mercoledì 22 aprile 2020

Verba volant (763): fermarsi...

Fermarsi, v. intr.

La cultura non si ferma, Milano non si ferma, la scuola non si ferma, l'economia non si ferma. Metteteci il soggetto che volete: in questi giorni pare che nulla si debba fermare. Come se ne avessimo paura. Come se noi esistessimo solo in quanto esseri che si muovono.
E se invece imparassimo a fermarci?
Questa drammatica vicenda ci pone di fronte a degli interrogativi assolutamente nuovi, a domande a cui non sappiamo rispondere perché non ci è mai capitato nulla del genere. Non è mai capitato a ciascuno di noi e non è mai capitato all'umanità. Naturalmente pestilenze ne sono già successe molte nel corso della storia, ma verosimilmente nessuno si aspetta che affrontiamo questa pandemia come venne affrontata la peste nera o la peste del Seicento raccontata da Manzoni o, per venire a un caso molto più vicino nel tempo, l'epidemia di spagnola che colpì il nostro pianeta alla fine del primo conflitto mondiale. Sappiamo, con più o meno precisione, cosa i governi, gli scienziati e i cittadini fecero allora, ma naturalmente praticamente nessuna di quelle soluzioni è applicabile al giorno d'oggi. Intanto perché la scienza ha fatto progressi enormi, perché le informazioni viaggiano a una velocità allora inimmaginabile, perché tutto è cambiato da allora. Perché in sostanza allora di fronte a una pandemia l'unica soluzione possibile era quella di sperare di non esserne colpiti. Unicamente una questione di fortuna: un po' poco, francamente.
Oggi abbiamo qualche strumento in più: sperare di scamparla è naturalmente sempre un'opzione, così come si può pregare una qualche divinità. Ma fortunatamente non è l'unica: altrimenti noi atei saremmo spacciati. Però non c'è la soluzione, si tentano approcci, si vagliano possibilità, in buona sostanza si prova a capire cosa è meglio fare, sperando sia quella giusta. Ma non è detto che la soluzione provata lo sia, non è detto che ci salverà.
Questa pandemia dovrebbe insegnarci come prima cosa - anzi come unica cosa - che di fronte a un problema così complesso è lecito non sapere. Tra quelli a cui abbiamo demandato, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente, il compito di prendere decisioni così importanti, io mi fiderei molto di più di qualcuno che andasse in televisione a dire: "Facciamo così e così, ma non sono sicuro che sia la cosa giusta da fare, mi sembra la migliore, ma forse sbaglio, comunque lo facciamo lo stesso. Grazie e scusate".
Noi stessi, nel nostro piccolissimo facciamo così. Pensiamo che adottare una serie di comportamenti piuttosto che un'altra sia ciò che salverà noi e le nostre famiglie, ma non ne siamo sicuri. Proprio per questo sarebbe giusto fermarsi, perché verosimilmente la prudenza è una buona consigliera. Fermarsi un mese è una buona soluzione? Allora fermarsi due è meglio. O no?
E se mentre siamo fermi pensassimo anche alla direzione che dobbiamo prendere quando ricominceremo a muoverci? Quando andiamo naturalmente pensiamo anche in quale direzione stiamo andando, ma non è verosimilmente l'unica cosa che facciamo, anzi probabilmente non è la cosa a cui dedichiamo più tempo. Quando andiamo in auto dobbiamo tenere d'occhio il contachilometri e la spia del carburante, dobbiamo guardare nello specchietto se qualcuno da dietro tenta di superarci, dobbiamo fare molte cose, e probabilmente non pensiamo a dove stiamo andando, lo sappiamo, lo abbiamo già deciso, e non c'è più il tempo per cambiare idea, anche perché fare un'inversione sarebbe davvero troppo pericoloso. Ma adesso siamo fermi. Approfittiamone.
Quando ci diranno che possiamo ripartire, perché dobbiamo per forza andare nella stessa direzione in cui andavamo prima, siamo certi che è quella la meta che vogliamo raggiungere? E se scoprissimo che stare fermi non è poi così terribile? O che magari che si può andare a una velocità più bassa? Perché non conta solo la meta, ma anche il modo in cui ci si arriva.
Non dobbiamo aver paura di stare fermi. Abbiamo già abbastanza paura di morire.         

domenica 19 aprile 2020

Verba volant (762): fuori...

Fuori, avv. e prep.

Io e la grande maggioranza di voi che leggete queste mie bagatelle siamo tra i fortunati: possiamo scegliere se accettare, senza soverchi sacrifici, o rifiutare alcune semplici regole di contenimento sociale. Anche al netto del fatto che noi misantropi siamo felici di questo momento che ci evita i contatti a cui normalmente non potremmo sottrarci, la decisione è piuttosto semplice: accettare quella che chiamiamo quarantena significa avere un'alta probabilità di evitare di contrarre una malattia che, dopo una fase di sofferenza più o meno acuta, ci può uccidere. In sostanza oggi stare in casa è istinto di sopravvivenza, una delle caratteristiche fondamentali di noi animali umani. Perché, nonostante tutto, questa storia del covid-19 dovrebbe servirci per ricordare che la natura è sempre più forte degli uomini. Noi facciamo di tutto per dimenticarlo e questo ci fa commettere danni terribili. Pensiamo di avere la cura per tutto, pensiamo di poter fare tutto e di non doverci mai fermare, pensiamo perfino di essere immortali o almeno sempre giovani, poi arriva una malattia e fa quello che deve fare, colpisce noi animali uccidendo soprattutto i più deboli di noi, operando la selezione naturale di darwiniana memoria. E noi facciamo istintivamente quello che possiamo per difenderci, compreso stare chiusi in casa. Dove per altro abbiamo televisioni, telefoni, computer collegati alla rete, dove siamo connessi con il mondo. Un eremitaggio con ogni sorta di comodità.
Naturalmente so che ci sono molti - la maggioranza, purtroppo - nel nostro paese e soprattutto nel resto del mondo, che non hanno questa fortuna, che non possono scegliere, le cui condizioni economiche e sociali impediscono di stare in quarantena, anche perché non hanno una casa in cui rifugiarsi. Poi ci sono quelli - in questo caso una minoranza - il cui lavoro permette a noi di stare in quarantena e quelli che sono impegnati a salvarci se, nonostante tutte queste precauzioni, ci ammaliamo.
Come ho scritto da qualche altra parte io ho smesso di leggere giornali e di seguire l'informazione televisiva e in rete. Ho fatto qualche eccezione - in genere pentendomi - anche in questo periodo. In televisione guardo solo le repliche di vecchi telefilm - mi considero ormai cittadino onorario di Cabot Cove - e quindi inevitabilmente la pubblicità. Mi ha colpito come ormai praticamente tutti gli spot si siano "convertiti" alla quarantena. I creativi evidentemente sono una di quelle categorie essenziali il cui lavoro non può fermarsi mai.
E quegli spot raccontano un mondo immaginario in cui i nostri figli continuano a frequentare le lezioni perché hanno tutti un computer e perfino degli insegnanti che sanno farne funzionare uno, in cui c'è farina e lievito in abbondanza, in cui siamo tutti truccati e pettinati, anche quando la mattina facciamo colazione, naturalmente con i croissant fatti da noi, in cui i vecchi approfittano del tempo libero per rileggere la Recherche e scoprire la musica contemporanea, in cui facciamo yoga in ampi salotti, visto che in famiglia abbiamo un computer a testa e possiamo farlo senza disturbare il figliolo che è a scuola nella sua cameretta e il papà che lavora in soggiorno. E la nonna che posta videoricette sul suo canale Youtube.
Tutto questo in attesa di poter tornare fuori, al mondo di prima del contagio. Perché tutti, anche quelli della pubblicità che hanno case così belle e spaziose, vogliono andare fuori. E pare che anche molti di noi, noi che possiamo scegliere se stare o meno in casa, abbiamo un bisogno disperato di uscire. Sinceramente vorrei mandare a cagare quelli che si riferiscono a questo periodo con termini come reclusione o simili. Mi dispiace che non abbiate mai provato cosa vuol dire stare davvero in carcere, perché penso lo meritereste.
E poi esattamente cosa cazzo abbiamo da fare quando sarà finita la quarantena? Non diciamo che dobbiamo andare a teatro perché se non c'è uno di quelli che vediamo in televisione non affolliamo le sale o che abbiamo un disperato bisogno di visitare una mostra d'arte. O che dobbiamo andare a messa - curioso come i preti si lamentino in tempi normali che sempre meno persone frequentino le funzioni e adesso in tanti sentano questo impellente bisogno spirituale. Oppure che dobbiamo fare sport, anche se la nostra usuale pratica motoria è quella di guardare le partite seduti sul divano. No, abbiamo bisogno di andare nei centri commerciali, negli outlet, abbiamo bisogno delle apericene e della movida, abbiamo bisogno di bere, abbiamo bisogno di rumore, perché ormai non resistiamo al silenzio. Non abbiamo bisogno di nulla, ma quel nulla dobbiamo farlo rigorosamente fuori. Abbiamo bisogno di comprare cose che non ci servono, in modo da poter buttare le cose che abbiamo adesso.
Visto che portare fuori la spazzatura è lecito, anche in tempo di quarantena.     

sabato 21 marzo 2020

Verba volant (761): risveglio...

Risveglio, sost. m.

È bellissima Smyrna, è ancora una bambina che raccoglie fiori nei giardini del grande palazzo e gioca con le sue compagne, ma ormai il suo corpo è quello di una donna. Sua madre vede lo sguardo con cui il padre osserva le forme di Smyrna, che il peplo non riesce più a nascondere. E sa cosa succederà, perché Cencreide conosce bene suo marito e sa che non si fermerà, che il desiderio sarà più forte di qualunque altra cosa, spezzerà ogni limite, anche il più sacro. Quando la donna lascia il palazzo per partecipare alle cerimonie in onore di Demetra, sa che sarà proprio quella notte. Non ha neppure il coraggio di guardare sua figlia, di salutarla un'ultima volta. Cencreide non si sbaglia. L'uomo ha deciso, ha già trovato la complice, che per paura o per avidità, quella notte porterà Smyrna nella sua camera.
Lo so, né l'autore della Biblioteca, né Igino, né Ovidio raccontano la storia in questo modo. Dicono che è stata Smyrna a innamorarsi del padre, punita da Afrodite perché un giorno si è rifiutata di fare un sacrificio o perché la madre ha peccato dicendo che la ragazza era più bella della stessa dea. E che la nutrice ha propiziato quell'incontro incestuoso per salvare la vita alla giovane, che altrimenti si sarebbe suicidata. E naturalmente che il padre non sapeva: tutto si è consumato al buio. O secondo un'altra tradizione, che è stato fatto ubriacare. Lui credeva soltanto che fosse una giovane della stessa età della figlia: è stato ingannato, poveretto. E infatti, dopo nove notti, quando ha scoperto la verità, si è così infuriato da voler uccidere la figlia colpevole di un tale delitto. No, mi dispiace, non credo a questa versione così rassicurante e comoda per noi maschi, in cui l'uomo è l'unico innocente.
Il mito racconta che alla fine Smyrna muore. Anzi che benignamente gli dei l'hanno trasformata in un albero di mirra. Poco prima che il padre la raggiunga e così l'uomo non può che sfogare la propria rabbia su un tronco. Ma Smyrna è rimasta incinta e da quell'albero nasce un bambino. Come dice Ovidio
at male conceptus sub robore creverat infans
Quel bambino è Adone. Un nome strano per un bambino, perché in tutte le lingue di origine semitica significa signore. E infatti Adonai è il nome con cui più frequentemente ci si rivolge al dio dell'Antico testamento. E ritroviamo la storia di questo giovane bellissimo, amato con incredibile passione dalla potente divinità fecondatrice, in tutto il mondo antico. È una storia di amore e di morte, che gli aedi dell'antica Grecia cantano con la consueta disincantata poesia.
Anche Adone è bellissimo, come la madre, e di quel fanciullo, rimasto orfano e allevato dalle Naiadi, ninfe delle acque dei fiumi e delle sorgenti, si innamora Afrodite. Ma è ancora un bambino, la dea deve aspettare che cresca, ma non può correre il rischio che qualcun'altra lo veda. E così lo chiude in una cassa di legno e manda quel voluminoso bagaglio a Persefone affinché lo custodisca negli Inferi. Sembra un buon piano, nessuno potrà mai andare laggiù. Afrodite però non ha tenuto conto della curiosità della regina delle ombre, che si chiede cosa avrà di così prezioso da nascondere quella dea bella e altezzosa. Quando finalmente apre la cassa e vede Adone naturalmente se ne innamora e decide che non lo restituirà ad Afrodite. Questa va su tutte le furie e invoca il giudizio di Zeus. Il re degli dei non ne vuole sapere di affrontare una grana del genere: non vuole scontentare nessuna di quelle due dee così potenti e così assegna il giudizio a Calliope, una delle nove Muse. 
La musa dimostra saggezza e decide che Adone avrebbe trascorso un terzo dell'anno con Persefone, un terzo con Afrodite e un terzo sarebbe stato libero di scegliere. La dea dell'amore si infuria per l'esito del giudizio e per prima cosa decide di vendicarsi di Calliope. Fa in modo che le Menadi si innamorino di suo figlio Orfeo, che però - come ben sappiamo - vive nel ricordo della scomparsa Euridice; sconvolte per il suo rifiuto, le Menadi lo uccidono. Poi indossa la sua cintura magica e seduce il giovane, che così decide di trascorrere con lei anche il terzo dell'anno che ha a sua completa disposizione. È un ragazzo Adone, dai tratti quasi femminei, neppure un accenno di barba. Francamente non credo sia stata necessaria quell'arma di seduzione per irretire Adone in un gioco di cui poco capisce. Afrodite non è migliore del padre di Smyrna. È solo meno brutale, ma non meno violenta. Anche lei ruba a quel bambino l'innocenza. Adone vivrà senza sapere cosa è davvero l'amore.  
Adone è un mortale e i mortali devono appunto morire. Ares è geloso di quel giovane effeminato per cui Afrodite ha perso la testa. Mentre il giovane è a caccia - o meglio gioca alla caccia - il dio si trasforma in un orrendo cinghiale e uccide Adone. Afrodite è disperata: Zeus a questo punto non può che sancire quello già deciso da Calliope. Adone rimarrà solo per una metà dell'anno nell'Ade, mentre l'altra metà tornerà sulla terra.
E questi giorni che stanno intorno all'equinozio raccontano, ogni anno, il ritorno di Adone. Ci fanno tirare un sospiro, perché il peggio è passato, ma raccontano anche una storia di violenza e di morte.
Ce lo ricorda Ovidio. Afrodite dal sangue di Adone fa crescere dei fiori del colore del sangue.
Ma è fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali.

giovedì 19 marzo 2020

Verba volant (760): raviola...

Raviola, sost. f.

Fino al 1977 in Italia erano feste nazionali il giorno dell'Epifania, quello di san Giuseppe, l'Ascensione, il Corpus Domini e il giorno dei santi Pietro e Paolo. Si trattava naturalmente di feste religiose, anzi erano le feste di una religione, ma siccome allora il nostro era un paese semi-laico - o semi-confessionale, fate voi - non ci facevamo troppo caso.
Quelle feste cadevano quasi tutte in primavera, dal 19 marzo al 29 giugno, erano occasioni per fare piacevoli gite e, nell'Italia del boom, grazie al sapiente uso dei "ponti", anche delle prime vacanze di massa. E poi si trattava di feste fortemente radicate nella tradizione, dal nord al sud del paese. Per tutte queste ragioni l'abolizione di queste feste è stata vissuta con molte polemiche: il motivo di questa scelta, voluta dal terzo governo Andreotti - il cosiddetto governo "della non sfiducia" - è stata essenzialmente di natura economica. L'Italia non si poteva più permettere tutti quei giorni in cui si fermavano le attività produttive e industriali. Di queste cinque feste, come è noto, negli anni successivi è stata reintrodotta solo la Befana, non per una riscoperta di questa antichissima tradizione pagana né per ossequio alla chiesa cattolica, ma solo per "allungare" le vacanze natalizie e sostenere una nuova realtà economica, quella del turismo, che nel frattempo è cresciuta, mentre diventava più debole l'industria.
Perdonate la lunga premessa, ma il mio primo ricordo è legato proprio al giorno di san Giuseppe. Era il 19 marzo 1974 e i miei genitori decisero di andare alla Festa della raviola di Fiesso. Per i non bolognesi - e anche per i bolognesi troppo giovani - credo siano necessarie almeno un paio di note a margine.
Prima nota: la raviola è un dolce tipico bolognese, che adesso potete trovare nei forni tutto l'anno, ma che quando io ero bambino si faceva solo per la festa di san Giuseppe. Sono biscotti di frolla morbida, riempiti di mostarda - ma adesso ci mettono dentro di tutto, perfino quella crema alla nocciola mainstream della pubblicità - e abbondantemente bagnati nell'alkermes. Per me la raviola è una sorta di madeleine, ma decisamente più buona rispetto al dolcetto francese. Se Proust fosse cresciuto nella campagna bolognese, forse oggi non leggeremo la Recherce.
Seconda nota: Fiesso è una piccola frazione del comune di Castenaso, chiamata così perché in quel punto il torrente Idice, un affluente del Reno, fa una curva piuttosto decisa. Non c'è praticamente nulla a Fiesso, se non la grande chiesa dedicata a san Pietro. E non chiedetemi per quale motivo a Fiesso, proprio dietro la chiesa, si faceva - non so se si faccia ancora - la Festa della raviola il giorno di san Giuseppe. 
Immagino che la mia famiglia ci sia sempre andata a quella festa, perché Fiesso dista poco meno di sette chilometri da Quarto e soprattutto perché mio padre è nato e cresciuto tra Veduro e Marano, altre due piccoli frazioni di Castenaso. Mio padre a Fiesso conosceva tutti e tutti quelli di Fiesso allora conoscevano lui: era un mondo fatto così.
Quell'anno però c'era l'austerity. Credo sia necessaria la terza nota di questa mia storia. La notte del 22 novembre 1973 il governo italiano - il quarto Rumor, un esecutivo sostenuto dal cosiddetto "centro-sinistra organico" - decideva di varare il piano che fu chiamato appunto dell'austerity. A partire dal successivo primo dicembre bar e ristoranti dovevano chiudere entro la mezzanotte, mentre cinema, teatri e sale da ballo dovevano farlo alle 23.00, che era l'orario in cui finivano le trasmissioni televisive. Venivano spente le insegne luminose e pubblicitarie, mentre l'illuminazione pubblica doveva essere ridotta del 40%. La velocità sulle strade venne limitata a 100 km/h sulle strade extraurbane e a 120 km/h sulle autostrade. Ma il provvedimento che ha avuto un impatto più forte sugli italiani è stato quello di vietare la circolazione nei giorni festivi dei mezzi motorizzati, comprese barche e aerei. E c'erano pochissime eccezioni: carabinieri, medici, preti - ma questi ultimi solo nel loro Comune. Una circolare specificava che persino l'auto del Presidente della Repubblica non poteva circolare. Il motivo di questa drastica decisione è stata la crisi petrolifera.
Il 6 ottobre 1973, il giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono Isreale. La guerra del Kippur terminò poche settimane dopo, perché Stati Uniti e Unione Sovietica volevano evitare quella si chiamava escalation, con un sostanzialmente pareggio, anche se sul campo le forze egiziane e siriane ebbero la meglio. I paesi arabi associati all'Opec decisero allora di sostenere l'azione di Egitto e Siria aumentando il prezzo del petrolio e ponendo l'embargo nei confronti dei paesi più apertamente schierati con Israele. Inoltre la chiusura di fatto del canale di Suez costringeva le petroliere a circumnavigare l'Africa, aumentando tempi e costi dei viaggi e quindi dei carburanti. Provvedimenti simili a quelli italiani furono presi negli Stati Uniti e in tutta Europa. 
Il mondo occidentale, senza il petrolio, si trovò in crisi. Per questo quel pomeriggio di un giorno di marzo i miei genitori decisero di andare a Fiesso, alla Festa della raviola, in bicicletta. Io naturalmente non sapevo nulla dell'austerity, dell'Opec, di Rumor, della guerra del Kippur, ma ricordo che venni caricato nel sellino della bicicletta di mio padre - un sellino che stava davanti, attaccato alla canna, tra chi pedalava e il manubrio, una roba che immagino oggi sarebbe fuorilegge - e andammo a Fiesso. E non mi ricordo altro: solo quel viaggio in bicicletta, in un pomeriggio di primavera. Immagino che non mi diedero neppure una raviola, perché c'era l'alkermes. Ma, come direbbe Kavafis
La raviola ti ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti di più.

lunedì 16 marzo 2020

Verba volant (759): quarantena...

Quarantena, sost. f.

Le lingue sono sistemi complessi e raramente sappiamo quando e dove sono nate le parole che noi pronunciamo - più o meno a proposito - ogni giorno. Quarantena è una di queste rare eccezioni. È il 1346: nel nord della Cina si sviluppa una terribile pestilenza, che, attraverso la Siria, raggiunge, dopo alcuni mesi, i vasti territori dell'Impero ottomano, dalla Turchia all'Egitto, fino alla penisola balcanica. Tra la fine del 1347 e il gennaio del '48 la peste arriva anche nel nostro paese, a Messina, a Genova, a Pisa, a Venezia, ossia in quelle città che sono al centro dei traffici in quello che allora è il mondo globalizzato, anche se nessuno lo chiamava così. Praticamente è la stessa cosa che è successa in queste settimane, la sola differenza è che oggi il virus non viaggia più in nave, ma in business class e quindi è decisamente più veloce.
La Repubblica di Venezia interviene con decisione e nomina tre tutori della salute pubblica che, tra i primi provvedimenti adottati, stabiliscono di isolare per quaranta giorni le navi e le persone prima che entrino in laguna. Nasce così la parola quarantina. Nonostante questo drastico decreto, tra il gennaio 1348 e il maggio 1349, la città di Venezia ha perso circa il 60% della popolazione, si stima tra le 72mila e le 90mila persone, su una popolazione che poteva oscillare tra i 120mila e i 150mila abitanti. Perché era sostanzialmente impossibile "chiudere" Venezia, una città che viveva di commerci e che era uno dei più importanti porti d'ingresso per le merci del Mediterraneo orientale in Europa.
Non si può mettere in ginocchio l'economia di un intero paese solo per questo allarme. E poi gli scienziati dicono cose diverse e contrastanti. Perché io devo smettere di commerciare se il mio concorrente continua: alla fine della pestilenza lui sarà più ricco di me. E se il mio padrone mi ordina di continuare a lavorare io come faccio a smettere; dopo che faccio, come mantengo la mia famiglia? Dobbiamo comunque garantire i servizi essenziali. E poi io non mi ammalo: tanto muoiono solo i vecchi. Immagino che questo abbiano detto e pensato tanti veneziani in quell'inverno del 1348. 
E pensate cosa doveva essere la quarantena nel 1348, senza telefoni, senza televisione, senza internet. In una nave alla fonda nell'Adriatico, con accanto a te, a meno di un metro, uno che forse poteva avere la peste. E comunque tutti e due puzzavate come capre, viste le scarse possibilità di pulirsi. E senza sapere cosa stava succedendo alla tua famiglia là in città.
Noi invece abbiamo in questi giorni un disperato bisogno di uscire. E sapete cosa faremo appena sarà finita la quarantena? Andremo fuori, brandendo i nostri telefonini, facendo foto inutili e magari collegandoci con la persona con cui fino a qualche ora prima siamo stati in quarantena. Vogliamo andare fuori per essere collegati a internet. Vogliamo andare al bar e al ristorante per poter finalmente chattare. Se vi fate un giro in un parco in una normale domenica primaverile, senza quarantena, vedrete quanti sono collegati, quanti sono impegnati con le teste piegate sui loro telefoni. Giovani e vecchi. Poi naturalmente dobbiamo uscire perché abbiamo assolutamente bisogno di andare in un centro commerciale, in un outlet, perché finalmente possiamo ricominciare a fare shopping. Sempre brandendo il nostro telefono. Anzi quasi sicuramente ne compreremo uno nuovo, perché mentre siamo in quarantena abbiamo visto che il nostro modello è troppo vecchio. Non ci permette di fare le dirette Instagram belle come quelle che ha fatto il nostro vicino, che così ha preso molti più cuoricini di noi. 
Quando sarà tutto finito, non andrà tutto meglio, solo perché qualcuno suona la tromba o la fisarmonica sul balcone di casa o perché in tanti abbiamo condiviso arcobaleni, bandiere, frasette rassicuranti e cose del genere. Lo facciamo a ogni "crisi". I "ricordi" di Facebook ci ricordano impietosamente di quando siamo stati tutti francesi, di quando siamo stati tutti gay, di quando siamo stati tutti klingon, a seconda di come in quel giorno si doveva cambiare la foto del profilo.
Leggo che in questi giorni qualcuno di noi è perfino solidale con i lavoratori dello spettacolo, naturalmente non ci pensiamo affatto ad andare a teatro quando sarà finita l'emergenza: in quei posti hanno il coraggio di chiederci di spegnere i telefoni prima di entrare.
Adesso siamo tutti solidali con medici e infermieri, solo perché pensiamo che possiamo avere bisogno di loro. Finita la quarantena continueremo a evadere le tasse, che - tra le altre cose - permettono di pagare gli stipendi a medici e infermieri e di avere un sistema sanitario efficiente. E poi a cosa servono tanti posti di terapia intensiva, magari vuoti? È un costo che non ci possiamo più permettere. Meglio tagliare. Cosa vuoi che succeda? Vuoi che venga la peste? E comunque muoiono solo i vecchi.

giovedì 5 marzo 2020

Verba volant (758): bisestile...

Bisestile, agg. m.

Il calendario solare non funziona. Anzi non può funzionare, perché il sole per fare il giro completo della terra impiega esattamente 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. Adesso non fate i pignoli, lo so anch'io che è la terra che gira intorno al sole, ma il risultato non cambia, ci sono sempre 5 ore, 48 minuti e 46 secondi che mancano. Però i maschi volevano che fosse il sole a regolare il corso del tempo, per sottrarre questo potere alle donne e al loro calendario lunare. E quindi a quell'errore bisognava trovare un rimedio.
C'è ad Alessandria questo matematico geniale, Sosigene, che è uno dei consiglieri più influenti della regina Cleopatra. Cinque ore e un po' possono sembrare poca cosa, ma anno dopo anno quella differenza diventa sempre più evidente. E imbarazzante per il potere dei maschi. Sosigene, grazie ai suoi studi, ha trovato un modo per risolvere il problema, ma non può fare nulla da una remota provincia dell'impero. Per fortuna la sua padrona è così intelligente e affascinante che ha fatto perdere la testa a uno degli uomini più potenti di Roma e allora quell'oscuro astronomo egiziano riesce a spiegare a Caio Giulio Cesare la propria idea: se ogni quattro anni si aggiunge un giorno, l'anno solare sarebbe durato 365 giorni e 6 ore. Continua a esserci un errore, questa volta in eccesso, ma di soli 11 minuti e 14 secondi.
Cesare capisce subito che si tratta di una grande idea e siccome tra le sue molte cariche c'è anche quella di pontefice massimo, nel 46 a.C. ha l'opportunità di promulgare un nuovo calendario, che prevede appunto che ogni quattro anni venga aggiunto un giorno dopo il sesto prima delle calende del mese dedicato a Marte. Quel giorno in più si sarebbe chiamato anch'esso sesto, anzi bi-sesto. Per omaggiare Cleopatra, Cesare introduce anche l'uso egiziano di far cominciare l'anno il primo gennaio e non il primo marzo, come hanno sempre fatto i romani. Cosa non si fa per portarsi a letto una donna.
Per sistemare gli errori accumulati nel passato e riportare l'equinozio di primavera al 25 marzo, vengono aggiunti due mesi "straordinari", fra novembre e dicembre, uno di 33 giorni e l'altro di 34. Il 46 a.C. è durato così 445 giorni e per questo si è meritato l'epiteto di annus confusionis, ossia l'anno della confusione. Sono anche altre le cause della confusione, ma gli uomini preferiscono sempre dare la colpa ai calendari. Il 45 a.C., ossia l'anno in cui il calendario giuliano è ufficialmente entrato in vigore, è stato il primo anno bisestile della storia. L'anno successivo Cesare viene ucciso, ma non certo per aver imposto questo nuovo calendario. 
Negli anni successivi alla morte di Cesare calcolare esattamente quali debbano essere gli anni bisestili non è una priorità, e la confusione continua, ma Ottaviano, sconfitta Cleopatra e diventato Augusto, impone la pace e l'ordine, e il calendario giuliano, con quel giorno in più una volta ogni quattro anni, diventa il calendario di tutto il mondo. L'8 a.C. è il primo anno bisestile dell'era augustea. Certo i grandi imperi che sorgono a oriente hanno il loro modo per calcolare il tempo, e anche all'interno dell'impero sopravvivono alcuni vecchi calendari - come quello a cui sono ostinatamente fedeli gli ebrei - addirittura in America - ma ai tempi di Augusto nessuno sa che ci siano queste terre misteriose a occidente - ci sono popoli che usano ancora il calendario lunare. Però sono tempi semplici: se l'imperatore decide che quello è il calendario, tutti si devono adeguare.
Il calendario giuliano accumula un giorno di ritardo ogni 128 anni rispetto al trascorrere delle stagioni: alla fine del Cinquecento l'equinozio di primavera è ormai anticipato all'11 marzo. Anche in quel tempo l'errore comincia a essere evidente. E imbarazzante, tanto più che rende sempre più difficile calcolare esattamente il giorno in cui festeggiare la Pasqua, una festa a cui i "nuovi" pontefici di Roma sono particolarmente legati. Uno di loro, Gregorio XIII, il bolognese Ugo Boncompagni, decide quindi di porre rimedio a questa cosa e costituisce una commissione di esperti, presieduta da Cristoforo Clavio, un gesuita tedesco professore al Collegio Romano, e composta dal calabrese Luigi Lilio, dal siciliano Giuseppe Scala e dal perugino Ignazio Danti, sono tutti esperti di matematica e di astronomia.
Giovedì 4 ottobre 1582 Gregorio XIII - la cui statua domina il voltone d'ingresso di Palazzo d'Accursio a Bologna - firma la bolla papale Inter gravissimas, che introduce il nuovo calendario. Il giorno successivo è venerdì 15 ottobre e in questo modo sono recuperati i giorni "perduti" e viene riallineato il calendario al sole. Per ovviare al problema negli anni successivi, la commissione decide che quel giorno in più non sarebbe stato aggiunto automaticamente ogni quattro anni, come diceva Sosigene. Sono bisestili infatti gli anni non secolari il cui numero è divisibile per quattro - ad esempio il 2020 - e quelli secolari il cui numero è divisibile per quattrocento. Per questo il 1700, il 1800 e il 1900 non sono stati bisestili. Eliminando tre anni bisestili ogni quattrocento, una differenza tra l'anno solare e il calendario rimane, ma è di soli 26 secondi in eccesso, ossia di un giorno ogni 3.323 anni. Il problema ce lo porremo nel 4905, anno in cui presumibilmente non solo noi saremo morti, ma la razza umana si sarà estinta.
L'introduzione del nuovo calendario è un po' più complicata rispetto a quella del giuliano, perché l'autorità del papa non è certo quella di Augusto. I paesi cattolici naturalmente adottano molto presto il gregoriano, ma gli altri resistono. I paesi protestanti lo faranno all'inizio del Settecento, il Regno Unito nel 1752, ma alla lunga tutti si devono adeguare, il mondo "globale" ha bisogno di un unico calendario. Il Giappone lo introduce nel 1873, la Cina nel 1912, la Turchia nel 1924. La chiesa ortodossa non ne vuole sapere di usare il calendario di Roma - e ancora oggi usa quello giuliano - e così sarà il "rivoluzionario" Lenin a introdurre il calendario gregoriano in Russia. E per questo la Rivoluzione d'ottobre si chiama così, anche se è iniziata il 7 novembre.
E oggi solo Iran, Afghanistan, Etiopia e Nepal non adottano ufficialmente il calendario gregoriano.
Il calendario di papa Gregorio XIII è destinato a resistere al tempo. Anche la sua bella statua bronzea, opera di Alessandro Menganti, che si trova a Bologna, dimostra una certa capacità di resistere ai tempi. Quando alla fine del Settecento stanno per entrare le truppe napoleoniche in città, l'Assunteria dei Magistrati, temendo che il generale ne ordini la rimozione per farne cannoni, decide di trasformarla in quella del santo Petronio: basta togliere la tiara e sostituirla con una mitra, aggiungere un pastorale e un'iscrizione in latino Divo Petronio Civitatis Patrono. Come si dice "scherza con i fanti, ma lascia stare i santi" e i francesi non possono certo togliere alla città l'immagine venerata del patrono. Nel 1895, quando ormai il pericolo è passato da tempo, si decide di rimettere le cose a posto e Gregorio torna a benedire chi cammina per piazza Maggiore.
Ci sono curiosi paradossi in queste storie di calendari. Quello giuliano non sarebbe nato se non ci fosse stata Cleopatra, una donna la cui memoria è stata demonizzata dai maschi che l'hanno usata e poi sconfitta. Mentre quello gregoriano è basato essenzialmente sui precisissimi calcoli elaborati da Nicolò Copernico e pubblicati nel De revolutionibus orbium coelestium, un testo messo all'Indice dalla chiesa cattolica. Clavio era un convinto sostenitore della teoria geocentrica e considerava un'eresia la tesi copernicana secondo cui è la terra a girare intorno al sole. I nostri calendari sono figli di una puttana e di un eretico.
Credo meriti di essere ricordato che c'è stato un calendario solare ancora più preciso di quello gregoriano: la differenza rispetto al trascorrere delle stagioni è soltanto di due secondi in eccesso. Purtroppo questo calendario non ha avuto fortuna, è stato adottato in un solo paese e per soli undici anni.
Il 1° ottobre 1929 l'Unione sovietica di Stalin introduce il calendario rivoluzionario sovietico. Tutti i mesi sono composti da trenta giorni. Poi vengono inseriti cinque giorni di festa, che non appartengono a nessun mese: il giorno della festa di Lenin, dopo il 30 gennaio, i due giorni della festa del lavoro, dopo il 30 aprile, e infine i due giorni della festa dell'industria, dopo il 7 novembre. È festa anche il giorno bisestile, che viene inserito dopo il 30 febbraio. Nel calendario rivoluzionario sono bisestili gli anni non secolari il cui numero è divisibile per quattro e gli anni secolari solo se, divisi per nove, danno come resto due o sei: in questo modo ci sono 218 anni bisestili ogni 900 anni.
Quel calendario però impone anche la settimana di cinque giorni. Una pacchia direte voi: un giorno di festa ogni cinque invece che ogni sette. Eppure il popolo non è contento, perché per non fermare la produzione si decide che quel giorno di festa non sia lo stesso per tutti, ma si divide la popolazione in cinque grandi classi, distinte ognuna con un colore, e ogni colore deve far festa in un giorno diverso. E così può succedere che il marito del gruppo rosa faccia festa un giorno diverso dalla moglie del gruppo verde. Diventa praticamente impossibile organizzare i grandi pranzi di famiglia. Eppure, nonostante questo innegabile vantaggio, i russi non amano questo calendario e poi non dà neppure quei risultati sperati in termini di produttività. E così Stalin nel 1940 decide che è meglio tornare alla settimana di sette giorni - e tutti a casa la domenica - e naturalmente al calendario gregoriano. Un altro curioso paradosso: puoi anche essere Stalin, ma alla fine è il popolo che sceglie il calendario.

giovedì 27 febbraio 2020

Verba volant (757): impressione...

Impressione, sost. f.

A Parigi, nel cimitero di Passy, vicino alla tomba di Édouard Manet c'è quella di Berthe Morisot: la lapide recita, accanto al nome e alle date di nascita e di morte della donna, l'epigrafe "vedova di Eugène Manet". Nessun accenno alla sua carriera artistica: d'altra parte sul certificato di morte è scritto "senza professione".
Per molto tempo la fama di Berthe Morisot è stata legata in maniera quasi esclusiva al fatto di essere stata la modella preferita di Édouard. Il pittore ha dedicato alla donna che sarebbe poi diventata sua cognata ben undici tele, alcune delle sue più significative.
Eppure, quando incontra Manet, Berthe non è soltanto
una ragazza riservata e che parlava a voce bassa, sottile come un giunco, occhi neri e profondi, che amava vestirsi di nero e all'ultima moda e leggere romanzi in voga.
Berthe è una giovane donna che vuole diventare pittrice. Però è una donna e non può iscriversi all'Accademia e anche l'École des beaux-arts aprirà i battenti alle ragazze solo nel 1897, due anni dopo che Berthe è morta. Però i suoi genitori assecondano la sua passione e le permettono di studiare prima con il neoclassicista Geoffrey-Alphonse Chócarne, e poi con Joseph Guichard, un pittore romantico seguace di Delacroix. Guichard la porta al Louvre dove Berthe affina la sua tecnica copiando le tele dei grandi del passato. Ma il maestro si accorge presto che Berthe è uno spirito ribelle, che quello stile accademico non fa per lei e così la manda a bottega da Jean-Baptiste Camille Corot, che la spinge a dipingere en plein air, a contatto con la natura. 
Sta nascendo un'arte nuova e Berthe Morisot ne è una delle protagoniste. Insieme a Claude Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cezanne e alcuni altri fonda la "Società anonima degli artisti, pittori, scultori, incisori". Il 15 aprile 1874 la Società anonima, al numero 35 di Boulevard des Capucines, nello studio del fotografo Nadar, che presta gratuitamente quel locale, mette in mostra le proprie opere. Monet espone tra le altre la tela Impressione: levar del sole, il dipinto che darà il nome a quel nuovo movimento, destinato a cambiare per sempre il mondo dell'arte. Berthe, come Claude, espone nove opere. Il vecchio Guichard critica aspramente il lavoro di quella che un tempo è stata sua allieva: ma è l'arte nuova e lui è rimasto al passato.
Tra quelle nove opere quella che diventerà più celebre è La culla. Berthe tratteggia con grazia un ritratto della sorella Edna che siede accanto al lettino dove dorme la figlia Blanche. Il soggetto è domestico e probabilmente non molto originale, eppure quella madre rimane incredibilmente impressa nella memoria di noi che osserviamo quel quadro. Certo Edna sta vegliando sulla propria figlia, la sta proteggendo, quasi istintivamente, con quella mano che sembra stringere la culla, eppure è anche persa in qualche suo pensiero. È una madre preoccupata, che guarda la propria figlia con ansia, sembra temere per il suo futuro. Blanche per fortuna dorme, anche lei, come la madre, ha gli occhi chiusi: si può permettere di essere senza paura, perché la madre è lì con lei, perché non ha ancora l'età per avere paura. Edna invece - e Berthe insieme a lei - hanno perso ormai quell'innocenza, sanno in che mondo quella bambina crescerà, un mondo che sembra aprirsi a ogni possibilità, in cui sembra che il progresso sia senza limiti. E che invece si schianterà in maniera drammatica.  
Ed è la stessa preoccupazione che vediamo negli occhi della Giovane donna in tenuta da ballo, un altro dei capolavori di Berthe Morisot, questa volta del 1879. Non sappiamo chi sia quella ragazza, probabilmente non è un ritratto. Berthe vede questa giovane donna che osserva alla sua destra qualcosa che noi non vediamo. Aspetta, forse il cavaliere che la condurrà nel prossimo giro di valzer. Ma c'è in quello sguardo qualcosa di più. C'è una tensione evidente. C'è un desiderio di cambiamento, di infrangere le regole.
In quello stesso anno va in scena Casa di bambola di Henrik Ibsen. E quella ragazza sembra proprio Nora, che all'improvviso capisce cosa sta succedendo intorno a lei. E proprio come fa Nora, noi speriamo che quella giovane si stia per alzare e dire
devo riflettere col mio cervello e rendermi chiaramente conto di tutte le cose.

martedì 25 febbraio 2020

da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni

Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
- In rerum natura, - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?
- Tutte corbellerie, - scappò fuori una volta un tale.
- No, no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
- La c'è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.

lunedì 24 febbraio 2020

Verba volant (756): cinese...

Cinese, agg. m. e f.

Sinceramente non mi ricordo a che età ho visto e ho parlato per la prima volta con un cinese. Immagino alla fine degli anni Ottanta, quando avevo già raggiunto la maggiore età, quella volta che sono andato, con alcuni amici dell'università, a mangiare in un ristorante cinese.
Non ci crederete, ma c'è stato un tempo in cui se vivevi in provincia potevano passare anni senza che  incontrassi mai un cinese, perché allora non facevano né i baristi né i parrucchieri né i sarti e se ti mancava qualcosa in casa non potevi andare dai cinesi. C'è stato un tempo che se la domenica ti accorgevi che ti mancava una pila o un mestolo o un rotolo di carta igienica dovevi aspettare il lunedì, quando aprivano i negozi "normali". Come sapete, io ho nostalgia di quei tempi lì, ma ovviamente non è colpa dei cinesi. Semplicemente loro fanno quello che noi chiediamo loro di fare. Abbiamo un disperato bisogno di comprare dei fiori finti alla domenica sera? Non c'è problema, basta andare dai cinesi.
Lavoravo in quel paese del contado bolognese quando i cinesi rilevarono il Bar Progresso della Casa del popolo di Castel Maggiore, ossia il bar più rosso della casa del popolo più rossa del Comune più rosso della provincia di Bologna. A ripensarci c'è stato qualcosa di politicamente poetico in quell'acquisizione, ma ovviamente non si trattava della rivincita dei maoisti. È il capitalismo, bellezza. Noi abbiamo fatto tanti di quei danni gestendo il patrimonio del partito, che siamo stati costretti ad alienare quello che era stato costruito dalle donne e dagli uomini che ci avevano preceduto. E i cinesi avevano i soldi per acquistare quelle attività che noi stavamo svendendo. Così come sono i cinesi che garantiscono di tenere aperti i bar nei più sperduti paesi della bassa o nelle periferie delle nostre città.
La Cina è vicina è il titolo del secondo lungometraggio di Marco Bellocchio. Quel film è del 1967 e sinceramente con la Cina non c'entra nulla, ma racconta, con profetica drammaticità, quello che saremmo diventati; e che evidentemente eravamo già, anche se non volevamo ammetterlo. Quel "la Cina è vicina" era al massimo uno slogan di qualche frangia più estremista e velleitaria della sinistra; e curiosamente chi allora era maoista spesso è diventato peggiore di quelli che allora condannava.
Adesso sì che la Cina è vicina, non perché i cinesi gestiscono i bar delle nostre città, ma perché abbiamo scoperto che in questo mondo così ferocemente capitalista abbiamo un disperato bisogno dei cinesi.
Da quando è scoppiato l'epidemia di questa nuova influenza, alla mattina, mentre vado al lavoro, non vedo più il pullman che ogni giorno, davanti a uno dei grandi alberghi della città in cui vivo, aspetta la comitiva di turisti cinesi che, fatta una veloce colazione, partono per una nuova tappa del loro Grand tour tutto compreso. Il coronavirus sta mettendo in crisi il turismo della mia città, che si basa ormai in gran parte su questi viaggi organizzati. A Fidenza c'è un grande outlet, che da qualche anno festeggia, con la stessa attenzione che dedica al "nostro" Natale, anche il "loro" capodanno, perché loro vengono all'outlet e naturalmente comprano il made in Italy, che spesso è fatto in Cina.
E allo stesso modo stiamo scoprendo che gli "untori" non sono i baristi o i parrucchieri cinesi - che da anni sono lontani da quel paese o che non ci sono mai andati perché sono nati qui - ma i manager italiani che fanno avanti e indietro con la Cina, quelli che fanno affari con i loro colleghi cinesi. Oppure i "bravi" italiani che vanno in quelle lontane località per fare turismo sessuale.
Durante la peste nera che colpì il nostro pianeta alla metà del Trecento - la peste in cui morì Laura e che ha dato il pretesto per il Decamerone - quando la gente moriva davvero, si salvarono soltanto Milano e la Polonia, per "merito" dei regimi autocratici che c'erano in quegli stati e che riuscirono a chiudere le frontiere, a differenza di quello che avvenne nel resto d'Europa. Non che gli altri paesi fossero più democratici, semplicemente non vollero rinunciare a fare affari, a scambiare merci, a far girare uomini e denari. E i denari, come si sa portano virus. Ma che volete che sia, basta mettersi una mascherina. Rigorosamente made in China

venerdì 21 febbraio 2020

Verba volant (755): virus...

Virus, sost. m.

Ci sono parole "giovani". Nonostante il suo aspetto, nonostante quel lignaggio antico che le deriva dal latino, virus è una di queste. Ha circa centoquaranta anni, più o meno l'età che avrebbe il mio bisnonno, Cesare Billi. Peraltro quel mio avo, che faceva il mezzadro nel contado bolognese e non sapeva né leggere né scrivere, non aveva idea di cosa fosse un virus, semplicemente vedeva i cristiani e le bestie ammalarsi, e spesso morire. Se qualcuno gli avesse detto che la causa di quelle morti era un virus, non avrebbe capito - quella parola gli sarebbe suonata strana, simile a quelle che sentiva la domenica a messa - e probabilmente avrebbe pensato che le persone come lui morivano perché erano povere, perché lavoravano fino a sfiancarsi, e mangiavano poco e male. Avrebbe pensato che le persone morivano perché andavano in guerra. Poi certo capitava che qualcuno all'improvviso si ammalasse, cominciasse a bruciare per la febbre, ad avere strane bolle sul corpo, e magari morisse. E non c'era nulla da fare, se non pregare - per chi ci credeva - e sperare. Poteva succedere lo stesso alle donne, tutte le volte che dovevano far nascere una nuova vita. O quando qualcuno di loro si faceva male usando un attrezzo nei campi o semplicemente cadendo: era terribilmente difficile la vita allora, quando non avevano ancora "inventato" i virus. Morivano perché non potevano curarsi, perché non c'erano i dottori, o c'erano solo per i ricchi.
Se io sono qui a raccontare queste storie sulle parole è anche perché mio nonno Carmelo, all'inizio del secolo scorso ha resistito alla spagnola, e soprattutto alla prima guerra mondiale. E credo che anche lui pensasse che fosse più facile morire per colpa degli altri uomini che di questi invisibili virus. E anche mio padre Luigi, che nel 1945 aveva quindici anni, credo pensasse che ne uccidessero più la guerra e la povertà che i virus.
E io, che sono il primo di questa serie di Billi che ha studiato, cosa dovrei pensare? È improbabile ormai che io possa morire a causa della miseria o della guerra. Grazie ai sacrifici dei Billi che sono venuti prima di me, questo lo posso escludere con una certa sicurezza. Forse posso morire per un virus, anche perché ho i soldi per fare un viaggio in Cina e contrarre laggiù quella pericolosa malattia. Certo ho anche i soldi per curarmi e ho la fortuna di vivere in quella piccola parte del mondo in cui i servizi sanitari funzionano bene: se prendo un virus - anche quello che uccide tante persone - posso sperare, con una buona dose di probabilità, di salvarmi.
Visto che non mi ammazzeranno né la guerra né la miseria e posso sopravvivere perfino ai virus, potrei anche pensare di essere immortale. Credo che qualcuno di noi lo pensi, o almeno fa di tutto per non invecchiare o per non sembrare vecchio. No, io certamente morirò, e probabilmente anche a causa di questa ricchezza, ad esempio perché mangio troppa carne - infinitamente di più di quanta ne abbiano mai mangiata le tre generazioni di Billi che mi hanno preceduto - o per le radiazioni di questo telefono che porto sempre attaccato al mio corpo e da cui non riesco a separarmi, perché devo sempre essere collegato con il mondo, devo sempre sapere cosa succede in Cina. O magari morirò a causa dello stress, il logorio della vita moderna, come diceva una vecchia réclame.
In fondo importa poco di cosa morirò io - verosimilmente può interessare me, ma è irrilevante per voi - ma credo, anche in questi giorni in cui parliamo tanto del virus, che il mio bisnonno avesse proprio ragione. Ancora oggi dobbiamo avere paura degli uomini più che dei virus, perché in gran parte del mondo gli uomini muoiono perché lavorano fino a sfiancarsi, e mangiano poco e male. Perché per le donne far nascere una nuova vita è ancora un rischio. Perché la guerra, la miseria, lo sfruttamento sono le cause per cui ogni giorno muoiono donne e uomini nel mondo. E non c'è virus che possa debellarle. 

venerdì 14 febbraio 2020

Verba volant (754): albergo...

Albergo, sost. m.

Forse avete visto anche voi questa pubblicità: uno speaker spiega che adesso puoi prenotare un hotel per un tempo anche molto breve, per lavorare, rilassarti, fare la doccia o per qualsiasi cosa tu voglia. E, visto che ormai siamo tutti tecnologici, lo possiamo fare comodamente attraverso il sito o dopo aver scaricato la app. Praticamente hanno inventato gli alberghi a ore. Nelle immagini dello spot si vede, tra le altre cose, anche un lenzuolo da cui spuntano diverse paia di piedi. Certamente per qualcuno è anche un lavoro, e immagino che per altri quella sia un'attività rilassante, per quanto impegnativa - e quindi alla fine sia necessaria una doccia - e naturalmente liberissimi di farla in tre o quattro o cinque. Suppongo che aumentando il numero, aumenti anche la convenienza, perché puoi dividere il costo della camera, come con il campo di calcetto.

Molto probabilmente non conoscete il nome di Marguerite Monnot, ma forse avete ascoltato qualche sua canzone. Perché per quasi venticinque anni questa pianista nata in un paesino della Borgogna ha lavorato con Édith Piaf, componendo la musica di tanti suoi successi, da L'Hymne à l'amour a Milord, quest'ultima con il testo di Georges Moustaki. Durante la sua carriera ha anche composto le musiche per il musical Irma la dolce, utilizzate in parte come colonna sonora per il fortunato film con Shirley MacLaine. Alla fine degli anni Cinquanta Dean Martin porta al successo negli Stati Uniti The poor people of Paris, e la musica è naturalmente di Marguerite. La sua musica "sa" di Francia.
Nel 1956 Marguerite compone la musica per una canzone i cui versi sono stati scritti da Claude Delecluse e Michelle Senlis, intitolata Les amants d'un jour, che viene incisa naturalmente da Édith Piaf. Una splendida canzone e poi la Piaf è bravissima, ma - non succede quasi mai - è più bella la versione italiana.
La canzone è tradotta alla fine degli anni Sessanta da un artista nato nel 1944 in una famiglia ebraica di Tripoli. Quando, nel '52, la comunità ebraica è cacciata dalla Libia, il giovane ha seguito la sua famiglia in giro per l'Europa. Herbert Pagani è un'artista che è stato dimenticato, anche se ha avuto un buon successo negli anni Sessanta e Settanta. È poliedrico, dipinge, scolpisce, ma è sopratutto un musicista. È anche una delle voci storiche di Radio Monte Carlo. Per Dalida scrive molte canzoni, sia originali sia traducendo brani francesi. E così nel 1970 decide di incidere lui stesso Albergo a ore, una sua traduzione piuttosto fedele del successo della Piaf.
Quando Herbert ci dice
io lavoro al bar d'un albergo a ore
noi ci crediamo, perché interpreta questa canzone con una verità che nessun'altro riesce a darle.
È una storia di amore e di morte, racconta il suicidio di due giovanissimi amanti che 
sembravano belli come due santi dipinti
e che scelgono proprio quello squallido alberghetto per l'ultima ora che passeranno insieme prima di uccidersi.
E all'uomo non rimane che dare a quella coppia una qualche sepoltura "non ufficiale".
Non sappiamo nulla della storia di quei due giovani amanti, non lo sapremo mai, ma in qualche modo ne onoriamo la memoria anche noi, non mettendo mai piede nella camera numero tre. 
Un canzone bellissima che però non può passare in televisione e in radio tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta: il suo testo è troppo scandaloso. Le canzonette non devono far pensare, invece Albergo a ore ti costringe a riflettere, non ti dà scampo. E anche nel tempo in cui in televisione si può far la réclame agli alberghi a ore - e chissà come si sarebbe divertito Herbert Pagani, se non fosse morto a soli quarantaquattro anni - e si può far vedere che sotto un lenzuolo ci sono quattro o cinque persone, una canzone come Albergo a ore non avrebbe mercato: far pensare le persone su temi come la morte e la disperazione è sempre pericoloso.

lunedì 10 febbraio 2020

Verba volant (753): bionda...

Bionda, sost. f.

Bionda e incredibilmente sexy: Torquato Tasso ha bisogno di un nuovo personaggio femminile per rendere un po' più avvincente la Gerusalemme liberata e quindi, in mezzo a tutti quei guerrieri virilmente eterosessuali che combattono per il controllo della città santa, si inventa Armida. Lo stesso che fanno quattro secoli dopo Bob Kane e Bill Finger quando creano Catwoman.
Curiosamente il poeta che ha girato quasi tutta l'Italia e deve aver visto bellissime donne di ogni tipo, dimostra ben poca fantasia quando vuole rappresentare questa maga musulmana nata ad Antiochia. Tasso ci racconta che ha lunghi capelli biondi e ricci, una carnagione molto pallida, su cui spiccano le labbra rosse: una bellezza fiamminga che mal si addice alle origini siriane della giovane. Comunque in questo modo Armida si "vende" meglio e naturalmente i pittori che tra il Seicento e il Settecento l'hanno rappresentata non si sono scostati da questa immagine così convenzionale: un ottimo pretesto per dipingere una donna seminuda senza incorrere negli strali della censura. Come Eva, come Maddalena, come le altre "cattive" della storia.
Nel IV canto Torquato Tasso ci mette al corrente del piano malvagio di Idraote, il capo della Spectre, che è anche lo zio di Armida, per mettere in difficoltà i crociati. La giovane verrà mandata nel campo cristiano e qui fingerà di essere una principessa cacciata dal proprio regno da uno zio crudele. Se i crociati la aiuteranno a riconquistare il trono, lei, anche se musulmana, diventerà loro alleata e, a guerra conclusa, sarà loro vassalla. Tasso ci racconta che Armida si dimostra molto abile nel mettere in pratica il piano dello zio, nonostante Goffredo di Buglione non cada subito nella sua rete: il condottiero si limita a prometterle che, una volta conquistata Gerusalemme, le daranno il loro aiuto. I paladini però rumoreggiano, evidentemente a loro non interessa avere un'alleata in futuro, pensano a una diversa "ricompensa", da riscuotere molto più velocemente. Goffredo, che è molto attento ai sondaggi e vede calare la propria popolarità, a questo punto deve cedere: ad Armida sarà assegnata una scorta di dieci cavalieri. 
Il V canto si apre con Goffredo che cerca di sottrarsi al compito di scegliere i dieci fortunati: non ci pensa proprio di inimicarsi tutti gli altri. Il campo cristiano è in subbuglio. From Syria with love: il piano dell'agente segreto Armida ha funzionato. Goffredo alla fine opta per il sorteggio e Armida e i suoi dieci compagni partono alla volta di Damasco. Nottetempo un'altra quarantina di paladini - che non hanno accettato il verdetto dell'urna - lasciano il campo per andare ad "aiutare" la giovane in difficoltà. Torneranno nel campo cristiano solo alla fine del IX canto, scornati e avviliti: nei quattro canti precedenti nessuno di loro ha raggiunto l'obiettivo con Armida. Goffredo si dimostra magnanimo e li perdona: le prese in giro da parte di quelli che sono rimasti sono già una punizione sufficiente.
Nel XIV canto Tasso ci racconta che Rinaldo è riuscito a fare con Armida quello che gli altri paladini hanno tentato invano. Anzi vediamo che è proprio la biondissima agente Tatiana Romanova che si è innamorata di James Bond. No, questa è un'altra storia. Armida si innamora di Rinaldo, lo imprigiona con incantate catene floreali e lo carica sul suo carro volante. Ma non torna a Damasco, si dirige verso le Isole fortunate - dovrebbero essere più o meno le Canarie - e qui usa tutte le sue arti magiche: sulla cima di una montagna costruisce un palazzo incantato, nascosto alla vista da una coltre di nubi, solo per loro due. Dal canto suo, vediamo che Rinaldo si adatta abbastanza velocemente a questo ménage, senza lamentarsene troppo.
Però senza Rinaldo a combattere pare che Gerusalemme non possa cadere. Goffredo incarica due paladini, Carlo e Ubaldo, di riportarlo al campo. Tutto il XVI canto è dedicato ai loro sforzi per raggiungere le Canarie, trovare la montagna senza farsi scoprire da Armida e convincere Rinaldo a lasciarla. Allora, ricapitoliamo: tu sei "prigioniero" della donna più bella del mondo, che è pazzamente innamorata di te, e decidi di lasciarla per andare a combattere sotto le mura di Gerusalemme? Nessuno con un po' di discernimento se ne sarebbe andato da lì, ma Rinaldo inspiegabilmente ascolta l'invito dei suoi commilitoni, guadagnandosi così il titolo di più cretino della letteratura mondiale di tutti i tempi.
Altrettanto inspiegabilmente Armida va su tutte le furie: cara, uno così imbecille è meglio perderlo che trovarlo.  
Siamo così arrivati al XX canto: la battaglia finale. Rinaldo si trova di fronte Armida che nel frattempo si è arruolata nell'esercito del re dell'Egitto. I due non si risparmiano i colpi, ma intanto Gerusalemme sta cadendo. I grandi mercanti europei che hanno finanziato quella spedizione hanno deciso che è venuto il momento di smetterla con tutte quelle manfrine medievali: hanno bisogno di entrare a Gerusalemme e di far ripartire i traffici tra l'Europa e l'oriente che passano da quelle terre. Armida fugge, inseguita da Rinaldo, sembra si voglia togliere la vita, ha già in mano la spada per infliggersi il colpo fatale, ma l'uomo la salva: se si converte potranno tornare a vivere insieme. Lei, tra le lacrime, accetta. Dissolvenza. Titoli di coda. Fine.

Come è andata a finire? Torquato Tasso non ce lo racconta. E non c'è un sequel.
Nei primi mesi dopo la vittoria, Rinaldo ha avuto un incarico nell'amministrazione crociata di Gerusalemme, ma quando Goffredo è morto, Baldovino ha rimpiazzato tutti quelli della "vecchia guardia". Con Rinaldo è stato piuttosto facile: i mercanti della città vecchia lo hanno accusato di pretendere mazzette. Naturalmente anche quelli di prima lo facevano - come lo avrebbero fatto quelli dopo - ma Rinaldo stava davvero esagerando. Come era prevedibile non ha sposato Armida, anche se la donna si è convertita alla religione dei vincitori. E comunque la bellezza di un tempo è sfiorita, i suoi capelli non sono più così biondi.    

domenica 9 febbraio 2020

Le storie di Adelaide (I)...

Frau Kammerer? È in casa?
Giulio, mentre bussa piano alla porta, sa benissimo che la moglie del ciabattino è in cucina: come ogni giorno sente gli strilli dei suoi tre bambini.
Le presento mia sorella Adelaide.  
La ragazza sorride. Spero perdonerà il mio pessimo tedesco, frau Kammerer.

Sono passati appena pochi minuti. Giulio se n'è già andato, il signor Klemper al guantificio gli ha concesso di assentarsi solo il tempo necessario per andare a prendere la sorella in stazione. E Adelaide si ritrova seduta in quella cucina che non ha mai visto, in una città che non ha mai visto, con in braccio un bambino che non ha mai visto, che però ha smesso di piangere. Con il suo fare spiccio, la signora Kammerer le ha messo davanti una scodella di zuppa calda.
Il "gineceo" del numero 14 della Spiegelgasse si è riunito per dare il benvenuto alla nuova pigionante italiana. C'è naturalmente la padrona di casa, la moglie di Titus Kammerer, che fa il ciabattino al pianterreno della casa accanto e che Adelaide ha visto di sfuggita, c'è la vedova Rosenthal - suo marito è morto all'inizio della guerra sul fronte francese e lei è tornata a Zurigo con i suoi due figli piccoli - e c'è Nadja Uljanova. I Kammerer sanno solo che suo marito è un esule russo, ma non cosa faccia di preciso. Adelaide invece sa che quell'esule è conosciuto dalle polizie di tutta Europa con il nome di Lenin. E anche Nadja sa che quella ragazza è la sorella di un giovane comunista in clandestinità, non solo uno che è solo fuggito in Svizzera per evitare di partire soldato. Comunque Titus Kammerer non è uno che fa troppe domande quando affitta una delle stanze di casa sua: ormai Zurigo è un porto di mare, sono arrivati esuli da ogni parte d'Europa. I pensionanti comunque si trovano bene: l'affitto è basso e le stanze sono luminose e dignitose, se non fosse per la puzza che sale dal cortile, su cui si affaccia anche una fabbrica di würstel.
Le tre donne fanno molte domande alla giovane appena arrivata, vogliono sapere dell'Italia. Adelaide non sa molto dell'Italia, parla di San Giovanni in Persiceto, il suo paese, spiega cosa sia la partecipanza, racconta gli anni difficili della guerra, dopo che suo fratello è venuto in Svizzera. E ora che loro madre è morta, Adelaide ha deciso di seguire il fratello.

Allora, com'è la nuova italiana? Chiede Titus quella sera alla moglie.
Carina, e ci sa fare con i bambini. Vorrei chiederle di darmi una mano con loro. Gli potremmo abbassare un po' l'affitto.

Adelaide è proprio brava con i bambini, anche la signora Rosenthal ha cominciato ad affidarle i figli e così la giovane italiana è diventata la bambinaia semi-ufficiale del numero 14 della Spiegelgasse.

Vladimir Il'ič torna a casa per pranzo tutti i giorni, dopo aver passato la mattina alla Biblioteca centrale sulla Zähringerplatz.
Certo che da quando c'è questa compagna italiana, c'è molto più silenzio in questo casa.

La signora Rosenthal, grazie al fatto che adesso Adelaide pensa ai bambini, aiuta una sarta che ha la bottega di fianco a quella di Titus. In quei giorni freddi di febbraio spesso la mattina rimangono tutte a casa. Ethel cucina - e insegna anche a Nadja - la vedova cuce e Adelaide canta e gioca con i bambini. Dopo pranzo, nei giorni di sole, li porta a passeggiare per le strade di Zurigo. Il signor Kammerer le ha portato una lunga corda, lei la lega al polso dei bambini e finalmente escono, cantando filastrocche in tedesco, in italiano, in francese. Ormai quel "corteo" è diventato popolare sulla Spiegelgasse.

Sul minuscolo palcoscenico del Cabaret Voltaire, al numero 1 della Spiegelgasse, mentre un musicista con la fisarmonica intona la Marsigliese, compare Tristan Tzara, con indosso un'elegante marsina nera e un pannolino come hanno i neonati. Lo segue Hugo Ball che indossa una giacca militare, con appuntate molte medaglie di cartone, e due grossi favoriti posticci; anche lui porta il pannolino. Intanto il fisarmonicista ha attaccato le prime note di Deutschland über alles. I due "bambini" si accapigliano per una bambola, mentre arrivano sul palco altri due attori con il pannolino, uno porta la corona e uno due grandi bassette bianche; sono preceduti rispettivamente dall'inno inglese e da quello austriaco. Finalmente arriva la "bambinaia", che imbraccia un fucile e indossa un elmetto. Mentre i "bambini" ancora frignano, Emmy Hennings con gesti lenti e studiati, tira fuori una corda, la lega al polso di ciascuno dei "bambini", si mette il fucile a tracolla e cantando una canzonaccia da osteria, li porta fuori per una passeggiata. Il pubblico segue ridendo quel corteo.

I signori Kammerer sono ormai abituati agli schiamazzi che vengono dal Cabaret Voltaire, ma quella sera sembra proprio che siano sotto le loro finestre. Il ciabattino si alza, indossa la vestaglia e scosta la finestra. Sono proprio lì sotto e quando vede quella scena non crede ai propri occhi.
Helga, vieni a vedere. E chiama gli italiani.

continua...

giovedì 6 febbraio 2020

Verba volant (752): gabbare...

Gabbare, v. tr.

9 febbraio 1893: giovedì grasso. Milano si prepara alla prima della stagione di Carnevale e Quaresima della Scala. In città c'è un clima di febbrile attesa. In cartellone c'è la nuova opera di Giuseppe Verdi. L'ultima opera di Giuseppe Verdi. Naturalmente nessuno dice apertamente che l'ottantenne compositore di Busseto non riuscirà più a scrivere un'altra opera dopo questo Falstaff, ma è quello che tutti pensano. E anche Verdi sa che questo è il suo ultimo lavoro, in un certo senso il suo estremo lascito al mondo del teatro che ha tanto amato. Già finire Falstaff non è stato facile, non tanto per i problemi di salute - tutto sommato sta bene per un uomo della sua età, la tempra è quella forte di un contadino emiliano - quanto per il morale. In quei mesi ha dovuto partecipare a troppi funerali: tutti gli amici di una vita lo stanno progressivamente lasciando.
Grazie a questa curiosità morbosa, la prima di Falstaff è diventata un evento: i biglietti costano trenta volte più del consueto. Eppure tutta Milano è in fila per entrare alla Scala. Da Torino è arrivata la principessa Bonaparte, moglie di Amedeo di Savoia, per il governo è presente il ministro della pubblica istruzione Ferdinando Martini, il professor Carducci è in platea.

Trent'anni prima il ventunenne Arrigo Boito scrive un'ode provocatoria che comincia con questi versi
Alla salute dell'Arte Italiana!
Perché la scappi fuora un momentino
dalla cerchia del vecchio e del cretino
giovane e sana.
Non fa nomi l'impertinente poeta, ma, visto che è anche un musicista e ha l'ambizione di scrivere opere, il suo obiettivo polemico è naturalmente il Maestro Verdi, che in quell'anno ha già scritto ventidue delle sue ventisei opere ed è una star in tutta Europa. Comunque, al di là di quello che Boito scrive o non scrive nei suoi versi, Verdi è convinto di essere il bersaglio di quello strale e non dimentica quelle parole, quando, quasi vent'anni dopo, Boito, che non è più un giovane bohemienne - o scapigliato, come si dice in Italia - gli propone un suo libretto basato sull'Otello di Shakespeare. Non vuole neppure vedere quel giovane arrogante.
Servono tutta la diplomazia di Tito e Giulio Ricordi e la pazienza di Giuseppina Strepponi per convincere Verdi a incontrare Boito. L'incontro però va bene. Verdi ama le opere di Shakespeare, perché ama il teatro e nessuno come il Bardo sa raccontare le donne e gli uomini sulla scena e quel Boito è davvero bravo a trasformare in un libretto un dramma dell'inglese. E così nasce l'Otello, che viene rappresentato a Milano il 5 febbraio 1887, con un enorme successo: Verdi pensa sia il modo giusto per chiudere la sua lunga carriera.
Ma quel Mefistofele di Boito tenta il vecchio Maestro con un nuovo libretto, basato sulla commedia Le allegre comari di Windsor e su alcune scene dei due drammi dedicati a Enrico IV. Verdi resiste: non vuole cominciare una nuova opera. E una commedia per di più. Ormai è troppo vecchio.
Però che sfida sarebbe.
Il 9 luglio 1889 Arrigo Boito gli scrive
C'è un solo modo di finir meglio che coll'Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! C'è da far strabiliare!
Ma non è questa lettera che convince Verdi: ha già deciso, accetta la sfida.
Caro Boito, Amen; e così sia!... Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie!
E si mette al lavoro. Che seguirà con la consueta tenacia. Come ha sempre fatto, nonostante gli costi sempre più fatica, dirige tutte le prove, perché vuole che Falstaff sia messo in scena come dice lui.

Quella sera di carnevale il pubblico sembra impazzito dall'entusiasmo. Il Maestro Verdi esce tre volte dopo il primo atto, sei dopo il secondo e sette alla fine. La folla che è rimasta fuori dalla Scala accompagna la carrozza che riporta il compositore e sua moglie Giuseppina al Grand Hotel et de Milan. Verdi esce diverse volte al balcone della sua suite per salutare quella folla che cresce ogni momento.
Certamente Verdi è contento di quell'entusiasmo, che è prima di tutto un segno di stima nei suoi confronti, per tutto quello che ha fatto in tanti anni di carriera. Eppure non può non pensare che forse tutti quegli applausi servono al pubblico per esorcizzare la storia che lui e Boito hanno messo in scena quella sera. Quando Falstaff e il resto della compagnia cantano "Tutti gabbati!" non si riferiscono solo a quello che è appena successo sul palco, ma guardano in faccia gli spettatori, ministri e generali, poeti e professori, accademici e musicisti, nobili e ricchi. Il vecchio Verdi, il senatore Verdi, il padre della patria Verdi, saluta il suo pubblico con un ghigno anarchico: avete poco da ridire - sembra dire - perché tutti siamo gabbati.

Certo Falstaff è una commedia, ma il suo protagonista non è un personaggio farsesco. Falstaff è un contemporaneo di Don Chisciotte e, come lui, è una sorta di "reduce" del medioevo in un mondo che è ormai definitivamente cambiato: di entrambi ridiamo perché si ostinano a vivere in maniera anacronistica come cavalieri in una società dominata dai borghesi. Eppure amiamo il cavaliere dalla triste figura perché si aggrappa con pazza ostinazione alla sua idea di onore e all'amore puro per la sua Dulcinea. Invece finiamo per detestare Falstaff che, in uno dei suoi interventi più crudi, dice che a lui l'onore non interessa, e chiede con cattiveria ai suoi due servi infedeli (così diversi da Sancho Panza):
Può l'onore riempirvi la pancia?
E nonostante parli sempre d'amore, Falstaff non è capace di provarlo, a lui interessano le donne solo se hanno denari. E naturalmente non ha la grandezza tragica di Don Giovanni che non si pente neppure di fronte ai diavoli e sfida apertamente la morte. Falstaff sotto la quercia di Herne piagnucola e chiede perdono.
Falstaff è il meschino che non conosce grandezza. È qualcuno che conosciamo bene, perché noi siamo così. Ridiamo di fronte alla sua sconfitta, ma anche noi siamo spaventati, perché sappiamo di essere molto più simili a lui che a Don Chisciotte. O siamo come Ford o come il dottor Cajus o come Bardolfo. Il nostro destino è quello di essere gabbati. Non illudetevi - dice Verdi - non rimpiangete il mondo vecchio: non era migliore. E non sperate nel mondo nuovo: non sarà migliore. Vivete la vostra mediocrità, qui e ora. Per questo, nonostante le risate, Falstaff non è una commedia, ma forse una delle più terribili tragedie di Verdi.
E chissà se il Maestro ha pensato che stava per chiudere la sua storia teatrale con una commedia in cui i gabbati sono gli uomini, mentre le donne riescono a ottenere quello che vogliono. Verdi ha spesso raccontato la storia di grandi donne che fanno impallidire i loro uomini - come Violetta con Alfredo, Gilda con il Duca, Aida con Radames - ma alla fine muoiono tutte. In Falstaff invece le donne vincono. E si godono i frutti della loro vittoria. Finisce rivoluzionario il vecchio Verdi.

Anche il giovane compositore toscano Giacomo Puccini ha voluto assistere al Falstaff. Ascolta quelle note del vecchio maestro, che potrebbe essere suo padre, e ne coglie tutta la modernità. Rimane sbalordito. Si chiede se lui a ottant'anni, a metà del prossimo secolo, sarà mai capace di scrivere una musica così nuova.

E mentre Falstaff canta "Tutto nel mondo è burla", Verdi guarda il suo "complice" in quell'avventura e ricordando quei versi di trent'anni prima, che non ha mai del tutto dimenticato, pensa:
Allora, caro Boito, chi è il vero scapigliato?



lunedì 3 febbraio 2020

Verba volant (751): coppia...

Coppia, sost. f.

Questa storia comincia a Padova, alla fine del Cinquecento. Caterina è la figlia maggiore del mercante Battista Minola. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie..

martedì 28 gennaio 2020

Verba volant (750): pittura...

Pittura, sost. f.

Cara Artemisia, che piacere rivederti. Non sapevo fossi tornata a Roma.

Cavalier Ripa, sono arrivata pochi mesi fa. Non ci siamo ancora sistemati.

Ormai faccio vita ritirata, so davvero poco di quello che succede in città.

Per fortuna oggi avete fatto un'eccezione.

Come potevo rifiutare  un invito del cardinale Borghese? E poi per la festa per celebrare l'elezione del nuovo pontefice.

Conoscete papa Ludovisi?

Il primo papa a essere educato dai gesuiti. L'ho conosciuto ai tempi in cui era segretario del cardinal Rusticucci. Poi l'ho perso di vista quando è tornato a Bologna. Comunque un vero uomo di chiesa.

E questo sarebbe un pregio o un difetto? 

Il cavalier Ripa si limita a sorridere.

Il sacro collegio ha deciso piuttosto velocemente, sono bastati due giorni di conclave.

Misteri dello Spirito Santo. E poi il conclave è stato convocato in fretta: mancavano diversi cardinali francesi e un bel po' di spagnoli. Neppure il Borromeo è riuscito ad arrivare in tempo da Milano. Con Aldobrandini moribondo, e Bellarmino che si è subito ritirato, Montalto e Borghese sono riusciti ad accordarsi velocemente. Hanno scelto un papa vecchio. Credo però che dovrebbero fare attenzione: sono sempre quelli che riservano maggiori sorprese.
Ma dimmi di te, cara Artemisia, so che ormai non sei più solo la figlia di Orazio. A Firenze hai fatto ottime cose.

Sarò sempre la figlia di Gentileschi, specialmente qui a Roma. Questa città mi è matrigna, ma qui per un artista è più facile lavorare. E sono dovuta tornare. Anche se adesso temo dovremo subire la concorrenza dei bolognesi. So che il nuovo papa ama molto Domenico Zampieri e Giovanni Francesco Barbieri.

Ma il papa è uno, cara Artemisia, e non dispone di molti denari o almeno non può spenderli con la libertà con cui si crede. E soprattutto è già papa. Invece i cardinali sono un centinaio e hanno parecchi soldi da spendere. E vogliono diventare papi. Vedrai che riuscirai ad avere buone commesse.

Spero di non dover sopportare più le malelingue. Voi, cavaliere, siete stato tra i pochissimi che anche allora, durante il processo, siete stati vicini a mio padre e a me. Ora devo chiedere commesse a quelli che allora mi hanno chiamato puttana.

Roma è una città di preti, e le donne per loro o sono sante o sono puttane.

Io non ho mai voluto essere una santa.

Il problema è che tu hai voluto essere una pittrice. E comunque non preoccuparti troppo: Roma è una città che non ha memoria. Non è sempre un bene, ma almeno per te è meglio così. Oggi tu sei affermata, fai parte dell'Accademia del disegno di Firenze. Il cardinal Borghese ha invitato te e non Tassi. Approfitta dell'ipocrisia di questa città.

Siete diventato cattivo, cavaliere.

Sono diventato vecchio.

Vorrei dipingere un'allegoria della pittura. Ho riguardato l'immagine che voi avete disegnato nell'Iconologia. 

So che a Firenze, per il Buonarroti, hai dipinto un'allegoria dell'inclinazione, e che sei stata parecchio audace, mia giovane amica. Temo che metteranno le "braghe" anche a lei.

Ma non avevo un vostro modello a cui ispirarmi.

Immagino vorrai farti un ritratto. La vanità è un peccato a cui voi pittori non sapete proprio resistere. Temo però che nella mia allegoria ci sia un particolare che tu non vorrai proprio riprodurre.

Artemisia Gentileschi ha effettivamente dipinto quell'allegoria della pittura. Ma diciotto anni dopo che era tornata a Roma, quando era stato eletto papa Gregorio XV. E lo ha realizzato molto lontano dalla Città eterna, a Londra, dove era arrivata chiamata da re Carlo I, di cui suo padre era pittore di corte. Nel frattempo erano morti sia papa Ludovisi - era cominciato il lungo regno di Urbano VIII - sia il cavalier Cesare Ripa, l'autore della monumentale Iconologia overo Descrittione di diverse Imagini cavate dall'antichità et di propria inventione.
Probabilmente è morto anche suo padre da pochi giorni, quando Artemisia decide di realizzare infine quell'opera. Conosce bene l'immagine di Ripa, la donna che porta una lunga collana d'oro che termina con un medaglione a forma di maschera, con indosso un vestito di colore cangiante, e tiene in mano tavolozza e pennello. Nel dipinto di Artemisia la donna sta lavorando, sta realizzando un quadro, che dobbiamo immaginare piuttosto grande, visto che il braccio destro si deve alzare parecchio. Ovviamente la figura non ha la fissità di quella dell'Iconologia di Ripa: nel frattempo c'è stato Caravaggio. Artemisia ha quarantasei anni quando dipinge quella tela, si raffigura con i capelli più scuri dei suoi, per adeguarsi all'allegoria di Ripa, e un po' più giovane di quanto sia realmente. Sembra la giovane a cui Orazio Gentileschi ha insegnato a mescolare le polveri, a creare i colori, a dipingere, la giovane che tutta Roma ha chiamato "puttana" solo perché ha deciso di denunciare l'uomo che l'ha stuprata, la giovane a cui sono stati legati e schiacciati i pollici per dimostrare nel processo che lei, la vittima, stava dicendo la verità. C'è solo un particolare dell'allegoria di Cesare Ripa che Artemisia non ha intenzione di replicare: quella donna ha una benda sulla bocca, perché la pittura è muta. Artemisia non vuole dipingere quella benda. Nella vita ha imparato a non tacere. Mai.

domenica 26 gennaio 2020

Verba volant (749): fattoria...

Fattoria, sost. f.

È il 1971, esce, per l'etichetta Carosello Records, Un L.P. per te: sarà l'ultimo trentatré giri del Quartetto Cetra. Sono canzoni un po' diverse da quelle con cui il gruppo vocale si è fatto conoscere al grande pubblico. Certo c'è Scale e arpeggi: il film Gli Aristogatti è uscito pochi mesi prima e quella canzone è proprio nelle loro corde. La consuetudine con queste canzoni è di vecchia data: nel 1948 hanno partecipato al doppiaggio di Dumbo - sono i corvi e cantano tutti i cori - e il loro lavoro è così ben fatto da meritare una lettera autografa di Walt Disney che si congratula con loro. Però in quell'ellepi c'è anche la canzone Angela.
Facciamo un passo indietro: il 7 agosto 1970 Jonathan Jackson, un ragazzo di diciassette anni militante delle Pantere nere, fa irruzione nell'aula del tribunale di San Rafael in California, dove si sta celebrando un processo contro tre suoi compagni. Prende in ostaggio il giudice Harold Haley, il procuratore distrettuale e alcuni giurati, distribuisce le armi agli imputati e urla: "Bene, signori. Ora comando io". Sequestratori e ostaggi salgono su un furgone parcheggiato fuori dal tribunale, ma poco dopo incontrano un posto di blocco: nello scontro a fuoco rimangono uccisi tutti i militanti delle Pantere nere e anche il giudice Haley. Nel corso delle indagini, la polizia scopre che alcune delle armi usate da Jackson sono intestate ad Angela Davis, una dei leader del movimento e del Partito Comunista degli Stati Uniti. Il direttore dell'Fbi Hoover dichiara che Angela Davis è uno dei dieci criminali più pericolosi del paese. Il 13 ottobre viene arrestata a New York, e il presidente Nixon si congratula con gli agenti che hanno catturato "la terrorista". Il 4 giugno 1972, quasi due anni dopo, una giuria composta di soli uomini bianchi dichiara Angela Davis non colpevole.
C'è una mobilitazione di intellettuali in tutto il mondo che chiedono la liberazione della Davis. Giovanni "Tata" Giacobetti e Virgilio Savona scrivono Angela nell'estate del '71. Qualche mese dopo i Rolling Stones incideranno Sweet Black Angel e John Lennon e Yoko Ono Angela. I "vecchi" Cetra - Savona è del 1919, Lucia Mannucci del 1920, Giacobetti e Felice Chiusano sono del 1922 - hanno battuto i giovani ribelli.
Non si può per un'idea,
per un'idea soltanto
recidere un fiore.
Il 7 novembre '71 il Quartetto Cetra canta Angela nel corso della trasmissione Stasera sì. Il giorno successivo Chiusano riceve una lettera di minaccia, in cui li invita a smettere di fare politica, perché "queste sono cose delicate". Savona scriverà la canzone Sono cose delicate, per rispondere con la consueta ironia a questa minaccia. Comunque la loro presenza in programmi Rai si riduce di molto e si interrompe nel 1975.
Io sono convinto che uno dei problemi di questo paese - non meno importante di tanti altri, badate bene - è quello di non riconoscere che fortuna è stata avere il Quartetto Cetra. Pensate se Broadway avesse avuto i Cetra. Mentre in Italia rischiano di essere ricordati come robetta di consumo - quelli della Vecchia fattoria ia ia oh e poco altro - buoni al massimo per i pastoni in cui vengono replicati i programmi della televisione in bianco e nero.
Prendiamo quel capolavoro che è Però mi vuole bene, scritta da Virgilio Savona e "Tata" Giacobetti, e Gigi Cichellero, un altro dei protagonisti "dimenticati" della musica italiana del secolo scorso. Però mi vuole bene è una canzone - e infatti nasce come il lato B del quarantacinque giri del 1963 Du du du - da da - ed è già un pezzo divertente, ironico, pieno di humor nero, ma diventa perfetto in televisione - questa è la versione dell'anno successivo - quando i Cetra ci aggiungono i gesti, le espressioni, le piccole gag mimate che ovviamente non sono possibili in un'incisione discografica. Lucia è spettacolare in questo pezzo, per come canta e per come tiene la scena. E per come muore naturalmente. Non è più una canzone, ma è quella "cosa" lì - che è difficile perfino da definire - quello specifico numero fatto di musica, parole, gesti, perché i Cetra capiscono come pochissimi altri che la televisione - il Programma nazionale è nato solo dieci anni prima - è uno strumento specifico, nuovo rispetto a tutto quello che c'è stato prima, e quindi richiede contenuti nuovi. Però mi vuole bene, al di là della loro bravura musicale - oltre che cantanti, i Cetra sanno anche suonare - al di là della loro capacità di amalgamare le voci - che è un tratto caratteristico di tutte le loro esibizioni - è così incredibilmente divertente anche perché è il contenuto giusto per quello strumento. I Cetra sono sempre un passo avanti, sono innovatori, nel corso di una carriera che copre almeno quattro decenni di un secolo ricco di novità come il Novecento.
I Cetra sono jazz, sono swing. E soprattutto sono sempre con le orecchie tese e anticipano in Italia tutte le novità della musica del secolo "nuovo". Nel 1945 incidono Pietro Wughi il ciabattino, il primo boogie-woogie e nel 1957 registrano la versione italiana di Rock around the clock di Bill Haley, ossia L'orologio matto. E anche Nella vecchia fattoria è l'adattamento italiano di una canzone popolare americana, Old McDonald had a farm, conosciuta grazie alla versione di Nat King Cole: ed è anche questa una canzoncina perfetta, perché i Cetra sono bravissimi a fare tutto, specialmente le cose che sembrano più facili. Francesco Guccini, uno che è della generazione di Lennon e di Jagger, ha detto
I Beatles erano musicalmente ineccepibili ed i loro testi molto spiritosi e intelligenti, io li paragono a un gruppo italiano, il Quartetto Cetra: quattro grandi professionisti che hanno fatto la canzone italiana.
Certo i quattro ragazzi di Liverpool hanno segnato una stagione, ma non sono bravi come i Cetra. Immagino sia per questo che ci siamo dimenticati di loro.