se apparentemente vince la conservazione, la memoria, la cultura - perché la Sovrintendenza ha il potere per fermare quei lavori e il giorno dopo perfino il padrone della fabbrica ha dovuto ridimensionare la propria stizzita dichiarazione - finisce per indebolire la necessità di conservare la memoria, perché il buon senso ci dice che garantire il lavoro a cento famiglie è meglio che tutelare un sito archeologico. Il buon senso ci dice che avevano ragione i sicani quando distrussero le povere case dei ciclopi e dei lestrigoni per costruirne di più solide e sicure e poi che ebbero ragione i greci a distruggere quelle dei sicani e poi i romani e così via tutti gli altri. 
La domanda è sbagliata perché non possiamo continuare a considerare la conservazione del patrimonio storico come un elemento che frena lo sviluppo. E credo che su questo dovrebbero fare una seria riflessione molte persone che questo lo fanno di mestiere, dai sovrintendenti agli archeologi, dagli storici agli esperti di restauro. Quell'impianto estrattivo secondo me andava realizzato e proprio lì, ma rispettando dei vincoli precisi. Io sono convinto che una soluzione poteva essere trovata, anche se ovviamente è più facile da una parte dire no e dall'altra prendere cappello e decidere di costruire da un'altra parte. 
Si poteva fare lì, perché non sta scritto da nessuna parte che una fabbrica o un sito industriale debba per forza essere brutto. Non è sempre stato così: c'è stato un tempo, non troppo lontano, in cui c'erano architetti e ingegneri che pensavano a come costruire fabbriche che fossero anche belle. Se abbiamo la pazienza di cercarle, ne possiamo trovare molti esempi nelle nostre città, anche se spesso, proprio perché erano in contesti densamente urbani, sono diventate altre cose. Ovviamente costa di più fare una fabbrica bella che uno "scatolone", ma se decidi di costruire in un luogo in cui ci sono cose belle - e la Sicilia è senz'altro uno di questi, perché è una terra dalla storia incredibile - ti devi adattare a seguire certi parametri. E' vero che noi siamo i primi a conservare quello che ci hanno lasciato i nostro progenitori, ma rischiamo di essere anche i primi che non lasciano nulla di bello a quelli che verranno dopo di noi.
Poi si poteva trovare il modo di salvare quelle pietre, ad esempio collocandole da un'altra parte. E' finito il tempo in cui le pietre degli edifici più antichi venivano usate per costruire quelli nuovi: immagino che la Fassa Bortolo non abbia bisogno di quelle pietre per costruire la propria fabbrica. E' importante sapere che quelle pietre sono state trovate lì e come erano collocate, ma non è fondamentale vederle in quel luogo. Anche in questo caso occorrevano risorse e persone capaci di spenderle. La Bibliotecha historica di Diodoro è un testo fondamentale per conoscere la storia antica, nonostante il suo autore - che pure millantava di aver fatto moltissimi viaggi in Europa e in Asia - non si sia mai mosso dalle biblioteche, da cui traeva spunto per la sua opera. Tante informazioni di libri più antichi sarebbero andate perdute se non ci fosse stato il lavoro paziente di Diodoro che spesso si limitò a copiarli. Pensate cosa farebbe oggi Diodoro, con le possibilità date dalle tecnologie moderne: basterebbe avere la pazienza e la passione di quello storico.
Per sopravvivere e per non fare la fine dei ciclopi e dei lestrigoni, la nostra società avrebbe bisogno di fabbriche, possibilmente ben costruite, e di scavi archeologici, possibilmente ben fatti. Il fatto che manchino le une e gli altri ci dice chiaramente a cosa siamo destinati.   

sabato 24 febbraio 2018

Verba volant (492): buriana...

Buriana, sost. f.

Sta arrivando la buriana. O meglio sta arrivando buran, come ci raccontano i giornalisti e gli esperti che invadono le nostre vite, perché usare una parola straniera - finanche russa - fa sempre più fine. Mia nonna diceva che arrivava la buriana, e un esperto non può certo parlare come mia nonna.
Sta venendo freddo, molto freddo: succede in inverno. Peraltro per noi che a casa guardiamo la televisione e gli esperti di meteorologia non è poi un gran problema: basta mettere un panno di più a letto, indossare un maglione più pesante, accendere un po' più a lungo il riscaldamento, e magari evitare di uscire per fare cose inutili. La buriana è un problema molto serio per chi non ha una casa e neppure un televisore su cui seguire ora dopo ora l'andamento delle temperature: ma tanto loro sono poveri, non è un nostro problema.
C'è stato un tempo - molto lontano - in cui i venti erano dei, come ogni altro fatto della natura. Ed erano dei antichissimi, non come quegli dei "moderni" - quelli della generazione di Zeus, per intenderci - che sarebbero venuti dopo a rappresentare la giustizia, la bellezza, l'amore e tutte quelle robe lì. No, quegli dei antichissimi erano la forza della natura, una forza che gli uomini dovevano temere, ma da cui sapevano anche di essere nutriti e protetti. Tra questi dei antichi c'era Borea, un uomo barbuto con due grandi ali e una coda di serpente al posto delle gambe, figlio, come i suoi fratelli Austro e Zefiro, del titano Astreo e di Eos, l'aurora. Borea, Austro e Zefiro erano rispettivamente i venti del nord, del sud e dell'ovest. Austro portava il caldo e la pioggia, Zefiro portava la primavera, mentre Borea portava il freddo. Tutti e tre erano a un tempo temuti e attesi, perché di tutti e tre gli uomini sapevano di aver bisogno.
Gli ateniesi avevano una particolare venerazione per Borea perché, anche grazie a lui, era stata sconfitta la flotta persiana nella battaglia del capo Artemisio. Ma c'era anche un più antico legame tra il dio e la città. Borea vide Orizia, la figlia del re di Atene Eretteo, mentre raccoglieva dei fiori lungo il corso dell'Ilisso e se ne innamorò. Era primavera, il poeta racconta che la ragazza scivolò nel fiume, ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. Non so se, come ci assicura il poeta, questa è la storia vera, ma si sa che i poeti hanno il sacro diritto di raccontarci delle menzogne, per dirci delle verità che altrimenti non vorremmo ascoltare.
E Borea continua, nonostante tutta la nostra modernità, a portarci il freddo e troppe donne, come Orizia e come Marinella, continuano a vivere solo un giorno come le rose.

venerdì 23 febbraio 2018

Verba volant (491): arma...

Arma, sost. f.

Una cosa che ho sempre invidiato ai compagni socialisti è che loro nel simbolo avevano il libro. So bene che rappresentava, insieme alla falce e al martello, l'unione del lavoro intellettuale con quello manuale, ma io l'ho sempre considerato anche un simbolo di riscatto e di lotta: attraverso il libro - e quindi attraverso l'educazione, la cultura, la conoscenza - gli uomini possono emanciparsi, e quel libro deve diventare uno strumento per combattere la guerra di classe e per far nascere una nuova società. Il libro è un'arma in mano al popolo.
Ho pensato a questo leggendo che cresce negli Stati Uniti l'idea di fornire di armi gli insegnanti come misura contro le stragi nelle scuole. C'è qualcosa di folle in questa proposta: come mezzo per contrastare la diffusione delle armi si aumenta il numero delle armi in circolazione. Una volta che tutti gli insegnanti saranno dotati di armi, succederà che uno di loro, impazzito per qualsivoglia motivo, deciderà di uccidere i propri studenti: si tratta purtroppo di una facile previsione. Il paradosso è che proprio nel luogo in cui dovrebbero essere i libri a essere usati come armi, questi vengono sostituiti da armi vere e proprie. E gli insegnanti dovranno dedicare parte del loro tempo non per studiare, non per aggiornarsi, ma per imparare a usare una pistola o un fucile, per tenersi in esercizio nei poligoni.
Arma deriva, attraverso il latino, dal greco antico armos, che significa omero. Non so se Stanley Kubrick pensava a questo quando girò la celeberrima scena di 2001: Odissea nello spazio in cui un ominide di fronte a un mucchio di ossa, ne raccoglie una e la fa diventare la propria arma, la prima arma dell'umanità. La spiegazione etimologica è meno poetica: semplicemente l'arma si chiamò così perché si portava alla spalla e perché in qualche modo era un prolungamento del braccio umano, che in inglese si dice arm.
Leggo anche che questa proposta sta scatenando la protesta dei giovani americani: è una bella cosa, è un segno di una timida speranza. Credo che sia nostro compito accompagnare e sostenere questa protesta, proprio in nome di quell'antica idea che considera un libro un simbolo di emancipazione e di lotta. 

giovedì 22 febbraio 2018

Verba volant (490): saluto...

Saluto, sost. m.

Intanto credo sarebbe giusto chiamare le cose con il proprio nome. Quello che viene chiamato saluto romano è un saluto fascista, inventato dai fascisti all'inizio del Novecento. Non ci sono saluti con il braccio teso rappresentati nell'arte romana, né in scultura né in pittura né sulle monete: è una delle tante menzogne fasciste. Anzi nei fregi 122 e 123 della Colonna Traiana i soldati salutano l'imperatore senza stendere il braccio, con le mani sollevate e le dita aperte, come faremmo oggi.
Ma evidentemente non è questo il tema di oggi. Sono sempre più convinto che l'eredità peggiore che Berlusconi lascerà a questo sfortunato paese sia quella di aver trasformato la magistratura in una sorta di baluardo della democrazia: l'aver avuto per così tanti anni un pluripregiudicato alla guida del paese ci ha costretti a guardare al potere giudiziario con una sorta di fiduciosa speranza. Speranza assolutamente mal riposta.
Non dico che non ci siano stati e non ci siano ottimi magistrati - ci sono ottime persone in tutte le categorie, perfino tra quelli che hanno un blog - ma certamente la magistratura, specialmente nei suoi livelli più alti, è una struttura che tende alla conservazione del potere, del proprio prima di tutto e poi di quello della loro classe.
Una sentenza come quella pronunciata prima dalla corte d'assise di Milano e poi confermata dalla cassazione su fatto che il saluto fascista non è punibile quando viene fatto durante una commemorazione "smonta" di fatto la XII disposizione finale della Costituzione e la legislazione che da essa deriva. In un momento come questo si tratta di una precisa presa di posizione politica. Di fronte all'insorgere di sempre più agguerriti gruppi neofascisti, questa sentenza lancia un tana liberi tutti.
I giudici hanno affermato che un saluto fascista è una libera espressione del pensiero e come tale non può essere vietato. E' vero: una persona è liberissima di essere fascista, la forza della democrazia è anche questo, il concedere una libertà di pensiero che un regime totalitario, come quello fascista, non permetterebbe mai. Ma questa libertà di pensiero non può esprimersi in pubblico. Vuoi fare il saluto fascista? A casa tua, magari davanti a un altarino con la foto del duce. Ma non in strada, non in un luogo pubblico, insieme ad altre persone che fanno quel saluto insieme a te. Curiosa poi la tesi che un saluto fascista non costituisce reato se viene fatto durante una commemorazione. A parte il fatto che è un gesto che non puoi fare in pubblico, farlo durante un funerale o una commemorazione è ancora più grave, per la particolare implicazione che ha la morte per quella ideologia. I fascisti hanno il mito della "bella morte": fare il saluto con il braccio teso durante un funerale è un segno di questa ideologia violenta e del carattere eversivo che tale pensiero ha per le istituzioni. Un funerale non è mai importante per chi è morto - essendo appunto morto - ma per chi vive. Come a un morto non interessa affatto quanto sia pregiata la cassa in cui è riposto, ma questo è solo un segno di ostentazione che la famiglia getta in faccia ai vivi, così questi saluti fascisti a un funerale sono il segno che la lotta continuerà, anche in nome di quel bastardo che - fortunatamente dal mio punto di vista - è morto.
Ma siccome i fascisti a qualcuno servono, si trova sempre un giudice disposto a stravolgere la giustizia.

mercoledì 21 febbraio 2018

Verba volant (489): indifferenza...

Indifferenza, sost. f.

In questi giorni abbiamo finto che ci interessasse tutto, dalla campagna elettorale alle gare di slittino, pur di non parlare della strage del liceo di Parkland. Eppure è stata una "bella" strage: due vittime in più di Columbine. I morti sono quasi tutti adolescenti - le nostre vittime preferite - e in più un professore che si è comportato da eroe, morto per proteggere i suoi studenti. Ma niente: la notizia ha resistito un paio d'ore nelle home page, ma poi è arrivata la morte di Bibi Ballandi e la strage ha cominciato rapidamente a perdere interesse, fino a sparire.
Ci sono molte scusanti per questo repentino oblio. Ormai le stragi nelle scuole americane sono così frequenti che abbiamo perso il conto. E poi è colpa loro, visto che i politici di quel paese, pagati dai produttori di armi, si ostinano a non introdurre alcun limite alla loro vendita. E poi l'America è così lontana. E poi Trump ci sta anche antipatico; e Obama in fondo era un negro.
No, non ci sono scuse. Il motivo vero è che fondamentalmente siamo degli stronzi egoisti. Se ci rigano la fiancata dell'auto nel parcheggio del centro commerciale facciamo il diavolo a quattro, se un insegnante dà un brutto voto a nostro figlio, saremmo disposti a bruciare la scuola, se ci rubano in casa, chiediamo che venga introdotta la pena di morte per quel ladro, solo per quel ladro, ma di diciassette persone morte per colpa di un ragazzo che è impazzito e di un sistema che permette a un giovane fragile di avere a disposizione un'arma da guerra non ci importa nulla.
E non diamo la colpa al sistema dei media, siamo noi che siamo fatti così. Non ho un dato, ma credo di non sbagliarmi dicendo che in quelle stesse ore sul sito di un importante quotidiano sia stato visto di più il video della modella che, mentre si faceva fotografare mezza nuda sugli scogli di fronte all'oceano, è stata travolta da un'onda gigante. Questa sì che è la notizia perfetta: una bella donna che fa una figura fantozziana, un po' di sana pornografia e un po' di sberleffo per le disgrazie altrui.
Ci sono molte reazioni possibili di fronte a un fatto come la strage del liceo di Parkland. Io non capisco chi decide di pregare, sarà che sono ateo, ma almeno chi prega pensa che ci sia qualcosa da fare di fronte a una tragedia simile. Ci si può arrabbiare, ci si può mobilitare per chiedere che cambino le leggi che hanno permesso una strage così. Non ci si dovrebbe voltare dall'altra parte. E invece è quello che noi facciamo. Tutte le volte. E non ci vergogniamo di farlo.
Qualche anno fa - non molti, a dire il vero - pensavamo che questo pianeta fosse destinato a scomparire a seguito di una guerra nucleare. Non so se il pericolo ci sia realmente mai stato, ma noi lo vivevamo come tale. Ora nessuno credo che abbia più una tale paura, ma la morte che ci attende non è meno dura. E solo più infame.       

domenica 18 febbraio 2018

Verba volant (488): ritratto...

Ritratto, sost. m.

Una vita fa anche a me è capitato di parlare sotto quei ritratti, in quella sede di partito a Casalecchio di Reno, in cui giorni fa ha parlato Pier Ferdinando Casini. Era un altro partito e quella sede si chiamava sezione. A dire la verità, di immagini così ce n'erano in tutte le nostre sezioni, variavano la disposizione e l'ordine, a volte erano state messe un po' di lato per fare posto a una grande fotografia di Enrico Berlinguer, ma i ritratti di Gramsci e di Togliatti li potevi trovare dappertutto. A differenza degli altri funzionari di partito, per il mio lavoro, mi capitava spesso di frequentare anche i magazzini, quelli dove i compagni più anziani sistemavano, oltre ai materiali per fare le Feste dell'Unità, i cimeli del partito e quindi ho visto anche i ritratti che nel corso degli anni erano stati rimossi: quelli di Marx, di Engels, di Lenin, e, negli angoli più segreti, quelli di Stalin.
Si trattava spesso di ritratti fatti a carboncino appesi alle pareti con semplici e povere cornici. Un compagno di Corticella mi raccontò che all'indomani del XX congresso del Pcus i compagni di quella sezione decisero di rimuovere il ritratto di Stalin che campeggiava nella loro sede. Al momento di staccare il quadro - che si trovava sopra la stufa - si accorsero che il calore aveva fatto sì che sul muro rimanesse la presenza di quel ritratto, in particolari dei baffi, che ne erano - come noto - i tratti più marcati. Per compiere la definitiva destalinizzazione di Corticella fu necessario imbiancare le pareti.
Francamente mi importa poco di dove abbia parlato Casini, è qualcosa che non mi riguarda. Per me è sempre stato un avversario e continuerà a esserlo, perché sostanzialmente lui dice sempre le stesse cose, non ha cambiato idea, sono solo cambiate le sedi in cui le dice. Penso invece alle migliaia di volte che io ho visto quei ritratti.
Ritrarre deriva da retrahere, che significa etimologicamente tirare indetro. Il ritratto è l'atto con cui l'immagine è in qualche modo "tratta fuori" da una persona. Ma da quel verbo latino deriva anche l'italiano ritrattare. Penso a quante volte, io - e tanti come me - pur guardando quei ritratti abbiamo ritrattato, ossia abbiamo tradito, con le cose che dicevamo, con le cose che facevamo, la storia che quelle immagini avrebbero dovuto raccontarci. Se oggi Casini può tranquillamente parlare sotto i ritratti di Gramsci e di Togliatti, di Di Vittorio e di Matteotti, è perché noi per vent'anni abbiamo smesso di guardare quelle immagini. E anche quella di Berlinguer.
Lasciamo pure a Casini e ai suoi sodali quei ritratti, che loro usano per riempire le pareti che altrimenti rimarrebbero vuote in maniera desolante o forse sarebbero riempite con una pubblicità. Magari a qualcuno di loro verrà perfino la curiosità di sapere chi sono quei "vecchi" attaccati alle pareti: non diventeranno comunisti, ma almeno avranno imparato qualcosa. Noi invece, in nome dei nostri errori, proviamo a ricostruire, anche solo per uso personale, quelle gallerie di ritratti. E cominciamo a guardarli.

sabato 17 febbraio 2018

Verba volant (487): reazione...

Reazione, sost. f.

Per cercare di capire quello che sta avvenendo in queste settimane in Italia, credo sia indispensabile provare a riflettere sul nostro, tutto sommato recente, passato.
Nel nostro paese - e poi nel resto d'Europa - il fascismo è nato, dopo la fine del primo conflitto mondiale, come reazione del capitalismo alla rivoluzione comunista, che quello che era successo in Russia aveva reso - drammaticamente dal punto di vista dei padroni e dei conservatori - possibile anche da noi. La nascita del fascismo è incomprensibile se non si tiene conto del cosiddetto "biennio rosso", ossia della fase più autenticamente rivoluzionaria vissuta dal nostro paese nel corso del Novecento. Grazie alla crisi seguita alla fine della guerra, grazie alla profonda sfiducia che era cresciuta tra le classe popolari verso le istituzioni - in primis l'esercito - che le avevano costrette a combattere in quel drammatico conflitto, grazie a una crescita in quelle stesse classi di una nuova consapevolezza democratica, che quella stessa guerra - in maniera paradossale - aveva contribuito a sostenere, una rivoluzione comunista sembrò allora possibile in Italia. La paura della rivoluzione rese necessaria una reazione e così nacque il movimento fascista, che infatti, finanziato dagli agrari, dagli industriali, dai banchieri, sostenuto da tutte le forze della conservazione - dall'esercito alla chiesa cattolica - ebbe come primi e principali obiettivi proprio i fulcri della rivoluzione nascente e possibile: le camere del lavoro, i giornali della sinistra, i leader e gli intellettuali che erano le guide di quel movimento. E non fu un caso che le forze del capitale scelsero come capi di quel movimento uomini che erano stati tra i rivoluzionari, uomini che conoscevano bene le classi che dovevano guidare. Il fascismo rappresentò l'altra risposta possibile alla crisi e per questo, sgombrato il campo dall'opzione comunista, divenne un movimento popolare, anche perché, ottenuto il potere, seppe fornire risposte a quel popolo che chiedeva un futuro diverso. Il welfare corporativo e fascista creò una vasta area di consenso popolare, che solo la nuova guerra fece diminuire: se il regime non avesse deciso di scendere a fianco della Germania e avesse mantenuto una posizione simile a quella della Spagna franchista, la storia italiana sarebbe stata diversa, perché il fascismo sarebbe durato ben più a lungo.
Negli anni della repubblica i fascisti, pur non costituendo più un movimento popolare e di massa, come era avvenuto prima della guerra, rimasero uno strumento a disposizione delle forze della reazione. Quando secondo loro l'Italia si spostava troppo a sinistra, quando crescevano e si affermavano le idee progressiste, le forze del capitale usavano i fascisti per rimettere le cose in equilibrio, il loro equilibrio. Così l'ingresso dei socialisti al governo fu seguito dal tentato colpo di stato del generale De Lorenzo e al Sessantotto e alle riforme sociali di quegli anni fu risposto con la stagione delle stragi fasciste, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. I fascisti, ben presenti nelle istituzioni, nelle forze dell'ordine, nell'esercito, nei servizi segreti, erano sempre disponibili come strumento della reazione.
Ma adesso? A cosa stanno reagendo? In Italia non esistono partiti di sinistra - l'ultimo che c'era l'abbiamo distrutto noi qualche anno fa - ma soprattutto non esiste una cultura di sinistra, se non in una minoranza, che non può certo costituire per loro un pericolo. Le forze del capitale non sono mai state così forti, il capitalismo è l'unica ideologia che sia rimasta. Non siamo certo né al "biennio rosso" né alla stagione delle riforme dell'inizio dei Settanta. In un paese in cui non abbiamo paura di sfidare il ridicolo definendo "sinistra radicale" Grasso e D'Alema, a cosa serve una reazione fascista? Non può servire contro il Movimento Cinque stelle che, pur nella sua duttilità ideologica, non può certo definirsi di sinistra e certamente non è anticapitalista. E proprio la mancanza di altre risposte crea uno spazio inimmaginabile per quelle offerte dal fascismo. Se di fronte all'insicurezza di fasce crescenti di persone la sinistra non ha più voce, l'unica proposta che viene fatta - quella che individua negli "altri" i nemici, quella che chiede sicurezza e repressione - finisce per diventare maggioritaria. Se la sinistra non parla più alle classi più povere, stremate dalla crisi, o, se ci parla, usa parole troppo difficili, queste ascolteranno chi invece continua a parlare con loro, usando un linguaggio brutalmente semplice.
Sono molto preoccupato, perché vedo che è la prima volta che il fascismo viene usato non come reazione contro qualcosa che cresce nella società, ma come azione diretta. Vedo che il capitalismo non si accontenta di aver vinto, ma vuole stravincere e per questo ha deciso di tirare fuori dagli armadi il proprio vecchio armamentario fascista - che è servito così bene fino ad ora - con l'attiva complicità delle forze dell'ordine e delle istituzioni che si sono immediatamente messe al loro servizio. Lo schema è quello che conosciamo bene - la violenza verbale e fisica, l'ostentazione della forza - ma questa volta non risponde a qualcosa, è preventivo. 
La reazione questa volta toccherebbe a noi, ma francamente credo non ne avremo né la capacità né la forza.

mercoledì 14 febbraio 2018

"Sarà domani San Valentino" di William Shakespeare


Sarà domani San Valentino,
ci leveremo di buon mattino,
alla finestra tua busserò,
la Valentina tua diventerò.
Allora egli si alzò,
delle sue robe tutto si vestì,
la porta della camera le aprì,
ed ella non più vergine ne uscì.

Per Gesù, per la Santa Carità,
ahimè, quanta vergogna ci verrà!
I giovani lo fanno,
incuranti del danno,
e del biasimo che gliene verrà. 
Dice lei: "Promettesti di sposarmi,
prima di rovesciarmi."
Dice lui: "Avrei fatto quel che ho detto,
se non fossi venuta nel mio letto."

Così canta Ofelia, nella scena V dell'atto IV di Amleto, mentre vaga per le sale del castello di Elsinore, incontrando re Claudio, la regina e i cortigiani che la guardano con ipocrita compassione. Povera pazza: tutti sembrano dire ascoltando le parole senza senso della giovane figlia di Polonio. Eppure, nonostante questa sia follia, c'è ancora del metodo!
Per quante donne, ancora oggi, in ogni parte del mondo, sono vere queste parole. Per quante donne quell'atto di amore, quella passione, quella gioia, diventano colpa, vergogna, morte. E mentre i maschi non pagano mai per quel loro sfogo, anzi se ne possono vantare, sulle donne ricade il biasimo della società, perché in fondo se l'è cercata. E poi Ofelia è solo una povera pazza.

Verba volant (486): autovalutazione...

Autovalutazione, sost. 

Come immagino la stragrande maggioranza di voi che avete la pazienza di leggermi, sono cresciuto in un tempo in cui non esistevano forme così spinte di marketing scolastico.
Proviamo a immaginare la scena: c'è questo professore a cui il preside ha chiesto di scrivere una scheda di autovalutazione della loro scuola. Ci pensa un po', probabilmente non vuole metterci troppo tempo, perché ha cose più importanti da fare, ad esempio insegnare - e magari lo fa anche bene - e comincia a mettere in fila un po' di banalità in stile ministeriale. Poi pensa ai genitori che gli rompono le scatole durante le ore di ricevimento e comincia a scrivere quello che i padri e le madri dei suoi possibili futuri studenti vorrebbero leggere; e sono in grado di capire. In questa scuola - comincia - non ci sono stranieri - sottinteso non ci sono negri e musulmani - non ci sono ragazzi diversamente abili - sa che in questo genere di prosa non può usare la parola handicappato o spastico o mongoloide o scemo, ossia i termini che usano i genitori dei figli "sani" per parlare di quelli lì - ci sono solo i figli dei ricchi, di quelli che frequentano i posti giusti. Potesse dire che nella sua scuola c'è il cugino di uno che è andato al Grande fratello o la sorella di una velina di Striscia, lo scriverebbe senz'altro, perché darebbe molto più "prestigio" all'istituto. Compiuta questa fatica letteraria, fa leggere la scheda al preside, che lo loda per lo spirito imprenditoriale: questo farà senz'altro crescere il numero degli studenti. E magari quella scuola non sarà chiusa o accorpata a un altro istituto.
Poi salta fuori un giornalista che ha voglia di fare polemica e scrive un articolo per denunciare che quella scuola è classista. Nella stessa pagina in cui ha ampio spazio un lungo pezzo dedicato ai preparativi del matrimonio tra Harry e Meghan e nello stesso sito dove c'è una bella gallery dedicata ai ristoranti più chic e costosi della città, quelli frequentati dai genitori degli studenti del loro istituto, da quelli del Grande fratello e dalle veline. Così un funzionario del ministero richiama il preside, il preside richiama il professore e quella scheda viene frettolosamente riscritta in stile burocratico, dicendo in maniera ipocrita quello che adesso bisogna dire per far bella figura, ossia che in quella scuola ci possono andare i figli delle famiglie povere, sempre che abbiano i soldi per comprare i libri, i sussidi didattici, i vestiti e le scarpe per non far fare brutta figura ai loro ragazzi, che ci possono andare perfino i negri e i musulmani - dopo tutto ci sono anche i negri musulmani ricchi, non hanno tutti le pezze al culo - e ci possono andare anche gli handicappati: ci sono le rampe, i maniglioni nei bagni, cinque anni anni fa hanno fatto i lavori per adeguare la scuola - non ricordate - hanno anche arrestato l'imprenditore che li ha fatti per aver pagato una tangente all'assessore provinciale.
E così sono tutti contenti. Il professore è contento perché l'anno prossimo col cavolo che il preside gli rifilerà quel compito; il preside è contento perché sono aumentate le iscrizioni nel suo "prestigioso" istituto, quello dove va solo la "crema" della città; i genitori sono contenti perché i loro figli non dovranno dividere i banchi con i poveri; il giornalista è contento perché con quell'articolo ha avuto più visualizzazioni di quello stronzo che scrive solo su Masterchef; anche i genitori "democratici" sono contenti, perché hanno lanciato una bella petizione in rete e questa volta si sono fatti sentire. Gli unici a cui di questa cosa non frega nulla sono i ragazzi, sia quelli poveri, sia quelli ricchi, perfino quello che sua sorella è amica di una che doveva diventare velina. E non hanno neppure nulla di cui essere contenti, perché la scuola dove vanno continua a fare schifo, nonostante la splendida scheda di autovalutazione. 

martedì 13 febbraio 2018

Verba volant (485): carnevale...

Carnevale, sost. m.

La parola con cui indichiamo questa festa è relativamente recente: il primo testo scritto in cui viene citato il carnovale è una poesia del giullare del XIII secolo Matazone da Caligano. E si tratta già della festa cristiana, perché il termine indica chiaramente che in questo giorno viene "levata" - ossia viene tolta - la carne, in vista dei giorni di penitenza della quaresima. Si tratta però di una festa molto antica, forse la più antica tra quelle che noi ancora ricordiamo e celebriamo, perché è il momento dell'anno in cui il caos torna a prendere il sopravvento sull'ordine.
Nell'antica Babilonia, quando l'inverno stava per finire, si inscenava la lotta tra il dio Marduk e il drago Tiamat, tra l'ordine e il disordine, e ogni anno il dio, dopo una dura lotta, sconfiggeva il terribile drago e questa vittoria era celebrata con un lungo corteo che percorreva la via principale della città, una sorta di processione guidata da un carro su cui sedevano il sole e la luna che, vinto il mostro, potevano finalmente tornare nel tempio. In Grecia questi erano i giorni di Dioniso, il dio dell'ebrezza, della sfrenatezza sessuale, un dio - a differenza del Bacco latino - tutt'altro che rassicurante e bonario, le cui sacerdotesse erano assai temute. A Roma durante i saturnalia veniva sovvertito l'ordine sociale: gli schiavi si comportavano come uomini liberi e potevano perfino eleggere un proprio principe. Durante queste feste, richiamandosi al culto della dea egizia Iside - perché gli antichi romani avevano questa grande capacità di assimilare ogni religione, facendola diventare propria, un insegnamento che forse potrebbe tornare utile in questi tempi bui - si svolgevano cortei di uomini e donne in maschera, si facevano scherzi e si mangiava. Le nostre feste di carnevale, compresi i vestiti da Zorro della nostra infanzia e i dolci fritti che ogni paese chiama con un nome diverso, derivano da queste feste antichissime. Un tratto comune di queste tradizioni è che in questi giorni speciali dell'anno i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti tendevano a scomparire: sono i giorni in cui dagli inferi esce un gruppo di creature terribili, la cosiddetta famila Herlechini, un corteo di anime morte guidate da un demone, che sarebbe diventato nelle campagne bergamasche Arlecchino.   
Semel in anno licet insanire, dicevano gli antichi, una volta all'anno è lecito "impazzire", non rispettare le regole e le convenzioni, ma - beninteso - ciò è permesso solo una volta all'anno, perché per il resto quelle regole devono essere rigorosamente osservate. Ogni anno si rinnova lo scontro tra l'ordine e il disordine, ma l'esito della lotta è scontato: il caos non può tornare a vincere. Nonostante tutto il carnevale è una festa fortemente conservatrice, perché, proprio nel momento in cui apparentemente scioglie i vincoli sociali, li rende ancora più forti. Come il carnevale esiste - anche dal punto di vista etimologico - in funzione della quaresima, così questa temporanea sospensione dell'autorità e della gerarchia viene progressivamente raccontata o come qualcosa di terribile - le sacerdotesse di Dioniso erano considerate pazze, e diventeranno nei secoli successivi streghe, un ruolo che le donne dovranno spesso interpretare nel corso della storia - o come uno scherzo - e il ghigno demoniaco di Arlecchino diventerà la maschera rassicurante e clownesca di un servo sciocco.
Il potere, che avrebbe dovuto avere paura del carnevale e di quello che rappresentava - e non a caso alla fine di questi giorni si faceva un rogo, un'altra terribile costante della storia - è riuscito a trasformarlo in una burla, in una festa assolutamente domestica, in cui fingendo di ribellarci, stringiamo ancora più forti le catene con cui siamo legati.
Nel 1559 Pieter Bruegel il Vecchio dipinge uno dei suoi quadri più famosi, La lotta tra Carnevale e Quaresima. L'artista non prende posizione, non sceglie nessuno dei due contendenti, entrambi caricature; in questo quadro così visionario i soli personaggi veri sono i poverissimi mendicanti, la cui condizione è descritta con crudo realismo. Per loro non c'era - e non c'è - carnevale, perché sono le vittime di questo ordine che abbiamo bisogno di sconfiggere.

venerdì 9 febbraio 2018

Considerazioni libere (422): a proposito di Pamela...


Sinceramente non credo che a Macerata si stesse meglio una volta, quando ci conoscevamo tutti, quando le famiglie erano tutte del posto, quando non c'erano gli immigrati, non si stava meglio quando si potevano tenere le chiavi attaccate alle porte e i bambini giocavano in strada e tutte le cose che di solito ci raccontiamo, fingendo di credere che fosse meglio allora di oggi. Mi perdoneranno gli amici di Macerata se uso come esempio la loro città; per qualche giorno, almeno fino al prossimo delitto, dovete rassegnarvi a essere citati di continuo. Parlo di Macerata, ma potrei parlare di qualsiasi altra realtà della provincia italiana, che sono più simili di quanto noi, così attaccati alle nostre radici, fino al campanilismo, vogliamo credere: tutta l'Italia è Macerata.
Si tenevano le chiavi attaccate alle porte, ma i ladri c'erano anche allora, solo che in gran parte delle case non c'era nulla da rubare. I bambini giocavano in strada, ma non andavano neppure a scuola, spesso lavoravano ed erano oggetto della violenza degli adulti. In quell'età dell'oro sempre vagheggiata era normale che i padri picchiassero le figlie e che i mariti facessero lo stesso con le mogli, solo che nessuno lo diceva, perché andava bene così. I preti erano ladri e predatori sessuali molto più di oggi, solo che nessuno lo avrebbe mai raccontato, i padroni potevano prendersi le donne che lavoravano per loro, perché a tutti, specialmente alle famiglie di quelle donne, andava bene così. Si conoscevano tutti, ma questo non vuol dire che si fidassero, anzi proprio perché si conoscevano tutti, non si fidavano, sapevano chi era cattivo e molti lo erano. Allora i poveri morivano come mosche: non si stava meglio. E non si stava meglio neppure se andiamo meno indietro, anche quelli della generazione, che hanno avuto modo di vedere da bambini la provincia prima - prima degli stranieri, prima di internet, prima dei telefonini - quando ci conoscevamo tutti, sanno che non era poi così idillica.
Non puoi riavvolgere il nastro, il mondo è cambiato e dobbiamo viverci così, ma senza accettare che continui a fare così schifo.
In questa storia c'è una vittima: Pamela, una giovane donna di appena diciotto anni.
Naturalmente è giusto che quelli che hanno dato l'eroina a Pamela, che ne hanno provocato la morte, che hanno smembrato e gettato il suo corpo, paghino per questi terribili reati, ma Pamela sapeva benissimo dove andare a procurarsi la droga a Macerata, come tutti noi sappiamo dove potremmo comprare droga nelle nostre città, se solo ci venisse voglia di farlo. Nelle nostre città, grandi e piccole, ci sono zone dedicate a questo, possiamo far finta che non ci siano, ma sappiamo che ci sono, tanto che diciamo ai nostri figli e alle nostre figlie di non andarci. E lo sanno le autorità, lo sanno le forze dell'ordine, perché sono consapevoli che si tratta di un fenomeno impossibile da debellare e in questo modo cercano di tenerlo sotto controllo: meglio sapere che gli spacciatori sono tutti intorno alla stazione piuttosto che averli sparsi per la città. Ovviamente non è colpa del questore di Macerata se Pamela è morta e non basterà una retata in quella città per risolvere il problema, ma non possiamo far finta di non sapere che Pamela è morta anche per questo.
Pamela è vittima ovviamente di quegli spacciatori, ma ci sono altre persone che hanno responsabilità per la sua morte. C'è chi l'ha caricata in auto e l'ha portata via dalla comunità, poi c'è l'uomo - per età poteva essere suo padre - che, probabilmente conoscendola, ha comprato il suo corpo per cinquanta euro, c'è il farmacista che le ha venduto una siringa, senza farsi neppure una domanda o forse avendo smesso di farsele, perché rimangono sempre senza risposta. Ci sono tutti quelli che hanno visto, ma non hanno guardato, perché Pamela era ormai ai nostri occhi una ragazza "persa", oggetto solo delle attenzioni di chi voleva un servizio veloce su una coperta in un garage o di chi aveva da vendere della droga. E poi c'è la storia di Pamela prima di questi due ultimi giorni di gennaio. Forse Pamela era una ragazza debole, forse non si sarebbe comunque salvata, ma non è solo colpa sua se è scivolata così in basso, se si è perduta fino a questo punto. E noi non siamo innocenti: Pamela aveva l'età per essere mia figlia e vorrei credere che se fosse stata mia figlia oggi sarebbe viva, ma non posso saperlo. Credo dovremmo pensare a lei come a una figlia che non abbiamo saputo proteggere. Pamela ci dice che siamo inadeguati.
E per paradosso oggi parliamo di lei, di questa vittima tra le vittime, perché un fascista ignorante ha deciso di sparare a caso sui "negri" di Macerata. Se non ci fosse stata quella tentata strage, se non ci fossero state le dichiarazioni dei politici in campagna elettorale, se non ci fosse stata la questione se andare o non andare a Macerata per una grande manifestazione, oggi non parleremmo di Pamela, che sarebbe al massimo un numero utile ad alimentare la statistica dei femminicidi. Ma in fondo neppure oggi parliamo di Pamela. 

giovedì 8 febbraio 2018

Verba volant (484): creatura...

Creatura, sost. f.

C'è uno scienziato geniale che compie una scoperta incredibile, ma quando riesce finalmente a metterla in pratica, non riesce a controllarne gli effetti e quello che poteva essere un beneficio per il genere umano si rivela una sciagura. Come avete capito si tratta, in estrema sintesi, della trama del romanzo di Mary Shelley Frankenstein, o il moderno Prometeo, pubblicato nel 1818, appena due secoli fa.
Ci ho pensato leggendo che un gruppo di ex dipendenti di Google e Facebook hanno creato un'associazione, chiamata Center for humane tecnology, che ha l'obiettivo di organizzare delle campagne educative per l'uso responsabile delle nuove tecnologie e di denunciare i rischi che queste comportano, specialmente per i più giovani. Si tratta di qualcosa che conoscono assai bene, perché sono gli stessi che hanno realizzato quegli strumenti da cui ora ci mettono in guardia. E che, per inciso, stanno usando anche adesso per questo fine che è senz'altro lodevole.
Credo che queste persone facciano un lavoro importante, perché ci descrivono meccanismi di condizionamento di cui siamo tutti vittime, per lo più inconsapevoli, i cui effetti ora non possiamo nemmeno immaginare. E che ci vorrebbe un'artista come Mary Shelley capace di raccontare. In questo gruppo c'è tra l'altro Justin Rosenstein, l'inventore del like su Facebook, che spiega come quel gesto apparentemente insignificante, che ripetiamo non so quante volte in un giorno, rischi di diventare una specie di dipendenza. Tutti noi che usiamo regolarmente i social - e non facciamo finta di non usarli, perché non saremmo qui, come quando diciamo di non guardare Sanremo mentre siamo davanti alla televisione a criticarne le canzoni - sappiamo che se mettiamo una foto accanto a quello che scriviamo avremo più like, che se in quella foto c'è un qualche ammiccamento sessuale i like aumenteranno sensibilmente, che se usiamo qualche parola "forte" sarà più facile essere letti e così via. Sono trucchi che usiamo, più o meno consapevolmente, e che hanno un rischio, perché quando tutti li useremo regolarmente dovremo trovarne altri, affinché i nostri post emergano, in una spirale in cui si alimenta la volgarità e la sensazione. E anche molte fake news nascono così, al di là di chi lo fa consapevolmente. Perché quei like in qualche modo ci gratificano, perché li aspettiamo, ce ne sono alcuni che aspettiamo più di altri, così come da adolescenti aspettavamo uno sguardo o un sorriso dalla nostra ragazzina dai capelli rossi. E quel riaggiornare continuamente la pagina diventa come passare il tempo a tirare la leva di una slot machine: diventiamo dipendenti, aspettiamo la "mano fortunata", apparentemente a rischio zero, perché non dobbiamo ogni volta mettere una monetina, ma c'è il piacere dell'attesa, che per lo più si traduce in una nuova pubblicità, magari la stessa pubblicità scientificamente ripetuta, che ci induce a comprare quel prodotto piuttosto che un altro o soprattutto quel prodotto di cui non abbiamo affatto bisogno.
Come due secoli fa, ai tempi del dottor Frankenstein e della sua creatura, non fu possibile fermare la scienza, anzi furono proprio gli anni in cui la scienza cominciò quella corsa senza freni di cui ora godiamo gli effetti, ora non ha senso fermare la tecnologia o vietarla, come pure qualcuno tenta di suggerire, magari sulla scorta di studi come quello portato avanti da questi cosiddetti "pentiti della Silicon valley". Non possiamo fermare qualcosa che è inarrestabile in natura e di cui conosciamo anche gli aspetti positivi. E poi non possiamo cambiare la natura umana, perché i social, come la scienza, non l'hanno modificata, ne hanno solo esasperato alcuni tratti, per alcuni aspetti l'hanno resa più fragile, ma noi siamo sempre quelli, che abbiamo paura della "creatura" di Frankenstein, ma non possiamo smettere di leggere il romanzo di Shelley, perché quella lettura ci regala piacere, che accettiamo i condizionamenti perché ne abbiamo bisogno. Siamo animali con degli istinti piuttosto elementari e con questi istinti dobbiamo imparare a convivere.
Ma accettare questa ineluttabilità della natura umana, non significa anche accettare che qualcuno possa sfruttarla per addomesticarci, per renderci mansueti, per farci fare quello che altri vogliono che facciamo. In fondo la nostra storia su questa terra sta in tutta in questo conflitto e quello che possiamo fare è offrire strumenti a chi verrà dopo di noi per combattere, senza dover ricominciare sempre dall'inizio. 

martedì 6 febbraio 2018

Verba volant (483): diplomazia

Diplomazia, sost. f.

E' una delle tante parole che derivano dal greco antico. Infatti in quella lingua diploma significa, come dice il Pianigiani con uno dei suoi termini desueti, cosa addoppiata: si trattava di uno scritto piegato in due, doppio appunto, emanato da un'autorità pubblica che determinava particolari privilegi o definiva particolari obblighi. Di questo significato antico rimane traccia nella nostra lingua nella diplomatica, uno dei dolci più tradizionali della pasticceria italiana - nato nel Mezzogiorno - che deriva il proprio nome dal fatto di essere farcito con una crema diplomatica, ossia doppia, metà crema pasticcera e metà chantilly. Solo alla fine del Settecento, e attraverso il francese, che allora era la lingua dei rapporti internazionali - ad esempio il Congresso di Vienna si svolgeva in questa lingua, che pure era quella del paese sconfitto - questa parola è passata a indicare l'arte di trattare, per conto dello stato, gli affari di politica internazionale, e quindi gli organi che di questi affari si occupano.
So bene che uno dei compiti della diplomazia è quello di parlare con i nemici e quindi non mi pare strano che i diplomatici di tutti i paesi, compreso il nostro, tengano relazioni stabili, attraverso i loro omologhi di quel paese, anche con uno stato come la Turchia, che per il suo ruolo e la sua forza non possiamo fare finta che non esista. Però è un altro conto organizzare una visita di stato del presidente turco in Italia, con tutto quello che comporta, anche da un punto di vista simbolico e cerimoniale.
Chi rappresenta oggi le istituzioni italiane ha fatto una scelta, immagino legittima da un punto di vista politico, anche se in aperto contrasto con lo spirito della Costituzione, decidendo di incontrare in questo modo il boia di Ankara e non basta rilasciare un comunicato dicendo che il colloquio tra lui e Mattarella è stato "franco". Questo non vi salverà la coscienza. Avete detto a Erdogan che il suo governo sta commettendo un crimine imprigionando migliaia di oppositori politici? Non ero in quella stanza e non so che parole franche abbiate usato, anche se fatico a immaginare Mattarella che urla contro Erdogan rinfacciandogli il colpo di stato dei mesi scorsi. Ma ammettiamo pure che per una volta don Abbondio si sia incazzato. Non si può dire, perché le regole della diplomazia vietano di dirlo e quindi di questa visita rimarranno le foto delle strette di mano e dei corazzieri sull'attenti davanti a un criminale.
Avere un'idea radicalmente diversa della politica è anche immaginare che, pur mantenendo un'ambasciata ad Ankara, nessun rappresentante delle istituzioni repubblicane dovrebbe dare la mano o parlare a uno come Erdogan. E magari incontrare, in forma ufficiale, le vittime della repressione, le famiglie dei prigionieri politici, i rappresentanti dell'opposizione e della stampa libera. Oppure, se Erdogan dovesse venire comunque a Roma, magari per incontrare il capo di un piccolo stato straniero che sta dentro i nostri confini, dedicare quella giornata a Nazim Hikmet, tappezzare i muri della città di sue poesie, per ricordare che esiste anche un'altra Turchia. Come vorremmo che esistesse davvero anche un'altra Italia.

venerdì 2 febbraio 2018

Verba volant (482): sfida...

Sfida, sost. f.

Non serve la palla di vetro per sapere cosa succederà nel nostro paese dopo il 4 marzo. Il Movimento Cinque stelle sarà il primo partito, ma - grazie a come è stata congegnata questa ennesima pessima legge elettorale - non avrà la maggioranza per formare un governo; toccherà quindi al pd e a Forza Italia - poco importa chi vincerà tra questi due la volata per la piazza d'onore - far nascere un nuovo esecutivo - anche se ci saranno poche differenze con quello che abbiamo adesso, a partire dal nome del presidente del consiglio - benedetto dal Quirinale, dall'Europa, dalla Cei, da Draghi, da Repubblica e dal Corriere, insomma dalla solita compagnia di giro. Ovviamente sarà un governo che imbarcherà molti "responsabili", compresi un po' di quelli di Liberi e Uguali, che, dietro alla promessa di escludere la Lega, saranno ben lieti di portare il loro soccorso "rosa pallido" a questa neonata coalizione. Mi dispiace per i tanti ex-compagni di buona volontà che voteranno convintamente per quel partito così poco utile, ma il 5 marzo Liberi e Uguali sarà già un ricordo e Grasso l'ennesimo magistrato prestato alla politica sul viale del tramonto, come un Ingroia qualsiasi.
Nel complesso quello del 4 marzo sarà tutto un voto sostanzialmente inutile, perché ci hanno già autorevolmente spiegato che il prossimo governo, al di là di chi lo guiderà, al di là della sua composizione, dovrà essere fedele alle linee scritte in altre sedi: privatizzazione dei servizi pubblici, precarizzazione del lavoro, riduzione al lumicino del welfare universale, a partire dalle pensioni, riduzione della tassazione diretta a favore di quella indiretta. Insomma il prossimo governo sarà, come tutti quelli che lo hanno preceduto, un governo di classe, della "loro" classe, un governo che favorirà i ricchi e i padroni. Grazie a Berlusconi e al ritorno in forza delle gerarchie cattoliche, non ci saranno neppure quei pochi diritti civili, che sono serviti in questi cinque anni a dare una parvenza progressista ai governi a guida pd. Di fronte all'inutilità del nostro voto la cosa migliore sarebbe stata annullare la scheda: io almeno pensavo di fare così. Fino alla nascita di Potere al popolo!.
Mi sto convincendo che un mio voto a questo partito sia utile. Ovviamente Potere al popolo! non vincerà le elezioni, né avrà la forza per sostenere la nascita di un governo progressista, e quindi apparentemente il nostro voto sarà solo di testimonianza, ma ci sono momenti storici in cui anche una testimonianza è importante. Questo mio voto sarà utile perché permetterà a Potere al popolo! di superare lo sbarramento del 3% e quindi di mandare una pattuglia di sinistra, per quanto numericamente esigua, in parlamento. Anche in questo caso credo dobbiamo essere chiari tra di noi, eletti ed elettori di Potere al popolo!, non dobbiamo aspettarci che questi pochi nostri parlamentari abbiano la forza di cambiare le cose, anche loro dovranno stare lì nei prossimi cinque anni a testimoniare che esiste un'altra Italia, un'altra sinistra. E lo dico ora per allora: anche se il 5 marzo scoprissimo che non ce l'abbiamo fatta, che i nostri voti sono stati troppo pochi per mandare quei nostri compagni in parlamento, non dobbiamo disperarci né considerarci sconfitti. Non è questa la battaglia che conta, non è questa la cosa davvero importante.
Se ci penso, trovo questo mio invito ai compagni di Potere al popolo! perfino un po' paradossale. Mi spiego. Io sono stato politicamente educato a credere nell'importanza delle istituzioni e che fosse necessario che noi di sinistra facessimo tutto il possibile per assumerci responsabilità all'interno di esse. Io sono uno di quelli che ha cominciato presto a governare, perché mi avevano insegnato che era giusto così. Nel corso di quella mia lunga e bella esperienza mi è capitato di trovarmi in contrapposizione con compagni che consideravano sbagliato questo nostro approccio, lo giudicavano troppo di "destra" e preferivano un'opposizione sociale, uno dei cui bersagli eravamo anche noi, quelli di sinistra che erano passati al "lato oscuro". Adesso sono quei compagni là che hanno messo in piedi questa forza politica per dare una rappresentanza parlamentare a un movimento che è sociale prima di essere politico, e io mi ritrovo invece dall'altra parte, a pensare che si tratti di uno sforzo non molto utile, che sosterrò comunque con il mio voto, ma che non considero essenziale. Probabilmente sono cambiato più io di quanto siano cambiati loro. E credo sia un bene, visti i danni che quelli come me hanno provocato.
Al di là di questa notazione, credo però che - al di là del risultato della lista, che speriamo sia migliore di quello che si immagina questo vecchio menagramo - tutto questo serva a far vedere cosa si muove nelle viscere della sinistra italiana. E' importante che sia nata Potere al popolo! - la declino così, perché vorrei fosse femmina - ma è ancora più vitale che continui a vivere a Napoli l'esperienza del centro sociale Je so' pazzo, nato nell'ex-ospedale psichiatrico del rione Materdei, dove funzionano un ambulatorio che offre visite mediche gratuite, un centro per i migranti, una squadra di calcio, un teatro, una palestra, tutto quello che una volta i nostri vecchi avrebbero ospitato in una casa del popolo. Quel centro sociale - come altre realtà simili che ci sono in giro per l'Italia, senza che nessuno ne parli - rappresenta qualcosa di più, perché è nato in uno spazio pubblico abbandonato, come ce ne sono tanti nel nostro paese, e che sarebbe diventato preda del mercato, è stato uno spazio sottratto al capitale, dove si fa opposizione quotidiana al capitale.
Noi perderemo le prossime elezioni, sappiamo che non possiamo vincerle, non ce le farebbero neppure vincere. Ma davvero non è importante adesso sedere nei loro parlamenti "borghesi", come si diceva una volta. Adesso abbiamo bisogno di fare opposizione, di essere noi stessi opposizione, di dire, fino allo sfinimento, che questo sistema non ci va bene, perché è ingiusto, perché è crudele, perché - anche questo si diceva una volta - è basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, come sull'ambiente, perché quando crea ricchezza lo fa solo per pochissimi e per tutti gli altri crea solo miseria. Sarà un lavoro lunghissimo che non si farà in parlamento, ma solo nelle strade, anche in queste virtuali che percorriamo ogni giorno. Dobbiamo ricostruire una comunità prima ancora di ricominciare a fare politica o forse dobbiamo ricominciare a fare politica ricostruendo una comunità. Già questo sarà una rivoluzione.     

giovedì 1 febbraio 2018

"Il Nobel della lettura" di Nicanor Parra


Il Nobel della Lettura
dovrebbero darlo a me
che sono il lettore ideale
e leggo tutto ciò che trovo:
leggo i nomi delle strade
e le insegne luminose
e i muri dei bagni
e le nuove liste di prezzi
e la cronaca nera
e i pronostici del derby
e le targhe delle auto.

martedì 30 gennaio 2018

Verba volant (481): cavia...

Cavia, sost. f.

Cavia è il nome scientifico che alla fine del Settecento lo zoologo tedesco Peter Simon Pallas diede a quel piccolo roditore che in italiano è conosciuto come porcellino d'India. A dire il vero questa prolifica famiglia di animali non è originaria della terra del Gange, ma dell'America meridionale, e infatti in inglese la cavia si chiama Guinea pig, probabilmente per una storpiatura del termine Guiana. Diciamo che, almeno linguisticamente, a questi simpatici animaletti è successo quello che è capitato ai nativi americani, che noi continuiamo ancora a chiamare indiani, per quell'antico errore di Cristoforo Colombo che voleva buscar el levante por el poniente. Prima della classificazione di Pallas in tedesco questo animale si chiamava soltanto Meerschweinchen, letteralmente piccolo maiale di mare, perché probabilmente la carne di questi animali serviva a sfamare gli uomini che compivano la traversata dell'oceano.
Le cavie, grazie alla loro prolificità, sono diventate nel corso dell'Ottocento e per tutto il Novecento gli animali su cui con più frequenza venivano fatti gli sperimenti scientifici, erano testati i nuovi farmaci ed erano valutate le risposte fisiologiche a degli stimoli. Questi piccoli animali sono stati i protagonisti sconosciuti e inconsapevoli dell'incredibile progresso scientifico di cui oggi tutti noi godiamo gli effetti, anche quando ne temiamo le possibili conseguenze e ne critichiamo i metodi (ad esempio per l'utilizzo delle cavie); e infatti questa parola è diventata di uso comune per indicare tutti gli animali - compresi gli uomini - oggetto di sperimentazione animale.
Grazie alla scoperta di alcuni quotidiani tedeschi abbiamo saputo che gli scienziati dell'università di Aquisgrana hanno testato gli effetti dei gas di scarico su una serie di persone, che avevano accettato consapevolmente di fare quel lavoro. Ora quel laboratorio non è più in attività e i responsabili delle più importanti case automobilistiche tedesche - destinatari di quei test - hanno recisamente smentito di sapere che erano state utilizzate cavie umane.
Una volta, quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'occasione di vedere uno di questi esperimenti con i roditori. Credo che in quel caso - come ormai avviene oggi nella grande maggioranza dei laboratori scientifici - si trattasse di topi, visto che questi animali sono più facili da trovare delle cavie. Quei piccoli topi bianchi "abitavano" in tante piccole cellette poste una sull'altra a formare una sorta di grattacielo e quei loro piccoli "appartamenti" erano sottoposti, ovviamente in scala ridotta, allo stesso livello di onde elettromagnetiche che arrivano quotidianamente, a ogni ora del giorno e della notte, nelle nostre case. Quei topini, che stavano sicuri e al caldo in quelle loro tane artificiali e ricevevano ogni giorno la giusta dose di acqua e di cibo, eravamo noi che abitiamo nelle nostre case, sostanzialmente ignari di tutto quello che ci gira intorno, ci colpisce senza che lo percepiamo e lentamente ci uccide. Si trattava di un esperimento molto serio, condotto da scienziati che lavoravano - e lavorano - per il nostro benessere, che serviva per capire quanto siano pericolose le onde elettromagnetiche e quanto debbano essere ridotte per non danneggiarci.
Al di là delle ottime intenzioni di quegli scienziati, continuo a ricordarmi di quei topi. Di quanti esperimenti noi siamo cavie ignare, tutti i giorni?
Ogni giorno su di noi, mentre siamo chiusi nelle nostre cellette così confortevoli, vengono testati nuovi prodotti, ogni giorno veniamo sottoposti a nuovi stimoli - a volte elaborati, a volte elementari - affinché decidiamo di comprare quello shampoo o di votare per quel partito. Ogni giorno vengono fatti su di noi degli esperimenti. Quegli scienziati vedono quanto possiamo sopravvivere dopo averci inquinato l'acqua e l'aria e come ci adattiamo a un ambiente sempre meno ospitale. Sperimentano quanti di noi possono stare in una barca prima che questa affondi, fino a che punto la disperazione della nostra condizione ci fa dimenticare i pericoli che un viaggio su quelle barche può comportare, dove siamo disposti a spingerci pur di salvare le persone a cui vogliamo bene, cosa siamo disposti a vendere - il nostro corpo, il nostro lavoro, la nostra intelligenza, la nostra dignità - pur di garantire un futuro diverso per i nostri figli, quante ingiustizie possiamo sopportare senza chiederne conto. Ma sperimentano anche quanto odio possiamo provare verso i nostri simili, quante altre cavie come noi siamo disposti a sfruttare, a tradire, a uccidere; mentre aspettiamo tranquilli la nostra porzione di fieno. 

domenica 28 gennaio 2018

Verba volant (480): candidato...

Candidato, sost. m.

L'etimologia di questa parola è molto semplice, quasi intuitiva, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Nell'antica Roma chi si presentava al popolo per essere eletto a una qualche carica indossava una toga bianca, candida appunto, a simboleggiare la propria onestà; per lo stesso motivo, seppur in un'altra epoca, si usava che le spose vestissero di questo verginale colore. Immagino che già gli antichi abitanti dell'Urbe, che ne avevano viste parecchie, fossero piuttosto scettici di fronte a quel nugolo di toghe immacolate che nei giorni precedenti le elezioni passeggiavano per il foro. Per fortuna i tempi sono cambiati e al giorno d'oggi i candidati possono vestirsi - e svestirsi - come vogliono; e possono anche essere palesemente disonesti. 
La discussioni e le polemiche di questi giorni intorno alle liste mi hanno fatto tornare in mente una storia accaduta solo ventiquattro fa, nel marzo del 1994, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche di quell'anno, le prime con il sistema maggioritario. Noi del Pds avevamo dato vita alla coalizione dei Progressisti, passata alla storia per l'infelice definizione dell'allora segretario Achille Occhetto come la "gioiosa macchina da guerra". I collegi dell'Emilia-Romagna erano "sicuri", avrebbe vinto il candidato dei Progressisti chiunque fosse, e quindi furono diversi gli alleati paracadutati qui da ogni parte d'Italia e anche i dirigenti nazionali del nostro partito che preferirono farsi votare qui piuttosto che nelle loro città. Nel collegio 19 della Camera - che comprendeva anche Granarolo - venne candidato Ottaviano Del Turco. Al di là del giudizio sulla persona - che ricordo con piacere - fummo i più sfortunati della provincia, perché sui rapporti tra noi e i socialisti pesava ancora, e molto, Craxi: per noi sarebbe stata una campagna elettorale non delle più semplici. Ricordo le riunioni in sezione, i mugugni dei compagni, ma alla fine il candidato era quello, anzi i compagni di Bologna ci spiegarono che la scelta non era così strana, dal momento che in alcuni comuni importanti del collegio - come Budrio - il Psi era ben radicato e poi c'era anche Molinella, da sempre roccaforte dei "saragattiani": in queste particolari circostanze Del Turco sarebbe stato il candidato ideale. Ci parve una giustificazione stiracchiata, ma cominciammo a lavorare e fu una bella campagna elettorale. Per inciso ricordo che le maggiori difficoltà in quelle settimane furono causate proprio dai socialisti del nostro territorio, che non amavano quel loro dirigente per come si era opposto a Craxi e che non fecero nulla per facilitarci il lavoro. Peraltro Del Turco ci chiese di visitare molte fabbriche, cosa su cui nutrivamo qualche dubbio visto che per i nostri compagni era quello che aveva spaccato la Cgil sul referendum della scala mobile; ma anche questi incontri andarono bene, perché spesso era lui per primo che affrontava la questione, e non evitava di parlarne: la sua franchezza e la passata comune militanza sindacale furono premiate.
Per me quella fu la prima volta in cui ebbi l'opportunità di uscire dal mio paese per fare politica. Si costituì una sorta di coordinamento con rappresentanti di tutti i comuni e di tutte le forze politiche, affidato dalla Federazione alla capacità e alla pazienza di Paola Bottoni, e io fui indicato come il rappresentante di Granarolo. Oltre a Paola, e ai compagni di Castenaso che conoscevano mio padre e questo a loro bastava per conoscere anche me, conobbi alcuni compagni - voglio ricordare per tutti Augusto Dallacasa - con cui avrei lavorato in molte occasioni negli anni a venire: in qualche caso mi toccò fare la parte del compagno di Bologna che doveva giustificare, in qualche modo più o meno convincente, una candidatura non gradita.
Vincemmo nel collegio 19, vincemmo praticamente in tutti i collegi delle cosiddette "regioni rosse", ma quelle elezioni le vinse - come noto - Berlusconi e cominciò tutta un'altra storia.
Credo che possiate legittimamente chiedermi perché vi ho parlato di questa storia. Francamente non lo so. Probabilmente solo per il gusto di raccontarvi qualcosa. O forse per ricordare a voi - e anche a me - che non conta tanto il modo di scegliere i candidati - che può essere pessimo, come gli indecorosi spettacoli a cui abbiamo assistito in questi giorni da parte di quasi tutte le forze politiche, ma che non è mai perfetto, perché il sistema perfetto non esiste - e non contano neppure tanto i candidati scelti in questi vari modi - che possono essere pessimi, come gran parte di quelli che ci saranno propinati nelle prossime settimane, e che non saranno mai perfetti, perché anche noi elettori non lo siamo - ma quello che conta davvero è la politica. Allora mi pare che provassimo a farla, poi non la facemmo bene visto quello che è successo in questi ventiquattro anni. Ma almeno possiamo dire di averci provato. Sarebbe bello che qualcuno tornasse a provarci.     

mercoledì 24 gennaio 2018

Verba volant (479): programma...

Programma, sost. m.

Programma è una parola del greco antico arrivata, attraverso il latino, senza alcuna modifica fino a noi e significa propriamente ciò che è scritto prima. Ad Atene il programma era il messaggio scritto dai pritani e affisso in vari punti della città affinché tutti i cittadini potessero sapere quale sarebbe stato l'argomento discusso in assemblea. Questo semplice mezzo di comunicazione ci chiarisce quindi un punto chiave della democrazia ateniese dell'età classica. I pritani erano i cinquanta magistrati, scelti attraverso un rigido meccanismo di sorteggio, a cui era affidato il compito di gestire i lavori della ecclesia, ossia dell'assemblea di tutti i cittadini di Atene, il massimo organo a cui era demandato il potere legislativo della polis. I pritani erano quindi semplici cittadini che per poco più di un mese erano chiamati a svolgere un incarico per il proprio paese e che per questo venivano pagati con un'indennità giornaliera e ricevevano un pasto, che consumavano in comune. Erano artigiani, contadini, marinai, potevano essere ricchi proprietari di terra o spiantati che non avevano un lavoro: proprio per questo rappresentavano tutti quelli che partecipavano all'assemblea, e tutti avevano la possibilità - tutt'altro che teorica - di diventare pritani a loro volta, anche perché ogni ateniese poteva avere questo onore al massimo due volte nella vita. Perché questo non semplice sistema istituzionale funzionasse occorreva una condizione essenziale, che tutti i cittadini ateniesi sapessero leggere e scrivere, anche perché non esisteva una burocrazia che supportasse il loro lavoro. 
Non ci sono ragioni per mitizzare quel sistema, che poteva funzionare soltanto in una piccola comunità: prima che scoppiasse la guerra del Peloponneso Atene - con la sua campagna attica - era una città di circa duecentomila abitanti, più o meno come il solo centro urbano di Parma. Ma non bisogna dimenticare che la democrazia ateniese escludeva gli stranieri, gli schiavi e le donne. I cittadini maschi liberi e adulti, che quindi potevano partecipare all'assemblea, erano circa quarantamila. Comunque quei quarantamila, indipendentemente dalla loro nascita e dalle loro ricchezze, riuscivano a comprendere un testo scritto e, seppur con qualche difficoltà in alcuni casi, potevano scriverlo, quindi erano in grado di scrivere e leggere il programma. La democrazia può nascere soltanto così, quando le persone chiamate a parteciparvi sono messe in condizione e sono state educate per farlo.
C'è stato un tempo lontano - ma non lontano come l'Atene di Pericle - in cui io per lavoro facevo le campagne elettorali. In quel tempo mi è capitato di contribuire a scrivere qualche programma elettorale: evidentemente già allora avevo questa mania, di cui ora siete voi a fare le spese. Credo che poche cose al mondo siano così poco lette come quei documenti, che pure tutti evocano e invocano. Quante volte abbiamo sentito la frase ci vuole il programma? Quante volte lo abbiamo chiesto anche noi, salvo poi non leggerlo una volta pubblicato.
Facciamoci un esame di coscienza: abbiamo mai letto davvero tutto un programma elettorale? No, perché non ci serviva, perché ci hanno insegnato a dare il nostro voto non per quello che c'è scritto in un programma, ma in forza di un sistema di valori. Il vero motivo per cui ci sentiamo così estranei oggi alla politica è proprio questo: il fatto che sistematicamente i valori sono stati sradicati dalla politica e si è lasciata al loro posto una terra arida, senza alcuna radice.
Anche i cittadini di Atene davano il loro voto in assemblea in base a sistemi di valori radicati e contrapposti: c'erano quelli più conservatori e quelli più progressisti, quelli che sostenevano una politica egemonica e quelli che pensavano fosse necessario trovare un accordo con le città avversarie, quelli che volevano favorire le attività commerciali e quelli che invece preferivano basarsi sull'economia agricola. Poi naturalmente c'era la capacità di alcuni leader di imporsi in città e di dare vita a qualcosa di molto simile a un partito. Poi c'erano interessi molto meno nobili, perché i voti potevano anche essere comprati e venduti. E in un'assemblea di migliaia di persone c'erano fattori spesso imprevedibili: un discorso davvero efficace e ispirato era capace di spostare le emozioni e i voti di una maggioranza dei cittadini, anche se per solo una giornata. Per questo l'assemblea di Atene era per lo più incontrollabile. Comunque sia né Pericle né Cimone né gli altri leader ateniesi hanno mai dovuto scrivere un programma elettorale; e nessuno di quelli che votavano per loro glielo ha mai chiesto.
Come nessuno ha mai chiesto di conoscere il programma del Pci e della Dc, nessuno ha mai chiesto di sapere ciò che è scritto prima, perché sapevamo già cosa avrebbero fatto - o non fatto - dopo: bastavano i valori, le idee, e gli uomini e le donne che li rappresentavano. Poi c'erano tutti gli aspetti meno commendevoli che abbiamo già visto nell'Atene classica: l'adesione acritica verso un leader, il voto scambiato per una qualche prebenda, la difesa del proprio particulare fingendo di occuparsi del bene pubblico. Ma al di là di tutto c'erano dei valori e questi bastavano. E questi non potranno mai essere sostituiti da un programma, per quanto completo e articolato, per quanto ben scritto. 
E anche stavolta, nonostante raccontiamo - ai noi stessi più che agli altri - che voteremo questo o quel partito perché ne condividiamo il programma, per quello che hanno scritto prima, noi voteremo qualcuno ancora in base alle nostre idee, sperando che quello che farà dopo non sia troppo diverso da queste. Una speranza che svanirà molto velocemente.

sabato 20 gennaio 2018

Verba volant (478): maestro...

Maestro, sost. m.

Magari possiamo crederlo quando siamo ragazzi, ma invecchiando scopriamo che non è vero che gli eroi son tutti giovani e belli. E crescendo scopriamo anche che i nostri maestri non sono le persone che pensavamo che fossero. Scopriamo che gli scrittori, gli artisti, i filosofi che ci hanno insegnato a vivere, che hanno formato la nostra personalità e la nostra cultura, non sono le persone che ci eravamo immaginati dalle loro opere. Scopriamo che erano bugiardi, adulteri, giocatori, invidiosi, ladri e anche peggio, ma, nonostante tutto, mostriamo verso di loro indulgenza, perché siamo grati di quello che ci hanno lasciato - e spesso le loro opere sono figlie di questi vizi - e anche perché quelle colpe sono anche le nostre. Siamo indulgenti verso di loro perché lo siamo verso di noi e perché riusciamo sempre a trovare una giustificazione per noi, e quindi anche per loro.
Ma cosa succede quando la colpa è qualcosa di terribile, qualcosa per cui non riusciamo a provare indulgenza? Cosa succede quando un artista che amiamo fa qualcosa per cui proviamo orrore, è colpevole di qualcosa di così grave da far vacillare persino la nostra idea, così saldamente radicata, che nessun reo meriti la morte? La violenza verso i bambini è per me - come credo per moltissimi di voi - uno di questi crimini che non possono avere né giustificazione né perdono. E se di questo crimine viene giudicato colpevole un mio maestro? Continuerò a considerarlo tale? Continuerò a leggere, a guardare, a studiare le sue opere?
Non si tratta di un caso di scuola, di una sorta di esercitazione filosofica, ma di qualcosa di cui devo occuparmi perché uno dei registi che amo di più, l'autore di Io e Annie Zelig e di molti altri film, è accusato di aver molestato la propria figlia adottiva, quando aveva solo sette anni. Vorrei non fosse così, lo vorrei soprattutto per la vita di quella giovane ragazza che comunque è la vittima di questa storia, perché, anche nel caso che le accuse fossero inventate, si troverebbe al centro di un drammatico e implacabile conflitto familiare, di cui lei certamente non ha colpa.
Accettiamo che le accuse siano vere - sono comunque verosimili - e credo che abbiano fatto bene alcuni attori - da ultimo è stato Colin Firth - ad annunciare che non sono più disponibili a lavorare con Woody Allen, anche se questo atteggiamento, se diventasse condiviso da molti, potrebbe portare al fatto che il regista newyorkese non potrà più fare film. Ma cosa dovremmo fare con i film che ha già fatto? Dovremmo smetterli di guardarli, di consigliarli, di considerarli bellissimi, come effettivamente sono? Dovremmo smettere di cercare di capire il rapporto tra donne e uomini attraverso quei film? E nessuno sa raccontare le donne come lui. Dovremmo rinunciare a interrogarci sulla colpa e sull'identità, altri temi sempre presenti nell'opera di Allen? O dovremmo smettere di ridere o di essere cullati dalla nostalgia, perché il loro autore è un molestatore di bambini?
Maestro deriva da una forma contratta del latino magister, che ha la stessa radice di magnus, grande, e ne è un comparativo: il maestro è etimologicamente colui che è più grande di noi e quindi ha il diritto di insegnarci. Un maestro che commette una colpa così grave non è più grande di noi e quindi dovrebbe perdere tale diritto. Però ci sono le sue opere e quelle continuano a fare quello che devono. Capisco che può apparire gesuitica e ipocrita questa distinzione tra l'autore e le sue opere, eppure mi pare l'unico modo per affrontare questo tema così delicato.
In Crimini e misfatti, un altro dei grandissimi film di Allen, l'unico personaggio positivo pare il professor Louis Levy, l'intellettuale capace di capire il dramma degli uomini e di trovarne una possibile soluzione. Nel documentario che girano su di lui il professore dice tra le altre cose:
La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione, siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all'universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembra avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici: nel loro lavoro, nella loro famiglia e nella speranza che le generazioni future possano capire di più.
Il professore sembra aver trovato il senso della vita, ma la registrazione del documentario deve essere interrotta, perché il professor Levy si suicida, contraddicendo con questo gesto estremo tutte le sue parole.
Spesso i maestri non sono i più grandi, forse non è neppure necessario che lo siano. E se i maestri fossero sopravvalutati, se fossimo più importanti noi che impariamo dai nostri e dai loro errori? Perché alla fine non possiamo dare la colpa ad altri di quello che siamo e neppure pensare che sia merito di altri: siamo noi responsabili di quello che siamo, nel bene e nel male. E soprattutto per le cose buone che avremo fatto e per quelle cattive, perché tutti commettiamo le une e le altre: non c'è bianco e nero, ma solo una vastissima gamma di grigi. E per questo saremo giudicati e ricordati: discepoli e maestri.

mercoledì 17 gennaio 2018

Considerazioni libere (421): a proposito di una donna vittima degli uomini...

Ci sono artisti capaci di superare le barriere del tempo: Giuseppe Verdi è senz'altro uno di questi. Mia moglie ed io abbiamo avuto la fortuna di assistere al Regio di Parma a un bellissimo allestimento del Rigoletto. Si è trattato di un'occasione speciale e unica: celebrare i cinquant'anni in cui il grande baritono Leo Nucci ha interpretato questo ruolo, in oltre cinquecento rappresentazioni in ogni parte del mondo.
È stato ripreso uno storico allestimento della fine degli anni Ottanta, senza alcun tentativo di attualizzare l'opera - come troppe volte si tenta di fare, con risultati non sempre felici - eppure, guardato e ascoltato oggi, con la sensibilità di oggi, pensando a quello che succede ogni giorno intorno a noi, Rigoletto ci racconta una storia i cui tratti essenziali sono assolutamente attuali.
Il duca di Mantova è un predatore sessuale, un maschio che gode unicamente della conquista, incapace di provare una qualsivoglia forma di amore, perché questa o quella per me pari sono. Non è consapevole del dolore che lascia dietro di sé, il suo unico obiettivo è appagare il proprio piacere. Un tipo del genere dovrebbe essere fermato, ma è un uomo di potere e quindi questa sua voracità sessuale non può essere sanzionata, anzi viene non solo tollerata, ma in qualche modo assecondata da chi sta intorno a lui, cortigiani vil razza dannata. Basta aprire un qualsiasi giornale per vedere le vicende di tanti uomini come il duca, uomini che usano il loro potere per soddisfare i propri appetiti ai danni delle donne e che, come il duca, sanno sempre trovare una giustificazione del loro comportamento. L'ultima aria cantata dal duca è la celeberrima La donna è mobile, una canzonaccia da osteria, per quanto resa sublime dalle note di Verdi. Il duca ci dice che non è colpa sua, ma è colpa delle donne che sono volubili e che si offrono: è il se l'è cercata, che diventa l'alibi di qualunque predatore.
Rigoletto è un padre egoista, un uomo che, pur dicendo che fa tutto quello che fa per amore della figlia, è concentrato solo su se stesso. Il mondo di Rigoletto comincia e finisce in lui e la figlia deve vivere in questo mondo asfittico in cui c'è un solo dominus. Rigoletto ama la figlia in maniera smisurata, ma come estensione di sé e per proteggerla la tiene esclusa dal mondo, le nasconde perfino il proprio nome, le impedisce di vivere. E anche Rigoletto, come il duca, non arriva mai a essere consapevole della propria colpa. Di fronte al corpo senza vita della figlia, uccisa per la sua cieca brama di vendetta, il buffone non riconosce la propria responsabilità, ma incolpa la maledizione lanciata su di lui. Questo urlo, che chiude il dramma, suggella l'ennesima fuga dalle proprie colpe. E quante volte abbiamo sentito le parole di un padre come Rigoletto: l'ho fatto per il suo bene, perché lei non poteva capire, ho dovuto decidere io per lei. No, tua figlia capiva benissimo, ma tu non eri capace di accettare le sue decisioni, non volevi accettarle, perché l'hai sempre considerata una tua proprietà.
Gilda è la vittima di questi due uomini ed è la sola che muore. Eppure Gilda li ama, anzi è l'unica capace di amare davvero. Ama suo padre, nonostante la tenga reclusa, nonostante non le abbia mai insegnato a vivere, si sforza di capire il dramma di quell'uomo e si convince che accettare quella forzata prigionia lo faccia star meglio. E la accetta, anche se ne soffre. Ama il duca di Mantova, lo ama nonostante lo veda mentre la tradisce, mentre dice a un'altra le stesse parole che ha detto a lei, e lo ama al punto da sacrificarsi per lui, anche se sa che non lo merita e che lui non conoscerà mai questo sacrificio. Quante donne sono state vittime di questo amore sbagliato, di questo amore che le ha rese cieche, anche all'evidenza. Quante donne non hanno denunciato l'uomo che le picchiava perché convinte - come Gilda - che ma pur m'adora. E aspettano, e troppe volte aspettano fino a quando lui le uccide.
Gilda è certamente migliore dei due uomini che hanno voluto possederla. L'unica decisione che ha potuto prendere da sola nella sua vita è quella di consegnarsi al sicario che la ucciderà, il dramma che vive quella giovane donna è che la sua libertà si compie nell'accettare la morte, in una scelta sbagliata, in quella di annullarsi. Ancora una volta.