Spogliarello, sost. m.
Alle sorelle Hovick è successa una cosa decisamente strana. Sulla loro vita sono state scritte molte storie, alcune inventate, come succede spesso in questi casi, ma per lo più vere, perché quelle due donne hanno vissuto una vita che merita davvero di essere raccontata. Eppure ormai i personaggi che sono stati creati da queste storie sono più famosi di loro, in qualche modo quei personaggi sono diventati più reali di loro: potenza dei racconti.
volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...
venerdì 31 luglio 2020
giovedì 23 luglio 2020
Verba volant (776): tenacia...
Tenacia, sost. m.
Nella storia del cinema ci sono alcuni attori il cui nome finisce per essere indissolubilmente legato a quello di un personaggio che hanno interpretato. Per questo Olivia de Havilland sarà per sempre miss Melania.
Nella storia del cinema ci sono alcuni attori il cui nome finisce per essere indissolubilmente legato a quello di un personaggio che hanno interpretato. Per questo Olivia de Havilland sarà per sempre miss Melania.
volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...
lunedì 13 luglio 2020
Verba volant (775): tuono...
Quel ragazzo è sempre elegante, a volte un po' affettato, per questo gli amici cominciano a chiamarlo Duke, il Duca. Edward è un artista, è bravo a disegnare, a comporre manifesti, è quello il suo lavoro, ma quando un cliente va da lui per commissionargli una locandina per una festa da ballo, Edward prima di tutto gli chiede se ha già trovato qualcuno per suonare e comunque si propone di farlo lui, a un prezzo stracciato, locandina compresa. Un'offerta che molti accettano, anche perché quel ragazzo è proprio bravo a suonare il piano, è bravo a far ballare la gente.
Nella metà degli anni Cinquanta Duke Ellington è ancora il re del jazz, ma i tempi sono molto cambiati da quando la sua orchestra suonava tutte le sere al Cotton Club. Le grandi orchestre degli anni Trenta e Quaranta, l'età dello swing, non esistono più. Resiste soltanto quella del Duca, perché nessuno come lui sa condurre una grande orchestra, trovare i musicisti migliori e farli suonare come non hanno mai suonato in vita loro. Sono ormai pochi quelli che suonano con lui dall'inizio, molti hanno ormai una loro orchestra, ma la sua capacità di valorizzare i musicisti non è mai venuta meno.
Il mondo però è cambiato ed è cambiato il jazz e molti principi aspettano che il vecchio Lear si faccia da parte. Edward Kennedy Ellington però è ancora capace di fare le sue magie, è un duca spodestato che è diventato un potente mago, e nel 1957 vuole dire al mondo che il jazz, il "suo" jazz, è ancora una musica capace di raccontare storie. E dove si trovano le storie più belle? Ovviamente nelle tragedie e nelle commedie del Bardo di Startford on Avon. Allora Duke e Billy Strayhorn cominciano a "rispolverare" il loro Shakespeare.
Ho già dedicato una delle mie storie a Billy. Dal 1938 al 1967 Strayhorn è l'alter ego di Duke Ellington. Questi due artisti, pur così diversi per temperamento e carattere, sono in perfetta simbiosi, ciascuno di loro può terminare di scrivere quello che ha cominciato a comporre l'altro. E nessuno avrebbe colto la differenza. Per molti anni il suo ruolo non è stato abbastanza riconosciuto e certamente Billy ne soffriva. Per un paio d'anni, dal '53 al '55, ha smesso di lavorare con l'orchestra di Duke, ha smesso di curarne gli arrangiamenti, ha smesso di comporre canzoni, ma poi decide di ritornare - anche perché Duke accetta che tutto quello che pubblicheranno da quel momento sarà "firmato" da entrambi, indipendentemente da chi lo ha effettivamente composto - e insieme scrivono Such Sweet Thunder, una jazz suite di dodici pezzi dedicati a Shakespeare. Ma nonostante l'impegno di Duke nessuno parlerà di Billy, non sarà mai menzionato nelle recensioni, neppure quando muore per un cancro ed Ellington pubblica uno dei suoi album migliori intitolato ...and his mother called him Bill.
L'occasione per scrivere questa suite così originale è loro offerta da uno spettacolo che l'orchestra di Duke Ellington fa nel '56 allo Shakespeare Festival della cittadina di Statford nell'Ontario, dove da soli tre anni alcuni appassionati hanno cominciato ad allestire questa rassegna, grazie anche alla disponibilità di alcuni grandi attori, come Alec Guiness che nella prima edizione del '53 mette in scena Riccardo III e Tutto è bene quello che finisce bene senza richiedere alcun cachet. Ellington e Strayhorn decidono di rimanere al festival per un'intera settimana, dopo il concerto, incontrano studiosi del Bardo, parlano e si confrontano con loro. Billy ama moltissimo le sue opere teatrali, le cita di continuo, qualcuno nell'orchestra lo chiama Shakespeare, e anche nella biblioteca di Duke c'è un'edizione consumata e molto sottolineata. Ormai la decisione è presa: l'anno successivo torneranno al Festival con una loro suite dedicata a Shakespeare.
L'invito al Festival di Stratford di un musicista della generazione di Duke Ellington sembra rafforzare l'idea che quella musica non sia più moderna, come lo era stata negli anni Trenta e Quaranta, ma sia diventata in qualche modo un classico, soprattutto sia entrata di diritto nella cultura "alta", esattamente come le opere di Shakespeare. Ellington accetta questa legittimazione, ovviamente ne è compiaciuto, ma vuol far capire che l'analogia non è solo superficiale, o una mera occasione. Nella nota che accompagna il programma dello spettacolo, lo stesso Ellington spiega che né la sua musica né Shakespeare devono essere appannaggio solo di un'élite culturale. Sono passati poco più di vent'anni: negli anni Trenta lo swing, di cui Ellington è senz'altro uno dei massimi esponenti, è la musica moderna, quella che, superando le pesantissime divisioni razziali, raggiungeva tutto il pubblico, diventando la musica americana, cosa che prima non esisteva. Ed erano i neri che avevano dato la musica a quel paese che pure li discriminava.
Nel programma di Such Sweet Thunder Ellington spiega che non serve nessuna conoscenza speciale, perché
E Such Sweet Thunder è ancora capace di coinvolgerci, di ammaliarci, di tenerci stretti nelle spire del serpente di Cleopatra che domina la scrittura di Half the Fun.
Ellington e Strayhorn costruiscono la loro suite come una serie di ritratti di personaggi shakespeariani, che termina con un ritratto dello stesso Shakespeare: è essenzialmente una suite di assoli, in cui i grandi musicisti che compongono la sua orchestra hanno modo di dimostrare tutto il loro talento. L'immagine di Shakespeare come creatore di grandi personaggi si accorda perfettamente con i metodi compositivi di Ellington e di Strayhorn, che usano il suono distintivo dei singoli membri dell'orchestra come punto di partenza per le loro composizioni.
La suite inizia e termina con due personaggi neri, Otello e Cleopatra, di cui Ellington e Strayhorn mettono in risalto la capacità seduttiva. Il primo brano - che si intitola come l'album - è il racconto del Moro delle proprie gesta, è la storia con cui ha sedotto Desdemona, una storia che sembra svolgersi in una giungla e non è casuale la citazione alla jungle music che ha caratterizzato la musica di Ellington ai tempi del Cotton Club.
Ed è una suite in cui le donne, i personaggi femminili di Shakespeare si prendono tutta la scena. Già nel titolo, come in Lady Mac - un coinvolgente valzer in cui la tragica morte della regina di Scozia è solo accennata alla fine, ma di cui Ellington e Strayhorn preferiscono raccontare il perturbante fascino ragtime - e in Sonnet for Sister Kate - un blues in cui Caterina Minola emerge con tutta la sua indomabile forza. E anche Antonio sparisce di fronte alla forza di Cleopatra, lo stesso che succede a Romeo in The Star-Crossed Lovers. E Giulietta è il sax contralto di Johnny Hodges, che è con Ellington dai tempi del Cotton Club, ha tentato di fondare una propria orchestra all'inizio degli anni Cinquanta, ma ha deciso di tornare proprio quando sta per nascere questo disco, di cui è indubbiamente uno dei protagonisti. E curiosamente il dramma scozzese ritorna anche in The Telecasters, dedicato alle streghe.
L'invito al Festival di Stratford di un musicista della generazione di Duke Ellington sembra rafforzare l'idea che quella musica non sia più moderna, come lo era stata negli anni Trenta e Quaranta, ma sia diventata in qualche modo un classico, soprattutto sia entrata di diritto nella cultura "alta", esattamente come le opere di Shakespeare. Ellington accetta questa legittimazione, ovviamente ne è compiaciuto, ma vuol far capire che l'analogia non è solo superficiale, o una mera occasione. Nella nota che accompagna il programma dello spettacolo, lo stesso Ellington spiega che né la sua musica né Shakespeare devono essere appannaggio solo di un'élite culturale. Sono passati poco più di vent'anni: negli anni Trenta lo swing, di cui Ellington è senz'altro uno dei massimi esponenti, è la musica moderna, quella che, superando le pesantissime divisioni razziali, raggiungeva tutto il pubblico, diventando la musica americana, cosa che prima non esisteva. Ed erano i neri che avevano dato la musica a quel paese che pure li discriminava.
Nel programma di Such Sweet Thunder Ellington spiega che non serve nessuna conoscenza speciale, perché
che si tratti di Shakespeare o del jazz, l'unica cosa che conta è l'effetto emotivo sull'ascoltatore.Il potere del jazz, come quello di Shakespeare, è quello di superare barriere e confini, è quello di diventare democratico, in senso etimologico. Ellington con questa suite, come con tutti i lavori successivi, di questa seconda parte della sua carriera, vuole creare una musica con il prestigio dei classici e l'immediatezza inclusiva della cultura popolare.
E Such Sweet Thunder è ancora capace di coinvolgerci, di ammaliarci, di tenerci stretti nelle spire del serpente di Cleopatra che domina la scrittura di Half the Fun.
Ellington e Strayhorn costruiscono la loro suite come una serie di ritratti di personaggi shakespeariani, che termina con un ritratto dello stesso Shakespeare: è essenzialmente una suite di assoli, in cui i grandi musicisti che compongono la sua orchestra hanno modo di dimostrare tutto il loro talento. L'immagine di Shakespeare come creatore di grandi personaggi si accorda perfettamente con i metodi compositivi di Ellington e di Strayhorn, che usano il suono distintivo dei singoli membri dell'orchestra come punto di partenza per le loro composizioni.
La suite inizia e termina con due personaggi neri, Otello e Cleopatra, di cui Ellington e Strayhorn mettono in risalto la capacità seduttiva. Il primo brano - che si intitola come l'album - è il racconto del Moro delle proprie gesta, è la storia con cui ha sedotto Desdemona, una storia che sembra svolgersi in una giungla e non è casuale la citazione alla jungle music che ha caratterizzato la musica di Ellington ai tempi del Cotton Club.
Ed è una suite in cui le donne, i personaggi femminili di Shakespeare si prendono tutta la scena. Già nel titolo, come in Lady Mac - un coinvolgente valzer in cui la tragica morte della regina di Scozia è solo accennata alla fine, ma di cui Ellington e Strayhorn preferiscono raccontare il perturbante fascino ragtime - e in Sonnet for Sister Kate - un blues in cui Caterina Minola emerge con tutta la sua indomabile forza. E anche Antonio sparisce di fronte alla forza di Cleopatra, lo stesso che succede a Romeo in The Star-Crossed Lovers. E Giulietta è il sax contralto di Johnny Hodges, che è con Ellington dai tempi del Cotton Club, ha tentato di fondare una propria orchestra all'inizio degli anni Cinquanta, ma ha deciso di tornare proprio quando sta per nascere questo disco, di cui è indubbiamente uno dei protagonisti. E curiosamente il dramma scozzese ritorna anche in The Telecasters, dedicato alle streghe.
Ellington e Strayhorn si dividono il lavoro. Il primo compone i quattro sonetti, seguendo in maniera esatta la struttura utilizzata da Shakespeare: quattordici linee di dieci battute ciascuna in pentametro giambico, disposte in tre quartine e con un distico di chiusura. Gli studiosi hanno notato che Ellington ha seguito anche il ritmo delle linee poetiche, mantenendo tutte le rime. E infatti i testi di uno qualsiasi dei sonetti di Shakespeare possono essere sovrapposti alle melodie di Ellington senza che sia necessaria alcuna modifica.
Mentre insieme hanno composto Such Sweet Thunder, sicuramente Billy ha scritto da solo il brano su Cleopatra, il delizioso Up and Down, Up and Down, I Will Lead Them, in cui Puck fa correre gli amanti per il bosco fatato e Madness in Great Ones, il brano dedicato ad Amleto. E in questo piccolo capolavoro che tiene insieme il jazz e Stravinskij, Billy credo voglia raccontarci anche qualcosa dei suoi drammi: discriminato nel suo paese perché nero, discriminato nella sua comunità perché omosessuale, senza un riconoscimento pubblico del lavoro che è tutta la sua vita.
Teseo e Ippolita entrano nella foresta intorno ad Atene. Prima di accorgersi dei quattro giovani che giacciono addormentati in una radura, parlano del latrare dei cani. Ippolita racconta di aver partecipato a una battuta di caccia all'orso nei boschi di Creta con Ercole e Cadmo. E ricorda la muta dei loro cani spartani.
Teseo e Ippolita entrano nella foresta intorno ad Atene. Prima di accorgersi dei quattro giovani che giacciono addormentati in una radura, parlano del latrare dei cani. Ippolita racconta di aver partecipato a una battuta di caccia all'orso nei boschi di Creta con Ercole e Cadmo. E ricorda la muta dei loro cani spartani.
I never heard / So musical a discord, such sweet thunder.
Ellington e Strayhorn si divertono a scegliere questo verso per dare il titolo alla loro suite. Quante volte i critici colti - e bianchi - hanno etichettato in maniera denigratoria la musica dei neri, quante volte hanno definito la musica jazz un'accozzaglia di suoni, senza alcuna armonia. Eppure quel tuono, che ha scosso nel profondo la cultura del Novecento, può anche essere dolce, un aggettivo spesso applicato allo stile di Shakespeare.
Ed è proprio grazie a quel tuono così dolce che Desdemona si innamora di Otello.
venerdì 3 luglio 2020
Verba volant (774): corte...
Invece vi voglio raccontare cosa sia una corte, dal momento che si tratta di una tipologia architettonica abitativa che è presente solo in questa parte della pianura padana. Anch'io, che pure sono nato e cresciuto in campagna, soltanto a un centinaio di chilometri da qui, non la conoscevo, se non attraverso i film - oltre a Novecento c'è lo splendido L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi - perché nel bolognese ci sono case coloniche in cui normalmente abitava una sola famiglia di contadini, per quanto numerosa e stratificata nelle generazioni.
La corte - o cascina, come molti la chiamano, ma in Toscana la cascina è una casa semplice, per una sola famiglia - è un complesso di edifici che si sviluppa in forma quadrangolare intorno a un grande cortile: alcuni di questi edifici sono utilizzati come abitazioni, mentre gli altri sono stalle, fienili, magazzini, ricoveri per attrezzi. Nelle corti molto grandi ci può essere anche una chiesa e un'osteria, perché le corti sono in genere lontane dai paesi e un tempo muoversi per questa pianura, attraverso le nebbie, non era affatto agevole: meglio stare dove si è al sicuro. Per lo più si accede alla corte da un unico portone e quindi queste strutture assumono un po' l'aspetto di fortificazioni che spuntano in mezzo alla pianura. Naturalmente cambiano le dimensioni, ci sono corti in cui abitavano cinque o sei famiglie e altre, specialmente nelle aree più vicine al Po, che potevano arrivare a ospitarne anche venti. E ovviamente non erano le piccole famiglie a cui siamo ormai abituati. Quasi mai il proprietario abitava nella corte, ma ci viveva il fittavolo, in una casa che naturalmente si distingueva da quelle dove vivevano tutti gli altri contadini. Questo sistema sociale prima che urbanistico è il modo che gli uomini che vivevano secoli fa questa parte della pianura, tanto ricca quanto potenzialmente pericolosa a causa della presenza del Po e dei suoi affluenti, hanno sviluppato per renderla il più produttiva possibile. La ricchezza della nostra pianura nasce anche dalle corti e, proprio come ci spiegano i film di Olmi e Bertolucci, anche la solidarietà e le lotte sociali così forti in queste terre nascono nella vita, spesso molto dura, di queste comunità. Anche chi di voi è nato in città è in qualche modo figlio di queste corti.
Lo spunto di queste riflessioni è stata una felice idea degli amici che organizzano il Teatro di Ragazzola. Ragazzola è una piccola frazione di un comune di nemmeno tremila abitanti che si chiama Roccabianca. E in questo sperduto angolo della pianura ci sono due teatri e una ricca stagione, che può rivaleggiare con quelle delle grandi città. Naturalmente anche il Teatro di Ragazzola ha dovuto fermarsi per la "peste", ma appena è stato possibile, ha deciso di riprendere, organizzando due spettacoli all'aperto nella Corte Le Giare, che è esattamente una corte come ho descritto sopra.
Osservando quei vecchi edifici ho pensato che anche i miei nonni, Carmelo e Sofia, Vincenzo e Lalla, sono nati all'inizio del Novecento, più o meno coetanei di Olmo e di Alfredo. Non è passato molto tempo, ma né i nipoti di Olmo né quelli di Alfredo vivono più in quella corte. Sono probabilmente la prima generazione da secoli a non essere nata laggiù. Così come io sono della prima generazione della mia famiglia a essere nato in un ospedale e non a casa, a essermi laureato, a non aver dovuto lavorare in campagna per vivere.
Probabilmente il pronipote di Alfredo vive a Milano, in un appartamento di qualche grattacielo di lusso, mentre il pronipote di Olmo abita in una villetta a schiera a Fontanellato o a Busseto. Il pronipote di Alfredo non è più il proprietario della terra o meglio è il presidente della società che possiede quella grande azienda agricola e anche dell'immobiliare che invece controlla quel complesso di edifici, perché è stato fiscalmente più vantaggioso dividere le due cose. Mentre il pronipote di Olmo continua a lavorare per l'azienda come agronomo. Ha studiato, si è laureato, applica in azienda tutte le tecnologie per renderla più produttiva.
E chi vive nella corte? Quando siamo arrivati a "teatro", oltre agli amici di Ragazzola e a quelli della Protezione civile che hanno verificato che non avessimo la febbre e che tutto si svolgesse in maniera ordinata e regolare, ci hanno accolto due signore indiane con i loro coloratissimi abiti tradizionali e dei bambini che correvano con sicurezza nel cortile, incuriositi dai preparativi per gli spettacoli.
Perché i contadini continuano a vivere nella corte, come un secolo fa, ma adesso sono indiani, si chiamano Singh e Kaur, sono arrivati dall'altra parte del mondo, da una terra che Olmo e Alfredo potevano solo immaginare. E vivono lì con le loro famiglie. I loro figli si muovono con la sicurezza di Olmo e Alfredo, giocando a nascondino in quel labirinto di edifici adesso per lo più disabitati o inutilizzati. Perché adesso basta una famiglia, al massimo due. I ricoveri degli attrezzi sono vuoti, perché i mezzi meccanici, i grandi trattori, sono fuori, al riparo delle grandi tettoie. Le stalle sono sempre piene, perché gli indiani sono ottimi allevatori: sono loro che producono molto del latte che poi diventa il parmigiano-reggiano o il grana padano - a seconda della riva del Po su cui viene prodotto - due dei simboli della cucina italiana nel mondo. E probabilmente quelle bambine e quei bambini non saranno contadini come i loro genitori. Stanno studiando, il loro futuro, come è successo a quelli della mia generazione, sarà da un'altra parte.
Non voglio trarre una conclusione politica da questa storia, che tiene insieme la bandiera rossa di Novecento e la speranza che possiamo leggere negli occhi di quelle bambine e di quei bambini. Anche se voi naturalmente potete farlo. Mi piace pensare a questo angolo nebbioso di pianura, un "mondo piccolo", come diceva un altro nato quaggiù, che però tiene insieme tutto questo.
lunedì 29 giugno 2020
Verba volant (773): contrabbasso...
Contrabbasso, sost. m.
Ciao tesoro, come è andata?
Fred è felice di tornare nel loro piccolo appartamento di Forestville, ma soprattutto quella sera è felice di vedere Mary. Oggi mi hanno mandato alla torre. Da solo.
Ma lavori al St. Elizabeths solo da due settimane.
Ci sono problemi di personale. E così il supervisore ha detto che toccava a me, che ormai sono pronto per la torre.
E come è andata?
Il supervisore mi ha detto di non preoccuparmi, di attenermi scrupolosamente al registro, di portare ai pazienti le medicine nelle dosi e negli orari indicati. E Tom prima di andare mi ha detto che è un lavoro facile: basta stare lì e guardare le gabbie. Non c'è altro da fare. Non ci mettono neppure un dottore, perché dice che tanto lì i dottori non servono, lì ci sono quelli che non possono guarire. E che comunque non saprebbero neppure come curare.
E tu?
Ho guardato le gabbie e ho portato le medicine come dice il registro. Oggi non erano previste terapie né elettroshock. E comunque farò meglio ad abituarmi. Stanno trasferendo i pazienti meno gravi in altre strutture. Al St. Elizabeths rimarranno i criminali e gli incurabili. Credo che mi toccheranno sempre più spesso i turni alla torre. Credevo ci fosse rumore, credevo di sentire di continuo le urla dei pazienti. Mi ha sorpreso il silenzio. Gli unici rumori sono stati quelli dei miei passi lungo il corridoio e dei piccoli sportelli attraverso cui ho fatto passare le medicine e il cibo. Quel silenzio può farti diventare pazzo. Ho passato la giornata sognando di ascoltare un qualche disco della Blue Note.
Mary quella sera ha fatto tardi, quando entra in casa Fred è già arrivato. L'ha capito anche prima di aprire la porta: ha sentito Light blue di Thelonious Monk. Ciao tesoro, hai solo ascoltato dei dischi o hai anche preparato la cena?
Ciao Mary. Oggi ho letto il registro.
Cosa?
Lo leggo sempre, ma non avevo mai letto la prima pagina, quella dove ci sono i nomi dei pazienti. In genere li indichiamo con il numero. Non so perché, ma per infrangere quel silenzio oggi pomeriggio ho deciso di conoscere i loro nomi e ho visto che il n. 23 si chiama Edward Rudolph Warren.
Allora?
Senti il contrabbasso in questo pezzo? È lui, è Ed "Butch" Warren. Ho tanti dischi in cui suona. Con Donald Byrd, con Dexter Gordon, con Sonny Clark, con Hank Mobley, e naturalmente con Monk. È lui che suona il contrabbasso in Watermelon man di Herbie Hancock.
Ma sei sicuro che sia lui? Come ci sarebbe finito uno come lui al St. Elizabeths.
No, non sono sicuro. Non l'ho mai visto dal vivo e nelle copertine dei miei album non c'è una sua foto. L'uomo nella camera n. 23 ha trent'anni, ma sembra molto più vecchio, è rinchiuso lì per schizofrenia paranoide. Almeno così dice il registro. Non parla mai. Ma lì nessuno parla mai. Non gli posso chiedere se è lui Butch Warren. Però non ho suoi dischi dopo il '64: e questo mi fa sospettare.
Ma all'ospedale cosa dicono?
Ne sanno poco, ma d'altra parte sanno poco di tutti i pazienti. Sembra che abbia chiesto lui di farsi ricoverare. Non è indicata la professione. Uno si ricorda che quando è arrivato sembrava un barbone, che per lui si è fatto ricoverare solo per avere un letto e tre pasti al giorno. Ma nessuno sano di mente verrebbe volontariamente al St. Elizabeths e accetterebbe gli elettroshock solo per quello schifo che gli passiamo. Domani voglio fare un salto al negozio di Winston ad Anacostia. Lui conosce tutti.
Va bene, ma ricordati che questo mese hai già comprato un album. Dobbiamo risparmiare. E la regola è un disco al mese.
Mary sa che quella sera Fred tornerà con un album: non può andare al negozio di Winston senza prenderne uno.
Amore, ti prometto che questo è quello del prossimo mese, ma è appena uscito il nuovo di Miles Davis, In a silent way.
Mary sorride. Dimmi piuttosto cosa hai saputo del tuo misterioso paziente.
A quello che ne sa Winston potrebbe anche essere lui. A dire il vero di Butch Warren non si sa nulla da qualche anno. Nel '63 suonava con Monk e lì girava molta eroina. All'inizio dell'anno è morto il suo amico Sonny Clark e poi sembra che sia stato molto colpito dall'uccisione di Kennedy. Winston dice che a un certo punto Butch è come sparito. O forse non l'hanno mai cercato. E adesso nessuno sa dove sia. Secondo lui è morto da qualche parte, forse a New York. O forse è ancora vivo, come si può essere vivi al St. Elizabeths.
Ho parlato con il medico che lo ha in cura. Come prevedevo dice che non è una cosa importante sapere chi sia quell'uomo. Che secondo lui non è un musicista. Dice che l'unica cosa è continuare con gli elettroshock.
Quando Mary rientra dalla lavanderia dove lavora, Fred è sprofondato nel divano. Sta ascoltando Leapin' and lopin'. Ormai anche lei sa che in quel disco è Butch Warren che suona il contrabbasso.
Mary, non ne posso più del St. Elizabeths, non ho studiato da infermiere per fare il guardiano di un carcere. E non è solo per la storia di Edward Warren, chiunque egli sia. Non mi importa se sia o meno un genio della musica, ma non merita di stare in quelle condizioni, così come tutti gli altri. Perfino quelli che hanno commesso dei crimini non meritano i continui elettroshock, le dosi sempre più massicce di psicofarmaci, non meritano quel terrificante silenzio. Ho trovato un posto in una struttura che gestisce i malati in una casa famiglia, lì finalmente posso aiutare qualcuno. Però lo stipendio è più basso. Ma non ce la faccio più.
Domenica 21 maggio 2006, trentasette anni dopo, Fred ha saputo che aveva ragione: quell'uomo della n. 23 era davvero Butch Warren.
È scritto in un articolo del Washington Post, firmato da Marc Fisher. Il giornalista ha incontrato Butch nell'ospedale psichiatrico dove vive, nel Maryland, a meno di cinquanta miglia da Washington. Lo ho "scoperto" un infermiere, che - a differenza di Fred - ha avuto a disposizione internet; lui non è un appassionato di jazz, ma si è incuriosito perché quel vecchio senza denti si mette al piano della sala ricreativa e suona per gli altri pazienti. Fred conosce la storia di Butch fino al St. Elizabeths.
Ciao tesoro, come è andata?
Fred è felice di tornare nel loro piccolo appartamento di Forestville, ma soprattutto quella sera è felice di vedere Mary. Oggi mi hanno mandato alla torre. Da solo.
Ma lavori al St. Elizabeths solo da due settimane.
Ci sono problemi di personale. E così il supervisore ha detto che toccava a me, che ormai sono pronto per la torre.
E come è andata?
Il supervisore mi ha detto di non preoccuparmi, di attenermi scrupolosamente al registro, di portare ai pazienti le medicine nelle dosi e negli orari indicati. E Tom prima di andare mi ha detto che è un lavoro facile: basta stare lì e guardare le gabbie. Non c'è altro da fare. Non ci mettono neppure un dottore, perché dice che tanto lì i dottori non servono, lì ci sono quelli che non possono guarire. E che comunque non saprebbero neppure come curare.
E tu?
Ho guardato le gabbie e ho portato le medicine come dice il registro. Oggi non erano previste terapie né elettroshock. E comunque farò meglio ad abituarmi. Stanno trasferendo i pazienti meno gravi in altre strutture. Al St. Elizabeths rimarranno i criminali e gli incurabili. Credo che mi toccheranno sempre più spesso i turni alla torre. Credevo ci fosse rumore, credevo di sentire di continuo le urla dei pazienti. Mi ha sorpreso il silenzio. Gli unici rumori sono stati quelli dei miei passi lungo il corridoio e dei piccoli sportelli attraverso cui ho fatto passare le medicine e il cibo. Quel silenzio può farti diventare pazzo. Ho passato la giornata sognando di ascoltare un qualche disco della Blue Note.
Mary quella sera ha fatto tardi, quando entra in casa Fred è già arrivato. L'ha capito anche prima di aprire la porta: ha sentito Light blue di Thelonious Monk. Ciao tesoro, hai solo ascoltato dei dischi o hai anche preparato la cena?
Ciao Mary. Oggi ho letto il registro.
Cosa?
Lo leggo sempre, ma non avevo mai letto la prima pagina, quella dove ci sono i nomi dei pazienti. In genere li indichiamo con il numero. Non so perché, ma per infrangere quel silenzio oggi pomeriggio ho deciso di conoscere i loro nomi e ho visto che il n. 23 si chiama Edward Rudolph Warren.
Allora?
Senti il contrabbasso in questo pezzo? È lui, è Ed "Butch" Warren. Ho tanti dischi in cui suona. Con Donald Byrd, con Dexter Gordon, con Sonny Clark, con Hank Mobley, e naturalmente con Monk. È lui che suona il contrabbasso in Watermelon man di Herbie Hancock.
Ma sei sicuro che sia lui? Come ci sarebbe finito uno come lui al St. Elizabeths.
No, non sono sicuro. Non l'ho mai visto dal vivo e nelle copertine dei miei album non c'è una sua foto. L'uomo nella camera n. 23 ha trent'anni, ma sembra molto più vecchio, è rinchiuso lì per schizofrenia paranoide. Almeno così dice il registro. Non parla mai. Ma lì nessuno parla mai. Non gli posso chiedere se è lui Butch Warren. Però non ho suoi dischi dopo il '64: e questo mi fa sospettare.
Ma all'ospedale cosa dicono?
Ne sanno poco, ma d'altra parte sanno poco di tutti i pazienti. Sembra che abbia chiesto lui di farsi ricoverare. Non è indicata la professione. Uno si ricorda che quando è arrivato sembrava un barbone, che per lui si è fatto ricoverare solo per avere un letto e tre pasti al giorno. Ma nessuno sano di mente verrebbe volontariamente al St. Elizabeths e accetterebbe gli elettroshock solo per quello schifo che gli passiamo. Domani voglio fare un salto al negozio di Winston ad Anacostia. Lui conosce tutti.
Va bene, ma ricordati che questo mese hai già comprato un album. Dobbiamo risparmiare. E la regola è un disco al mese.
Mary sa che quella sera Fred tornerà con un album: non può andare al negozio di Winston senza prenderne uno.
Amore, ti prometto che questo è quello del prossimo mese, ma è appena uscito il nuovo di Miles Davis, In a silent way.
Mary sorride. Dimmi piuttosto cosa hai saputo del tuo misterioso paziente.
A quello che ne sa Winston potrebbe anche essere lui. A dire il vero di Butch Warren non si sa nulla da qualche anno. Nel '63 suonava con Monk e lì girava molta eroina. All'inizio dell'anno è morto il suo amico Sonny Clark e poi sembra che sia stato molto colpito dall'uccisione di Kennedy. Winston dice che a un certo punto Butch è come sparito. O forse non l'hanno mai cercato. E adesso nessuno sa dove sia. Secondo lui è morto da qualche parte, forse a New York. O forse è ancora vivo, come si può essere vivi al St. Elizabeths.
Ho parlato con il medico che lo ha in cura. Come prevedevo dice che non è una cosa importante sapere chi sia quell'uomo. Che secondo lui non è un musicista. Dice che l'unica cosa è continuare con gli elettroshock.
Quando Mary rientra dalla lavanderia dove lavora, Fred è sprofondato nel divano. Sta ascoltando Leapin' and lopin'. Ormai anche lei sa che in quel disco è Butch Warren che suona il contrabbasso.
Mary, non ne posso più del St. Elizabeths, non ho studiato da infermiere per fare il guardiano di un carcere. E non è solo per la storia di Edward Warren, chiunque egli sia. Non mi importa se sia o meno un genio della musica, ma non merita di stare in quelle condizioni, così come tutti gli altri. Perfino quelli che hanno commesso dei crimini non meritano i continui elettroshock, le dosi sempre più massicce di psicofarmaci, non meritano quel terrificante silenzio. Ho trovato un posto in una struttura che gestisce i malati in una casa famiglia, lì finalmente posso aiutare qualcuno. Però lo stipendio è più basso. Ma non ce la faccio più.
Domenica 21 maggio 2006, trentasette anni dopo, Fred ha saputo che aveva ragione: quell'uomo della n. 23 era davvero Butch Warren.
È scritto in un articolo del Washington Post, firmato da Marc Fisher. Il giornalista ha incontrato Butch nell'ospedale psichiatrico dove vive, nel Maryland, a meno di cinquanta miglia da Washington. Lo ho "scoperto" un infermiere, che - a differenza di Fred - ha avuto a disposizione internet; lui non è un appassionato di jazz, ma si è incuriosito perché quel vecchio senza denti si mette al piano della sala ricreativa e suona per gli altri pazienti. Fred conosce la storia di Butch fino al St. Elizabeths.
Dimesso dall'ospedale Ed ha lavorato un po', aggiustando radio e apparecchi televisivi o pulendo i pavimenti negli uffici della Marina, ha fatto anche qualche serata, ma soprattutto è stato un barbone. Una volta è stato arrestato. Una notte d'inverno la polizia lo ha trovato dentro un negozio la cui porta era stata forzata: ha raccontato di averla trovata così e di essere entrato mentre l'allarme ancora suonava, perché aveva freddo. La sua vita è stata così: qualche notte in prigione, molte nei rifugi per i senzatetto e nei dormitori delle chiese e finalmente l'ospedale per vecchi malati di mente. Butch però non se n'è mai andato da Washington, dalla città in cui era scomparso, e in cui tutti lo credevano morto. Ma in cui nessuno lo ha mai davvero cercato. E in cui, dopo quell'articolo, è tornato a fare qualche concerto. Elegante e preciso come cinquantanni prima, quando tutti volevano suonare con lui, perché lui era una garanzia. Perché, come ha detto un suo collega, Ed non può prendersi cura di sé, ma può ancora suonare.
Edward Rudolph Warren, detto Butch, nato a Washington DC il 9 agosto 1939, è morto a Silver Spring, nella casa di cura dove viveva e dove suonava per gli altri pazienti, il 5 ottobre 2013.
Nella primavera del 2010 a Washington è stato aperto un nuovo ospedale psichiatrico e gli edifici in cui era ospitato il St. Elizabeth definitivamente chiusi. Alla fine del 2007 il Dipartimento di Giustizia del governo federale e gli uffici del Distretto di Columbia hanno finalmente trovato un accordo per chiudere i contenziosi aperti da cittadini e associazioni per lesioni ai diritti civili all'interno dell'ospedale. Il Distretto di Columbia ha accettato le proprie responsabilità, anche se non ha ancora avviato un controllo con i radar nel terreno per cercare i resti dei pazienti. I registri per decenni sono stati mal tenuti e quindi non si sa quante persone siano state effettivamente ospitate nell'ospedale, né quante siano morte. Il fatto che nell'area del campus ci fosse un inceneritore fa supporre che non si saprà mai.
mercoledì 24 giugno 2020
Verba volant (772): oca...
Oca, sost. f.
Se alla fine degli anni Trenta, dopo aver pagato cinquanta centesimi, attraversavi il portone rosso del Village Vanguard, al 178 della Settima Avenue South, appena sotto l'Undicesima strada, ed entravi in quella piccola e fumosa sala triangolare - infatti il precedente proprietario aveva chiamato il suo locale The Golden Triangle - sapevi subito da parte del mondo stavi. Intanto perché eri proprio in mezzo al Village e poi perché alle pareti c'erano quadri e manifesti che sostenevano la causa della Repubblica spagnola. Perché, sempre grazie a quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare Maxwell Bodenheim - il "re dei Village Bohemians", il cui omicidio è stato uno scandalo nell'America puritana degli anni Cinquanta - o Harry Kemp, il "poeta vagabondo", leggere le loro poesie o ascoltare Huddie William Ledbetter - che però tutti chiamavano Lead Belly, piancia di piombo, un soprannome che gli hanno dato i suoi compagni in carcere - suonare la chitarra a dodici corde. Tutti gli "irregolari" del Village si trovavano in quel club aperto il 22 febbraio 1935 da Max Gordon. E poi si suonava jazz, e bianchi e neri sedevano insieme, sopra e sotto il palco, in maniera scandalosa per l'America di quegli anni. E, sempre per quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare anche The Revuers, un quintetto formato da due ragazze e tre ragazzi, tutti di New York, e tutti di famiglie ebraiche arrivate dall'Europa centrale e orientale, che cantavano e facevano cabaret.
In quel quintetto ci sono anche Adolph Green, nato nel 1914 nel Bronx - lo riconosci subito con quelle orecchie a sventola e i denti da castoro - e Basya Cohen, una ragazza dall'aria sofisticata, nata a Brooklyn nel 1917, che si fa chiamare Betty Comden. Green ha un coinquilino, è l'unico in questa storia a non essere di New York. È nato nel 1918 a Lawrence, nel Massachusetts, ma anche lui è figlio di due ebrei ucraini emigrati anni prima in America; ha studiato pianoforte e composizione ad Harvard. Mentre tira avanti trascrivendo musica e componendo arrangiamenti, Leonard Bernstein si diverte a suonare il piano al Village Vanguard, accompagnando i suoi amici Revuers. Un bello spettacolo per soli cinquanta centesimi.
Adolph e Betty sono due bravi cantanti, due discreti attori, ma si rendono presto conto che non riusciranno a sfondare: lui con quella faccia al massimo può fare qualche ruolo da caratterista e lei non ha proprio il fisico da pin-up. Però sanno scrivere, e quando lo fanno insieme hanno un'incredibile capacità di inventare libretti, sceneggiature e testi di canzoni: nasce così la "ditta" Comden e Green, che per quasi sessant'anni sforna successi per Broadway e Hollywood.
Alla fine del 1944 debutta il loro primo musical, intitolato On the town, con le musiche dell'amico Leonard, che qualche anno prima è nominato direttore assistente della Filarmonica di New York ed è diventato noto quando in un concerto alla Carnegie Hall ha dovuto sostituire Bruno Walter, il grande direttore che ha scelto l'America perché non può più esibirsi nella Germania nazista.
On the town è la storia di tre marinai che, prima di partire per l'Europa dove dovranno combattere i fascisti, hanno una licenza di un giorno a New York e in quelle ventiquattro ore fanno di tutto per trovare una ragazza. Qualche anno dopo, quando Comden e Green saranno sbarcati a Hollywood, quel musical diventerà il film che noi conosciamo con il titolo Un giorno a New York, con Gene Kelly, Frank Sinatra e Jules Munshin nella parte dei tre marinai. Quella produzione di Broadway viene ricordata anche perché nel cast ci sono sei neri e la protagonista femminile è la ballerina di origine giapponese Sono Osato. Anche Adolph e Betty recitano in quella produzione: sono il marinaio Ozzie e la sua "innamorata" Claire. Nonostante il successo, sarà però l'ultima volta che lo faranno. La loro carriera è ormai un'altra.
Peraltro Adolph e Betty non saranno mai una coppia, anche se nella sceneggiatura di The Band wagon - un altro dei loro grandi successi, del 1953, che noi conosciamo con il titolo Spettacolo di varietà, diretto da Vincente Minnelli e interpretato da un grandissimo Fred Astaire - i due autori dello spettacolo, Lester e Lily, che Adolph e Betty hanno creato su di loro, sono sposati.
Comunque ad Hollywood due sceneggiatori di New York sono un investimento sicuro: non sbagliano un film. Il loro grande successo è la sceneggiatura di Singin' in the rain del 1952, il capolavoro di Gene Kelly e Stanley Donen. Nel 1939 anche Joy Davidman è stata a Hollywood, sei mesi a scrivere sceneggiature, sotto contratto con la Metro: ne ha completate almeno quattro, ma nessuna è stata giudicata "utilizzabile" dagli studios.
Ma cerchiamo di non divagare troppo, torniamo al Village Vanguard nel 1938. La "stella" dei Revuers è Judith Tuvim, una ragazza nata nel 1921 nel Queens che ha scelto come nome d'arte Judy Holliday. A Judith piace cantare, glielo ha insegnato la madre che suona il piano, e sogna di entrare nel mondo dello spettacolo, ma all'inizio è solo la centralinista del Mercury, il teatro che Orson Welles e John Houseman hanno aperto con non poche difficoltà al 110 West della 41esima Strada.
I due hanno già sfidato il sistema mettendo in scena negli anni precedenti una produzione con solo attori neri di Shakespeare, il Voodoo Macbeth, e soprattutto il musical The Cradle will rock, scritto da Marc Blitzstein, un compositore e un autore di canzoni, che ama molto le opere di Brecht e ne condivide le idee. E che è amico di Bernstein. Quando, visto il tenore del libretto, il Federal theatre project ritira il proprio sostegno finanziario all'opera, non è più possibile mettere in scena il dramma e così il 16 giugno 1937 Blitzstein, Welles e la compagnia occupano un teatro e lo rappresentano comunque, senza scene e costumi, con il solo Blitzstein che, al pianoforte, sostituisce l'intera orchestra. Welles e Houseman sanno decisamente da che parte stare. La prima produzione del Mercury è una versione del Giulio Cesare di Shakespeare ambientata nell'Italia fascista: il personaggio del titolo viene caratterizzato come Mussolini e Welles tiene per sé la parte di Bruto.
Ma torniamo a Judy. Nel '44 i Revuers non ci sono più e così lei va a Hollywood, dove ottiene una piccola parte in un film di Geoge Cukor. Poi torna a Broadway, ma la sua carriera non sembra riuscire ad avere una svolta. Fino al 1946, grazie alla paura del palcoscenico di Jean Arthur. Jean è l'attrice preferita di Frank Capra, una sorta di versione femminile di James Stewart, è stata anche una delle quattro a essere in lizza per la parte di Scarlet in Via col vento, è una celebrità e quando Garson Kanin - che è a nato a Rochester, nello stato di New York nel 1912 - vuole mettere in scena la sua commedia Born yesterday, pensa subito a lei, ma Jean ha violente crisi di panico, vomita in camerino, ed è costretta a lasciare. E così, inaspettatamente, viene chiamata Judy.
La storia la conoscete, grazie al film Nata ieri, diretto da George Cukor nel 1950. O forse per il remake del 1993, a uso e consumo della coppia Melanie Griffith e Don Johnson. Harry Brock è un uomo d'affari rozzo e ignorante che porta la sua amichetta Billie Dawn a Washington. Dal momento che l'ingenua ignoranza di Billie rischia di diventare un problema, Brock assume un giornalista, Paul Verrall, che deve educare la ragazza. Ma Billie, che non è così stupida come sembra, non solo impara in fretta le cose che le vengono spiegate da Paul, ma soprattutto capisce quanto Harry e i suoi amici politici siano corrotti e riesce a smascherare tutti i loro piani. Judy è perfetta a interpretare Billie, per il sorriso smagliante, per i grandi occhi ingenui, per quell'aria da stupida e per la vocina querula, che nel doppiaggio italiano è resa alla perfezione dalla grandissima Rina Morelli. Quello spettacolo è un successo incredibile: 1.642 repliche, dal 4 febbraio 1946 al 31 dicembre del '49.
Come avviene sempre in questi casi gli studios vogliono sfruttare il successo, ma non vogliono rischiare con un'attrice sconosciuta. Sembra che perfino Kanin tenti di boicottarla, accordandosi con Spencer Tracy affinché Judy abbia una parte importante nel film La costola di Adamo, pur di non farle fare Nata ieri. Però Cukor conosce Judy e la Columbia decide di tentare. Anche il film è un successo al botteghino. E Judy Holliday vince l'Oscar come miglior attrice, battendo Gloria Swanson, nominata per Viale del tramonto, Bette Davis e Anne Baxter, entrambe per Eva conttro Eva. È nata una nuova stella.
Judy però non vuole rimanere nella parte della stupida che Hollywood le sta cucendo addosso. Interpreta qualche altro film, non memorabile, ma vuole tornare a Broadway. Comden e Green, i suoi vecchi amici del Village, e il compositore inglese Jule Styne hanno scritto un musical che è perfetto per Judy, Bells are ringing, la storia di una centralinista che cambia voce e identità per i suoi clienti, imparandoli a conoscere e anche a innamorarsi di uno di loro, pur non avendoli mai visti, ma solo attraverso la loro voce. È una divertente commedia degli equivoci, scritta con la solita verve dai due autori. Nel 1957 Judy vince il Tony per la sua interpretazione e quando Hollywood decide che il musical diventerà un film diretto da Vincente Minnelli - in Italia lo conosciamo con il brutto titolo Susanna agenzia squillo - non ci sono dubbi che lei debba esserne la protagonista. È purtroppo il suo ultimo film: nel 1965, due settimane prima di festeggiare i quarantaquattro anni, Judy Holliday muore a causa di un tumore al seno.
Judy ha vinto un Oscar, è una stella, ma è pur sempre la ragazza che cantava al Village Vangard, accompagnata al piano da quel sovversivo di Bernstein e con alle spalle i manifesti con la scritta ¡No pasarán!, è una che alla fine degli anni Trenta ha scelto da che parte stare. E poi è una donna intelligente, una che pensa con la sua testa. E così il suo nome è nella "lista nera" e nel '51 viene convocata dalla sottocommissione del Senato che indaga sulle infiltrazioni dei comunisti nel mondo dello spettacolo. È la "caccia alle streghe": vogliono le ammissioni e soprattutto vogliono i nomi di tutti gli altri. Molti si salveranno solo denunciando altri, magari mentendo. Lei viene convocata a Washington, ma Judy decide che di fronte a quei parrucconi bigotti del Senato non andrà lei, andrà Billie Dawn, la più famosa oca di Hollywood. È uno spasso vedere Billie che si prende gioco della sottocommissione; e Judy viene assolta e nessuno avrà più il coraggio di chiamarla a deporre. Qualche sua amica la critica per questa decisione: avrebbe dovuto battersi con la forza della sua intelligenza, ma Judy difende la sua scelta, perché non ha fatto nomi. E poi che forza quello sberleffo di una donna di fronte a quegli uomini che si sentono così tronfi.
Nel 1956 Leonard Berstein è ormai uno dei più importanti direttori d'orchestra del mondo. Nel '53 è stato il primo americano a dirigere alla Scala. In quell'anno decide di mettere in scena un'operetta basata sul Candide di Voltaire, perché neppure quello in cui stanno vivendo è "il migliore dei mondi possibili". La drammaturga comunista Lillian Hellman scrive il libretto, che però non riesce a rendere l'ironia volterriana né a reggere la forza della musica di Bernstein. L'opera subirà nel corso degli anni diversi rimaneggiamenti, ma finalmente il 13 dicembre 1989 Bernstein ci consegna, a meno di un anno dalla morte, la versione che oggi possiamo considerare definitiva. Lo stesso Maestro dirige la London Symphony Orchestra. Per interpretare Candido e Cunegonda chiama due cantanti d'opera molto noti, Jerry Hadley e June Anderson, ma per la parte del narratore e del dottor Pangloss vuole il suo vecchio coinquilino, che ritorna così, per l'ultima volta, sulle scene. Quella sera non hanno pagato cinquanta centesimi per sentire cantare Adolph Green e suonare Leonard Bernstein. Judy Holliday sarebbe stata perfetta nella parte della Vecchia Signora. Quando quel personaggio canta, con innegabile ironia I'm easily assimilated, Leonard e Adolph devono aver pensato, almeno per un attimo, alla loro amica del Village Vanguard.
Quando andate a New York, su un marciapiede della 41esima strada c'è una targa, voluta dalla New York Public Library, è una citazione di Nata ieri, leggetela e pensate a Judy.
Mi sembra che nel '38 tu avessi solo due scelte: o eri fascista e conquistavi il mondo o eri comunista e lo salvavi.Non so se Joy Davidman, la poetessa e scrittrice nata a New York nel 1915, abbia davvero detto questa frase a C.S. Lewis - come è raccontato nel film Viaggio in Inghilterra - ma è sostanzialmente vero. Certamente per lei è stato cosi. Forse adesso quella scelta può sembrarci facile. E perfino scontata. Ma in quel tempo evidentemente non era così.
Se alla fine degli anni Trenta, dopo aver pagato cinquanta centesimi, attraversavi il portone rosso del Village Vanguard, al 178 della Settima Avenue South, appena sotto l'Undicesima strada, ed entravi in quella piccola e fumosa sala triangolare - infatti il precedente proprietario aveva chiamato il suo locale The Golden Triangle - sapevi subito da parte del mondo stavi. Intanto perché eri proprio in mezzo al Village e poi perché alle pareti c'erano quadri e manifesti che sostenevano la causa della Repubblica spagnola. Perché, sempre grazie a quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare Maxwell Bodenheim - il "re dei Village Bohemians", il cui omicidio è stato uno scandalo nell'America puritana degli anni Cinquanta - o Harry Kemp, il "poeta vagabondo", leggere le loro poesie o ascoltare Huddie William Ledbetter - che però tutti chiamavano Lead Belly, piancia di piombo, un soprannome che gli hanno dato i suoi compagni in carcere - suonare la chitarra a dodici corde. Tutti gli "irregolari" del Village si trovavano in quel club aperto il 22 febbraio 1935 da Max Gordon. E poi si suonava jazz, e bianchi e neri sedevano insieme, sopra e sotto il palco, in maniera scandalosa per l'America di quegli anni. E, sempre per quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare anche The Revuers, un quintetto formato da due ragazze e tre ragazzi, tutti di New York, e tutti di famiglie ebraiche arrivate dall'Europa centrale e orientale, che cantavano e facevano cabaret.
In quel quintetto ci sono anche Adolph Green, nato nel 1914 nel Bronx - lo riconosci subito con quelle orecchie a sventola e i denti da castoro - e Basya Cohen, una ragazza dall'aria sofisticata, nata a Brooklyn nel 1917, che si fa chiamare Betty Comden. Green ha un coinquilino, è l'unico in questa storia a non essere di New York. È nato nel 1918 a Lawrence, nel Massachusetts, ma anche lui è figlio di due ebrei ucraini emigrati anni prima in America; ha studiato pianoforte e composizione ad Harvard. Mentre tira avanti trascrivendo musica e componendo arrangiamenti, Leonard Bernstein si diverte a suonare il piano al Village Vanguard, accompagnando i suoi amici Revuers. Un bello spettacolo per soli cinquanta centesimi.
Adolph e Betty sono due bravi cantanti, due discreti attori, ma si rendono presto conto che non riusciranno a sfondare: lui con quella faccia al massimo può fare qualche ruolo da caratterista e lei non ha proprio il fisico da pin-up. Però sanno scrivere, e quando lo fanno insieme hanno un'incredibile capacità di inventare libretti, sceneggiature e testi di canzoni: nasce così la "ditta" Comden e Green, che per quasi sessant'anni sforna successi per Broadway e Hollywood.
Alla fine del 1944 debutta il loro primo musical, intitolato On the town, con le musiche dell'amico Leonard, che qualche anno prima è nominato direttore assistente della Filarmonica di New York ed è diventato noto quando in un concerto alla Carnegie Hall ha dovuto sostituire Bruno Walter, il grande direttore che ha scelto l'America perché non può più esibirsi nella Germania nazista.
On the town è la storia di tre marinai che, prima di partire per l'Europa dove dovranno combattere i fascisti, hanno una licenza di un giorno a New York e in quelle ventiquattro ore fanno di tutto per trovare una ragazza. Qualche anno dopo, quando Comden e Green saranno sbarcati a Hollywood, quel musical diventerà il film che noi conosciamo con il titolo Un giorno a New York, con Gene Kelly, Frank Sinatra e Jules Munshin nella parte dei tre marinai. Quella produzione di Broadway viene ricordata anche perché nel cast ci sono sei neri e la protagonista femminile è la ballerina di origine giapponese Sono Osato. Anche Adolph e Betty recitano in quella produzione: sono il marinaio Ozzie e la sua "innamorata" Claire. Nonostante il successo, sarà però l'ultima volta che lo faranno. La loro carriera è ormai un'altra.
Peraltro Adolph e Betty non saranno mai una coppia, anche se nella sceneggiatura di The Band wagon - un altro dei loro grandi successi, del 1953, che noi conosciamo con il titolo Spettacolo di varietà, diretto da Vincente Minnelli e interpretato da un grandissimo Fred Astaire - i due autori dello spettacolo, Lester e Lily, che Adolph e Betty hanno creato su di loro, sono sposati.
Comunque ad Hollywood due sceneggiatori di New York sono un investimento sicuro: non sbagliano un film. Il loro grande successo è la sceneggiatura di Singin' in the rain del 1952, il capolavoro di Gene Kelly e Stanley Donen. Nel 1939 anche Joy Davidman è stata a Hollywood, sei mesi a scrivere sceneggiature, sotto contratto con la Metro: ne ha completate almeno quattro, ma nessuna è stata giudicata "utilizzabile" dagli studios.
Ma cerchiamo di non divagare troppo, torniamo al Village Vanguard nel 1938. La "stella" dei Revuers è Judith Tuvim, una ragazza nata nel 1921 nel Queens che ha scelto come nome d'arte Judy Holliday. A Judith piace cantare, glielo ha insegnato la madre che suona il piano, e sogna di entrare nel mondo dello spettacolo, ma all'inizio è solo la centralinista del Mercury, il teatro che Orson Welles e John Houseman hanno aperto con non poche difficoltà al 110 West della 41esima Strada.
I due hanno già sfidato il sistema mettendo in scena negli anni precedenti una produzione con solo attori neri di Shakespeare, il Voodoo Macbeth, e soprattutto il musical The Cradle will rock, scritto da Marc Blitzstein, un compositore e un autore di canzoni, che ama molto le opere di Brecht e ne condivide le idee. E che è amico di Bernstein. Quando, visto il tenore del libretto, il Federal theatre project ritira il proprio sostegno finanziario all'opera, non è più possibile mettere in scena il dramma e così il 16 giugno 1937 Blitzstein, Welles e la compagnia occupano un teatro e lo rappresentano comunque, senza scene e costumi, con il solo Blitzstein che, al pianoforte, sostituisce l'intera orchestra. Welles e Houseman sanno decisamente da che parte stare. La prima produzione del Mercury è una versione del Giulio Cesare di Shakespeare ambientata nell'Italia fascista: il personaggio del titolo viene caratterizzato come Mussolini e Welles tiene per sé la parte di Bruto.
Ma torniamo a Judy. Nel '44 i Revuers non ci sono più e così lei va a Hollywood, dove ottiene una piccola parte in un film di Geoge Cukor. Poi torna a Broadway, ma la sua carriera non sembra riuscire ad avere una svolta. Fino al 1946, grazie alla paura del palcoscenico di Jean Arthur. Jean è l'attrice preferita di Frank Capra, una sorta di versione femminile di James Stewart, è stata anche una delle quattro a essere in lizza per la parte di Scarlet in Via col vento, è una celebrità e quando Garson Kanin - che è a nato a Rochester, nello stato di New York nel 1912 - vuole mettere in scena la sua commedia Born yesterday, pensa subito a lei, ma Jean ha violente crisi di panico, vomita in camerino, ed è costretta a lasciare. E così, inaspettatamente, viene chiamata Judy.
La storia la conoscete, grazie al film Nata ieri, diretto da George Cukor nel 1950. O forse per il remake del 1993, a uso e consumo della coppia Melanie Griffith e Don Johnson. Harry Brock è un uomo d'affari rozzo e ignorante che porta la sua amichetta Billie Dawn a Washington. Dal momento che l'ingenua ignoranza di Billie rischia di diventare un problema, Brock assume un giornalista, Paul Verrall, che deve educare la ragazza. Ma Billie, che non è così stupida come sembra, non solo impara in fretta le cose che le vengono spiegate da Paul, ma soprattutto capisce quanto Harry e i suoi amici politici siano corrotti e riesce a smascherare tutti i loro piani. Judy è perfetta a interpretare Billie, per il sorriso smagliante, per i grandi occhi ingenui, per quell'aria da stupida e per la vocina querula, che nel doppiaggio italiano è resa alla perfezione dalla grandissima Rina Morelli. Quello spettacolo è un successo incredibile: 1.642 repliche, dal 4 febbraio 1946 al 31 dicembre del '49.
Come avviene sempre in questi casi gli studios vogliono sfruttare il successo, ma non vogliono rischiare con un'attrice sconosciuta. Sembra che perfino Kanin tenti di boicottarla, accordandosi con Spencer Tracy affinché Judy abbia una parte importante nel film La costola di Adamo, pur di non farle fare Nata ieri. Però Cukor conosce Judy e la Columbia decide di tentare. Anche il film è un successo al botteghino. E Judy Holliday vince l'Oscar come miglior attrice, battendo Gloria Swanson, nominata per Viale del tramonto, Bette Davis e Anne Baxter, entrambe per Eva conttro Eva. È nata una nuova stella.
Judy però non vuole rimanere nella parte della stupida che Hollywood le sta cucendo addosso. Interpreta qualche altro film, non memorabile, ma vuole tornare a Broadway. Comden e Green, i suoi vecchi amici del Village, e il compositore inglese Jule Styne hanno scritto un musical che è perfetto per Judy, Bells are ringing, la storia di una centralinista che cambia voce e identità per i suoi clienti, imparandoli a conoscere e anche a innamorarsi di uno di loro, pur non avendoli mai visti, ma solo attraverso la loro voce. È una divertente commedia degli equivoci, scritta con la solita verve dai due autori. Nel 1957 Judy vince il Tony per la sua interpretazione e quando Hollywood decide che il musical diventerà un film diretto da Vincente Minnelli - in Italia lo conosciamo con il brutto titolo Susanna agenzia squillo - non ci sono dubbi che lei debba esserne la protagonista. È purtroppo il suo ultimo film: nel 1965, due settimane prima di festeggiare i quarantaquattro anni, Judy Holliday muore a causa di un tumore al seno.
Judy ha vinto un Oscar, è una stella, ma è pur sempre la ragazza che cantava al Village Vangard, accompagnata al piano da quel sovversivo di Bernstein e con alle spalle i manifesti con la scritta ¡No pasarán!, è una che alla fine degli anni Trenta ha scelto da che parte stare. E poi è una donna intelligente, una che pensa con la sua testa. E così il suo nome è nella "lista nera" e nel '51 viene convocata dalla sottocommissione del Senato che indaga sulle infiltrazioni dei comunisti nel mondo dello spettacolo. È la "caccia alle streghe": vogliono le ammissioni e soprattutto vogliono i nomi di tutti gli altri. Molti si salveranno solo denunciando altri, magari mentendo. Lei viene convocata a Washington, ma Judy decide che di fronte a quei parrucconi bigotti del Senato non andrà lei, andrà Billie Dawn, la più famosa oca di Hollywood. È uno spasso vedere Billie che si prende gioco della sottocommissione; e Judy viene assolta e nessuno avrà più il coraggio di chiamarla a deporre. Qualche sua amica la critica per questa decisione: avrebbe dovuto battersi con la forza della sua intelligenza, ma Judy difende la sua scelta, perché non ha fatto nomi. E poi che forza quello sberleffo di una donna di fronte a quegli uomini che si sentono così tronfi.
Nel 1956 Leonard Berstein è ormai uno dei più importanti direttori d'orchestra del mondo. Nel '53 è stato il primo americano a dirigere alla Scala. In quell'anno decide di mettere in scena un'operetta basata sul Candide di Voltaire, perché neppure quello in cui stanno vivendo è "il migliore dei mondi possibili". La drammaturga comunista Lillian Hellman scrive il libretto, che però non riesce a rendere l'ironia volterriana né a reggere la forza della musica di Bernstein. L'opera subirà nel corso degli anni diversi rimaneggiamenti, ma finalmente il 13 dicembre 1989 Bernstein ci consegna, a meno di un anno dalla morte, la versione che oggi possiamo considerare definitiva. Lo stesso Maestro dirige la London Symphony Orchestra. Per interpretare Candido e Cunegonda chiama due cantanti d'opera molto noti, Jerry Hadley e June Anderson, ma per la parte del narratore e del dottor Pangloss vuole il suo vecchio coinquilino, che ritorna così, per l'ultima volta, sulle scene. Quella sera non hanno pagato cinquanta centesimi per sentire cantare Adolph Green e suonare Leonard Bernstein. Judy Holliday sarebbe stata perfetta nella parte della Vecchia Signora. Quando quel personaggio canta, con innegabile ironia I'm easily assimilated, Leonard e Adolph devono aver pensato, almeno per un attimo, alla loro amica del Village Vanguard.
Quando andate a New York, su un marciapiede della 41esima strada c'è una targa, voluta dalla New York Public Library, è una citazione di Nata ieri, leggetela e pensate a Judy.
Voglio che tutti siano intelligenti. Più intelligenti che possono essere. Un mondo di persone ignoranti è troppo pericoloso per viverci.
lunedì 1 giugno 2020
Verba volant (771): nozze...
Nozze, sost. f.
Varsos controlla per l'ennesima volta il vasellame di casa. È di qualità abbastanza buona per essere stato fatto quaggiù. Certo non è bello come quello che avevamo a corte, a Tiro, ma me lo devo far andar bene. Però non è sufficiente: devo assolutamente comprarne altro. Devo vedere quanti soldi ho ancora in cassa per questo. E poi ci sono le spese per il banchetto. E quelle per le cerimonie. Il padrone ha voluto fare le cose in grande per le sue nozze. Lo capisco, vuol far vedere che adesso anche lui è un re, come suo padre, come i suoi fratelli, anche se così lontano da Tiro. E poi sposarsi con la figlia di Afrodite e di Ares. Chi l'avrebbe mai detto mentre vagavamo per il mondo cercando Europa, sballottati da una città all'altra, quasi mendichi. Adesso finalmente abbiamo una casa, per ora un po' rozza, decisamente troppo maschile, ma tra un po', quando avremo una regina, cambierà tutto. Una reggia ha bisogno di una regina. E ha bisogno di una discendenza. Credo che anch'io adesso potrò pensare a sistemarmi. Quella schiava che ho assunto per la cucina mi piace molto. E i nostri figli potranno servire i figli del re, come mio padre è stato l'economo di casa di Agenore.
Questi pensieri sono interrotti da alcuni tocchi leggeri sulla porta. Quando Varsos apre la porta si trova di fronte un ragazzo bellissimo, che non ha neppure l'età per avere la barba. Lo schiavo vede i capelli chiari e ricci che il berretto frigio, portato in maniera spavalda, non riescono a contenere. Il nuovo arrivato saluta con un piccolo inchino. Varsos nota che anche la sua voce è molto dolce, ha un che di femminile. Quel ragazzo emana qualcosa che Varsos non sa spiegarsi, ma capisce subito chi ha di fronte. Mi aspettavo una vostra visita. Immagino che in questi casi vogliate sempre fare dei controlli.
A dire la verità, questa è una cosa nuova anche per noi. È la prima volta che i Dodici partecipano a una festa di nozze di mortali. Non esiste un cerimoniale a cui poter attenersi. Credo dovremo improvvisare.
Io ho organizzato feste di nozze a corte per anni: non c'è nulla da improvvisare. Le assicuro che ho una discreta esperienza.
Non ne dubito, caro Varsos, ma converrà che non ha mai avuto a tavola Zeus e gli dei dell'Olimpo. Ha già previsto la disposizione dei posti a sedere?
Per parte nostra non abbiamo molti invitati. I genitori dello sposo vivono a Tiro: sono anziani e non possono muoversi. I due fratelli sono re in città lontane, hanno mandato un regalo, ma non parteciperanno alle nozze - per altro i rapporti sono sempre stati piuttosto difficili - la sorella, come credo lei sappia, non sappiamo dove sia. Ci saranno i nobili della città, gli uomini drago, gente poco avvezza a queste cerimonie, e Tiresia. Per quanto riguarda i genitori della sposa, come preferisce farli sedere?
Questo, come immagina, potrebbe essere una fonte di qualche imbarazzo, visti - come dire - i particolari rapporti che ci sono tra i Dodici. Credo che la cosa migliore sia enfatizzare che la vostra futura regina sia figlia di Afrodite, tralasciando per il momento la figura del padre. Se lei è d'accordo, le propongo di far sedere Afrodite a sinistra di Zeus, mentre Era sarà alla sua destra. Poi via via gli altri. Ares ed Efesto possono sedere ai due capi opposti, il più lontano possibile.
Io avevo pensato a un lungo tavolo. Da una parte noi e dall'altra voi. Sarà anche più facile organizzare il servizio, visto che saranno servite pietanze diverse. Naturalmente a tutto il vasellame penseremo noi. Voi dovrete solo portare ambrosia e nettare.
Perfetto. Se permette alle decorazioni floreali penseremo noi. La ninfa Clori è bravissima in queste cose.
La ringrazio. Le chiedo se potete pensare voi anche alla musica, qui in Beozia non ho ancora trovato suonatori decenti.
Naturalmente, ho già chiesto alle Muse di essere presenti. E poi Apollo avrà certamente organizzato qualcosa.
Per quanto riguarda il servizio invece, vorrei organizzarlo io. Non serve che portiate personale dall'Olimpo.
Va bene, ma per quel giorno vorrei aver l'onore di servire io stesso gli sposi. Naturalmente mi rimetto alla sua decisione su questo. Questa è la sua casa. Mi consideri per quel giorno un uomo del suo personale. Sono sicuro, carissimo Varsos, che saprà organizzare una festa di nozze di cui ci ricorderemo per anni.
giovedì 28 maggio 2020
Verba volant (770): mascherina...
Mascherina, sost. f.
Visto che ormai la mascherina è diventata un'indispensabile compagna delle nostre vite, il lasciapassare grazie a cui possiamo entrare nei negozi, nei ristoranti, dopodomani nei cinema e nei teatri, credo meriti raccontare la storia etimologica di questa parola. Chissà che possa insegnarci qualcosa.
Si tratta di una storia relativamente recente, perché nel latino classico - quello del Calonghi, per intenderci - per indicare la maschera si usa il termine persona, dal momento che le maschere di legno indossate sempre in scena dagli attori nelle tragedie e nelle commedie, sono costruite in modo tale da amplificare al massimo possibile il suono della voce. Invece nel latino medievale si è cominciata a diffondere questa parola, proveniente con molta probabilità dal mondo longobardo, con il significato di strega. Perché la strega è una donna che si camuffa, che si nasconde per incutere paura o per ingannare.
Chissà se il diciannovenne Thomas Lyle Williams conosceva questa etimologia, quando nel 1915 a Chicago ha combinato insieme polvere di carbone e vaselina allo stato gelatinoso per creare un prodotto che sua sorella Mabel potesse usare per truccarsi gli occhi. Probabilmente la parola spagnola gli è suonata più esotica e poi voleva trovare un termine diverso da rimmel, dal nome del chimico francese che lo aveva creato a metà dell'Ottocento. Comunque sia le streghe quando vogliono sedurre noi poveri mortali non devono far altro che sbattere i loro occhi con quelle ciglia lunghissime, merito indubbiamente del mascara. E poi visto che Mabel è stata molto soddisfatta del trucco creato dal fratello, Thomas ha deciso di cominciare a venderlo per posta e dopo qualche anno ha fondato la Maybelline, diventata negli anni una delle maggiori fornitrici per le streghe.
Altri etimologisti collegano invece la parola maschera al verbo manducare, ossia mangiare. Perché il manducus, che troviamo ad esempio nelle commedie di Plauto - recitate anch'esse con le personae -, non è solo uno che mangia tanto, ma è anche l'orco. E questo personaggio, come ci insegna anche la famiglia Malaussène, ha spesso bisogno di camuffarsi per ingannare le proprie prede.
Cominciano a diventare sinistre queste maschere. Tant'è vero che gli psicologi parlano di mascafobia che colpisce specialmente i bambini piccoli. Quando si trovano di fronte a volti irriconoscibili, spesso con bocche che non si muovono, facendo sembrare che la voce esca dal nulla, i bambini si spaventano. E si spaventano anche di più quando quelle strane maschere le indossano i loro genitori: chi è quello strano tipo che sembra mio papà, ma ha un'altra faccia? E poi una maschera nasconde le espressioni facciali che permettono ai bambini - ma anche a noi che non lo siamo più da un pezzo - di capire le vere intenzioni di chi abbiamo di fronte. Perché le parole spesso ingannano, almeno quanto uno sbattere di ciglia.
Un'altra scuola di pensiero ritiene che questa parola derivi dall'arabo mascharat, che significa buffonata, scherzo. Gli etimologisti credono che questa parola sia arrivata in Europa a seguito del ritorno dei crociati, che peraltro non erano certo andati laggiù a scherzare. E infatti noi a carnevale, il solo periodo dell'anno in cui licet insanire, ci mascheriamo. Così, per divertirci, mentre il resto dell'anno mettiamo una maschera per far finta di essere migliori di quello che effettivamente siamo. O perché gli altri ci vogliono con quella maschera. E non sempre queste nostre maschere quotidiane riescono a nascondere il fatto che siamo orchi e streghe. I bambini, loro malgrado, devono imparare in fretta ad avere paura di noi.
E noi adesso perché usiamo le mascherine? Non per nascondere, né per sedurre - anche se ormai ci sono mascherine di vari colori il cui scopo è evidentemente quello di attirare l'attenzione, come le piume di un pavone - non per ingannare, né tanto meno per scherzare. Le usiamo per proteggere. A dire la verità io sono convinto che molti di noi pensino che serva unicamente a proteggerci, altrimenti col cavolo che sopporteremmo questo innegabile fastidio. La usiamo perché non vogliamo che gli altri ci infettino, perché sono sempre gli altri a essere malati: è sempre colpa degli altri. Invece dobbiamo indossare la mascherina per non infettare gli altri. Dobbiamo ricordare, tutte le volte che con la mascherina nascondiamo il nostro sorriso o il nostro ghigno, che gli orchi e le streghe possiamo essere noi. Sta a vedere che questa è l'unica maschera che alla fine racconta la verità.
Visto che ormai la mascherina è diventata un'indispensabile compagna delle nostre vite, il lasciapassare grazie a cui possiamo entrare nei negozi, nei ristoranti, dopodomani nei cinema e nei teatri, credo meriti raccontare la storia etimologica di questa parola. Chissà che possa insegnarci qualcosa.
Si tratta di una storia relativamente recente, perché nel latino classico - quello del Calonghi, per intenderci - per indicare la maschera si usa il termine persona, dal momento che le maschere di legno indossate sempre in scena dagli attori nelle tragedie e nelle commedie, sono costruite in modo tale da amplificare al massimo possibile il suono della voce. Invece nel latino medievale si è cominciata a diffondere questa parola, proveniente con molta probabilità dal mondo longobardo, con il significato di strega. Perché la strega è una donna che si camuffa, che si nasconde per incutere paura o per ingannare.
Chissà se il diciannovenne Thomas Lyle Williams conosceva questa etimologia, quando nel 1915 a Chicago ha combinato insieme polvere di carbone e vaselina allo stato gelatinoso per creare un prodotto che sua sorella Mabel potesse usare per truccarsi gli occhi. Probabilmente la parola spagnola gli è suonata più esotica e poi voleva trovare un termine diverso da rimmel, dal nome del chimico francese che lo aveva creato a metà dell'Ottocento. Comunque sia le streghe quando vogliono sedurre noi poveri mortali non devono far altro che sbattere i loro occhi con quelle ciglia lunghissime, merito indubbiamente del mascara. E poi visto che Mabel è stata molto soddisfatta del trucco creato dal fratello, Thomas ha deciso di cominciare a venderlo per posta e dopo qualche anno ha fondato la Maybelline, diventata negli anni una delle maggiori fornitrici per le streghe.
Altri etimologisti collegano invece la parola maschera al verbo manducare, ossia mangiare. Perché il manducus, che troviamo ad esempio nelle commedie di Plauto - recitate anch'esse con le personae -, non è solo uno che mangia tanto, ma è anche l'orco. E questo personaggio, come ci insegna anche la famiglia Malaussène, ha spesso bisogno di camuffarsi per ingannare le proprie prede.
Cominciano a diventare sinistre queste maschere. Tant'è vero che gli psicologi parlano di mascafobia che colpisce specialmente i bambini piccoli. Quando si trovano di fronte a volti irriconoscibili, spesso con bocche che non si muovono, facendo sembrare che la voce esca dal nulla, i bambini si spaventano. E si spaventano anche di più quando quelle strane maschere le indossano i loro genitori: chi è quello strano tipo che sembra mio papà, ma ha un'altra faccia? E poi una maschera nasconde le espressioni facciali che permettono ai bambini - ma anche a noi che non lo siamo più da un pezzo - di capire le vere intenzioni di chi abbiamo di fronte. Perché le parole spesso ingannano, almeno quanto uno sbattere di ciglia.
Un'altra scuola di pensiero ritiene che questa parola derivi dall'arabo mascharat, che significa buffonata, scherzo. Gli etimologisti credono che questa parola sia arrivata in Europa a seguito del ritorno dei crociati, che peraltro non erano certo andati laggiù a scherzare. E infatti noi a carnevale, il solo periodo dell'anno in cui licet insanire, ci mascheriamo. Così, per divertirci, mentre il resto dell'anno mettiamo una maschera per far finta di essere migliori di quello che effettivamente siamo. O perché gli altri ci vogliono con quella maschera. E non sempre queste nostre maschere quotidiane riescono a nascondere il fatto che siamo orchi e streghe. I bambini, loro malgrado, devono imparare in fretta ad avere paura di noi.
E noi adesso perché usiamo le mascherine? Non per nascondere, né per sedurre - anche se ormai ci sono mascherine di vari colori il cui scopo è evidentemente quello di attirare l'attenzione, come le piume di un pavone - non per ingannare, né tanto meno per scherzare. Le usiamo per proteggere. A dire la verità io sono convinto che molti di noi pensino che serva unicamente a proteggerci, altrimenti col cavolo che sopporteremmo questo innegabile fastidio. La usiamo perché non vogliamo che gli altri ci infettino, perché sono sempre gli altri a essere malati: è sempre colpa degli altri. Invece dobbiamo indossare la mascherina per non infettare gli altri. Dobbiamo ricordare, tutte le volte che con la mascherina nascondiamo il nostro sorriso o il nostro ghigno, che gli orchi e le streghe possiamo essere noi. Sta a vedere che questa è l'unica maschera che alla fine racconta la verità.
domenica 24 maggio 2020
Verba volant (769): specchio...
Specchio, sost. m.
Confesso che è stato piuttosto faticoso arrivare alla fine della Traviata firmata da Sofia Coppola e dalla maison Valentino, tanto sontuosamente quanto inutilmente patinata. Non fosse stato per la musica di Verdi - che praticamente nulla riesce a rovinare - avrei cambiato canale.
Secondo questa versione Violetta Valéry sarebbe una donna parigina, molto bella e molto corteggiata, che rifiuta le attenzioni di un uomo ricco e potente per legarsi a un giovane innamorato e spiantato. Ma alla fine muore. Sipario. Un bell'applauso. Peccato che Verdi e Piave raccontino tutta un'altra storia. Violetta è una puttana, anzi la puttana più ricercata di Parigi, che, grazie al proprio lavoro, vive nella ricchezza, possiede una casa in città e una in campagna, si può permettere vestiti firmati e gioielli, organizza feste sontuose. E che a un certo punto decide di rinunciare a tutto questo per amore di un giovane che dice di amarla, ma che, non disponendo delle cospicue sostanze della propria famiglia, controllate dal padre, lei deve mantenere nel lusso. Visto che però, per amore, ha smesso di "esercitare", i soldi rapidamente finiscono e soprattutto Violetta deve accettare la terribile malattia che per mesi ha cercato di nascondere agli altri e se stessa.
I versi di Piave, che pure scrive con grande cautela, dosando le parole, perché sa che devono superare una censura molto rigida e codina, non lasciano spazio a equivoci di sorta: Violetta fa quel mestiere, fino alla fine dei suoi giorni. E infatti i gestori della Fenice, nel 1853, quando lo spettacolo va in scena per la prima volta, nella locandina scrivono che la scena si svolge a "Parigi e vicinanze nel 1700 circa". Marie Duplessis - la donna che Dumas chiama Marguerite Gautier e Piave Violetta Valéry - è morta da appena sei anni: Verdi e Piave stanno raccontando una storia d'attualità. Non nascondendo nulla, al massimo attenuandone alcuni aspetti.
Perché centosessantatré anni dopo una giovane e talentuosa regista non ha il coraggio di raccontare questa storia? Perché, tra l'altro avendo una fama che le permette di fare sostanzialmente quello che vuole, si censura in questo modo, anche così goffamente? Questa lussuosa versione della Traviata, anche se non ci racconta la vera storia di Violetta, ha comunque un merito: ci racconta, al di là delle intenzioni degli esecutori e dei "mandanti", molto di noi, di questa nostra società così ottusamente maschilista e ipocrita. Ci dice che ci sono argomenti che non vogliamo affrontare - che neppure una donna se vuole avere successo deve affrontare - e soprattutto che non siamo pronti a raccontare una storia in cui una donna, una donna come Violetta, è la vera protagonista, indipendentemente dagli uomini che le girano intorno.
Si può raccontare in prima serata su Rai Uno la favola di una puttana "salvata" da Richard Gere. Ma è meglio non far vedere - neppure su Rai Cinque - la storia di una donna che non aspetta il suo cavaliere su un bianco destriero, ma è lei che rende migliori gli uomini che ne hanno conosciuto il valore. Il vecchio Germont è quello che più lucidamente, di fronte a Violetta che muore, confessa la propria meschinità. Forse dopo qualche mese si sarà dimenticato di quelle parole e tornerà a essere lo stronzo che abbiamo conosciuto nel secondo atto, ma in quel momento cade la sua maschera di ipocrita perbenista - di uno che ha speso soldi per donne così - e capisce che quella che lui ha sempre considerato un essere inferiore è migliore di lui. Non sappiamo se anche Alfredo in quel momento si renda conto di quale fortuna abbia avuto a essere amato, seppur per un breve periodo, da una donna come Violetta: in tutto il dramma non dimostra mai grande perspicacia ed è difficile immaginare che proprio adesso gli si svegli un neurone.
Di tutto questo immagino non si siano resi conto gli incolpevoli e inconsapevoli spettatori della prima, rigorosamente invitati dalla maison. Peccato, immagino che tra di loro fossero parecchi i "clienti" di professioniste come Violetta. E anche qualche ipocrita come Germont. Forse perfino qualche puttana è riuscita ad accaparrarsi l'ambito invito: comprensibile, visto che chi ha da vendere cerca sempre di andare dove ci sono quelli che comprano.
No, meglio non raccontare questa storia, meglio far finta che sia un feuilleton ottocentesco, per non urtare la sensibilità del gentile pubblico, degli invitati illustri. E soprattutto perché così come l'hanno scritta Verdi e Piave non è rappresentabile. Meglio attenuarne la carica eversiva. Meglio sfumare se si vuole fare uno spettacolo di successo. Alla fine lei muore. Sipario. Un bell'applauso.
Traviata è l'unica opera in cui Verdi decide di mettere in scena direttamente il suo pubblico. Lo fa naturalmente in tutte le sue opere, anche in Rigoletto e nel Trovatore, anche quando la scena è ambientata in un tempo lontano, ma in Traviata lo fa senza alcuno schermo. È come se, alzato il sipario, ci fosse sul palco un enorme specchio: chiunque di voi, ci dicono Verdi e Piave, può partecipare a queste feste organizzate da Violetta e da Flora. Per tradire Verdi e Piave basta decidere di togliere quello specchio, come ha fatto Sofia Coppola, come ha fatto Liliana Cavani nella celebre edizione della Scala del 1990 - dove per sicurezza quest'opera non è stata rappresentata per quasi trent'anni - come fanno quasi tutti i grandi teatri - ma voglio citare la Traviata del Festival Verdi di Parma del 2007 in cui Violetta è una puttana senza infingimenti. Meglio raccontare soltanto una storia d'amore finita male.
Confesso che è stato piuttosto faticoso arrivare alla fine della Traviata firmata da Sofia Coppola e dalla maison Valentino, tanto sontuosamente quanto inutilmente patinata. Non fosse stato per la musica di Verdi - che praticamente nulla riesce a rovinare - avrei cambiato canale.
Secondo questa versione Violetta Valéry sarebbe una donna parigina, molto bella e molto corteggiata, che rifiuta le attenzioni di un uomo ricco e potente per legarsi a un giovane innamorato e spiantato. Ma alla fine muore. Sipario. Un bell'applauso. Peccato che Verdi e Piave raccontino tutta un'altra storia. Violetta è una puttana, anzi la puttana più ricercata di Parigi, che, grazie al proprio lavoro, vive nella ricchezza, possiede una casa in città e una in campagna, si può permettere vestiti firmati e gioielli, organizza feste sontuose. E che a un certo punto decide di rinunciare a tutto questo per amore di un giovane che dice di amarla, ma che, non disponendo delle cospicue sostanze della propria famiglia, controllate dal padre, lei deve mantenere nel lusso. Visto che però, per amore, ha smesso di "esercitare", i soldi rapidamente finiscono e soprattutto Violetta deve accettare la terribile malattia che per mesi ha cercato di nascondere agli altri e se stessa.
I versi di Piave, che pure scrive con grande cautela, dosando le parole, perché sa che devono superare una censura molto rigida e codina, non lasciano spazio a equivoci di sorta: Violetta fa quel mestiere, fino alla fine dei suoi giorni. E infatti i gestori della Fenice, nel 1853, quando lo spettacolo va in scena per la prima volta, nella locandina scrivono che la scena si svolge a "Parigi e vicinanze nel 1700 circa". Marie Duplessis - la donna che Dumas chiama Marguerite Gautier e Piave Violetta Valéry - è morta da appena sei anni: Verdi e Piave stanno raccontando una storia d'attualità. Non nascondendo nulla, al massimo attenuandone alcuni aspetti.
Perché centosessantatré anni dopo una giovane e talentuosa regista non ha il coraggio di raccontare questa storia? Perché, tra l'altro avendo una fama che le permette di fare sostanzialmente quello che vuole, si censura in questo modo, anche così goffamente? Questa lussuosa versione della Traviata, anche se non ci racconta la vera storia di Violetta, ha comunque un merito: ci racconta, al di là delle intenzioni degli esecutori e dei "mandanti", molto di noi, di questa nostra società così ottusamente maschilista e ipocrita. Ci dice che ci sono argomenti che non vogliamo affrontare - che neppure una donna se vuole avere successo deve affrontare - e soprattutto che non siamo pronti a raccontare una storia in cui una donna, una donna come Violetta, è la vera protagonista, indipendentemente dagli uomini che le girano intorno.
Si può raccontare in prima serata su Rai Uno la favola di una puttana "salvata" da Richard Gere. Ma è meglio non far vedere - neppure su Rai Cinque - la storia di una donna che non aspetta il suo cavaliere su un bianco destriero, ma è lei che rende migliori gli uomini che ne hanno conosciuto il valore. Il vecchio Germont è quello che più lucidamente, di fronte a Violetta che muore, confessa la propria meschinità. Forse dopo qualche mese si sarà dimenticato di quelle parole e tornerà a essere lo stronzo che abbiamo conosciuto nel secondo atto, ma in quel momento cade la sua maschera di ipocrita perbenista - di uno che ha speso soldi per donne così - e capisce che quella che lui ha sempre considerato un essere inferiore è migliore di lui. Non sappiamo se anche Alfredo in quel momento si renda conto di quale fortuna abbia avuto a essere amato, seppur per un breve periodo, da una donna come Violetta: in tutto il dramma non dimostra mai grande perspicacia ed è difficile immaginare che proprio adesso gli si svegli un neurone.
Di tutto questo immagino non si siano resi conto gli incolpevoli e inconsapevoli spettatori della prima, rigorosamente invitati dalla maison. Peccato, immagino che tra di loro fossero parecchi i "clienti" di professioniste come Violetta. E anche qualche ipocrita come Germont. Forse perfino qualche puttana è riuscita ad accaparrarsi l'ambito invito: comprensibile, visto che chi ha da vendere cerca sempre di andare dove ci sono quelli che comprano.
No, meglio non raccontare questa storia, meglio far finta che sia un feuilleton ottocentesco, per non urtare la sensibilità del gentile pubblico, degli invitati illustri. E soprattutto perché così come l'hanno scritta Verdi e Piave non è rappresentabile. Meglio attenuarne la carica eversiva. Meglio sfumare se si vuole fare uno spettacolo di successo. Alla fine lei muore. Sipario. Un bell'applauso.
Traviata è l'unica opera in cui Verdi decide di mettere in scena direttamente il suo pubblico. Lo fa naturalmente in tutte le sue opere, anche in Rigoletto e nel Trovatore, anche quando la scena è ambientata in un tempo lontano, ma in Traviata lo fa senza alcuno schermo. È come se, alzato il sipario, ci fosse sul palco un enorme specchio: chiunque di voi, ci dicono Verdi e Piave, può partecipare a queste feste organizzate da Violetta e da Flora. Per tradire Verdi e Piave basta decidere di togliere quello specchio, come ha fatto Sofia Coppola, come ha fatto Liliana Cavani nella celebre edizione della Scala del 1990 - dove per sicurezza quest'opera non è stata rappresentata per quasi trent'anni - come fanno quasi tutti i grandi teatri - ma voglio citare la Traviata del Festival Verdi di Parma del 2007 in cui Violetta è una puttana senza infingimenti. Meglio raccontare soltanto una storia d'amore finita male.
Invece abbiamo bisogno che quello specchio continui a riflettere le nostre meschinità, perché noi spettatori continuiamo a partecipare a quelle feste volgari, continuiamo a pagare per avere i corpi delle donne, che magari preferiamo chiamare escort - noi mica andiamo con le puttane - continuiamo ad avere una doppia morale, per cui di notte andiamo con quelle donne, ma di giorno ci scandalizziamo quando le vediamo nelle strade, non sia mai che nostra figlia "pura siccome un angelo" le veda, continuiamo a credere che le donne, puttane o mogli poco importa, debbano stare un gradino sotto o fare un passo indietro. E quando alzano la testa, le possiamo sempre picchiare. Sipario. Un bell'applauso.
venerdì 22 maggio 2020
Verba volant (768): igiene...
Igiene, sost. f.
Prassagora è stata una delle prime ad arrivare a Sigeo, quando era ancora soltanto un piccolo borgo di pescatori. Nel momento in cui ha saputo da uno dei suoi clienti quello che i re delle città greche stavano organizzando, ha deciso di rischiare il tutto per tutto. D'altra parte ormai cominciava a essere vecchia per continuare a fare quel mestiere: i clienti vogliono ragazze sempre più giovani. E se quella guerra fosse durata un po', magari un paio di anni... Prassagora aveva previsto di guadagnare abbastanza per vivere con tranquillità per il resto della sua vita senza dover più lavorare. E così ha scommesso sulla guerra: è partita da Mileto insieme a due orfane di cui nessuno voleva occuparsi, molto giovani e molto belle, è arrivata a Sigeo, ha affittato una casupola e ha aspettato l'arrivo della flotta. Prassagora sapeva che la voce si sarebbe presto sparsa per il campo greco: i soldati non tardano mai a trovare dove sono le puttane. Basta che Troia resista un paio d'anni e ce l'ho fatta.
È felice di avere sottovalutato la capacità di resistenza dei troiani. Dopo dieci anni di guerra a Sigeo nessuno si guadagna più da vivere facendo il pescatore. Ormai tutti vivono grazie alla guerra: i soldati del campo greco hanno bisogno di tutto, dalle armi alla biada per i cavalli, dal legname per riparare le navi alle primizie per le tavole dei re. E naturalmente prosperano le taverne, le bische, i teatri, i bordelli. E lei gestisce il più grande della città: ha affittato anche le case vicine, le ha sistemate, ha fatto costruire dei bagni, praticamente adesso un'intera strada della cittadina è sua. Ci lavorano trenta ragazze, le cambia ogni sei mesi, va a scegliere le più belle da tutte le città della costa. Da qualche anno ha anche una decina di ragazzi: ai signori piacciono e lei vuole accontentare tutti i suoi clienti. Arrivano anche da Troia, perché Sigeo è diventata una sorta di zona franca. Lì greci e troiani si incontrano, si parlano, e si possono anche sfidare, ma solo giocando a dadi.
Prassagora si stupisce di vedere arrivare Aristarco: lui di solito viene una volta al mese. Sempre lo stesso giorno. Anche lui è stato tra i primi ad arrivare a Sigeo. Faceva il fabbro a Corinto e ha deciso di seguire la flotta. Ha dovuto pagare una grossa tangente a Odisseo, ma da quando, dopo il terzo anno di guerra, è diventato il fornitore ufficiale dell'esercito greco, i suoi affari sono decollati e il suo laboratorio produce armi di continuo: i suoi forni non si spengono neppure di notte.
Che succede, Aristarco? Non ti aspettavo. Fillide è impegnata, ma posso trovarti un'altra ragazza.
No, sono venuto per te.
Aristarco, è stato dieci anni fa, eravamo più giovani, e più poveri, tutti e due. È stato bello, ma ci eravamo promessi che non ne avremmo più riparlato.
No... non è per quello. Voglio parlarti della peste. Sta rovinando i nostri affari. Ne ho parlato anche con gli altri della camera di commercio. Gli incassi delle taverne e delle locande sono più che dimezzati. Hanno dovuto chiudere già cinque bische. Omero, quello che fa finta di essere cieco, ha annullato tutti i suoi spettacoli. E tutte le commesse di guerra sono state dimezzate. Io ho dovuto licenziare cinque operai. Pensa che è due notti che ho fermato la produzione. Gli unici che fanno affari sono quelli che vendono pozioni per guarire la peste, ma quando i clienti si accorgeranno che li stanno truffando...
Si faranno truffare da qualcun altro.
Sì, ma intanto cosa possiamo fare?
Lo so, anche per me le cose stanno andando male. Oggi ho prenotazioni solo per cinque ragazze. E tre sono morte per la peste. Devo essere cauta a prendere i clienti. Non posso rischiare che si ammalino tutte.
Sai che i capi greci stiano prendendo provvedimenti? Tu sei sempre ben informata di quello che avviene nelle loro tende.
A quello che mi hanno riferito nell'ultima assemblea dei re hanno convocato Calcante e quel vecchio imbroglione ha detto che la pestilenza è causata da Apollo, adirato contro Agamennone perché si rifiuta di liberare una sua schiava, una tal Criseide. Sembra che suo padre sia sacerdote di quel dio. Naturalmente Agamennone si è infuriato, ma per ora non ha fatto nulla. Vuole prima capire chi degli altri re abbia pagato Calcante per fare quella profezia. Sospetta sia stato Achille, che vuole prendere il suo posto alle testa alla spedizione. E comunque a loro la spiegazione di Calcante fa comodo. Non vogliono sentirsi dire che è un problema igienico: se avessero fatto costruire delle fogne, se avessero portato dell'acqua pulita al campo, magari costruendo un canale deviando il corso dello Scamandro, non sarebbe scoppiata la peste. Non hanno organizzato neppure un sistema per portare via i rifiuti: ormai sono una collina che sovrasta le tende. Pensa in dieci anni quanti ne hanno prodotti.
Sì, ma noi intanto che facciamo? I soldati stanno morendo come mosche. Hanno di fatto sospeso la guerra: nessuna tregua è mai durata tanti giorni. Non hanno neppure acquistato le armi che mi avevano già ordinato. Ho provato a venderle a un prezzo ribassato a Troia, ma Enea mi ha risposto che non ne hanno bisogno. Immagino che prenda grosse mazzette dai loro fabbri.
Tu paghi ancora Odisseo?
Certo, ha una percentuale su ogni fornitura. Perché? Lo sto pagando poco?
Forse gli hai dato troppi soldi. Un vecchio amico mi ha detto che sicuramente c'è lui dietro la profezia di Calcante. Se Agamennone sarà sfiduciato, la guida della spedizione toccherà o ad Achille o ad Odisseo. Il primo vuole continuare la guerra, ma il secondo vuole tornare, sembra che ci siano problemi nella sua isoletta e comunque ormai ha già tanto denaro che non gli serve conquistare il tesoro di Priamo. La maggioranza dei re sembra sia con lui. Dieci anni sono tanti. E un amico troiano mi ha detto che anche Ettore è disposto a trattare. Troveranno un accordo per gestire la rotta dello stretto. Restituiranno perfino a Menelao quella poveretta di Elena.
Non può finire la guerra. E tutti noi che faremo?
Forse abbiamo guadagnato abbastanza. Potremmo ritirarci. Abbiamo abbastanza oro per vivere felici. Pensaci: potremmo invecchiare insieme in qualche isoletta dell'Egeo.
Altrimenti?
Capisco. Non sono più quella di dieci anni fa. Allora avevi detto che alla fine ci saremmo ritirati. Insieme. Altrimenti, caro Aristarco, potreste fare voi, a spese vostre, quello che i re greci non vogliono fare: pulite il campo acheo, costruite un canale per portare l'acqua dello Scamandro, fate finalmente un sistema di fogne. Poi convincete Agamennone a ridare quella ragazzetta a suo padre. Sono sicura che troverete gli argomenti per farlo. Così, placato il dio, passerà la peste e voi potrete continuare in santa pace i vostri traffici.
Anche tu continuerai a lavorare?
Sì, non ti preoccupare. Il più bel bordello di Sigeo non chiuderà. Almeno finché non cadrà Troia. E credo non succederà tanto presto: forse, caro amico, moriremo qui.
Prassagora è stata una delle prime ad arrivare a Sigeo, quando era ancora soltanto un piccolo borgo di pescatori. Nel momento in cui ha saputo da uno dei suoi clienti quello che i re delle città greche stavano organizzando, ha deciso di rischiare il tutto per tutto. D'altra parte ormai cominciava a essere vecchia per continuare a fare quel mestiere: i clienti vogliono ragazze sempre più giovani. E se quella guerra fosse durata un po', magari un paio di anni... Prassagora aveva previsto di guadagnare abbastanza per vivere con tranquillità per il resto della sua vita senza dover più lavorare. E così ha scommesso sulla guerra: è partita da Mileto insieme a due orfane di cui nessuno voleva occuparsi, molto giovani e molto belle, è arrivata a Sigeo, ha affittato una casupola e ha aspettato l'arrivo della flotta. Prassagora sapeva che la voce si sarebbe presto sparsa per il campo greco: i soldati non tardano mai a trovare dove sono le puttane. Basta che Troia resista un paio d'anni e ce l'ho fatta.
È felice di avere sottovalutato la capacità di resistenza dei troiani. Dopo dieci anni di guerra a Sigeo nessuno si guadagna più da vivere facendo il pescatore. Ormai tutti vivono grazie alla guerra: i soldati del campo greco hanno bisogno di tutto, dalle armi alla biada per i cavalli, dal legname per riparare le navi alle primizie per le tavole dei re. E naturalmente prosperano le taverne, le bische, i teatri, i bordelli. E lei gestisce il più grande della città: ha affittato anche le case vicine, le ha sistemate, ha fatto costruire dei bagni, praticamente adesso un'intera strada della cittadina è sua. Ci lavorano trenta ragazze, le cambia ogni sei mesi, va a scegliere le più belle da tutte le città della costa. Da qualche anno ha anche una decina di ragazzi: ai signori piacciono e lei vuole accontentare tutti i suoi clienti. Arrivano anche da Troia, perché Sigeo è diventata una sorta di zona franca. Lì greci e troiani si incontrano, si parlano, e si possono anche sfidare, ma solo giocando a dadi.
Prassagora si stupisce di vedere arrivare Aristarco: lui di solito viene una volta al mese. Sempre lo stesso giorno. Anche lui è stato tra i primi ad arrivare a Sigeo. Faceva il fabbro a Corinto e ha deciso di seguire la flotta. Ha dovuto pagare una grossa tangente a Odisseo, ma da quando, dopo il terzo anno di guerra, è diventato il fornitore ufficiale dell'esercito greco, i suoi affari sono decollati e il suo laboratorio produce armi di continuo: i suoi forni non si spengono neppure di notte.
Che succede, Aristarco? Non ti aspettavo. Fillide è impegnata, ma posso trovarti un'altra ragazza.
No, sono venuto per te.
Aristarco, è stato dieci anni fa, eravamo più giovani, e più poveri, tutti e due. È stato bello, ma ci eravamo promessi che non ne avremmo più riparlato.
No... non è per quello. Voglio parlarti della peste. Sta rovinando i nostri affari. Ne ho parlato anche con gli altri della camera di commercio. Gli incassi delle taverne e delle locande sono più che dimezzati. Hanno dovuto chiudere già cinque bische. Omero, quello che fa finta di essere cieco, ha annullato tutti i suoi spettacoli. E tutte le commesse di guerra sono state dimezzate. Io ho dovuto licenziare cinque operai. Pensa che è due notti che ho fermato la produzione. Gli unici che fanno affari sono quelli che vendono pozioni per guarire la peste, ma quando i clienti si accorgeranno che li stanno truffando...
Si faranno truffare da qualcun altro.
Sì, ma intanto cosa possiamo fare?
Lo so, anche per me le cose stanno andando male. Oggi ho prenotazioni solo per cinque ragazze. E tre sono morte per la peste. Devo essere cauta a prendere i clienti. Non posso rischiare che si ammalino tutte.
Sai che i capi greci stiano prendendo provvedimenti? Tu sei sempre ben informata di quello che avviene nelle loro tende.
A quello che mi hanno riferito nell'ultima assemblea dei re hanno convocato Calcante e quel vecchio imbroglione ha detto che la pestilenza è causata da Apollo, adirato contro Agamennone perché si rifiuta di liberare una sua schiava, una tal Criseide. Sembra che suo padre sia sacerdote di quel dio. Naturalmente Agamennone si è infuriato, ma per ora non ha fatto nulla. Vuole prima capire chi degli altri re abbia pagato Calcante per fare quella profezia. Sospetta sia stato Achille, che vuole prendere il suo posto alle testa alla spedizione. E comunque a loro la spiegazione di Calcante fa comodo. Non vogliono sentirsi dire che è un problema igienico: se avessero fatto costruire delle fogne, se avessero portato dell'acqua pulita al campo, magari costruendo un canale deviando il corso dello Scamandro, non sarebbe scoppiata la peste. Non hanno organizzato neppure un sistema per portare via i rifiuti: ormai sono una collina che sovrasta le tende. Pensa in dieci anni quanti ne hanno prodotti.
Sì, ma noi intanto che facciamo? I soldati stanno morendo come mosche. Hanno di fatto sospeso la guerra: nessuna tregua è mai durata tanti giorni. Non hanno neppure acquistato le armi che mi avevano già ordinato. Ho provato a venderle a un prezzo ribassato a Troia, ma Enea mi ha risposto che non ne hanno bisogno. Immagino che prenda grosse mazzette dai loro fabbri.
Tu paghi ancora Odisseo?
Certo, ha una percentuale su ogni fornitura. Perché? Lo sto pagando poco?
Forse gli hai dato troppi soldi. Un vecchio amico mi ha detto che sicuramente c'è lui dietro la profezia di Calcante. Se Agamennone sarà sfiduciato, la guida della spedizione toccherà o ad Achille o ad Odisseo. Il primo vuole continuare la guerra, ma il secondo vuole tornare, sembra che ci siano problemi nella sua isoletta e comunque ormai ha già tanto denaro che non gli serve conquistare il tesoro di Priamo. La maggioranza dei re sembra sia con lui. Dieci anni sono tanti. E un amico troiano mi ha detto che anche Ettore è disposto a trattare. Troveranno un accordo per gestire la rotta dello stretto. Restituiranno perfino a Menelao quella poveretta di Elena.
Non può finire la guerra. E tutti noi che faremo?
Forse abbiamo guadagnato abbastanza. Potremmo ritirarci. Abbiamo abbastanza oro per vivere felici. Pensaci: potremmo invecchiare insieme in qualche isoletta dell'Egeo.
Altrimenti?
Capisco. Non sono più quella di dieci anni fa. Allora avevi detto che alla fine ci saremmo ritirati. Insieme. Altrimenti, caro Aristarco, potreste fare voi, a spese vostre, quello che i re greci non vogliono fare: pulite il campo acheo, costruite un canale per portare l'acqua dello Scamandro, fate finalmente un sistema di fogne. Poi convincete Agamennone a ridare quella ragazzetta a suo padre. Sono sicura che troverete gli argomenti per farlo. Così, placato il dio, passerà la peste e voi potrete continuare in santa pace i vostri traffici.
Anche tu continuerai a lavorare?
Sì, non ti preoccupare. Il più bel bordello di Sigeo non chiuderà. Almeno finché non cadrà Troia. E credo non succederà tanto presto: forse, caro amico, moriremo qui.
domenica 17 maggio 2020
Verba volant (767): streaming...
Streaming, sost. m.
In genere questo insolito dizionario evita le parole straniere, ma ormai streaming è una delle parole più usate in questo periodo di lockdown. In pratica, quando non facciamo smart working, guardiamo qualcosa in streaming. A volte anche contemporaneamente, facendo male una cosa e l'altra. In sostanza non potevo più esimermi da questa definizione.
Sapete che io non soffro per la quarantena. Anzi... Però devo ammettere che mi mancano due cose: mangiare fuori e andare a teatro. Magari un giorno parlerò anche della mia passione per il buon cibo, oggi però mi soffermerò sul teatro. Anche perché mi sembra che nessuno si occupi di quando - e con che regole - sarà possibile tornare a vedere gli spettacoli dal vivo.
Naturalmente mi manca anche andare al cinema, ma devo riconoscere che questa nostalgia è meno profonda. Sono assolutamente solidale con gli esercenti dei cinema, specialmente quelli piccoli, quelli di provincia, che già prima della peste facevano una gran fatica ad andare avanti. E appena si potrà, tornerò al cinema del mio paese, anche se daranno un brutto film, perché abbiamo un disperato bisogno che queste piccole sale indipendenti non chiudano. Ma posso vedere un film anche in altri modi e con altri supporti. So che adesso i puristi leveranno indignati gli scudi. State tranquilli, so anch'io che il grande schermo è un'altra cosa rispetto alla televisione e al computer, ma francamente poter evitare gli spettatori maleducati e il nauseabondo odore di popcorn (a me piace molto il popcorn, ma non capisco perché quello dei cinema abbia quell'odore) è per me un vantaggio non da poco, di certo superiore a quello di rinunciare alla poesia della sala.
Il teatro invece bisogna vederlo a teatro. Nonostante gli spettatori maleducati che imperano anche in queste sale. Almeno per ora non hanno sdoganato il popcorn, ma temo non ci vorrà molto. Perché il teatro è anche il qui e ora, ogni spettacolo è una storia a sé, perché ogni giorno chi è sul palco, anche se è lo stesso attore che recita le stesse battute - o lo stesso musicista che suona le stesse note - è una persona diversa e anche noi spettatori siamo diversi ogni giorno e ad ogni spettacolo a cui assistiamo.
Quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'opportunità di conoscere Silvano Piccardi. Per questa amicizia mi è capitato di assistere per tre volte - sempre pagando il biglietto, beninteso - allo spettacolo Enigma, di cui ha curato la regia e che interpreta insieme a una splendida Ottavia Piccolo. Naturalmente ogni sera le battute sono state le stesse, ma ho assistito a tre spettacoli in qualche modo diversi, anche perché si sono svolti di fronte a pubblici diversi, uno dei quali composto da una percentuale pericolosamente alta di maleducati. Sono stati diversi perché la seconda volta sapevo già come finiva la storia, mentre la terza ricordavo ormai anche le battute. E soprattutto perché Ottavia e Silvano ogni sera hanno interpretato i loro ruoli con accenti e sfumature diverse.
Detto questo, da appassionato, da abbonato in un piccolo, ma assolutamente meritevole, teatro di provincia, difendo con passione lo streaming, di cui pure tanti cosiddetti appassionati sono strenui detrattori. Non a caso tra questi ci sono i conservatori fondamentalisti che occupano i loggioni dei teatri lirici, difendendo la loro presunta e moribonda ortodossia da ogni novità che considerano una forma di eresia. Credo di aver visto più opere liriche durante queste settimane di peste che negli altri cinquant'anni della mia vita, perché tanti teatri hanno messo a disposizione gratuitamente i loro patrimoni di registrazioni. Tra l'altro ho visto cose che mai avrei potuto vedere, perché non posso fare un salto a Londra per vedere uno spettacolo della Royal Opera House né tornare indietro nel tempo quando era ancora viva Daniela Dessì. E aver visto tutti questi spettacoli è un mio arricchimento che, tra l'altro, mi spinge a voler tornare il prima possibile a teatro. A vedere altre cose naturalmente.
Vedere un'opera sullo schermo del tablet è come andare a teatro? Assolutamente no. Immagino che Platone direbbe che è come la condizione di quei prigionieri incatenati in una caverna che credono che le ombre che si agitano in fondo a essa siano il mondo reale, ossia il livello più basso della conoscenza. Eppure un contadino bolognese - che non sapeva nulla di Platone, ma conosceva Verdi - avrebbe risposto "piutost che gninta, l'è mei piutost". Questa rustica saggezza vale assolutamente anche in questo caso. Credo sia comunque un'esperienza da fare. E che in qualche modo debba continuare, anche quando finirà la peste, anche quando potremo tornare finalmente a teatro.
In genere questo insolito dizionario evita le parole straniere, ma ormai streaming è una delle parole più usate in questo periodo di lockdown. In pratica, quando non facciamo smart working, guardiamo qualcosa in streaming. A volte anche contemporaneamente, facendo male una cosa e l'altra. In sostanza non potevo più esimermi da questa definizione.
Sapete che io non soffro per la quarantena. Anzi... Però devo ammettere che mi mancano due cose: mangiare fuori e andare a teatro. Magari un giorno parlerò anche della mia passione per il buon cibo, oggi però mi soffermerò sul teatro. Anche perché mi sembra che nessuno si occupi di quando - e con che regole - sarà possibile tornare a vedere gli spettacoli dal vivo.
Naturalmente mi manca anche andare al cinema, ma devo riconoscere che questa nostalgia è meno profonda. Sono assolutamente solidale con gli esercenti dei cinema, specialmente quelli piccoli, quelli di provincia, che già prima della peste facevano una gran fatica ad andare avanti. E appena si potrà, tornerò al cinema del mio paese, anche se daranno un brutto film, perché abbiamo un disperato bisogno che queste piccole sale indipendenti non chiudano. Ma posso vedere un film anche in altri modi e con altri supporti. So che adesso i puristi leveranno indignati gli scudi. State tranquilli, so anch'io che il grande schermo è un'altra cosa rispetto alla televisione e al computer, ma francamente poter evitare gli spettatori maleducati e il nauseabondo odore di popcorn (a me piace molto il popcorn, ma non capisco perché quello dei cinema abbia quell'odore) è per me un vantaggio non da poco, di certo superiore a quello di rinunciare alla poesia della sala.
Il teatro invece bisogna vederlo a teatro. Nonostante gli spettatori maleducati che imperano anche in queste sale. Almeno per ora non hanno sdoganato il popcorn, ma temo non ci vorrà molto. Perché il teatro è anche il qui e ora, ogni spettacolo è una storia a sé, perché ogni giorno chi è sul palco, anche se è lo stesso attore che recita le stesse battute - o lo stesso musicista che suona le stesse note - è una persona diversa e anche noi spettatori siamo diversi ogni giorno e ad ogni spettacolo a cui assistiamo.
Quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'opportunità di conoscere Silvano Piccardi. Per questa amicizia mi è capitato di assistere per tre volte - sempre pagando il biglietto, beninteso - allo spettacolo Enigma, di cui ha curato la regia e che interpreta insieme a una splendida Ottavia Piccolo. Naturalmente ogni sera le battute sono state le stesse, ma ho assistito a tre spettacoli in qualche modo diversi, anche perché si sono svolti di fronte a pubblici diversi, uno dei quali composto da una percentuale pericolosamente alta di maleducati. Sono stati diversi perché la seconda volta sapevo già come finiva la storia, mentre la terza ricordavo ormai anche le battute. E soprattutto perché Ottavia e Silvano ogni sera hanno interpretato i loro ruoli con accenti e sfumature diverse.
Detto questo, da appassionato, da abbonato in un piccolo, ma assolutamente meritevole, teatro di provincia, difendo con passione lo streaming, di cui pure tanti cosiddetti appassionati sono strenui detrattori. Non a caso tra questi ci sono i conservatori fondamentalisti che occupano i loggioni dei teatri lirici, difendendo la loro presunta e moribonda ortodossia da ogni novità che considerano una forma di eresia. Credo di aver visto più opere liriche durante queste settimane di peste che negli altri cinquant'anni della mia vita, perché tanti teatri hanno messo a disposizione gratuitamente i loro patrimoni di registrazioni. Tra l'altro ho visto cose che mai avrei potuto vedere, perché non posso fare un salto a Londra per vedere uno spettacolo della Royal Opera House né tornare indietro nel tempo quando era ancora viva Daniela Dessì. E aver visto tutti questi spettacoli è un mio arricchimento che, tra l'altro, mi spinge a voler tornare il prima possibile a teatro. A vedere altre cose naturalmente.
Vedere un'opera sullo schermo del tablet è come andare a teatro? Assolutamente no. Immagino che Platone direbbe che è come la condizione di quei prigionieri incatenati in una caverna che credono che le ombre che si agitano in fondo a essa siano il mondo reale, ossia il livello più basso della conoscenza. Eppure un contadino bolognese - che non sapeva nulla di Platone, ma conosceva Verdi - avrebbe risposto "piutost che gninta, l'è mei piutost". Questa rustica saggezza vale assolutamente anche in questo caso. Credo sia comunque un'esperienza da fare. E che in qualche modo debba continuare, anche quando finirà la peste, anche quando potremo tornare finalmente a teatro.
So che tra coloro che sono critici di questa sorta di "tana liberi tutti" degli spettacoli in streaming, oltre ai parrucconi, ci sono anche tanti artisti che temono che questo sia un modo per svilire il loro lavoro. Capisco la vostra preoccupazione, visto che viviamo in una società che non vi considera neppure lavoratori, ma al massimo amatori con del talento e quindi vi chiede tante volte di fare il vostro lavoro gratis. O al massimo con un rimborso spese. Ma non è opponendovi allo streaming che riuscirete a cambiare uno stato di cose in cui viviamo e di cui tanti di noi, e anche di voi, siamo responsabili. Perché ripeto lo streaming - che peraltro non dovrà essere sempre gratuito - permette a noi spettatori di vedere spettacoli che non avremmo mai potuto vedere, per mille ragioni. Ma ci farà conoscere un mondo che conosciamo poco, e male, anche per colpa del sistema contro cui voi lavoratori dello spettacolo e noi spettatori dovremmo combattere, un sistema che a tanti di voi, che non sono star, dà poco e che a noi chiede molto. C'è evidentemente qualcosa che non funziona in questa disparità. E ci farà conoscere anche qualcuno di voi, e forse vi verremo a vedere se sarete nella nostra città. Perché, nonostante viviamo in questo mondo in cui sembra che sappiamo tutto, le informazioni che ci arrivano davvero sono fortemente controllate.
Lo streaming è uno strumento, probabilmente imperfetto, ma a suo modo democratico. Una puttana che vuole ascoltare Traviata non dovrà più sperare di incontrare Richard Gere che la porti all'opera, basta che si colleghi a internet. E forse anche a lei farà bene ascoltare la storia di quella donna che si dimostra così superiore agli uomini che la pagano.
Naturalmente non sappiamo ancora come sarà possibile andare a teatro nel "dopo-peste" - come non sappiamo praticamente nulla di come sarà possibile fare ogni altra cosa, compreso mangiar fuori - ma immagino che le sale dovranno rinunciare a un discreto numero di posti - forse molti posti, quelli che garantiscono l'utile - che sarà più complicato e scomodo andare a teatro, perché immagino i biglietti saranno nominativi - saremo "schedati" noi che vorremo partecipare a questa pericolosa manifestazione del libero pensiero - e sicuramente più costoso. E già adesso, specialmente per l'opera, è molto costoso, per lo più un lusso da privilegiati oppure, come nel caso di molti di noi, la rinuncia a molte altre cose: o vai al Regio o fai altre due e tre cose che ti piace fare.
Le amiche e gli amici che vivono del teatro, della musica e dello spettacolo, perché quello è il loro lavoro, credo che in questi giorni, oltre a chiedere di essere considerati come lavoratori e quindi tutelati perché non hanno lavorato per molti mesi, dovrebbero interrogarsi su cosa sarà il teatro dopodomani, quando le sale dovranno in qualche modo riaprire. E dobbiamo pensarci anche noi spettatori. Perché abbiamo qualche diritto, ma soprattutto molti doveri.
Ad Atene non solo venivano pagati autori, attori e musicisti, ma soprattutto veniva pagato il pubblico: quella comunità voleva che le persone andassero a teatro, considerava il teatro un lavoro, non proprio smart. Perché il teatro era un potente strumento di propaganda e di lotta politica, ma soprattutto era considerato uno strumento di educazione. I cittadini che dovevano votare nell'assemblea e nei tribunali dovevano prima aver visto tragedie e commedie, dovevano aver conosciuto gli uomini e il mondo attraverso il teatro, che era uno degli strumenti della democrazia.
Sono consapevole di non vivere nell'Atene di Pericle - dove per altro sarei morto per la peste - e quindi accetto di non essere pagato per andare a teatro, ma vorrei che le mie tasse servissero anche a garantire che gli spettacoli non siano così costosi, per me e soprattutto per chi ha molto meno di me, ma ha bisogno di conoscere gli uomini e il mondo attraverso il teatro. Che continua a essere uno strumento della democrazia, come ogni altra manifestazione della cultura e dell'arte. E per fare questo abbiamo bisogno anche degli spettacoli attraverso lo schermo di un computer o di un telefonino. A gratis, ma anche pagando, chiedendo che una parte di quei soldi arrivi anche a chi ha realizzato quel lavoro.
Naturalmente non sappiamo ancora come sarà possibile andare a teatro nel "dopo-peste" - come non sappiamo praticamente nulla di come sarà possibile fare ogni altra cosa, compreso mangiar fuori - ma immagino che le sale dovranno rinunciare a un discreto numero di posti - forse molti posti, quelli che garantiscono l'utile - che sarà più complicato e scomodo andare a teatro, perché immagino i biglietti saranno nominativi - saremo "schedati" noi che vorremo partecipare a questa pericolosa manifestazione del libero pensiero - e sicuramente più costoso. E già adesso, specialmente per l'opera, è molto costoso, per lo più un lusso da privilegiati oppure, come nel caso di molti di noi, la rinuncia a molte altre cose: o vai al Regio o fai altre due e tre cose che ti piace fare.
Le amiche e gli amici che vivono del teatro, della musica e dello spettacolo, perché quello è il loro lavoro, credo che in questi giorni, oltre a chiedere di essere considerati come lavoratori e quindi tutelati perché non hanno lavorato per molti mesi, dovrebbero interrogarsi su cosa sarà il teatro dopodomani, quando le sale dovranno in qualche modo riaprire. E dobbiamo pensarci anche noi spettatori. Perché abbiamo qualche diritto, ma soprattutto molti doveri.
Ad Atene non solo venivano pagati autori, attori e musicisti, ma soprattutto veniva pagato il pubblico: quella comunità voleva che le persone andassero a teatro, considerava il teatro un lavoro, non proprio smart. Perché il teatro era un potente strumento di propaganda e di lotta politica, ma soprattutto era considerato uno strumento di educazione. I cittadini che dovevano votare nell'assemblea e nei tribunali dovevano prima aver visto tragedie e commedie, dovevano aver conosciuto gli uomini e il mondo attraverso il teatro, che era uno degli strumenti della democrazia.
Sono consapevole di non vivere nell'Atene di Pericle - dove per altro sarei morto per la peste - e quindi accetto di non essere pagato per andare a teatro, ma vorrei che le mie tasse servissero anche a garantire che gli spettacoli non siano così costosi, per me e soprattutto per chi ha molto meno di me, ma ha bisogno di conoscere gli uomini e il mondo attraverso il teatro. Che continua a essere uno strumento della democrazia, come ogni altra manifestazione della cultura e dell'arte. E per fare questo abbiamo bisogno anche degli spettacoli attraverso lo schermo di un computer o di un telefonino. A gratis, ma anche pagando, chiedendo che una parte di quei soldi arrivi anche a chi ha realizzato quel lavoro.
Soprattutto abbiamo bisogno di far capire a tanti che il teatro è una necessità civica e questo è possibile solo se più persone si rendono conto di cos'è, di cosa racconta, di che opportunità offre alla mente. Se lo streaming contribuirà a questo, se cominceremo a considerare lo streaming anche come una sorta di salario di noi spettatori, allora viva lo streaming.
lunedì 11 maggio 2020
Verba volant (766): credere...
Credere, v. tr.
Non la conosco e quindi non so se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è partita per l'Africa. Non me ne sarebbe importato nulla: sono fatti suoi. Tanto più perché io non credo e come non voglio che nessuno giudichi quello che io credo e non credo, così non giudico gli altri. Però ho espresso la mia stima per quella giovane ragazza che, indipendentemente da quello che credeva, ha fatto una scelta così difficile, una scelta di cui noi, che pure pontifichiamo da dietro le nostre tastiere, non saremmo mai capaci, che noi, con tutti i nostri begli ideali, non avremmo mai il coraggio di fare. Sono stato orgoglioso di Silvia per quello che ha fatto, come fosse la figlia che non ho. E anche preoccupato, perché, da vecchio, penso che questo mondo sia così marcio che perfino l'intelligenza, il coraggio, la passione di una giovane donna come Silvia siano ormai inutili per salvarlo.
Non mi interessava sapere se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è stata rapita. Non me importava nulla: sono fatti suoi. Ho scritto allora che dovevamo pagare. Silenziosamente pagare. Come abbiamo fortunatamente fatto. Perché la cosa importante era riportare a casa sua Silvia, indipendentemente da quello che credeva, perché se lo meritava, per quello che aveva fatto, per quello che voleva fare, anche per il suo entusiasmo irresponsabile, di cui abbiamo un disperato bisogno. È il minimo che noi, noi cinici, noi pavidi, noi ipocriti, potevamo fare. Io sono uno di quelli che a suo tempo ha creduto nella politica e che quindi non sempre le cose si risolvono con i soldi, anche se ormai viviamo in un mondo in cui pare che tutto si possa vendere e comprare, in cui i soldi sono l'unico metro di giudizio. Ma anche uno come me, pensa che in questo caso i soldi siano l'unica soluzione possibile. E Silvia è stata fortunata perché è stata rapita non da fanatici, ma da criminali, e con i criminali alla fine un accordo si trova sempre. Con i criminali riusciamo a intenderci in qualche modo: tra simili ci riconosciamo. Con i fanatici è più difficile.
Adesso non mi interessa sapere se Silvia crede e, se crede, in cosa. Non me ne importa nulla: sono fatti suoi. Non so se ricordate una delle ultime scene del bel film di Nino Manfredi del 1971 Per grazia ricevuta. Quando sta per morire, il vecchio farmacista ateo e anticlericale bacia il crocifisso che un prete gli avvicina alle labbra, sconvolgendo il giovane Benedetto a cui l'uomo aveva insegnato a liberarsi della religione. Il vecchio ateo, di fronte a una paura tutto sommato accettabile, si è piegato, dimostrando di non avere neppure quel poco di coraggio che uno alla fine dovrebbe dimostrare. Se una persona che è stata in una tale prigionia per un anno e mezzo, temendo ogni giorno per la propria vita, ha trovato il conforto in qualcosa in cui credere non mi pare uno scandalo, nemmeno per me che non credo. Perfino se si è convertita per salvarsi, non sentirete da me una parola di biasimo: ha fatto bene. E non capisco poi perché dovrebbero scandalizzarsi i baciapile, quelli che non perdono occasione per ostentare la propria fede. Forse non vi va bene perché non si è affidata alla vostra religione? Immagino che se fosse arrivata con il velo da suora adesso sareste tutti in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, dal vostro santo fascista, ringraziandolo per il miracolo. L'unica cosa per cui dobbiamo ringraziare qualcuno, se ci credete, è che per fortuna i rapitori non erano fanatici come voi, ma semplici banditi.
L'etimologia del verbo credere richiama al significato originario di affidarsi. Io sono disposto ad affidarmi all'intelligenza, al coraggio, alla passione di una giovane donna come Silvia, indipendentemente da quello che lei crede.
Non la conosco e quindi non so se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è partita per l'Africa. Non me ne sarebbe importato nulla: sono fatti suoi. Tanto più perché io non credo e come non voglio che nessuno giudichi quello che io credo e non credo, così non giudico gli altri. Però ho espresso la mia stima per quella giovane ragazza che, indipendentemente da quello che credeva, ha fatto una scelta così difficile, una scelta di cui noi, che pure pontifichiamo da dietro le nostre tastiere, non saremmo mai capaci, che noi, con tutti i nostri begli ideali, non avremmo mai il coraggio di fare. Sono stato orgoglioso di Silvia per quello che ha fatto, come fosse la figlia che non ho. E anche preoccupato, perché, da vecchio, penso che questo mondo sia così marcio che perfino l'intelligenza, il coraggio, la passione di una giovane donna come Silvia siano ormai inutili per salvarlo.
Non mi interessava sapere se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è stata rapita. Non me importava nulla: sono fatti suoi. Ho scritto allora che dovevamo pagare. Silenziosamente pagare. Come abbiamo fortunatamente fatto. Perché la cosa importante era riportare a casa sua Silvia, indipendentemente da quello che credeva, perché se lo meritava, per quello che aveva fatto, per quello che voleva fare, anche per il suo entusiasmo irresponsabile, di cui abbiamo un disperato bisogno. È il minimo che noi, noi cinici, noi pavidi, noi ipocriti, potevamo fare. Io sono uno di quelli che a suo tempo ha creduto nella politica e che quindi non sempre le cose si risolvono con i soldi, anche se ormai viviamo in un mondo in cui pare che tutto si possa vendere e comprare, in cui i soldi sono l'unico metro di giudizio. Ma anche uno come me, pensa che in questo caso i soldi siano l'unica soluzione possibile. E Silvia è stata fortunata perché è stata rapita non da fanatici, ma da criminali, e con i criminali alla fine un accordo si trova sempre. Con i criminali riusciamo a intenderci in qualche modo: tra simili ci riconosciamo. Con i fanatici è più difficile.
Adesso non mi interessa sapere se Silvia crede e, se crede, in cosa. Non me ne importa nulla: sono fatti suoi. Non so se ricordate una delle ultime scene del bel film di Nino Manfredi del 1971 Per grazia ricevuta. Quando sta per morire, il vecchio farmacista ateo e anticlericale bacia il crocifisso che un prete gli avvicina alle labbra, sconvolgendo il giovane Benedetto a cui l'uomo aveva insegnato a liberarsi della religione. Il vecchio ateo, di fronte a una paura tutto sommato accettabile, si è piegato, dimostrando di non avere neppure quel poco di coraggio che uno alla fine dovrebbe dimostrare. Se una persona che è stata in una tale prigionia per un anno e mezzo, temendo ogni giorno per la propria vita, ha trovato il conforto in qualcosa in cui credere non mi pare uno scandalo, nemmeno per me che non credo. Perfino se si è convertita per salvarsi, non sentirete da me una parola di biasimo: ha fatto bene. E non capisco poi perché dovrebbero scandalizzarsi i baciapile, quelli che non perdono occasione per ostentare la propria fede. Forse non vi va bene perché non si è affidata alla vostra religione? Immagino che se fosse arrivata con il velo da suora adesso sareste tutti in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, dal vostro santo fascista, ringraziandolo per il miracolo. L'unica cosa per cui dobbiamo ringraziare qualcuno, se ci credete, è che per fortuna i rapitori non erano fanatici come voi, ma semplici banditi.
L'etimologia del verbo credere richiama al significato originario di affidarsi. Io sono disposto ad affidarmi all'intelligenza, al coraggio, alla passione di una giovane donna come Silvia, indipendentemente da quello che lei crede.
giovedì 7 maggio 2020
Verba volant (765): vampa...
Vampa, sost. f.
Anche Victor Hugo è stato giovane, anche se per noi rimane il vecchio dalla folta barba bianca che ci osserva con lo sguardo accigliato dalle foto di Walery e di Nadar, spesso riprodotte sulle copertine dei suoi tanti romanzi. Eppure ha appena trent'anni quando pubblica, ottenendo un immediato successo, il romanzo Notre-Dame de Paris. E cerca di mettere in scena Le Roi s'amuse; in questo caso senza lo stesso fortunato riscontro.
La sera del 22 novembre 1832, quando il dramma va in scena per la prima volta alla Comédie-Française, in platea ci sono Stendhal, Théophile Gautier, Franz Lizst, Honoré de Balzac, Alfred de Musset, per vedere questa nuova opera destinata a superare il successo di Cromwell ed Hernani e a rappresentare il nuovo teatro romantico.
Ma ci sono anche altre orecchie interessate a quel dramma in cui si racconta la storia di un re, che usa il proprio potere per possedere tutte le donne che gli capitano a tiro, e del suo buffone, che prima è complice del suo padrone, ma poi ne diventa vittima, dal momento che il corrotto monarca rapisce e violenta anche la figlia del povero giullare. E quando Triboulet decide di vendicarsi, progettando addirittura di uccidere il re, finirà per assassinare sua figlia. Il conte d'Argout, ministro del re Luigi Filippo, assiste allo spettacolo e lo considera sconveniente, oltraggioso per la morale e politicamente pericoloso. Già il giorno successivo obbliga la Comédie-Française a sospendere le recite e il testo viene bandito da tutti i teatri francesi.
La seconda rappresentazione del dramma avverrà cinquant'anni dopo, il 22 novembre 1882, sempre alla Comédie-Française, e questa volta alla presenza del Presidente della Repubblica. Si vuole rimediare all'affronto in maniera solenne e ufficiale. Ormai il vecchio senatore Hugo è uno dei grandi di Francia, è quello delle foto con la folta barba bianca.
Anche Victor Hugo è stato giovane, anche se per noi rimane il vecchio dalla folta barba bianca che ci osserva con lo sguardo accigliato dalle foto di Walery e di Nadar, spesso riprodotte sulle copertine dei suoi tanti romanzi. Eppure ha appena trent'anni quando pubblica, ottenendo un immediato successo, il romanzo Notre-Dame de Paris. E cerca di mettere in scena Le Roi s'amuse; in questo caso senza lo stesso fortunato riscontro.
La sera del 22 novembre 1832, quando il dramma va in scena per la prima volta alla Comédie-Française, in platea ci sono Stendhal, Théophile Gautier, Franz Lizst, Honoré de Balzac, Alfred de Musset, per vedere questa nuova opera destinata a superare il successo di Cromwell ed Hernani e a rappresentare il nuovo teatro romantico.
Ma ci sono anche altre orecchie interessate a quel dramma in cui si racconta la storia di un re, che usa il proprio potere per possedere tutte le donne che gli capitano a tiro, e del suo buffone, che prima è complice del suo padrone, ma poi ne diventa vittima, dal momento che il corrotto monarca rapisce e violenta anche la figlia del povero giullare. E quando Triboulet decide di vendicarsi, progettando addirittura di uccidere il re, finirà per assassinare sua figlia. Il conte d'Argout, ministro del re Luigi Filippo, assiste allo spettacolo e lo considera sconveniente, oltraggioso per la morale e politicamente pericoloso. Già il giorno successivo obbliga la Comédie-Française a sospendere le recite e il testo viene bandito da tutti i teatri francesi.
La seconda rappresentazione del dramma avverrà cinquant'anni dopo, il 22 novembre 1882, sempre alla Comédie-Française, e questa volta alla presenza del Presidente della Repubblica. Si vuole rimediare all'affronto in maniera solenne e ufficiale. Ormai il vecchio senatore Hugo è uno dei grandi di Francia, è quello delle foto con la folta barba bianca.
Quando Le Roi s'amuse viene nuovamente messo in scena, sono già venticinque anni che in Francia viene regolarmente rappresentata l'opera di un compositore emiliano, che si intitola Rigoletto e che racconta la storia di un buffone la cui figlia viene sedotta e rapita da un duca tanto potente quanto senza morale e infine viene uccisa dal padre che la vorrebbe vendicare. Anche Giuseppe Verdi quando compone quest'opera non è ancora il vecchio senatore dalla barba bianca, il padre della patria che conosciamo grazie al bel ritratto di Giovanni Boldini. La censura obbliga il suo librettista Francesco Maria Piave a trasferire la storia in un fantomatico ducato di Mantova, per non suscitare le ire di nessuna casa regnante italiana ed europea. E comunque l'espediente non rende l'opera esente da censure e tagli, di cui ovviamente il Maestro si lamenta: scrive a Ricordi che ormai Rigoletto può essere firmata invece che da lui e da Piave da don ... mettendo il nome del censore di turno.
Nel gennaio del 1857, sapendo che la Comédie-Française sta per mettere in scena l'opera di Verdi, Hugo intima il teatro di sospendere le rappresentazioni, in quanto Rigoletto deve essere considerata una contraffazione del suo Le Roi s'amuse. Hugo perde la causa e il 27 febbraio 1858 l'opera verdiana va finalmente in scena. Con grande successo. A dire il vero lo scrittore francese non ce l'ha con Verdi, ma con questa causa vuole denunciare l'assurdità del divieto che ancora vige contro la sua opera, dal momento che si può rappresentare, con un altro titolo, lo stesso identico intreccio. Hugo capisce che la censura non è più contro il suo Triboulet, ma proprio contro di lui. E naturalmente vuole combattere.
Peraltro sappiamo che Victor Hugo è andato a vedere Rigoletto e lo ha molto apprezzato.
Insuperabile! Meraviglioso! Potessi anch'io, nei miei drammi, far parlare contemporaneamente quattro personaggi in modo che il pubblico ne percepisca le parole e i diversi sentimenti, e ottenere un effetto uguale a questo.
Scrive così del quartetto del terzo atto, una delle pagine più giustamente celebri del teatro lirico di tutti i tempi.
Ma quei due giovani ribelli, prima di diventare i vecchi e celebrati autori che conosciamo, hanno in comune non solo Ernani e Rigoletto. Entrambi hanno costruito uno dei loro capolavori attorno alla figura di un'emarginata, di una dannata, di una zingara.
Sono trascorsi trentadue anni tra Notre-Dame de Paris e Il trovatore. E in mezzo c'è stato il Quarantotto, la speranza che la rivoluzione potesse trionfare, abbattendo i vecchi regimi e la cultura delle accademie, e insieme l'amarezza per quello che poteva essere e non è stato. Hugo e Verdi si considerano entrambi sconfitti, perché la "loro" rivoluzione è fallita.
Victor Hugo deve lasciare la Francia, meglio l'esilio che sottostare al regime del Secondo Impero, e in questi anni scriverà I miserabili. Giuseppe Verdi può continuare a viaggiare per i diversi stati italiani, ma decide comunque di dedicarsi a opere meno direttamente risorgimentali e più attente alle vicende private dei protagonisti, ai loro drammi e ai loro amori. Nasce così la cosiddetta "trilogia popolare", in cui il Maestro di Busseto racconta i suoi "miserabili", disegnando tre grandi figure di donne: una giovane vittima della lussuria dell'uomo che ella, nonostante tutto, ama e della smania di controllo di un padre troppo possessivo, una cortigiana che con le sue qualità svela la grettezza e l'ipocrisia della buona società parigina a cui "vende" il corpo, ma non l'anima, una zingara che compie un difficile percorso di redenzione dalla cieca vendetta all'amore verso il figlio del proprio nemico. E probabilmente Victor Hugo, l'autore dei personaggi di Blanche e di Esmeralda, ha conosciuto a Parigi Marie Duplessis, la donna che ha ispirato la "signora delle camelie" di Dumas e la "traviata" di Verdi, perché vita e poesia a volte trovano il modo di intrecciarsi in maniera bizzarra.
Gilda, Violetta e Azucena sono tre grandi donne, che emergono in un mondo di uomini che non le capiscono e che per questo le temono.
Verdi non si ispira a Hugo per creare il personaggio di Azucena, che trova nel dramma di Antonio Garcia Gutierrez intitolato El trovador, che legge direttamente in spagnolo. Eppure quando decide di mettere in musica questa tragedia deve avere in mente anche Esmeralda, la donna bellissima, libera e indipendente, che è il vero motore del romanzo di Hugo.
Certamente Leonora è una delle grandi eroine verdiane, la donna che vuole scegliere il proprio destino, a partire dall'uomo da amare. Leonora non accetta quello che il mondo ha preparato per lei, vuole essere lei a decidere, anche la morte se necessario. Ma è Azucena che alla fine rimane impressa nella nostra memoria, il suo vivere ogni giorno la drammatica contraddizione tra la volontà di vendicare la madre, straziata delle fiamme del rogo, e di amare il figlio dell'uomo che ha voluto quel rogo. Azucena sa che la sua vendetta potrà compiersi soltanto se Manrico sarà ucciso, ma sa anche che non potrà essere lei la persona che vendicherà la madre, perché ormai Manrico è suo figlio, perché non conta il sangue che scorre nelle sue vene: è suo figlio perché lei lo ha amato, lo ama e lo amerà come tale. E quando alla fine Manrico fatalmente muore, ucciso dal proprio fratello, la donna non sa che fare, il suo animo è straziato: la figlia che potrebbe gioire perché la madre è finalmente vendicata è sovrastata dalla madre che ha perso il proprio figlio. Garcia Gutierrez ha raccontato tutto questo, ma è la musica di Verdi a dare grandezza a questo personaggio, a partire dal primo brano con cui entra in scena, anticipata dal famoso “coro delle incudini”, quel Stride la vampa che pur sembrando una canzone popolare, la nenia di una vecchia zingara, è il racconto della tragica morte della madre a cui lei ha assistito bambina. E in qualche modo è anche una profezia, anche se Azucena non ha la "fortuna" di venire arsa, la pena a cui è destinata è molto più cruda: deve sopravvivere. La stessa pena a cui è condannato Rigoletto.
Il ribelle Verdi racconta con la sua musica che quella zingara, quella dannata, quella miserabile, è migliore di tutti noi che abbiamo acquistato il biglietto per andare a teatro. E noi potremo impiccare Esmeralda o bruciare Azucena, ma saranno, come Gilda, come Violetta, come Marie, sempre migliori di noi.
Victor Hugo deve lasciare la Francia, meglio l'esilio che sottostare al regime del Secondo Impero, e in questi anni scriverà I miserabili. Giuseppe Verdi può continuare a viaggiare per i diversi stati italiani, ma decide comunque di dedicarsi a opere meno direttamente risorgimentali e più attente alle vicende private dei protagonisti, ai loro drammi e ai loro amori. Nasce così la cosiddetta "trilogia popolare", in cui il Maestro di Busseto racconta i suoi "miserabili", disegnando tre grandi figure di donne: una giovane vittima della lussuria dell'uomo che ella, nonostante tutto, ama e della smania di controllo di un padre troppo possessivo, una cortigiana che con le sue qualità svela la grettezza e l'ipocrisia della buona società parigina a cui "vende" il corpo, ma non l'anima, una zingara che compie un difficile percorso di redenzione dalla cieca vendetta all'amore verso il figlio del proprio nemico. E probabilmente Victor Hugo, l'autore dei personaggi di Blanche e di Esmeralda, ha conosciuto a Parigi Marie Duplessis, la donna che ha ispirato la "signora delle camelie" di Dumas e la "traviata" di Verdi, perché vita e poesia a volte trovano il modo di intrecciarsi in maniera bizzarra.
Gilda, Violetta e Azucena sono tre grandi donne, che emergono in un mondo di uomini che non le capiscono e che per questo le temono.
Verdi non si ispira a Hugo per creare il personaggio di Azucena, che trova nel dramma di Antonio Garcia Gutierrez intitolato El trovador, che legge direttamente in spagnolo. Eppure quando decide di mettere in musica questa tragedia deve avere in mente anche Esmeralda, la donna bellissima, libera e indipendente, che è il vero motore del romanzo di Hugo.
Certamente Leonora è una delle grandi eroine verdiane, la donna che vuole scegliere il proprio destino, a partire dall'uomo da amare. Leonora non accetta quello che il mondo ha preparato per lei, vuole essere lei a decidere, anche la morte se necessario. Ma è Azucena che alla fine rimane impressa nella nostra memoria, il suo vivere ogni giorno la drammatica contraddizione tra la volontà di vendicare la madre, straziata delle fiamme del rogo, e di amare il figlio dell'uomo che ha voluto quel rogo. Azucena sa che la sua vendetta potrà compiersi soltanto se Manrico sarà ucciso, ma sa anche che non potrà essere lei la persona che vendicherà la madre, perché ormai Manrico è suo figlio, perché non conta il sangue che scorre nelle sue vene: è suo figlio perché lei lo ha amato, lo ama e lo amerà come tale. E quando alla fine Manrico fatalmente muore, ucciso dal proprio fratello, la donna non sa che fare, il suo animo è straziato: la figlia che potrebbe gioire perché la madre è finalmente vendicata è sovrastata dalla madre che ha perso il proprio figlio. Garcia Gutierrez ha raccontato tutto questo, ma è la musica di Verdi a dare grandezza a questo personaggio, a partire dal primo brano con cui entra in scena, anticipata dal famoso “coro delle incudini”, quel Stride la vampa che pur sembrando una canzone popolare, la nenia di una vecchia zingara, è il racconto della tragica morte della madre a cui lei ha assistito bambina. E in qualche modo è anche una profezia, anche se Azucena non ha la "fortuna" di venire arsa, la pena a cui è destinata è molto più cruda: deve sopravvivere. La stessa pena a cui è condannato Rigoletto.
Il ribelle Verdi racconta con la sua musica che quella zingara, quella dannata, quella miserabile, è migliore di tutti noi che abbiamo acquistato il biglietto per andare a teatro. E noi potremo impiccare Esmeralda o bruciare Azucena, ma saranno, come Gilda, come Violetta, come Marie, sempre migliori di noi.
domenica 3 maggio 2020
Verba volant (764): normalità...
Normalità, sost. f.
Quando torneremo alla normalità? Perfino uno che non legge i giornali come me sa che questa è la domanda che praticamente tutti si pongono in questi giorni, in maniera più o meno preoccupata, con toni più o meno polemici. Finanche apocalittici. Il 4 maggio? Il 18? Oppure il 1 giugno? O più avanti ancora?
Intanto dovremmo metterci d'accordo su cosa sia questa presunta normalità. Cenare al ristorante? Farsi tagliare i capelli? Andare a messa? Partire per le vacanze? Andare a scuola? Vedere uno spettacolo a teatro o recitare in uno spettacolo a teatro? Incominciare a lavorare? Forse ciascuno di noi ha una propria definizione di "normalità". Immagino che per qualcuno la normalità sia la ripresa del campionato di calcio e per qualcun altro poter tornare ad andare a puttane.
Personalmente l'unica cosa che mi è mancata veramente in questi giorni - e credo che mi mancherà per parecchio altro tempo - è stata quella di andare a teatro e al cinema. Per il resto mi sto godendo questi giorni a casa, senza vedere nessuno. Certo io sono fortunato, perché una casa in cui stare - insieme alla mia "congiunta" - ce l'ho e riesco pure a continuare a pagare le rate del mutuo, visto che ho anche un lavoro, che posso continuare a svolgere dal soggiorno. Perché ho anche un portatile, e un tablet, e un telefonino, e la connessione ad internet per farli funzionare. E quando non lavoro, esattamente come facevo prima, posso continuare a dedicarmi alle cose che mi piace fare, posso continuare a scrivere e a cucinare. Usavo già pochissimo il lievito prima della quarantena - non amo impastare - e quindi non ho particolarmente sofferto la penuria di questo ingrediente.
So bene che tante persone in queste settimane non hanno lavorato e non lavoreranno per un tempo ancora da definire, ma sinceramente credo che la nostra società abbia le risorse per aiutare i ristoratori, gli attori, i bagnini, i barbieri, e tutti gli altri che a differenza di noi stanno soffrendo. E, permettetemi un inciso, tutti loro non devono essere lasciati in balia al nostro buon cuore (che peraltro non esiste). Io posso rinunciare a richiedere al rimborso dell'abbonamento per gli spettacoli che non ho visto, ma non è di queste elemosine che si salverà il teatro. Occorre obbligare tutti noi a pagare le tasse per rendere possibile a tutti questi di ripartire.
Io vorrei che riflettessimo tutti che per molti di noi questa normalità tanto agognata, quella di cui ci parlano continuamente gli spot pubblicitari, alla fine è una specie di lusso, un surplus appunto: il ristorante, la gita nel fine settimana, lo spettacolo a teatro. Sento qualcuno paragonare questa quarantena a una specie di domicilio coatto, tipo gli arresti domiciliari. Credo che occorra usare le parole con moderazione e con giudizio. Ripeto che per molti di noi, molti di noi che possiamo perdere tempo nei social, non c'è stata nessuna privazione della libertà. Semplicemente siamo prudenti e la paura di morire ci spinge a fare le stesse cose che facevamo prima in una maniera un po' diversa.
Poi c'è un mondo al di fuori dei social, per cui invece la normalità, sia che torni il 4 o il 18 o il 1 giugno, è qualcosa di non così invidiabile. C'è chi la casa non ce l'ha proprio e chi considera la casa un luogo in cui è continuamente in pericolo: è quello che succede a tante donne per cui la normalità è la violenza domestica. Ma loro, anche quando noi fortunati potremo uscire - magari per rinchiuderci in un centro commerciale - dovranno rimanere lì, perché non hanno la possibilità di fuggire. Poi c'è chi non ha un lavoro. O ha un lavoro malpagato, insicuro, precario, da cui non può fuggire. E chi non ha nemmeno un computer o l'accesso alla rete. Per molti dei nostri figli la normalità non è la scuola, reale o virtuale, ma la strada, assolutamente reale. Per molti dei nostri figli è assolutamente ininfluente sapere come si svolgerà quest'anno l'esame di maturità, perché hanno dovuto diventare maturi - e mature - molto in fretta. Troppo in fetta.
A sentire tutti questi che invocano la normalità, che hanno nostalgia di quello che c'era prima, sembra che vivessimo in un tempo idillico, in una sorta di eden, da cui questa peste ci ha strappato. Sveglia, il mondo non è quello della pubblicità. No, il mondo prima faceva schifo, per la maggioranza delle donne e degli uomini che vivono in questa pianeta, era un luogo di dolore, e quando tornerà la normalità torneranno esattamente le condizioni di prima, anzi sarà peggio di prima. Così come sarà normale tornare ai livelli di inquinamento di prima, tornare ad avere le acque dei fiumi e dei mari pieni di veleni e così via. Sarà normale essere sommersi dai rifiuti e tutte le cose "belle" che ci siamo lasciati dietro nel mondo prima della peste.
A noi andava bene prima e andrà bene dopo. Ma per tutti gli altri non è così. Perché mentre per pochi di noi la normalità sarà il "dramma" di dover portare la mascherina per alcuni mesi tutte le volte che usciremo di casa, per tutti gli altri il dramma sarà trovare fuori quel mondo che hanno lasciato, con tutte le sue ingiustizie e tutte le sue miserie. E non sarà migliore solo perché noi da questa parte abbiamo sventolato qualche bandiera, abbiamo disegnato un paio di arcobaleni o abbiamo condiviso la foto di un dottore. Dopo saremo stronzi esattamente come lo eravamo prima. E il mondo farà schifo esattamente come lo faceva prima. Perché è questa la normalità.
Quando torneremo alla normalità? Perfino uno che non legge i giornali come me sa che questa è la domanda che praticamente tutti si pongono in questi giorni, in maniera più o meno preoccupata, con toni più o meno polemici. Finanche apocalittici. Il 4 maggio? Il 18? Oppure il 1 giugno? O più avanti ancora?
Intanto dovremmo metterci d'accordo su cosa sia questa presunta normalità. Cenare al ristorante? Farsi tagliare i capelli? Andare a messa? Partire per le vacanze? Andare a scuola? Vedere uno spettacolo a teatro o recitare in uno spettacolo a teatro? Incominciare a lavorare? Forse ciascuno di noi ha una propria definizione di "normalità". Immagino che per qualcuno la normalità sia la ripresa del campionato di calcio e per qualcun altro poter tornare ad andare a puttane.
Personalmente l'unica cosa che mi è mancata veramente in questi giorni - e credo che mi mancherà per parecchio altro tempo - è stata quella di andare a teatro e al cinema. Per il resto mi sto godendo questi giorni a casa, senza vedere nessuno. Certo io sono fortunato, perché una casa in cui stare - insieme alla mia "congiunta" - ce l'ho e riesco pure a continuare a pagare le rate del mutuo, visto che ho anche un lavoro, che posso continuare a svolgere dal soggiorno. Perché ho anche un portatile, e un tablet, e un telefonino, e la connessione ad internet per farli funzionare. E quando non lavoro, esattamente come facevo prima, posso continuare a dedicarmi alle cose che mi piace fare, posso continuare a scrivere e a cucinare. Usavo già pochissimo il lievito prima della quarantena - non amo impastare - e quindi non ho particolarmente sofferto la penuria di questo ingrediente.
So bene che tante persone in queste settimane non hanno lavorato e non lavoreranno per un tempo ancora da definire, ma sinceramente credo che la nostra società abbia le risorse per aiutare i ristoratori, gli attori, i bagnini, i barbieri, e tutti gli altri che a differenza di noi stanno soffrendo. E, permettetemi un inciso, tutti loro non devono essere lasciati in balia al nostro buon cuore (che peraltro non esiste). Io posso rinunciare a richiedere al rimborso dell'abbonamento per gli spettacoli che non ho visto, ma non è di queste elemosine che si salverà il teatro. Occorre obbligare tutti noi a pagare le tasse per rendere possibile a tutti questi di ripartire.
Io vorrei che riflettessimo tutti che per molti di noi questa normalità tanto agognata, quella di cui ci parlano continuamente gli spot pubblicitari, alla fine è una specie di lusso, un surplus appunto: il ristorante, la gita nel fine settimana, lo spettacolo a teatro. Sento qualcuno paragonare questa quarantena a una specie di domicilio coatto, tipo gli arresti domiciliari. Credo che occorra usare le parole con moderazione e con giudizio. Ripeto che per molti di noi, molti di noi che possiamo perdere tempo nei social, non c'è stata nessuna privazione della libertà. Semplicemente siamo prudenti e la paura di morire ci spinge a fare le stesse cose che facevamo prima in una maniera un po' diversa.
Poi c'è un mondo al di fuori dei social, per cui invece la normalità, sia che torni il 4 o il 18 o il 1 giugno, è qualcosa di non così invidiabile. C'è chi la casa non ce l'ha proprio e chi considera la casa un luogo in cui è continuamente in pericolo: è quello che succede a tante donne per cui la normalità è la violenza domestica. Ma loro, anche quando noi fortunati potremo uscire - magari per rinchiuderci in un centro commerciale - dovranno rimanere lì, perché non hanno la possibilità di fuggire. Poi c'è chi non ha un lavoro. O ha un lavoro malpagato, insicuro, precario, da cui non può fuggire. E chi non ha nemmeno un computer o l'accesso alla rete. Per molti dei nostri figli la normalità non è la scuola, reale o virtuale, ma la strada, assolutamente reale. Per molti dei nostri figli è assolutamente ininfluente sapere come si svolgerà quest'anno l'esame di maturità, perché hanno dovuto diventare maturi - e mature - molto in fretta. Troppo in fetta.
A sentire tutti questi che invocano la normalità, che hanno nostalgia di quello che c'era prima, sembra che vivessimo in un tempo idillico, in una sorta di eden, da cui questa peste ci ha strappato. Sveglia, il mondo non è quello della pubblicità. No, il mondo prima faceva schifo, per la maggioranza delle donne e degli uomini che vivono in questa pianeta, era un luogo di dolore, e quando tornerà la normalità torneranno esattamente le condizioni di prima, anzi sarà peggio di prima. Così come sarà normale tornare ai livelli di inquinamento di prima, tornare ad avere le acque dei fiumi e dei mari pieni di veleni e così via. Sarà normale essere sommersi dai rifiuti e tutte le cose "belle" che ci siamo lasciati dietro nel mondo prima della peste.
A noi andava bene prima e andrà bene dopo. Ma per tutti gli altri non è così. Perché mentre per pochi di noi la normalità sarà il "dramma" di dover portare la mascherina per alcuni mesi tutte le volte che usciremo di casa, per tutti gli altri il dramma sarà trovare fuori quel mondo che hanno lasciato, con tutte le sue ingiustizie e tutte le sue miserie. E non sarà migliore solo perché noi da questa parte abbiamo sventolato qualche bandiera, abbiamo disegnato un paio di arcobaleni o abbiamo condiviso la foto di un dottore. Dopo saremo stronzi esattamente come lo eravamo prima. E il mondo farà schifo esattamente come lo faceva prima. Perché è questa la normalità.
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