sabato 6 febbraio 2021

Verba volant (798): vecchio...

Vecchio, agg. m.

Sono vecchio come Gesù. 
Non ci avevo mai pensato. Fino al momento in cui Zaira mi ha ricordato che quest'anno ricorre il cinquantesimo anniversario del musical Jesus Christ Superstar. All'improvviso - come è successo a Jake Blues nella chiesa di Triple Rock - ho avuto questa sconvolgente rivelazione: io e Gesù siamo praticamente coetanei. 

Prima però facciamo il punto sugli anniversari, che sono diversi, a seconda di dove si fa partire la storia. Immagino che mia moglie volesse ricordarmi quello del 13 ottobre 1971, il martedì in cui il musical con questo titolo ha debuttato in quello che allora era il Mark Hellinger Theatre, sulla 51esima Strada a Midtwon Manhattan. Questo edificio è stato costruito nel 1929 come il grande cinema della Warner: allora si entrava da un ingresso laterale su Broadway che, alla fine di un lungo corridoio, portava all'ampio foyer sulla 51esima, perché un cinema negli anni Trenta, per essere un davvero un "grande" cinema, doveva avere l'ingresso su Broadway. Il Mark Hellinger Theatre è stata la "casa" per sei anni e più di duemila repliche di My Fair Lady e di molti altri successi di Broadway, compreso Jesus Christ Superstar, rimasto in cartellone settecentoventi repliche. Per un beffardo scherzo del destino, oggi non è più un teatro, ma la sede di una congregazione religiosa chiamata la Chiesa di Times Square. Che forse non piacerebbe molto al Gesù mio coetaneo né al suo compagno di lotta Giuda.
Però c'è un'altra data da ricordare, precedente a questa di soli tre mesi: il 12 luglio 1971. In quel lunedì d'estate, alla Civic Arena di Pittsburgh, tredicimila persone hanno assistito allo spettacolo in cui sono state eseguite per la prima volta in pubblico, in forma di concerto, tutte le canzoni contenute nell'album Jesus Christ Superstar. In quell'enorme igloo costruito con più di tremila tonnellate di acciaio - ovviamente di Pittsburgh - dove giocavano a hockey su ghiaccio i Penguins e dove si sono esibiti nel settembre 1964 i Beatles, c'è stato il vero debutto di questa opera rock. 
Ma dobbiamo fare un altro passo indietro, questa volta di circa nove mesi. Questo doppio album - sono due LP e un libretto di ventotto pagine - è uscito in Gran Bretagna il 27 ottobre 1970, un martedì. I discografici della Decca hanno voluto dare fiducia a Tim Rice e Andrew Lloyd Webber che hanno presentato questo ambizioso progetto: un musical sull'ultima settimana di vita di Gesù.
Tim ha avuto questa idea ascoltando With God on Our Side di Bob Dylan, e in particolare quei versi 
You'll have to decide
Whether Judas Iscariot
Had God on his side.
È una canzone del 1963, la terza traccia dell'album The Times They Are A-Changin'. Queste parole rimangono impresse nella mente di Tim: così comincia a raccontare quella storia che tutti conoscono come l'ha vissuta l'apostolo che ha tradito.
Sono giovani Tim e Andrew, hanno rispettivamente ventisei e ventidue anni, uno scrive le parole e l'altro le musiche. Hanno già lavorato insieme. Nel 1965 hanno scritto un musical, intitolato The Likes of Us, sulla vita del filantropo dell'Inghilterra della rivoluzione industriale Thomas John Barnardo, il creatore di tanti orfanotrofi e anche uno di quelli su cui, dopo la morte, è caduto il sospetto di essere Jack lo Squartatore. Le musiche sono piuttosto tradizionali: Webber si ispira ai musical degli anni Cinquanta, a Rodgers, a Loewe, ma ormai i gusti del pubblico sono cambiati e The Likes of Us rimane nei cassetti dei due ragazzi. Nel 1967 scrivono una cantata per coro di una quindicina di minuti basata sulla storia biblica di Giuseppe, Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat. Questa volta Tim e Andrew osano di più: mettono insieme rock, country, calypso. La cantata piace, la casa di produzione Novello dà loro un anticipo. Tim e Andrew la allungano e in questa nuova versione ottiene anche una recensione positiva sul Times. Ma le porte del West End rimangono ancora sbarrate per questi due ragazzi, soprattutto quando raccontano ai produttori che stanno scrivendo un musical su Gesù. 
Però loro due non smettono di provarci. Nel 1969 scrivono la canzone con cui Lulu dovrebbe rappresentare il Regno Unito all'Eurovision Song Contest, la manifestazione che in Italia chiamiamo Eurofestival. Un'edizione particolare che si svolge in Spagna - e Salvador Dalì è chiamato a disegnare i manifesti e il materiale pubblicitario - e a cui l'Austria non partecipa per protesta, perché in quel paese c'è ancora il regime fascista di Franco. La canzone si chiama Try It and See, ma viene scartata a favore di Boom Bang-a-Bang che comunque vince, seppur a pari merito con le canzoni di Spagna, Francia e Paesi Bassi. Si sospetta di un'accordo sottobanco, e la cosa fa infuriare i paesi scandinavi. Siccome non si butta via niente, sempre nel 1969, quella canzone scartata viene incisa da Rita Pavone, come lato B di Till Tomorrow. A Webber e Rice quel motivo piace molto e diventa Herod's Song
A parte questa canzone di Rita la zanzara, quell'album non è proprio un inedito. Il 21 novembre 1969 è uscito un quarantacinque giri, intitolato Superstar, sul lato B c'è il pezzo strumentale John Nineteen Forty-One: quel venerdì nasce Gesù, che quindi è più vecchio di me, per poco più di tre mesi. 
L'album viene registrato agli Olympic Studios, nella sede al 117 di Church Road, lo studio più all'avanguardia in Inghilterra, il cui arredamento è stato disegnato da Mick Jagger. Tim e Andrew per interpretare Gesù chiamano Ian Gillan, che da poche settimane è il nuovo cantante dei Deep Purple. In quel periodo i componenti della band stanno scrivendo Deep Purple in Rock - che uscirà nel giugno del 1970 - interrompendosi solo il 24 settembre 1969 per eseguire alla Royal Albert Hall il Concerto for Group and Orchestra, composto da Jon Lord, in cui la band inglese suona con la Royal Philharmonic Orchestra. Giuda è Murray Head che viene dal musical: ha appena terminato le repliche dell'edizione londinese di Hair. Sono quasi tutti inglesi gli artisti chiamati a cantare e suonare per la registrazione delle ventitré tracce del doppio album. Caifa è il bluesman di Manchester Victor Brox, mentre Mike d'Abo dei Manfred Mann è Erode. Sono inglesi anche i chitarristi Neil Hubbard e Henry McCullough, il bassista Alan Spenner e il batterista Bruce Rowland, che vengono da The Great Band, il gruppo che ha suonato con Joe Cocker a Woodstock. Mentre il sassofonista Chris Mercer viene dai Juicy Lucy. Alle tastiere c'è John Peter Robinson.
Al gruppo si uniscono due artisti nati negli Stati Uniti. Per interpretare Ponzio Pilato Tim e Andrew scelgono un attore che ha già una solida esperienza nel West End: Barry Dennen è il Maestro di cerimonie nella prima edizione inglese di Cabaret, accanto a Judi Dench che interpreta Sally Bowles. Yvonne Elliman è una diciassettenne che è arrivata a Londra da Honolulu per tentare la fortuna come cantante: è nata in quelle isole del Pacifico da un padre irlandese e una madre giapponese. Ha una bella voce: a Londra canta nei club, ma rischia di perdersi nella droga. Il suo viso, con quei lineamenti vagamente orientali e la sua voce sensuale e innocente allo stesso tempo, convincono Tim e Andrew che lei può essere Maddalena e quell'incontro cambierà la sua vita. Lei sarà l'unica a essere nel disco, a Pittsburgh, a Broadway e nel film che uscirà il 26 giugno 1973, un martedì, in anteprima all'Uptown Theatre, il grande cinema in stile art decò di Washington DC, dove nell'aprile 1968 è stato proiettato per la prima volta anche 2001: Odissea nello spazio. È Yvonne la vera regina di Jesus Christ Superstar.
I discografici della Decca si pentono di aver dato credito a quei due ragazzi. Il problema non è tanto che la BBC non voglia trasmettere i brani di quel disco, ma che il pubblico dei giovani inglesi sembra ignorarlo. Nelle classifiche del Regno Unito si ferma al ventitreesimo posto. Ma finalmente arrivano i dati di vendita dagli Stati Uniti: l'album è primo nella classifica Billboard a febbraio e a maggio del 1971 e alla fine di quell'anno sarà il più venduto, davanti a Tapestry di Carole King, che contiene, tra gli altri brani, It's Too Late.    
Nell'America che da almeno un decennio combatte in Vietnam e che da poco più di un anno ha eletto Nixon come presidente, gli ebrei condannano il disco, i cristiani lo giudicano blasfemo. I "bravi" cristiani guardano con sospetto a questo Gesù, che non è più loro "monopolio", ma che diventa uno di quegli hippies che loro detestano così caldamente: non riescono ad accettare un Gesù così umano, non se lo possono proprio permettere. Forse anche per questo le ragazze e i ragazzi lo amano sempre di più. Comprano il disco, ne cantano le canzoni, vengono allestiti in forma più o meno amatoriale degli spettacoli non autorizzati. Anche per impedire che qualcuno arrivi a Broadway prima di loro, Rice e Webber organizzano il concerto di Pittsburgh. Nella città dell'acciaio, oltre a Yvonne, i protagonisti sono Jeff Fenholt e Carl Anderson, che interpretano rispettivamente Gesù e Giuda. Carl ha ventisei anni, è nato in Virginia, nel 1969 ha fondato con alcuni suoi amici a Washington DC, dove intanto si è trasferito, un gruppo che si chiama The Second Eagle. Quando ascoltano Jesus Christ Superstar decidono di interpretare qualcuna di quelle canzoni durante le loro esibizioni: Carl ha una voce calda, potente, adatta a quei brani. Carl è nero e quando interpreta Giuda, con i suoi drammi e le sue contraddizioni, in un paese ancora fortemente razzista, questo conta. E molto. Jeff ha ventun'anni, è nato in Ohio, è un ragazzo salvato dalla musica: infatti è grazie alla sua capacità di cantare che ottiene una borsa di studio e può andare all'università, lasciando la strada e un avvenire molto incerto. 
Jeff viene scelto anche per lo spettacolo di Broadway, mentre Carl viene scritturato soltanto come sostituto di Ben Vereen, anche lui nero, anche lui venticinquenne, ma più conosciuto dal pubblico: ha già lavorato nei musical, ha ballato con Sammy Davis Jr. e ha avuto una parte nel film Sweet Charity, diretto da Bob Fosse. Ma Ben si ammala e Carl può far vedere quanto sia bravo e così i due si alternano nel corso dello spettacolo. Ted Neeley è più vecchio di loro di un paio d'anni, è nato in Texas nel '43, e si è fatto le ossa a Broadway nel cast di Hair: non ottiene il ruolo di Giuda a cui ambiva, ma rimane in compagnia come corista e sostituto di Fenholt. Jeff non si ammala, ma Ted sarà finalmente Gesù a Los Angeles e soprattutto sarà scelto da Norman Jewison per il film, insieme al suo amico Carl Anderson. E Ted sarà un Gesù molto longevo, tanto che ancora nel 2017, a più di settant'anni, ha interpretato questo ruolo in un tour arrivato qui in Italia. Anche Jeff a suo modo continuerà a essere Gesù, anche se non interpreterà più quella parte nel musical. Si converte al cristianesimo, diventa una personalità nei circoli religiosi conservatori, dove i suoi capelli lunghi sono comunque mal tollerati, si considera in qualche modo un evangelizzatore e nel 1989 "consacra" la Chiesa di Times Square, in quella grande sala dove lui per tanti mesi è stato Gesù.

Yvonne, Carl, Jeff, Ben, Ted e tutti gli altri ragazzi di vent'anni che in quelle settimane cantano, danzano e suonano quelle canzoni sono cresciuti in un mondo in cui è appena finita una guerra lunga e terribile, che chiude, sotto la coltre letale del fungo di Hiroshima, la prima parte del Novecento, e in cui ne è immediatamente scoppiata una nuova, tutt'altro che "fredda", perché semina vittime in tanti paesi, specialmente quelli più poveri, una guerra che segna tutta la seconda metà del "secolo breve". L'America e il mondo stanno cambiando, anche grazie alla musica, a quella musica "nuova" che sconvolge le regole, grazie alle canzoni di Bob Dylan, a quelle dei Beatles e degli Stones, a quella musica che "contamina", come nel caso del Concerto di Lord, le forme più tradizionali e entra nei "vecchi" teatri . E Jesus Christ Superstar arriva in questo mondo in bilico con la forza di una deflagrazione. Come Hair, Oh! Calcutta!, The Rocky Horror Show. Quel disco è una delle micce del cambiamento in un mondo in cui le forze della reazione sono ancora fortissime - in tre grandi paesi europei ci sono ancora regimi dichiaratamente fascisti, in tanti paesi dell'America latina, dell'Africa e dell'Asia gli Stati Uniti di Nixon e di Kissinger impongono e sostengono delle dittature sanguinarie. Ora sappiamo che quelle bombe non hanno distrutto il potere, ma allora era forse lecito sperare in un mondo diverso.
Intanto sono passati cinquant'anni. E siamo invecchiati sia io che Gesù. E naturalmente anche Giuda. Confesso che io sto dalla sua parte. O almeno stavo dalla sua parte. Anch'io, come lui, non capivo perché Gesù avesse smesso di combattere, proprio nel momento in cui sembrava poter vincere. Quando arrivano a Gerusalemme, Gesù è una star: una sua parola e la rivoluzione che hanno sognato per tanto tempo potrebbe finalmente scoppiare. Ma Gesù non dà il segnale che Giuda e gli altri aspettano, rinuncia alla lotta, meglio farsi cullare dalla voce e dalle carezze di Maddalena, Gesù si arrende. Giuda non capisce, diventa furioso. Si sente tradito, perché Gesù ha tradito la rivoluzione. E così decide di tradirlo anche lui. Giuda accettando i soldi di Caifa vuole punire se stesso e Gesù per quella rivoluzione mancata, per il coraggio che non hanno avuto. Adesso che anch'io, come ha fatto allora Gesù, mi sono arreso, accettando senza combattere che il potere sia gestito da uomini crudeli e laidi come Pilato ed Erode, guardo con tenerezza alla voglia di combattere di Giuda, a quel suo ostinato desiderio di rivoluzione. 
Noi atei possiamo amare Jesus Christ Superstar perché Gesù è un uomo, he's just a man, come canta Maddalena. Non c'è la resurrezione, non ci sono i miracoli, non c'è un altro mondo, c'è solo questo mondo, e allora bisogna solo decidere come starci. Noi sappiamo che c'è una parte in cui non vogliamo stare, quella dove stanno i mercanti, i preti, gli uomini del potere: lì non ci troverete. Ma se quella è certamente la parte sbagliata, qual è quella giusta? Temo non lo sappiano né Gesù né Giuda, non lo sanno quei ragazzi. Forse lo sa Maddalena, che è l'unica che capisce davvero quello sta succedendo, è giovane anche lei, ma è portatrice di una cultura e un'esperienza millenaria. Per lei questi cinquant'anni sono nulla: lei, a differenza di noi, non è diventata vecchia.

lunedì 25 gennaio 2021

Verba volant (797): divagare...

Divagare, v. int.

Vi ho già raccontato di quella volta che il Matto e Pussy Galore hanno ammazzato il padre di Sabrina e il colonnello Pickering? No? Strano, è una delle mie storie preferite... Come quale Sabrina? La figlia dell'autista dei Larrabee. Ma sarà meglio che cominci dall'inizio...


Certamente ricordate l'intelligente e compassato ispettore Hubbard di Scotland Yard, che non solo riesce a scagionare un'affascinante Grace Kelly dall'accusa di omicidio, ma incastra, con una trappola davvero ben congegnata, il cinico Ray Milland in Dial M for Murder del 1954, ossia Il delitto perfetto come lo conosciamo qui in Italia, uno dei thriller meglio costruiti da quel genio di Alfred Hitchcock. Ebbene quell'arguto funzionario di polizia è John Williams. E l'anno dopo "Hitch" per il cast di To Catch a Thief - Caccia al ladro - sceglie ancora John, questa volta per interpretare H.H. Hughes, l'impeccabile e sagace funzionario dei Lloyd's, che finisce per diventare un "complice" di Cary Grant, il "Gatto", il ladro che ha inseguito per una vita: ma se te lo chiede Grace Kelly, non puoi certo dire di no. E sempre nel 1954 Billy Wilder, un altro genio della macchina da presa, sceglie John per interpretare Thomas, l'autista della famiglia Larrabee, che manda la figlia Sabrina a studiare a Parigi da Le Cordon Blue e che dopo due anni ritrova una giovane donna che stenta a riconoscere. E John finirà per diventare il suocero di Humphrey Bogart, il serio e posato Linus Larrabee, una parte pensata all'inizio per Cary Grant. Anche se il successo di Sabrina è legato, oltre al fascino ineguagliabile di Audrey Hepburn, alla faccia di "Bogie". 
Non c'è che dire: una bella carriera quella di John Wlliams, nato nel 1903 nel Buckinghamshire, ma trasferitosi a vent'anni negli Stati Uniti, come tanti suoi connazionali di belle speranze. Comincia a Broadway, dove viene ingaggiato in produzioni importanti, recita con alcune "regine": Claudette Colbert, Helen Hayes, Gertrude Lawrence - con lei in una fortunata messa in scena del Pigmalione di George Bernard Shaw - e vince anche un Tony nel 1953 proprio per il ruolo dell'ispettore Hubbard nel dramma che Hitchcock farà diventare un film, chiedendo a John di interpretare lo stesso ruolo anche sul grande schermo. Nel 1957 Billy Wilder vuole ancora John per il ruolo di un avvocato in Testimone dell'accusa, accanto a Charles Laughton e Marlene Dietrich. 
Ma è soprattutto la televisione che regala a John Williams la notorietà: appare in otto episodi della fortunata serie Alfred Hitchcock Presents, è Shakespeare nell'episodio intitolato The Bard della serie The Twilight Zone, è l'inappuntabile Nigel French, che sostituisce per nove puntate il "fratello" Sebastian Cabot, che si è infortunato al polso, nella serie che in Italia conosciamo con il titolo Tre nipoti e un maggiordomo. E per tredici anni, dal 1971 al 1984, entra nella case degli americani per pubblicizzare 120 Music Masterpieces, un cofanetto della Columbia con quattro LP di famosi brani di musica classica: si tratta dello spot più longevo a livello nazionale della storia della televisione americana.  

Che bella Grace... E forse non sapete che lei e Brian Keith, lo zio dei tre nipoti e il datore di lavoro del signor French, hanno debuttato nello stesso film, il cui protagonista era proprio il Matto. Questa ve la devo raccontare...

Nell'immaginario di tutti noi Gelsomina ha gli occhi tristi e candidi di Giulietta Masina. Eppure proprio l'ostinazione con cui Federico Fellini vuole Giuletta per quel ruolo è uno dei motivi che rende così difficile trovare un produttore per La strada. Quelli a cui sottopone il progetto dicono che rischia di essere un disastro e che comunque Silvana Mangano sarebbe più adatta, o comunque assicurerebbe un maggior successo al film. Alla fine sarà Dino De Laurentiis - che è anche il marito della Mangano - a rischiare di produrre quella strana storia venuta in mente a Tullio Pinelli mentre in un viaggio in auto vede per strada una coppia di girovaghi che tirano una carretta, e che permette a Fellini di ambientare un film nel mondo del circo e degli zingari, un progetto che coltiva da tempo. 
Scelta la protagonista, mancano i due attori che dovranno interpretare Zampanò e il Matto. De Laurentiis ha sotto contratto Anthony Quinn, che sta girando Attila con la regia di Pietro Francisci, insieme a Sophia Loren e Irene Papas. Quinn accetta, nonostante la produzione - e il suo salario - siano ben lontani dai livelli hollywoodiani a cui è ormai abituato: capisce - dimostrando molta più lungimiranza dei produttori italiani - che sarà un grande film, un film che farà la storia del cinema. E lui vuole esserci. 
Per il ruolo del Matto, il giovane acrobata che alla fine viene ucciso da Zampanò in un attacco di gelosia e che invece, con le sue parole, ha convinto la ragazza a rimanere con il rude saltimbanco, vengono fatti molti provini. Anche Alberto Sordi si candida, ma Fellini non lo ritiene adatto; e questo causerà una rottura tra i due che durerà parecchi anni. In quei mesi vive in Italia Richard Basehart, nato nel 1914 in Ohio. Nel nostro paese è conosciuto soprattutto per essere, dal 1951, il marito di Valentina Cortese. È un bravo attore, che, dopo una breve, ma significativa, carriera teatrale, si è dedicato al cinema, riuscendo a scegliere dei film che gli permettono di non essere incasellato tra i "belli" di Hollywood. 
Richard non vole essere uno dei tanti "eroi". In Egli camminava nella notte di Alfred L. Werker è un tormentato assassino, in Il regno del terrore di Antony Mann dà vita a uno spietato Robespierre. Nel 1951 arriva il suo ruolo più importante: nel film la 14° ora di Henry Hathaway interpreta l'uomo che tenta di suicidarsi gettandosi dal quindicesimo piano di un grattacielo e che un poliziotto, interpretato da Paul Douglas, riesce a salvare parlandogli per quattordici ore. L'interpretazione di Richard colpisce molto i critici e ancora oggi viene considerata la sua migliore. Il film, in cui, oltre al lungo dialogo tra il poliziotto e il suicida, si intrecciano le storie delle donne e degli uomini che dalla strada assistono alla scena, segna l'esordio di una giovane attrice destinata a un grande successo, Grace Kelly appunto, e di tanti giovani pieni di speranza. In Un americano a Roma appare una locandina del film e la scena di Nando Meniconi che minaccia di gettarsi dal Colosseo è chiaramente una parodia di questo fortunato film. Nello stesso anno Richard è anche il protagonista di Ho paura di lui di Robert Wise in cui incontra Valentina Cortese, che dal 1948 è a Hollywood sotto contratto con la 20th Century Fox, interpretando diversi film con molti dei grandi. In uno di questi, The Secret People, Valentina diventa amica di una giovanissima attrice inglese, che viene dalla danza, che interpreta per la prima volta un ruolo importante, Audrey Hepburn. 
Fellini è molto soddisfatto dell'interpretazione di Richard, tanto che nel 1955 lo vuole tra i protagonisti de Il bidone, ancora una volta insieme a Giulietta Masina. Mentre La strada è un enorme successo, che segna la notorietà del regista riminese a livello internazionale - il film nel 1957 vincerà l'Oscar come miglior film straniero, una categoria istituita proprio quell'anno, il primo dei suoi quattro - Il bidone viene considerato uno dei suoi film meno riusciti. Comunque la carriera di Richard continua, a differenza del matrimonio con Valentina Cortese: è Ismaele in Moby Dick, la balena bianca di John Houston nel 1956, che noi ricordiamo per il capitano Achab di Gregory Peck, e il maggiore Cargill in Il fronte del silenzio, l'unico film diretto da un altro grande attore, non abbastanza ricordato, Karl Malden, che non ha fatto solo Le strade di San Francisco.   

La storia di come Audrey è diventata Eliza Doolittle sono sicuro di avervela già raccontata. Ma non vi ho mai detto nulla di Pickering...

Anche Wilfrid Hyde-White è nato nel 1903 in Inghilterra, precisamente a Bourton-on-the-Water, che per i suoi canali e i suoi ponti è chiamata la "Venezia delle Cotswolds". Suo padre è un pastore, il canonico della cattedrale di Gloucester, mentre suo zio un attore. Il giovane Wilfrid decide molto presto che seguirà le orme del secondo. E, nonostante dica che l'aver frequentato la Royal Academy of Dramatic Art gli ha insegnato solo due cose, e che la prima è che recitare non è il suo lavoro, la sua carriera si snoda tra cinema e teatro, di qua e di là dell'Atlantico, per quasi cinquant'anni. 
E praticamente sempre piccole parti, da caratterista: ma in grandi film. Nel 1949 recita ne Il terzo uomo con Orson Welles e Alida Valli, nel '51 è nella compagnia di Laurence Olivier e Vivien Leigh che in quella stagione mette in scena prima il Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw e poi l'Antonio e Cleopatra di Shakespeare. Nel '56 ottiene una nomination ai Tony per la sua interpretazione in The Reluctant Debutante del drammaturgo britannico William Douglas Home, dopo aver recitato nella stessa commedia anche nel West End. Infine dagli anni Sessanta si trasferisce definitivamente a Hollywood e non potrà tornare nel Regno Unito a causa dei suoi problemi con il fisco. Recita con Marilyn Monroe in Facciamo l'amore e nel 1964 arriva finalmente il ruolo per cui Wilfred entra a pieno titolo nella storia del cinema: è il colonnello Hugh Pickering in My Fair Lady. E noi lo ricorderemo sempre mentre, insieme a Rex Harrison e Audrey Hepburn canta The rain in Spain stays mainly in the plain, che nella ovviamente infedele traduzione italiana di Fedele D'Amico e Suso Cecchi diventa la rana in Spagna gracida in campagna.
La sua carriera continua tra cinema e tanta televisione. Qualche volta è anche cattivo, come il giudice sterminatore in una delle versioni di Dieci piccoli indiani, ma se serve un gentiluomo inglese, un bon vivant che ama le donne e non è troppo attento a come spende il proprio denaro, allora chiamano Wilfrid, perché la seconda cosa che ha imparato alla Royal Academy è che non importa affatto che non sappia recitare.

A proposito di My Fair Lady, dovete sapere che Pussy Galore è stata anche la madre del professor Higgins...

Lo confesso: Pussy Galore è la prima nella mia personale classifica delle Bond-girls. Ho letto che in un sondaggio la preferita è Honey Ryder e Pussy è solo seconda, ma non sono affatto d'accordo.
Ian Fleming non è certo un autore femminista e già la scelta del nome del personaggio, con quel non troppo elegante gioco di parole, ne è una prova evidente. Nel romanzo Goldfinger - del 1959, il settimo della serie - Pussy è mora, pallida e ha gli occhi viola, e parla con una voce bassa e seducente. È dichiaratamente lesbica, perché ha subito da bambina una violenza da parte di uno zio. Dopo aver guidato un gruppo di trapeziste, diventa la prima donna negli Stati Uniti a essere a capo di un'organizzazione criminale, The Cement Mixers, formata solo da donne, come lei omosessuali. Nel film del 1964 - il terzo della serie - non sappiamo praticamente nulla della vita precedente di Pussy: tutte cose su cui è meglio sorvolare. Guida un gruppo di aviatrici professioniste che vengono assoldate da Goldfinger per il suo progetto criminale. Ovviamente non sappiamo neppure se sia lesbica, anche se nel corso del primo incontro dichiara di essere immune dal fascino di Sean Connery. 
Nel film diventa bionda perché per interpretarla viene scelta l'attrice inglese - è nata nel 1925 a Plaistow, un quartiere di Londra - Honor Blackman. È una bella ragazza che vuole recitare: fa piccole parti in film non memorabili. In Quartet - il suo terzo film - incrocia Wilfrid Hyde-White, anche se non recitano nello stesso episodio. Nel 1963 è la dea Era in Jason and the Argonauts, ma Honor diventa davvero popolare nei primi anni Sessanta nel Regno Unito perché interpreta la dottoressa Cathy Gale nella seconda e nella terza stagione di The Avengers, che in Italia conosciamo con il titolo di Agente speciale, anche se ha avuto nel nostro paese scarso successo, tanto che molti episodi non sono stati mai doppiati e trasmessi. Il protagonista della serie è John Steed - interpretato da Patrick Macnee - un brillante e misterioso agente del servizio segreto britannico che indossa sempre completi eleganti, la bombetta e porta immancabilmente l'ombrello. 
La dottoressa Gale è un'antropologa, esperta di judo - Honor pratica questo sport con successo - che affianca Steed nelle sue missioni, indossando, sotto il trench, vestiti di pelle, molto aderenti, e lunghi stivali che le permettono di combattere più facilmente e che diventano presto di moda tra le giovani donne inglesi. Cathy è intelligente, sicura di sé, indipendente, coraggiosa, un personaggio a suo modo rivoluzionario per la televisione inglese degli anni Sessanta. Figurarsi per quella italiana. Anche se il ruolo di Pussy le darà un'incredibile notorietà internazionale, si tratta di un deciso passo indietro per l'immagine della donna che Honor ha saputo incarnare negli anni precedenti.
È proprio il successo di cui gode nel Regno Unito grazie a The Avengers che le fa ottenere la parte: ha trentotto anni, cinque più di Connery, è la più "vecchia" delle Bond-girls, ma una delle più affascinanti e sensuali. E pericolose.
Anche se rimarrà per sempre Pussy Galore, Honor prosegue la sua carriera con successo. Al cinema continua a fare film e nel 2001 interpreta un cameo ne Il diario di Bridget Jones. A teatro è la baronessa in The Sound of Music nel fortunato revival londinese del 1981 con Petula Clark, la madre del professor Higgins in un'edizione del 2006 di My Fair Lady e l'anno successivo è Fraulein Schneider in Cabaret. Ha una bella voce, incide anche qualche disco e nel 1983 canta come Juno - una dea a cui è evidentemente legata - in una produzione televisiva di Orfeo all'Inferno di Jacques Offenbach.
Honor è una donna impegnata che non ha paura di sostenere le proprie idee. È una convinta repubblicana e nel 2002 rifiuta la nomina a Commendatore dell'Ordine dell'Impero britannico, perché sarebbe ipocrita per una come lei accettare un tale riconoscimento. Sostiene anche il cambiamento del sistema elettorale in senso proporzionale. Hanno fatto rumore le sue dichiarazioni contro Sean Connery: lei trova assai poco coerente che il suo illustre collega sostenga l'indipendenza scozzese e allo stesso tempo accetti i titoli della regina d'Inghilterra; e soprattutto che non paghi le tasse, perché è più comodo fare l'esule fiscale. E ditemi voi se non è la migliore delle Bond-girls.

Forse ho divagato un po' troppo. Cosa vi dovevo raccontare? Non mi ricordo... ah sì, di quando i coniugi Macbeth hanno ucciso Sir Roger Haversham e il suo maggiordomo...

Nicholas Frame e Lillian Stanhope sono non solo marito e moglie, ma soprattutto due famosi attori inglesi, istrionici e vanesi, che stanno per debuttare al West End nel Macbeth. Alcuni giorni prima del debutto nel camerino di lei si scatena una lite con il produttore Sir Roger Haversham, che capisce che i due lo hanno manipolato. Sir Roger accidentalmente muore, ma i due preferiscono non chiamare la polizia, infilano il cadavere in un baule, lo portano nella sua grande casa fuori città e inscenano una caduta dalle scale.
Vista la notorietà della vittima, anche se pare si tratti di un incidente, il caso viene affidato al Sovrintentende Capo William Durk, che però, per loro sfortuna, in quei giorni ha un ospite venuto dagli Stati Uniti, un tenente della polizia di Los Angeles, che il collega inglese invita a partecipare alle indagini. I due attori non hanno fatto i conti con il tenente Colombo, che ben presto capisce che si tratta di omicidio, convincendo anche gli uomini di Scotland Yard. Le indagini si fanno sempre più serrate: un ombrello è la chiave di tutto, un ombrello di sir Roger che è rimasto nel camerino di Lillian. Tanner, il maggiordomo di sir Roger, capisce anche lui cosa è successo e decide di ricattare i due omicidi, che intanto hanno avuto un grande successo nel "dramma scozzese". A quel punto uccidono anche lui. Ma la rete di Colombo si stringe sempre più intorno a loro.
Colombo sa che sono stati loro, ma non lo può provare. Costruisce una trappola - che sarebbe piaciuta all'ispettore Hubbard - che scatta immancabilmente sui due colpevoli.
Dagger of the mind viene trasmesso dalla NBC domenica 26 novembre 1972: è il quarto episodio della seconda stagione e dura come un film, novantotto minuti. Per scrivere la sceneggiatura di questo loro soggetto,  Richard Levinson e William Link chiamano un esperto come Jackson Gillis. Il regista è Richard Quine, un discreto attore all'inizio della sua carriera, ma soprattutto un affermato regista, uno dei grandi artigiani di Hollywood; Mia sorella Evelina, Una Cadillac tutta d'oro, Una strega in paradiso, Noi due sconosciuti, L'affittacamere, Il mondo di Suzie Wong sono tra i suoi titoli più famosi. Oltre a questo Quine dirige anche l'episodio successivo Requiem for a Falling Star, con Anne Baxter e Double Exposure nella terza serie.
Il film viene girato in parte a Hollywood e in parte a Londra e si vede la differenza perché i tecnici e soprattutto il direttore della fotografia sono diversi. 
Due vittime e due assassini: un unicum per i casi di Colombo. John Willams è Sir Roger e Wilfrid Hyde-White è Tanner. Del cast l'inglese Hyde-White è l'unico che girerà tutte le sue scene a Los Angeles: non può mettere piede nel Regno Unito, rischia di essere arrestato per evasione fiscale. E anche l'unico che compare in un altro episodio: è il vecchio avvocato, che non disdegna la compagnia femminile, in Last Salute to the Commodore, il sesto della quinta stagione. Richard Basehart e Honor Blackman sono la coppia di attori omicidi. Ma devono essere citati anche gli altri. Il portiere del teatro a cui piace la birra - e non piacciono i cappelloni - è Arthur Malet, un caratteristica inglese di lungo corso, Mr Dawes jr in Mary Poppins. Il Sovrintendente Capo è il gallese Bernard Fox, una presenza costante nei telefilm americani quando serve un militare inglese e il pasticcione e donnaiolo Dottor Bombay in Vita da strega. Fox sarà anche il commissario di bordo della nave su cui si svolge la crociera in Messico vinta dalla signora Colombo, durante la quale avviene ovviamente un omicidio. L'episodio è Troubled Waters, il quarto della quarta stagione, e il capitano è niente meno che Patrick Macnee. 
Il titolo dell'episodio è tratto dal monologo del secondo atto di Macbeth, quando vede intorno a sé un pugnale, simbolo della sua colpa e Nicholas Frame, come impazzito, quando Colombo ha scoperto, ingannandoli, il loro omicidio, recita il celebre monologo Tomorrow, tomorrow and tomorrow, che diventa la sua tragica confessione. 

Dagger of the mind è anche il titolo del nono episodio della prima stagione di Star Trek. Ma questa è davvero tutta un'altra storia: non voglio divagare...

giovedì 21 gennaio 2021

Verba volant (796): clava...

Clava, sost. f.

Martedì 23 gennaio 1973: terminato lo spettacolo, ricevuti gli ultimi, timidi, applausi, il giovane protagonista Len Cariou, indossando ancora l'elegante redingote che è il suo costume di scena - la vicenda si svolge tra l'alta borghesia svedese all'inizio del Novecento - annuncia al pubblico del Colonial Theather di Boston che qualche ora prima a Parigi Henry Kissinger e Le Duc Tho hanno firmato l'accordo che mette fine alla guerra del Vietnam. Per la firma ufficiale, in una sala dell'Hotel Majestic, bisognerà aspettare il 27, quando arriveranno anche i rappresentanti del governo di Saigon, che ovviamente possono solo ratificare quello che è stato deciso a Washington. Probabilmente quella notte, tornando a casa, gli spettatori hanno commentato questa notizia, attesa da mesi, dimenticando tutto il resto, incluso lo spettacolo che hanno appena visto. Eppure è la prima assoluta di un nuovo musical, destinato a debuttare dopo qualche settimana a Broadway. Fare queste anteprime in "provincia" era - e lo è ancora - una prassi consolidata. Serve a saggiare le reazioni del pubblico e a capire se ci sono modifiche da fare prima di debuttare sul serio nella grande città. E in quel teatro di Boston hanno iniziato il loro lungo cammino Anything Goes, Porgy and Bess, Oklahoma!, Annie Get Your Gun.
L'accoglienza per quelle prime repliche del nuovo musical di Stephen Sondheim con il libretto di Hugh Wheeler è piuttosto fredda: alcune canzoni sono piaciute, ma nel complesso lo spettacolo non sembra destinato a un grande successo. Gli autori - e soprattutto i produttori - temono la reazione del pubblico e dei critici di New York. Certo Sondheim è l'astro nascente di Broadway: giovanissimo, negli anni Cinquanta, ha scritto i testi delle canzoni di West Side Story e Gipsy, e i suoi Company e Follies - lui vuole scrivere tutto, le parole e le musica - hanno vinto diversi Tony, rispettivamente nel 1971 e nel '72. Ma non sono mancati neppure i fiaschi, come quello clamoroso di Anyone Can Whistle, che ha chiuso dopo sole nove repliche e non è stato salvato neppure dall'interpretazione di Angela Lansbury. E anche Follies, nonostante il Tony, è stato un flop, almeno dal punto di vista economico, che non è riuscito a recuperare i soldi investiti. Quindi per questo nuovo lavoro nuovo c'è un bel po' di apprensione.
Mentre lo spettacolo è ancora a Boston viene licenziata una delle attrici, Garn Stephens, che per fortuna ha una parte secondaria, quella della cameriera Petra: al suo posto viene ingaggiata in tutta fretta D'Jamin Bartlett. Non è un buon inizio. 
Il 15 febbraio è in programma la prima serata di "rodaggio" al Shubert Theatre di New York, il grande teatro sulla 44esima con la facciata in stile veneziano, mentre la "vera" première ci sarà il 25. Dopo cinque delle serate di anteprima la protagonista Glynis Johns si ammala e viene portata in ospedale. Glynis è un'attrice conosciuta sia a Broadway che ad Hollywood, ma non è certamente una star. Ha fatto molti film, ha persino sfiorato l'Oscar come attrice non protagonista nel 1961 per I nomadi di Fred Zinnermann, accanto a Deborah Kerr. Ma è nota soprattutto per essere Winifred Banks, la madre politicamente impegnata del film Mary Poppins - troppo impegnata, secondo l'ideologia disneyanaProprio sulle sue caratteristiche vocali i fratelli Sherman hanno scritto e modellato Sister Suffragette. La première viene rimandata, ma intanto il regista Harold Prince per sostituire la protagonista chiama Tammy Grimes, un'attrice che ha già vinto due Tony, uno per la prosa e uno per il musical, e che è conosciuta come una spigliata interprete delle commedie di Coward. A Tammy il musical piace, ma chiede che vengano fatte delle modifiche alla regia e ai costumi. Il nervosismo cresce. Per fortuna Glynis si riprende e la prima torna in cartellone il 25 febbraio, come previsto.
Ed è un successo. A Little Night Music piace alla critica: Clive Barnes, il potentissimo critico teatrale del New York Times dal 1965 al '77, l'uomo che può distruggere uno spettacolo in poche righe, lo definisce "inebriante, sofisticato e incantevole". Ma soprattutto piace al pubblico, anche se è un musical diverso dal solito, stilisticamente più simile a un'operetta e con la musica quasi tutta a tempo di valzer. Rimane in cartellone allo Shubert fino al 15 settembre di quell'anno, per trasferirsi poi, dal 17 dello stesso mese, al Majestic Theatre, dove chiude il 3 agosto 1974, dopo seicentouno repliche. Vince sei premi ai Drama Desk Award del 1973 e sei Tony, compreso quello per il miglior musical.
Ed è un successo anche a Londra. Debutta all'Adelphi Theater il 15 aprile 1975, sempre con la regia di Harold Prince. E con la splendida Jean Simmons come protagonista. Per quattrocentosei repliche. Anche se la più acclamata protagonista di questo musical a Londra sarà, nel 1995, la grande Judi Dench, nel secondo revival nel West End. 
La protagonista Desirée diventa ben presto uno dei ruoli più ambiti per ogni artista di Broadway: in edizioni successive di questo fortunato musical Patti LuPone e Bernadette Peters ne saranno due interpreti magnifiche, nel pieno della loro maturità artistica. 
Angela Lansbury è stata una grande interprete dei musical di Sondheim, eppure non è mai riuscita ad interpretare Desirée. Ma le strade di Broadway sono fitte di incroci: nel 1979 ottiene uno dei suoi grandi successi con un altro dei capolavori di Stephen Sondheim, Sweeney Todd, The Demon Barber of Fleet Street, ancora con lo stesso librettista e lo stesso regista. E insieme a Len Cariou. Angela però riuscirà a interpretare la madre di Desirée, la saggia Madame Armfeldt, in un revival del 2009, accanto alla debuttante, a Broadway, Catherine Zeta-Jones.
Il titolo di questo musical è la traduzione letterale del nome con cui è conosciuta la serenata in sol maggiore K 525, il notturno per archi scritto da Wolfgang Amadeus Mozart nel 1787. Ricordate l'inizio di Amadeus di Miloš Forman? Il vecchio Salieri suona al clavicembalo alcune sue composizioni, ma il sacerdote non ne riconosce nemmeno una. Fino a quando accenna l'inizio di un motivo che il giovane prelato - come tutti noi - riconosce subito e comincia a canticchiare: quella è la Eine kleine Nachtmusik
Nonostante questo riferimento mozartiano del titolo, Hugh Wheeler scrive il libretto di A Little Night Music basandosi sulla trama del film del 1955 di Ingmar Bergman Sorrisi di una notte d'estate, che, presentato in concorso al nono Festival di Cannes, ottiene un premio speciale per l'"umorismo poetico". E sempre a questo film, ma prendendosi molte più libertà di Wheeler, si ispirerà nel 1982 Woody Allen per A Midsummer Night's Sex Comedy, il suo primo film con Mia Farrow, perché Diane Keaton è impegnata nella promozione di Reds, di cui Sondheim ha scritto la colonna sonora.
Ha ragione Woody a citare Shakespeare, perché anche nel film di Bergman le vicende delle coppie che si formano, si disfano, si ricompongono, hanno il loro culmine nella magica notte di san Giovanni, la notte più corta dell'anno, uno dei passaggi segreti tra il mondo reale e quello dei sogni. Ma non ci sono fate e folletti nella storia di Bergman, soltanto donne e uomini. E ce n'è a sufficienza. È già tutto qui.
All'inizio del film Desirée, interpretata dalla bellissima Eva Dahlbeck, che negli anni Cinquanta è una delle attrici preferite dal regista svedese, dice che 
L'amore è come un giocoliere con tre clave: cuore, parole, sesso. È molto facile giocare con le tre clave, ma è anche molto facile farne cadere una per terra.
Desirée è un'attrice, deve aver trovato naturale raccontare l'amore attraverso una metafora del "suo" mondo.
E forse di questa battuta si è ricordato anche Stephen Sondheim per scrivere la canzone in cui la protagonista parla di sé e della sua vita. Siamo a metà del secondo atto: è la notte più corta dell'anno e tutti i personaggi si ritrovano insieme per una grande festa. È la notte in cui può succedere di tutto; e in cui succederà di tutto. Desirée parla con Fredrik, l'uomo che ha sempre amato, anche se non ha mai voluto ammetterlo, che è il padre di sua figlia, anche se non  glielo ha mai detto, con cui avrebbe voluto vivere, ma che ha lasciato quando era giovane per inseguire un sogno. Lei gli chiede di sposarla, una cosa che non avrebbe mai pensato di chiedere, a nessun uomo. Ma Fredrik le confessa che per quanto lui l'abbia sempre amata, ama ancora di più la sua giovanissima moglie Anne. Il rifiuto è garbato, ma netto. Desirée, come succede sempre nei musical, canta; e canta quella che è probabilmente la più bella canzone che Sondheim abbia mai scritto e una delle più belle di sempre. 
Desirée è un'attrice: e cosa si fa durante uno spettacolo quando ci si accorge che qualcosa sta andando storto? Si fanno uscire i pagliacci, si ricorre alle battute, si cerca di distrarre il pubblico, sperando di salvare il salvabile. Desirée, chiedendo a Fredrik si sposarla ha fatto una cosa inaudita, è uscita dal copione della sua vita. Ma di fronte a quel rifiuto, capisce che non può tornare indietro, non può tornare alla sua arguzia sensuale, alla gioia di una vita senza legami. Desirée è entrata in scena con la sua solita grazia, sicura della sua parte, ma le è successo quello di cui tutti gli artisti hanno paura: in teatro non c'è nessuno. E allora sul palcoscenico non c'è più l'attrice, ma la donna, la sua sconfitta, i suoi rimpianti e Desirée non vuole che Fredrik e il pubblico la vedano così: bisogna riempire quel vuoto, bisogna chiamare i pagliacci, bisognerebbe ridere, scherzare, tornare alla farsa frivola di sempre. Ma ormai l'incanto si è rotto: la clava è caduta, il gioco è finito. 
Stephen Sondheim scrive Send in the Clowns poco prima del debutto a Broadway, non è nel progetto originale del musical a cui ha lavorato con Wheeler. E quindi quel martedì sera, poco dopo che è stato firmato l'accordo di Parigi, gli spettatori del Colonial Theater non hanno potuto sentire questa canzone. Quando sente cantare Glynis Johns, quando ne ascolta la voce che definisce cristallina, ma che non è certo potente, modella proprio per lei questa canzone più recitata che cantata. Glynis saprà interpretarla con grande intensità, con misura, trattenendo le lacrime, ma senza nascondere la rabbia per come è andata, per aver così clamorosamente sbagliato "i tempi", errore paradossale per un'attrice della sua esperienza. E per essersi così scoperta. Sono frasi brevi, piene di rimpianto e di amarezza. 
Sondheim è convinto di aver scritto una canzone che funziona, ma che vivrà soltanto nello spettacolo. Si sbaglia. Curiosamente sarà un uomo che farà la fortuna di questa canzone, perché Send in the Clowns diventerà un successo, uno standard, grazie all'interpretazione di Frank Sinatra, che naturalmente la canta più che recitarla. Ma anche lui, a quasi sessant'anni, dopo un carriera che ha conosciuto tali vette, sa che a un certo momento qualcosa si può rompere e bisogna far uscire in scena i pagliacci. E, dopo Sinatra, Send in the Clowns entrerà in classifica grazie a Judy Collins, un'artista lontana dallo stile di Broadway, una delle grandi signore del folk e della controcultura, un'artista che si è battuta con energia contro la guerra in Vietnam. E per Judy che ha sempre raccontato nelle sue canzoni gli ultimi, gli sconfitti, Send in the Clowns assume un significato davvero particolare.

E Desirée? È la notte di mezza estate, tutto può succedere e la giovane Anne scopre finalmente l'amore, in tutti i sensi, ma non con il marito: fugge con il figlio di Fredrik, suo coetaneo. E così Desirée e Fredrik capiscono che il loro destino è quello di vivere, finalmente, insieme. Lo spettacolo può continuare. I giocolieri possono continuare a lanciare in aria le loro clave.   
Però lei e Fredrik - e noi con loro - adesso sanno che il sipario può cadere, mostrando la verità. 
Quick send in the clowns
Don't bother they're here
Fai uscire in fretta i pagliacci. / No, non fa niente, sono già qui.

p.s. Cercate le versioni di questa canzone, fate come abbiamo fatto Zaira ed io in queste sere d'inverno. E decidete qual è la vostra preferita. La nostra è quella di Judi Dench.

mercoledì 13 gennaio 2021

Verba volant (795): indecisa...

Indecisa
, agg. f.

Israel ha smesso di scrivere l'11 luglio 1937: senza le note di Jacob gli sembra che le sue parole siano vuote. Inutili. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

giovedì 31 dicembre 2020

Storie (XVI). "Arriveranno i gud taims..."

Sulla Sesta Avenue, tra la 43esima e la 44esima West, c'è un grande palazzo di uffici che si chiama The Hippodrome Building. Un nome curioso per un anonimo grattacielo, uno dei tanti di Midtown Manhattan. Non fatevi ingannare dal nome: dove adesso c'è quell'edificio non c'era un ippodromo, ma il più grande teatro del mondo. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

domenica 20 dicembre 2020

Verba volant (794): slitta...

Slitta, sost. f.

Anche se sono più vecchio di Cesare Cremonini, so quanto sia bello andare in giro in Vespa per i colli bolognesi. Invece non so proprio come sia andare in slitta sulla neve tirato da un cavallo al trotto. Pare sia divertente, anche se devo fidarmi di quello che racconta James Lord Pierpont. E comunque Cesare non me la racconti giusta: sappiamo tutti e due che la parte più divertente è quando vai in giro in Vespa con la tua ragazza seduta dietro, come Gregory Peck in Vacanze romane. Almeno James è più onesto: confessa che a lui piace andare in slitta proprio perché così può stare finalmente da solo con la sua Fanny. Certo c'è sempre il rischio di cadere e magari di fare una brutta figura di fronte a qualche damerino di passaggio. Ma - assicura James - se attacchi un baio veloce, carichi una ragazza e cominci a cantare, stai sicuro: è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi, se hai una slitta che ti toglie i problemi.
E poi è divertente ascoltare il suono delle campanelle attaccate alle briglie del cavallo, anche se le hai messe per far sentire agli incroci che stai arrivando. Meglio essere prudenti, una slitta sulla neve, a differenza della Vespa quando vai su per Casaglia, non fa praticamente nessun rumore. Quindi ragazzo, fa' suonare quelle campane.

A differenza di quello che succede con Cremonini, abbiamo un solo ritratto di James Lord Pierpont, un rispettabile signore di cinquant'anni in redingote con una folta barba nera. In quel momento James, sposato e padre di quattro figli, vive in Georgia, è l'organista della locale chiesa presbiteriana, insegna musica nella scuola della città e dà lezioni private di pianoforte. Anche se è nato a Boston, vive da tempo al sud, tanto che si è arruolato come volontario nell'esercito della Confederazione. È uno dei tanti reduci della guerra di secessione che cerca di adattarsi ai tempi nuovi. Sono lontani gli anni in cui si è imbarcato in una baleniera e poi è andato in California per partecipare, senza successo, alla corsa all'oro. Ha tentato anche di fare il fotografo, anche in questo caso senza fortuna. Però James ama la musica, sa suonare l'organo ed è capace di comporre canzoni. Scrive musica da ballo, ma soprattutto canzoni per gli spettacoli dei Minstrel, attori e cantanti bianchi con la faccia dipinta di nero, che rappresentano i neri in maniera stereotipata e offensiva. Però il pubblico si diverte e questi spettacoli di varietà hanno un certo successo negli Stati Uniti - a nord e a sud - negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento. E, nonostante il chiaro intento razzista, è il modo in cui i bianchi scoprono la musica dei neri. E quello che diventerà all'inizio del Novecento il jazz.
Non sappiamo di preciso né quando né dove James abbia composto la canzone intitolata The One Horse Open Sleigh, in cui racconta di quanto sia divertente portare una ragazza in giro con la slitta d'inverno. Sappiamo che è stata eseguita per la prima volta il 15 settembre 1857 all'Ordway Hall di Boston da John Pell, un popolare "menestrello" dalla faccia nera, in uno dei suoi spettacoli. E non sappiamo se sia piaciuta al pubblico, che probabilmente si è messo a ridere quando Johnny, cantando la terza strofa, quella dove si racconta la caduta, si è buttato a terra, fingendo di essersi fatto male al sedere. O ha fatto qualche gesto volgare per descrivere Fanny che finalmente ha deciso di accettare l'invito a fare quella corsa sulla slitta. In fondo si divertivano così. Gli spettatori probabilmente hanno trovato quel pezzo - il cui ritornello richiama il Canone di Pachelbel - piuttosto orecchiabile, anche perché simile a tante altri canzoni tradizionali che hanno già sentito o magari cantato proprio andando sulle slitte. Ma James ha bisogno di soldi, deve scrivere le sue canzoni in fretta e sfrutta il più possibile quello che c'è in giro. 
In quegli stessi mesi il fratello di James diventa reverendo della chiesa presbiteriana unitaria di Savannah in Georgia e lui lo segue per suonare l'organo e dirigere il coro. Per la Festa del Ringraziamento di quell'anno, James insegna al suo nuovo coro quella canzone sulle campane e sulle slitte. È una canzone che parla della neve e dell'inverno e poi è abbastanza facile da imparare in pochi giorni. Mentre suona l'organo della chiesa di Savannah - che sarà chiusa dopo due anni perché sostiene l'abolizione della schiavitù, un "dogma" che in Georgia in quegli anni ha scarsa fortuna - James non può certo immaginare che ha scritto una delle più famose canzoni di Natale del mondo, una canzone che tutti abbiamo cantato e storpiato, anche se non sappiamo l'inglese e non abbiamo idea che si parli di slitte. 

Non ci sono notizie precise su quando Jingle Bells sia diventata una delle più popolari canzoni natalizie di sempre. Rispetto alla versione di Pierpont quella che cantiamo noi - e che è una popolare suoneria di cellulare - ha un ritornello ancora più semplice e non sappiamo chi l'abbia scritta così, ma certo viene registrata in questo modo da Will Lyle il 30 ottobre 1889 su un cilindro Edison, anche se non si ha notizie di copie superstiti. La prima registrazione arrivata fino a noi è di qualche settimana dopo: l'Edison Male Quartette, sempre su un cilindro Edison, incide una parte della canzone in un medley natalizio - usavano già allora - intitolato Sleigh Ride Party. Nel 1902 i quattro artisti, che ormai si fanno chiamare Hayden Quartet, perché non cantano solo per la Edison, e sono il più popolare quartetto vocale di qua e di là dell'Atlantico dei primi anni del Novecento, incidono Jingle Bells
E da allora questa canzone è definitivamente una delle canzoni di Natale, anzi la più conosciuta e cantata canzone non religiosa di Natale. Nel 1935 la versione di Benny Goodman raggiunge il 18° posto della classifica dei dischi più venduti, mentre nel 1941 Glenn Miller ottiene il quinto posto. E durante le feste di Natale del 2006 la cantante Kimberley Locke, scoperta nella secondo edizione di American Idol, raggiunge il primo posto con la sua registrazione della canzone. Nel 1957 Bobby Helms ha riscritto la musica in stile rockabilly. E davvero tutti hanno registrato Jingle Bells, da Sinatra a Mickey Mouse, dai Beatles a Pavarotti. Oppure quel ritornello così famoso viene appena citato, come nella versione di Bruce Springsteen di Santa Claus Is Comin' to Town. E non mancano ovviamente le parodie, come quella famosa Jingle Bells, Batman Smells, scritta negli anni Sessanta, ma rimessa in auge da Burt Simpson. O, visto che la canzone è diventata internazionale, in qualche caso si decide di cambiare le parole. In Australia a Natale non c'è la neve e non si va in slitta, però puoi portare la tua ragazza su una vecchia Holden sollevando la polvere nel bush: il risultato non cambia
Il 16 dicembre 1965 gli astronauti della missione Gemini Tom Stafford e Wally Schirra, con delle campanelle e un'armonica portate sulla navicella all'insaputa della base di Cape Canaveral, hanno eseguito una loro versione di Jingle Bells, che quindi è diventata la prima canzone diffusa nello spazio.

E James?
Continua a fare la sua vita da gentiluomo del sud. Nel 1880 suo figlio Juriah, che è diventato un medico, rinnova il copyright sulla canzone, riuscendo, pur con notevoli sforzi, a mantenerla legata al nome del padre. Anche se non ne ricaverà mai molti soldi. James Lord Pierpont muore a Winter Haven - e uno che ha scritto Jingle Bells dove altro poteva trasferirsi? - in Florida il 5 agosto 1893. E anche se non ha goduto i benefici economici, nel 1970 il suo nome è stato inserito nella Songwriters Hall of Fame, proprio per aver scritto, copiando qua e là, quella canzone.
Forse gli avrebbe fatto più piacere sapere che nel 2006 un altro "menestrello" avrebbe usato la struttura del ritornello e le prime due righe della sua The Little White Cottage, una ballata del 1857 scritta proprio nello stesso anno di Jingle Bells, per la sua Nettie Moore, l'ottavo brano di Modern Times.

Quindi la prossima volta che sentite Jingle Bells non pensate al cenone e ai regali, e neppure al Natale, ma solo di essere su una slitta con la vostra Fanny e di andare veloci verso il tramonto.

lunedì 14 dicembre 2020

Verba volant (793): buio...

Buio
, sost. m.

Forse non siamo disposti ad ammetterlo, ma anche noi "grandi" abbiamo paura del buio.
Eppure noi non siamo mai al buio. Chi di noi vive in città, sa che le finestre lasciano filtrare le luci delle strade e dei palazzi vicini, ma anche chi vive in campagna, isolato dalle altre case, sa che il buio non esiste più. 
Ci sono quei piccoli punti rossi che ci dicono che i nostri televisori, anche se momentaneamente sono spenti, sono lì, pronti a trasmettere i programmi che stanno "custodendo" per noi, e che i nostri allarmi sono inseriti, perché altrimenti non ci sentiremmo sicuri neppure a casa, e le nostre caldaie e i nostri impianti di condizionamento sono accesi, perché vogliamo dormire al fresco d'estate e al caldo in inverno, sempre vestendo lo stesso pigiama di moda, e poi ci sono le luci degli schermi dei nostri telefonini e dei nostri tablet, che, mentre noi dormiamo, si "nutrono" di energia per permetterci la mattina successiva di essere nuovamente connessi con il mondo e che continuano a ricevere notifiche e informazioni, perché da qualche parte del mondo è sempre giorno, ma soprattutto non riusciamo ad avere paura del buio perché sappiamo che ci basta allungare un braccio fuori dalle coperte e fiat lux
Il buio è un lusso che non possiamo più permetterci, la luce accompagna sempre la nostra vita, a qualsiasi ora del giorno e della notte. 
Curiosamente, almeno da un punto di vista etimologico, il buio ha a che fare con il fuoco. Questa parola deriva infatti dal basso latino burus - e per questo nei dialetti di derivazione gallica, come quello di Bologna, noi diciamo ancora bur - e significa bruciato, arso. In sostanza il buio è il colore di quello che il fuoco ha distrutto. 
Come se l'etimologia volesse dirci che non dobbiamo avere paura del buio, ma della luce, di troppa luce. E infatti quelle piccole luci che riempiono le nostre case, per quanto siano il segno di un progresso a cui non possiamo - e non dobbiamo - più rinunciare, sono anche il segno di un pericolo, la perdita del senso del limite. E non possiamo dimenticare che per permetterci di stare nel tepore dei nostri letti, in attesa di svegliarci trovando sempre l'acqua calda e le ultime notizie sui nostri telefoni, è necessaria un'incredibile quantità di energia che mette a rischio l'equilibrio del nostro pianeta e spesso è fondata sullo sfruttamento di persone che non godono di questi stessi privilegi. 
E se tutti i quasi otto miliardi di donne e uomini che ci sono su questo pianeta potessero, come facciamo noi, e come naturalmente sarebbe auspicabile, avere una casa e tutte le luci che abbiamo noi, quanto resisterebbe il mondo? Sarebbe in breve distrutto. Il pianeta resiste perché noi privilegiati che non dobbiamo più temere il buio siamo una minoranza.  
Ho cominciato a scrivere questa definizione di Verba volant alla mattina del giorno che sul calendario è dedicato a santa Lucia e che nella credenza popolare segue la notte più lunga dell'anno. Una notte che nelle nostre case è ovviamente illuminata dalle lucette degli addobbi natalizi. Sappiamo che non è vero, che il solstizio d'inverno cade qualche giorno dopo, ma non importa: io continuo a credere che questa sia la notte più lunga dell'anno, perché così hanno creduto tante generazioni prima della nostra, quelle donne e quegli uomini che hanno conosciuto davvero il buio, perché la loro vita era regolata dal succedersi del giorno e della notte e dalla scansione delle stagioni. E provo una sorta di nostalgia per quel mondo che non ho mai conosciuto, e a cui mi posso aggrappare solo attraverso queste antiche tradizioni. Naturalmente - perché viviamo in un mondo di contraddizioni - sempre al caldo della mia casa e con tutte le luci accese, e scrivendo su un uno schermo illuminato.
E forse, se chiudiamo gli occhi, se proviamo a staccare tutte le nostre diavolerie che non si spengono mai - e non ci spengono mai - potremmo perfino intuire, anche se per un breve momento, cosa significa una notte che sembra non finire e la gioia di quel bagliore di luce quando annuncia che, nonostante tutto, un altro giorno sta per cominciare, anche dopo una notte così lunga, una notte senza fine. Pensate lo stupore con cui i nostri antichissimi progenitori vedevano ogni mattina sorgere il sole, il sospiro di sollievo perché anche quella notte era finita. Certo potevano legittimamente sperare che il sole sarebbe sorto, che la luce sarebbe tornata, perché era sempre successo, ma non ne erano proprio sicuri, in fondo ai loro cuori un po' di paura c'era sempre. Noi siamo sicuri che domani mattina il sole tornerà a sorgere, sappiamo con precisione a che ora la prima luce dell'alba toccherà le nostre città, ma credo che dovremmo riacquistare un po' di quella sana meraviglia, come se non lo sapessimo, come se temessimo che il sole non sorga anche domani.
Proviamo a stare davvero al buio: avremo certamente paura - è naturale averla - ma saremo anche consapevoli che il buio fuori di noi è in qualche modo rassicurante, a differenza del buio che è dentro di noi. Quello sì che deve farci paura. O forse anche in questo caso non è il buio che dobbiamo temere, ma il fuoco dentro di noi che ha la forza di distruggere gli altri e il mondo che ci sta intorno. Dobbiamo avere - come sempre - paura di noi.

mercoledì 11 novembre 2020

Verba volant (792): dentifricio...

Dentifricio
, sost. m.

Henri Bendel e sua moglie Blanche Lehman - sì, proprio una di quei Lehman - sono arrivati a New York da Morgan City, in Louisiana, nel 1895 e hanno aperto il loro primo negozio sulla Nona Strada nel Greenwich Village. Blanche è morta di parto, insieme al bambino, pochi mesi dopo, e da quel momento Henri si è dedicato esclusivamente alla sua attività. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

giovedì 5 novembre 2020

Verba volant (791): recitare...

Recitare, v. tr.

Vito Giusto Scozzari e Frederick Paul Draper II sono
quasi coetanei. Il primo è nato a San Francisco il 26 gennaio 1918, mentre il secondo a Chester, in Pennsylvania, il 2 settembre 1923. 

Vito ha il teatro nel sangue. Ha trascorso i primi anni di vita a Napoli, dove i suoi genitori hanno deciso di tornare prima di trasferirsi definitivamente in America, questa volta a New York, quando lui ha sette anni. La madre recita in italiano a teatro per le famiglie degli emigranti e presto il bambino sale sul palcoscenico: prima solo per qualche comparsata e via via recita le prime battute. Fa il mimo, il giocoliere, il mago, fa quello che serve in quegli spettacoli popolari. Si fa chiamare Vito Scotti, perché è più facile da pronunciare rispetto al suo vero cognome.
Frederick invece non è figlio d'arte, ma, visti i suoi scarsi successi scolastici, pensa di poter diventare un attore: sempre meglio che lavorare. E poi così può trasferirsi a New York e iscriversi all'American Academy of Dramatic Arts, una scuola in cui ci sono molte belle ragazze. Fred non ha tutti i torti: in quegli anni frequentano l'istituto al 120 di Madison Avenue Grace Kelly e Anne Bancroft.

Dopo una lunga gavetta a Broadway Vito, come tutti i giovani attori di belle speranze, va a Hollywood. Nel 1949 ottiene la sua prima, piccolissima, parte - quella di un bandito messicano - in Illegal Entry, un film sul problema dei cittadini messicani che tentano di entrare negli Stati Uniti e sono vittime dei trafficanti, di qua e di là del confine: cose che succedevano in quel paese settant'anni fa. E così Vito Scotti comincia una carriera che terminerà cinquant'anni e duecento ruoli dopo, tra cinema e televisione. Naturalmente per lo più interpreta personaggi in cui deve fare l'"italiano", come in Life with Luigi, ma è stato anche un medico russo, un marinaio giapponese e un venditore ambulante emigrato dall'India. Molti dei film in cui è apparso - diverse volte, specialmente all'inizio della carriera, senza essere accreditato - non sono proprio memorabili - anche se nel 1972 è Nazorine nel Padrino di Francis Ford Coppola - ma alcuni continuano a passare in televisione con successo. Vito dà il meglio nelle commedie: nel 1968 in How Sweet It Is! - incomprensibilmente tradotto in Italia come Uffa papà quanto rompi - è il cuoco che bacia l'ombelico di Debbie Reynolds. E un anno dopo è l'attempato latin lover spagnolo che tenta, senza riuscirci, di sedurre Ingrid Bergman in Fiore di cactus. Nel 1970 è sua la voce di Peppo, il gatto italiano che suona la concertina in quella vera e propria "internazionale" del jazz messa insieme da Scat Cat sui tetti di Parigi negli Aristogatti. Vito è un artigiano del cinema, uno dei tanti che hanno reso grande Hollywood. 
Mentre frequenta i corsi dell'American Academy Fred divide una stanza con un altro studente, un ragazzo di sei anni più giovane di lui, i cui genitori sono arrivati in America dalla Grecia settentrionale e che dimostra subito un discreto talento, ma anche una notevole indisciplina. John Cassavetes vuole recitare e soprattutto vuole fare i suoi film, ma al di fuori degli studios e delle loro "regole". John lavora in televisione, è il protagonista della serie Johnny Staccato, un detective privato che è anche un pianista jazz nei locali del Greenwich. In un episodio della serie recita anche Vito Scotti. Con i soldi che guadagna in televisione Cassavetes realizza i suoi primi film, Ombre - che ottiene un premio al Festival di Venezia del 1959 - e Blues di mezzanotte. Anche Fred lavora in televisione, qualche piccola parte, per lo più non accreditata. A metà degli anni Sessanta è il barista in sei episodi di Peyton Place. John realizza quasi tutti i suoi film coinvolgendo un gruppo fidato di amici, Ben Gazzara, Seymour Cassel, Peter Falk. Naturalmente si ricorda anche del suo vecchio compagno di stanza al Greenwich, che è diventato un buon attore, e così Fred recita in cinque film diretti da John: Gli esclusi del 1963, con Judy Garland e Burt Lancaster, Volti del 1968, Mariti del 1970, Una moglie e La sera della prima, la cui protagonista è Gena Rowlands, che John ha conosciuto ai tempi dell'Academy e che è diventata sua moglie nel 1954. Dopo questo film, che è del 1977, Fred Draper decide di ritirarsi a Rancho Cucamonga, vicino a San Bernardino. È soddisfatto della sua carriera, delle poche cose che ha fatto, di quell'avventura cominciata per caso.

Si conoscevano Vito e Fred? Non credo fossero amici, probabilmente Fred non è mai stato invitato a una delle famose cene organizzate a casa sua da Vito, che era un ottimo cuoco e che si divertiva a preparare i piatti della tradizione italiana, seguendo le ricette che gli aveva lasciato sua nonna. Ma certamente si conoscevano: dopotutto Hollywood era una piccola città. 
Forse hanno già lavorato insieme - ma, visto che spesso i loro nomi non comparivano nei titoli, neppure di questo siamo sicuri - quando nell'estate del 1974 si ritrovano entrambi sul set di Negative Reaction, il secondo episodio della quarta stagione di Colombo, il ventisettesimo della serie, in Italia conosciuto con il titolo Una mossa sbagliata. Il regista è Alf Kjellin, che nella sua lunga carriera ha diretto decine di telefilm, da Il dottor Kildare a Dynasty, da Bonanza a La famiglia Bradford. La sceneggiatura è di Peter S. Fisher, che oltre ad aver scritto diversi episodi di questa serie destinata a diventare un vero e proprio cult, sarà il sceneggiatore di quasi tutti gli episodi di Ellery Queen e uno dei creatori di La signora in giallo. Il "cattivo", come avviene spesso negli episodi di Colombo, è un grande dello spettacolo, Dick Van Dyke, che qui sfoggia una bella barba grigia. Van Dyke interpreta il fotografo vincitore del premio Pulitzer Paul Galesko che, dopo averne inscenato il rapimento, uccide la moglie Frances - interpretata da Antoinette Bower, un'altra "veterana" del genere - e poi l'ex galeotto che l'ha aiutato e a cui cerca di addossare la colpa dell'omicidio di Frances. Nel corso dell'indagine il tenente Colombo si imbatte in un possibile testimone del secondo delitto, un barbone che però confessa che in quel momento era troppo ubriaco per ricordare qualcosa di quello che è avvenuto a pochi metri da lui, se non gli spari. Quel barbone, che pure dimostra una certa cultura e forse nasconde un passato misterioso, è Vito Scotti, in una delle scene più divertenti dell'episodio, perché quando Colombo va nella missione per interrogarlo, la suora, visto il suo impermeabile, lo scambia per uno dei senzatetto che si ritrovano lì all'ora di pranzo e gli dà un piatto di zuppa di manzo. In un'altra scena, Colombo chiede informazioni a un tecnico di laboratorio e quel collega della scientifica è Fred Draper.

Forse i loro nomi non vi dicono nulla e forse non ricordate neppure i loro visi, ma Vito e Fred hanno un'altra cosa in comune: negli anni Settanta sono apparsi rispettivamente in cinque e sei differenti episodi di Colombo, interpretando ogni volta un personaggio diverso.
Oltre al barbone di Una mossa sbagliata, Vito è un sollecito maitre di un ristorante di lusso che Colombo mette in difficoltà con le sue richieste di vini pregiati in L'uomo dell'anno, in cui l'assassino è Donald Pleasance, il grande attore inglese che sarà il primo interprete di Ernst Stavro Blofeld, il capo della Spectre. Poi Vito è un sarto snob in Candidato per il crimine, con il "cattivo" Jackie Cooper, da bambino una delle Simpatiche canaglie delle comiche di Hal Roach. Poi un impresario di pompe funebri in Il canto del cigno, con Johnny Cash che uccide Ida Lupino; questa scena, assolutamente inutile nell'economia del racconto è un pezzo di bravura di Falk e Scotti, da vedere e rivedere. E ancora un produttore di uva, ovviamente di origini italiane, in Doppio gioco, in cui Patrick McGoohan uccide Leslie Nielsen. E sempre il suo personaggio permette a Peter Falk e agli autori di Colombo di creare una di quelle gag che hanno caratterizzato quella serie e hanno reso così popolare quel personaggio.
Fred, arrivato direttamente dalla "banda" Cassavetes, oltre al tecnico di laboratorio dell'episodio con Van Dyke, è un tassista in Incidente premeditato. È Il dottor Murcheson, un chimico di grande talento, ma con il vizio dell'alcol che crea una portentosa crema di bellezza, ma di cui dimentica la formula e che rimane fedele alla donna di cui è da sempre perdutamente innamorato, la proprietaria di una fabbrica di cosmetici, in Bella, ma letale. E questa "cattiva" è la sempre affascinante Vera Miles, una delle bellezze che Fred sognava di incontrare ai tempi della scuola. In Testimone di se stesso Fred fa uno dei suoi piccoli ruoli, ma partecipa a uno dei finali più belli di tutta la serie. Il dottor Marcus Collier - un subdolo George Hamilton - ha ucciso il marito della donna di cui è l'analista e l'amante. Fuggendo dalla scena del crimine per poco non investe un cieco che, guidato dal suo cane, passeggia lungo la strada, davanti alla casa dove è avvenuto il delitto. Colombo per incastrare il dottore organizza un confronto tra Collier e un presunto testimone, ma invece dell'uomo cieco fa accomodare il fratello, interpretato appunto da Fred Draper. A questo punto Collier si tradisce: accusa Colombo di aver organizzato una messinscena, perché sa che quell'uomo non può averlo visto. Ma se lui sa che è cieco, significa che era lì al momento del delitto, cosa che ha sempre negato: e così un cieco diventa, seppur indirettamente, il testimone oculare che incastra il colpevole. Poi Fred è Joseph, un attore scalcinato, in Ciak si uccide in cui l'assassino è il capitano Kirk, in un momento di "vacanza" dal comando dell'Enterprise. Infine a Fred tocca l'onore di essere un "cattivo" in L'ultimo saluto al commodoro, un episodio della serie che ha un andamento diverso da quello solito. Noi spettatori pensiamo che l'assassino sia Robert Vaughn - da giovane uno dei Magnifici sette, ma poi un "cattivo" di tanti telefilm -e assistiamo alle indagini di Colombo cercando di capire come lo smaschererà. Ma quando anche lui viene ucciso, allora la storia cambia completamente e il tenente scopre l'assassino dopo aver riunito tutti gli indiziati, tra cui il vecchio avvocato interpretato dal grande Wilfrid Hyde-White, il colonnello Pickering di My Fair Lady, nella stanza dove è avvenuto il primo omicidio, come Poirot o Ellery Queen, ma rimanendo sempre Colombo. E l'assassino è proprio il nostro Fred Draper, che interpreta Swanny Swanson. E il tenente lo incastra con uno dei suoi soliti trucchi: solo lui poteva sapere che l'orologio del commodoro non poteva funzionare. E così il vecchio Fred si toglie la soddisfazione di essere un assassino di Colombo, come lo è stato il suo amico John in Concerto con delitto.

Credo che anche Vito Scotti avrebbe meritato questo onore. Comunque quando la serie viene ripresa alla fine degli anni Ottanta, nel primo episodio, intitolato Autoritratto di un assassino, Peter Falk vuole che ci sia anche Scotti, che così raggiunge le sei partecipazioni. È Vito, il proprietario di un bar in cui si svolgono diverse scene e, ancora una volta il vecchio attore regala una bella interpretazione.

Forse il vecchio Stanislavskij o forse qualcun altro ha detto:
Ricorda: non ci sono piccole parti, solo piccoli attori.
Ricordatelo anche voi quando leggete i titoli di coda. The end

mercoledì 28 ottobre 2020

Verba volant (790): labbra...

Labbra
, sost. f. pl.

Mettetevi comodi e preparate i popcorn: stasera doppio spettacolo.

Martedì 19 giugno 1973: i sessantatré posti della sala Upstairs del Royal Court Theatre di Sloane Square, a Chelsea, sono tutti occupati. Sulla scena i sedili di un vecchio cinema che sembra abbandonato. Un riflettore illumina una giovane usherette che percorre lentamente il corridoio della piccola sala con il suo vestito rosa, che non nasconde le belle gambe, e il vassoio dei dolciumi tenuto al collo da una fascia rossa. Però non cerca di venderci i suoi dolcetti alla fragola: vuole raccontarci, cantando, lo spettacolo a cui stiamo per assistere. E lo fa con una canzone bizzarra, quasi senza senso - una sorta di collage dadaista - citando film apparentemente a caso, solo per rispettare metrica e rime. Ma forse quei titoli non sono scelti in maniera così casuale. E per noi che amiamo i vecchi film in bianco e nero, il testo di quella canzone è davvero uno spasso.

Si comincia citando Michael Rennie, l'attore inglese, alto ed elegante, protagonista del film del 1951 The Day the Earth Stood Still - che in Italia conosciamo con il titolo Ultimatum alla Terra. Per gli appassionati di fantascienza è un classico del genere, così come la frase, nella lingua degli alieni, Klaatu, Barada, Nikto! che ferma il robot Gort nel momento in cui sta per distruggere la terra per vendicare la morte del suo compagno dalle sembianze umane. Qualche anno prima nessuno aveva trovato le parole per fermare le bombe che avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki, nessuno, all'epoca in cui il film viene girato, sembra capace di trovare le parole per fermare una guerra che tutti sentono imminente. Non c'è salvezza in questo mondo, sembra il messaggio di quel film: bisogna sperare in un mondo diverso, bisogna sperare nell'arrivo degli alieni. Ma forse, come canta un poeta nato qualche anno dopo l'uscita di quel film, l'astronave è già passata e tu dormivi. Merita di essere ricordato il regista di quel film, Robert Wise, uno dei grandissimi artigiani di Hollywood, capace di fare film di qualsiasi genere, western, fantascientifici, bellici, anche se ha dato il meglio di sé nei film musicali e infatti ha ottenuto i suoi due Oscar per West Side Story e The Sound of Music.
Ma siamo appena all'inizio. Trixie ci annuncia un doppio spettacolo: un corto di Flash Gordon e L'uomo invisibile con Claude Rains. Sono tre le serie cinematografiche dedicate al personaggio creato da Alex Raymond: Flash Gordon del 1936, Flash Gordon's Trip to Mars del '38 e Flash Gordon Conquers the Universe del 1940. Ogni serie era divisa in quindici episodi. Il cinema, prima del film in cartellone, proiettava ogni settimana un episodio, sperando quindi che gli spettatori tornassero anche quella successiva per vedere come andava a finire. Più o meno quello che "subiamo" noi adesso con le serie televisive: solo che l'obiettivo per farci "tornare" ogni sera sul nostro divano è quello di venderci un nuovo telefono, un nuovo shampoo, una nuova merendina, un nuovo "qualcosa". Il Flash Gordon di quelle serie è Buster Crabbe, medaglia di bronzo nei 1500 metri di nuoto alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928 e medaglia d'oro nei 400 in quelle di Los Angeles quattro anni dopo; e poi una bella carriera nel cinema d'avventura. Francamente quei film sono più belli del colossal prodotto da Dino De Laurentiis nel 1980, che rischiamo di ricordare quasi soltanto per la conturbante bellezza di Ornella Muti che interpreta una poco vestita principessa Aura, senza comunque essere mai affascinante come la perfida Kala di Mariangela Melato.
The Invisible Man del 1933 segna il debutto cinematografico dell'attore inglese Claude Rains. Il suo viso non doveva apparire quasi mai durante il film - lo si vede solo alla fine, nelle ultime scene - e per questo quel ruolo è stato rifiutato da Boris Karloff. Però serviva una grande voce e il regista James Whale, che aveva già diretto Frankenstein due anni prima, ha capito subito che Rains sarebbe stato perfetto per quel ruolo, con quella sua voce così caratteristica. Ma non era sempre stato così: il giovane Claude, nonostante una grande passione per il teatro, ha difficoltà a parlare, oltre a un terribile accento cockney. Ma sir Herbert Beerbohm Tree, il fondatore della Royal Academy of Dramatic Art, è convinto che quel ragazzo possa diventare un grande attore. E così è stato e in seguito Rains è diventato docente in quella stessa scuola di recitazione, insieme ai suoi amici John Gielgud e Laurence Olivier. E noi abbiamo imparato a conoscere anche il viso di Claude Rains, che è stato uno dei grandi "cattivi" di Hollywood: il principe Giovanni in La leggenda di Robin Hood, il corrotto senatore Paine in Mr Smith va a Washington, il nazista Alexander Sebastian in Notorius; ma anche il grandissimo capitano Renault in Casablanca. E poi negli anni Sessanta, con la sua inconfondibile voce e l'innato aplomb inglese, è il professor Challenger in Mondo perduto e Mr Dryden in Lawrence d'Arabia. Quanto cinema abbiamo già raccotato; e siamo solo al quarto verso della canzone.
Poi arrivano Fay Wray e King Kong. Potete perfino non aver visto il film del 1933 prodotto dalla RKO e diretto da Merian C. Cooper and Ernest B. Schoedsack, potete perfino non conoscere esattamente la storia, ma tutti, proprio tutti, avete in testa l'immagine dell'enorme gigante che sulla cima dell'Empire State Building lotta contro quei biplani che volano come insetti intorno a lui. Ma anche se quel mostro ci spaventa, tutte le volte che guardiamo quella scena speriamo che riesca a fuggire, che scenda sano e salvo da quel dannato grattacielo, perché ci fanno molta più paura gli uomini che lo vogliono uccidere. E quelli che da dietro le cineprese riprendono tutta la scena. 
Ma non abbiamo tempo di fermarci: it came from outer space. E qui Trixie ci porta due decenni avanti, nel 1953, quando esce il film che ha proprio questo titolo diretto da Jack Arnold, basato su un soggetto scritto da Ray Bradbury, che in Italia conosciamo come Destinazione... Terra! In questo film gli alieni non sono venuti per conquistare il nostro pianeta, ma sono naufragati qui perché la loro astronave è andata in avaria. Ma non sono come noi, non sono bianchi come noi, non sono cristiani come noi, non sono maschi come noi, e quindi dovranno sopportare tutti i nostri pregiudizi. Non sono i primi "diversi" che abbiamo fatto soffrire con la nostra ipocrisia e non saranno certo gli ultimi.  
Basta pensare... Trixie ci annuncia già i due prossimi film: Doctor X del 1932 e Forbidden Planet del 1956. Se non avete visto il primo film, non vi rivelerò chi è il misterioso serial killer che uccide e sbrana le sue vittime nelle notti di luna piena. Ma vi dico che l'eroina che sta per cadere vittima di questo mostro è ancora una volta la sventurata Fay Wray, in uno dei tanti film della sua bella e lunga carriera. È morta a Manhattan l'8 agosto 2004, a novantasei anni, e due giorni dopo le luci dell'Empire State Building sono rimaste spente quindici minuti in sua memoria. Il secondo invece è nelle intenzioni dei suoi autori una specie di versione fantascientifica della Tempesta di William Shakespeare: forse un obiettivo troppo ambizioso, per quanto rimanga comunque un ottimo film di fantascienza. I protagonisti sono Walter Pidgeon, una giovane Anne Francis - citata nella canzone - una delle tante possibili fidanzate d'America e un quasi esordiente Leslie Nielsen, che certo non avrebbe mai immaginato di diventare Frank Drebin. Pidgeon aveva la faccia e il portamento dell'eroe, del buono, ma ha saputo interpretare ruoli più complessi, come quello del bandito in La belva umana e appunto il dottor Morbius in questo film; ma noi lo ricorderemo come lo splendido coprotagonista, insieme a Totò, del film I due colonnelli, che Pidgeon recita in italiano, ovviamente con il suo marcato accento inglese. Però il vero protagonista del film è il robot Robby, creato da Robert Kinoshita su disegni di A. Arnold Gillespie e Mentor Huebner, che vedremo in altri sette film e in moltissime serie televisive, dalla Famiglia Addams a Mork & Mindy, da Colombo a Wonder Woman. E ha fatto anche molta pubblicità. Tanti attori in carne e ossa sognano di fare la stessa carriera di Robby the Robot: senza riuscirci. 
Jack Arnold è uno specialista del genere e infatti nel 1955 dirige anche il successivo film citato da Trixie, Tarantula, insieme a uno dei suoi protagonisti Leo G. Carroll, che interpreta il professor Deemer, lo scienziato che ha creato il siero che rende giganteschi gli animali, compresa la tarantola che solo una squadriglia di jet armati di napalm - guidati da un giovane Clint Eastwood, non ancora il "buono" dei film di Sergio Leone - potrà distruggere. Leo G. Carroll, con quella sua aria misteriosa e altera, è un attore molto amato da Alfred Hitchcock: con lui girerà molti film e nel 1959 sarà il 'Professore" di Intrigo internazionale.
Sono enormi e giganteschi anche i trifidi, le piante che si staccano dal terreno e si nutrono di carne umana, i cui semi sono arrivati dallo spazio insieme a misteriosi meteoriti che hanno il potere di rendere ciechi chi li guarda. Il film è The Day of the Triffids del 1962, intitolato in Italia L'invasione dei mostri verdi, interpretato tra gli altri da Howard Keel, che non è più l'aitante Adamo Pontipee di Sette spose per sette fratelli. Anche se Trixie ricorda il film citando Janette Scott, l'attrice inglese che ha esordito come Cassandra in Elena di Troia di Robert Wise e negli Sessanta ha alternato con successo commedie romantiche e film di fantascienza. Janette è la biologa marina che insieme al marito vive su un faro in un'isola sperduta e che riuscirà a sconfiggere i trifidi gettandogli addosso acqua di mare. A proposito di "mostri" pericolosi, la sceneggiatura del film viene accreditata al produttore esecutivo Philip Yordan, anche se l'ha scritta Bernard Gordon, che non può lavorare perché, in quanto iscritto al Partito comunista, è nella "lista nera". Quando la Writers Guild of America ha cominciato ad accreditare correttamente le sceneggiature scritte sotto pseudonimi o attraverso prestanome, assegnando ai veri autori i loro crediti retroattivi, Gordon è quello che ne ha ricevuto di più di ogni altro scrittore della lista. Chi sono i "trifidi" più pericolosi? Una parte dell'America pensava si dovesse temere "l'invasione dei mostri rossi", ma quanti film, quanti libri, quanti musical abbiamo perduto per l'ottusa idiozia di questi pretesi difensori dell'ordine costituito?
Dana Andrews ha la faccia da western, ma Otto Preminger capisce che può diventare anche un duro per i suoi noir. Ma Trixie si ricorda di lui per La notte del demonio, un horror inglese del 1957 diretto dall'esperto del genere Jacques Tourner, famoso per Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie. Andrews è il professore statunitense John Holden, uno scienziato che non crede all'esistenza di forze misteriose e soprannaturali: ma in suo viaggio nella vecchia Inghilterra dovrà ricredersi, visto che avrà l'occasione di incontrare il demonio in persona, con la sua misteriosa pergamena scritta con caratteri runici. 
Chissà se Trixie sa che George Pal, il prossimo nome che cita nella sua canzone, si chiamava György Pál Marczincsak ed era nato nel 1908 in quello che era ancora l'Impero Austro-ungarico, sotto il regno di Francesco Giuseppe. E forse non sa neppure che ha cominciato a fare film a Berlino negli anni d'oro dell'espressionismo tedesco, ma quando Hitler è andato al potere, è uno dei tanti cineasti europei che è dovuto fuggire a Hollywood, diventando uno dei grandi registi e produttori di film fantascientifici. Trixie ha visto certamente nel 1960 The Time Machine - in Italia L'uomo che visse nel futuro - con Rod Taylor e tanti altri film che lui ha prodotto, da When Worlds Collide a The War of the Worlds, e poi Conquest of Space. Perché a Trixie piacciono gli effetti speciali e Pal è un mago di questo cinema che ci tiene incollati alle poltrone. Ma chi è la misteriosa moglie di George Pal di cui parla Trixie? Questo non lo so neppure io, anche se ho un sospetto.

I miei lettori più attenti credono abbiano ormai capito sia il titolo della canzone che quello del musical che ha debuttato quella sera di giugno a Londra. Inutile dire che è stato un successo. È rimasto in cartellone fino al 20 luglio, ma poi è stato necessario trovare una sala più grande: dal 14 agosto al 20 ottobre in quella da duecentotrenta posti del Chelsea Classic Cinema e infine dal 3 novembre in quella da cinquecento posti del King's Road Theatre, dove lo spettacolo è rimasto fino al 31 marzo 1979. Ma ormai nessuno avrebbe più fermato The Rocky Horror Show. Che nel 1973 vince anche l'Evening Standard Award come miglior musical. Merita di essere ricordato che quell'anno come miglior spettacolo viene premiato Saturday, Sunday, Monday, la versione inglese della commedia di Eduardo Sabato, domenica e lunedì, con Joan Plowright e Frank Finlay che interpretano Rosa e Peppino Priore e Olivier nel ruolo del vecchio Antonio Piscopo. Due spettacoli che, a modo loro, raccontano il tempo che cambia.

Quella giovane usherette che interpreta Science Fiction/Double Feature è Patricia Quinn, una trentenne attrice arrivata a Londra da Belfast con il sogno di sfondare nel West End. L'autore Richard O'Brien e il regista Jim Sharman la scelgono per il ruolo di Magenta e le chiedono di interpretare anche Trixie: non hanno certo i soldi per scritturare un'altra attrice. Due anni dopo il Rocky Horror diventerà un film e naturalmente Patricia sarà ancora la misteriosa e sensuale cameriera del Dr Frank-n-Furter. E quando alla fine compare in scena con la tuta spaziale per tornare nel suo pianeta i suoi capelli sono un chiaro omaggio alla moglie di Frankenstein.
Nel film quella canzone deve accompagnare i titoli di testa e Sharman immagina che mentre canta Patricia vengano proiettati i fotogrammi di tutti i film citati. Ma ancora una volta bisogna fare i conti con il budget: acquistare i diritti di tutti quei film si rivela troppo dispendioso per la produzione. E allora Sharman ha un'idea: sarà O'Brien - ossia l'ineffabile Riff Raff - a cantare la canzone, ma le labbra rosse su sfondo nero - un omaggio a Lips di Man Ray - sono quelle di Patricia. Le labbra di una donna e la voce di un uomo: Science Fiction/Double Feature in un mondo che sta cambiando, anche se molti "terrestri" fanno di tutto affinché questo non accada. Ma noi, come Trixie, continueremo a fare il tifo per Kong e per tutti i "diversi" che lottano affinché questo mondo sia la loro "casa".