sabato 18 aprile 2015

Considerazioni libere (400): a proposito del 25 aprile...

Spero mi scuserete, ma questa "considerazione" sarà più personale del solito: alla fine un blog è quello che una volta chiamavamo più prosaicamente diario. Ho proposto a Zaira di celebrare il prossimo 25 aprile a Milano, per partecipare alla manifestazione nazionale dell'Anpi. E' la seconda volta che ci vado, perché quasi sempre ho celebrato questa festa nella città dove vivevo o lavoravo: Granarolo, Bologna, Castel Maggiore e infine Salsomaggiore. Un anno siamo andati a Monte Sole, un luogo dove è importante tornare ogni tanto - anche al di fuori delle date canoniche - perché camminando tra quei ruderi, osservando quegli alberi, ascoltando i silenzi di quelle belle colline, senti più vivo il dramma di quelle donne e di quegli uomini. Il 25 aprile naturalmente lo si può ricordare dovunque, ma certo ci sono luoghi dove la memoria è più viva: un anno mi piacerebbe farlo a Sant'Anna di Stazzema.
Questo sarà un 25 aprile particolare, intanto perché si tratta di un anniversario "rotondo": il settantesimo e quindi credo sia giusto festeggiarlo in maniera per così dire istituzionale, insieme a tante altre persone, che condividono questi valori. E poi perché sarà il primo anniversario della morte di mio padre, una delle persone che mi ha insegnato il motivo per cui è giusto celebrare il 25 aprile. Era da poco finita la manifestazione qui a Salsomaggiore, quando ricevetti la telefonata con cui mi dissero che stava per morire.
A Milano ci sono andato - insieme a mio padre e a un po' di compagni di Granarolo - nel 1994. Sembra un secolo fa: non ero laureato, non conoscevo ancora Zaira, non sapevo dove fosse Salsomaggiore, non usavamo internet - io avevo da pochi mesi il cellulare - facevo l'assessore nel mio Comune e pensavo che "da grande" avrei fatto l'insegnante. Qualcuno di voi sicuramente c'era e se lo ricorderà: fu un anno particolare, e una manifestazione particolare. Nanni Moretti la descrive a suo modo all'inizio di Aprile. C'erano state le elezioni politiche il 27 e il 28 marzo, le prime con la "nuova" legge elettorale - la legge Mattarella - le prime della cosiddetta "seconda Repubblica". Noi avevamo perso - perso male, anche perché pensavamo di vincere - e aveva vinto Berlusconi e al governo c'erano i fascisti di Alleanza nazionale. Per molti di noi fu un trauma, che sentimmo in maniera ancora più forte proprio il 25 aprile, perché quel governo, per la prima volta nella storia della Repubblica, non solo non festeggiava quella data - il capo del governo platealmente non partecipò a nessuna manifestazione - ma non riconosceva il valore fondante di quell'avvenimento storico. La Democrazia cristiana festeggiava il 25 aprile, loro no. Loro erano diversi e volevano fare un'Italia diversa; e ci sono riusciti, purtroppo.
Andare a Milano fu un gesto di opposizione, un gesto di rabbia, per quanto impotente. La città leghista ci accolse ovviamente con freddezza, ma soprattutto il clima era pessimo: ricordo che piovve tutto il pomeriggio e fu anche complicato tenere insieme il gruppo; da Granarolo avevamo fatto un pullman e io ricordo di quel giorno soprattutto il lavoro per non "perdere" nessuno. Quel cielo grigio, quella pioggia incessante, quella giornata fredda, nonostante fossimo a fine aprile, erano la metafora di come stavamo, di come saremmo stati negli anni successivi. L'inverno del nostro scontento, avrebbe detto Shakespeare, non era finito, ma anzi stava per cominciare.
Quell'anno - e quella manifestazione - ha segnato in qualche modo la storia delle celebrazioni successive, perché, al di là delle frasi di circostanza, della retorica istituzionale, la Festa della Liberazione è stata via via presentata come una festa "nostra", una festa di reduci, una festa "antica" che non serviva più alla "nuova" Italia. E contemporaneamente si è fatto più asfissiante il tentativo di riscrivere tutta la storia di quegli anni, si è fatta strada l'idea della pacificazione, fino all'equiparazione tra chi aveva combattuto nella Resistenza e chi per la repubblica di Salò. Non ci sono stati solo i libri di Pansa e di altri pennivendoli che hanno lucrato sul revisionismo, ma tanti esponenti del nostro partito e della sinistra hanno cominciato a pensare - e a dire - che il mondo era cambiato e doveva cambiare anche il 25 aprile. Sono stato contento quando ho letto che il "nuovo" Presidente - non a caso un vecchio democristiano - in questi giorni ha parlato di "pericolose equiparazioni", ma ormai molta acqua è passata e per tanti italiani il 25 aprile è soltanto un giorno rosso del calendario, l'occasione di un ponte o magari il momento per andare a fare shopping in uno dei tanti centri commerciali aperti. Fascista ormai non sembra significare più nulla e noi che continuiamo ostinatamente a usare questa parola veniamo giudicati, quando va bene, dei vecchi aggrappati ai nostri ricordi, dei fossili del Novecento.
Personalmente torno a Milano, dopo ventun'anni, perché credo che il momento sia grave come allora, anzi più grave, proprio perché sono passati ventun'anni e perché non sento quella rabbia di allora, ma solo l'impotenza. Io, come tanti altri, ho anche smesso di fare politica - a parte questo blog, a cui mi aggrappo tenacemente, per non perdere il vizio. Vado a Milano per fare opposizione a questo governo, a questo regime, che - nonostante le parole di circostanza - non riconosce il 25 aprile, i valori del del 25 aprile, perché non rispetta la Costituzione. L'attacco alla Carta è più violento ora che allora, perché intanto si sono fatti furbi, lo stanno facendo in maniera più eversiva, ma con toni decisamente più gentili, con meno baldanza, anzi facendo finta di rispettarne le forme. E renzi andrà a Monte Sole, senza paura di sfidare il ridicolo - tanto sarà applaudito anche lì - nonostante sia il presidente del consiglio che vuole abolire il Senato, che ha scritto una legge elettorale che assegna al vincitore delle elezioni - e quindi a lui - un potere smisurato, che ha cancellato lo Statuto dei lavoratori.
Torno a Milano, dopo ventun'anni - sperando almeno che non piova, anche perché adesso non affronto bene l'umidità come allora - per dare la mia testimonianza, per ritrovarmi tra compagni, per sentirmi meno solo. Ventun'anni fa ero più ottimista, pensavo che ce l'avremmo comunque fatta - e per un momento ci illudemmo, nel '96, di aver passato il momento più buio. Adesso non lo sono più, anche perché abbiamo capito che il nemico contro cui combattiamo non è Berlusconi o renzi o quello che di volta in volta mettono lì ad eseguire gli ordini, ma un potere senza volto, la cui ideologia è diventata invasiva e ormai dominante. Ma anche se ormai siamo sconfitti - almeno noi che abbiamo fatto tanti e tali errori che ci hanno fatto arrivare a questo punto - credo che sia giusto celebrare la Festa della Liberazione - a Milano o dove volete e potete farlo - almeno per ringraziare chi ci ha dato questa opportunità, chi si è battuto a costo della vita, chi ci ha creduto. E per tenere viva un'idea, fino a quando arriverà una generazione nuova, che riprenderà la lotta.
Grazie a voi uomini liberi.
ORA E SEMPRE RESISTENZA! 

mercoledì 15 aprile 2015

Verba volant (176): dimenticare...

Dimenticare, v. tr.

Chi, come me, prova a fare una costante testimonianza di memoria non può dimenticare che il primo filosofo e il primo storico della tradizione occidentale sono due greci, ma nati entrambi a Mileto, le cui rovine sono a cinque chilometri a nord della città turca di Akköy. Uno degli uomini che ha fondato la religione cristiana è un ebreo, cittadino romano, nato nella città di Tarso, nell'attuale provincia turca di Mersin. Uno dei testi più importanti della nostra letteratura è un poema che racconta la storia dell'assedio decennale di una città, le cui rovine si trovano sulla costa turca. Per queste e per molte altre ragioni un europeo sente un legame speciale con quel paese che, pur con le sue peculiarità, è parte integrante dell'Europa, indipendentemente dalle scelte politiche di chi governa - e governerà - la Turchia e l'Unione europea.
La Turchia è un grande paese e come tale ha molte contraddizioni. Allo stesso modo amiamo tante cose degli Stati Uniti, pur detestandone molte altre, forse di più. Ci emozioniamo ogni volta che leggiamo le poesie - sia quelle d'amore sia quelle politiche - di Nazim Hikmet e siamo solidali con le ragazze e i ragazzi che manifestano per la democrazia e per i diritti in quel paese, almeno quanto critichiamo il governo di Erdogan. Proprio per questo credo che quel paese debba fare finalmente i conti con la sua storia, anche in maniera brutale.
Francesco ha fatto bene a ricordare nella maniera più solenne a lui consentita - e quindi durante un rito religioso - il dramma del popolo armeno, usando la parola che deve essere usata: genocidio. Avrebbe potuto esprimere la propria solidarietà al popolo armeno usando altre parole, e sarebbero state comunque significative, ma in questo modo, proprio usando la parola genocidio, ha fatto una cosa utile al popolo turco, prima ancora che a quello armeno. E una cosa utile a tutti noi, perché ci ha costretti a non dimenticare.
Noi lo sappiamo quanto sia difficile fare i conti con la storia peggiore e per questo, da bravi italiani, abbiamo provato a svicolare, a eludere la verità, a dire che in fondo non era poi colpa nostra, che molte decisioni le abbiamo subite. Per i tedeschi è stato ancora più difficile, perché per loro questi piccoli escamotage non erano davvero possibili. E i turchi, prima o poi, dovranno ammettere che nel 1915, cent'anni fa, in un momento drammatico per tutta l'Europa, in anni che hanno segnato una cesura profonda non solo tra due secoli, ma tra due età della storia, fu programmata ed eseguita la cancellazione di un popolo: per questa programmazione sistematica e "scientifica" delle esecuzioni quello armeno può essere considerato il primo genocidio moderno. E altri purtroppo ne seguirono.
La Turchia aspira legittimamente a svolgere un ruolo nel vicino Oriente e lo sta svolgendo, spesso con scelte discutibili, ma non è questo il punto. Le scelte politiche possono cambiare, la storia invece non cambia e fa parte di noi. Se non riusciamo a riconoscere i genocidi del passato, se non riusciamo a parlarne senza infingimenti, non riusciremo a riconoscere quelli che accadono ancora, sotto i nostri occhi. E' passato un anno dal rapimento di 267 ragazze nigeriane nella città di Chibok e ormai ci siamo dimenticati anche di loro. Non ci piace ricordarlo, ma c'è un mondo in cui in cui sono sistematicamente calpestati i diritti umani e le libertà, un mondo in cui lo sterminio degli innocenti è la prassi quotidiana. E i posteri ci chiederanno il conto della nostra ignavia, della nostra fretta di dimenticare.
Dimenticare ha la stessa etimologia di demente: chi dimentica è folle. Ma chi obbliga a dimenticare è un criminale.  

martedì 14 aprile 2015

"Storia universale" di Gianni Rodari


In principio la Terra era tutta sbagliata, renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano ponti.
Non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere?
Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno?
Non esisteva il letto.
Per non pungersi i piedi, né scarpe né stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni:
mancava la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni, anzi a guardare bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente.
Zero via zero, e basta.
C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare, e agli errori più grossi si poté rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti.

lunedì 13 aprile 2015

"Il diritto al delirio" di Eduardo Galeano

Ormai sta nascendo il nuovo millennio. La faccenda non è da prendere troppo sul serio. Il tempo si burla dei confini che noi inventiamo per credere che lui ci obbedisca. Il tempo continua, silenzioso, il suo cammino lungo le vie dell’eternità e del mistero. In verità, non c’è nessuno che sappia resistere: chiunque sente la tentazione di domandarsi come sarà il tempo che sarà. Benché non possiamo indovinare il tempo che sarà, possiamo avere almeno il diritto di immaginare come desideriamo che sia.
Nel 1948 e nel 1976, le Nazioni Unite proclamarono le grandi liste dei diritti umani: tuttavia la stragrande maggioranza dell’umanità non ha altro che il diritto di vedere, udire e tacere. Che direste se cominciassimo a praticare il mai proclamato diritto di sognare? Che direste se delirassimo per un istante?
Puntiamo lo sguardo oltre l’infamia, per indovinare un altro mondo possibile: l’aria sarà pulita da tutto il veleno che non venga dalla paure umane e dalle umane passioni; nelle strade, le automobili saranno schiacciate dai cani; la gente non sarà guidata dalla automobile, non sarà programmata dai calcolatori, né sarà comprata dal supermercato, né osservata dalla televisione; la televisione cesserà d’essere il membro più importante della famiglia e sarà trattato come una lavatrice o un ferro da stiro; la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare; ai codici penali si aggiungerà il delitto di stupidità che commettono coloro che vivono per avere e guadagnare, invece di vivere unicamente per vivere, come il passero che canta senza saper di cantare e come il bimbo che gioca senza saper di giocare; in nessun paese verranno arrestati i ragazzi che rifiutano di compiere il servizio militare; gli economisti non paragoneranno il livello di vita a quello di consumo, né paragoneranno la qualità della vita alla quantità delle cose; i cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere cucinate vive; gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi; i politici non crederanno che ai poveri piaccia mangiare promesse; la solennità non sarà più una virtù, e nessuno prenderà sul serio chiunque non sia capace di prendersi in giro; la morte e il denaro perderanno i loro magici poteri, e né per fortuna né per sfortuna, la canaglia si trasformerà in virtuoso cavaliere; nessuno sarà considerato eroe o tonto perché fa quel che crede giusto invece di fare ciò che più gli conviene; il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà, e l’industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento; il cibo non sarà una mercanzia, né sarà la comunicazione un’affare, perché cibo e comunicazione sono diritti umani; nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà d’indigestione; i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada; i bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi; l’educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla; la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla; la giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena; una donna nera, sarà presidente del Brasile e un’altra donna nera, sarà presidente degli Stati Uniti d’America; una donna india governerà il Guatemala e un’altra il Perù; in Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale, poiché rifiutarono di dimenticare nei tempi dell’amnesia obbligatoria; la Santa Chiesa correggerà gli errori delle tavole di Mosè, e il sesto comandamento ordinerà di festeggiare il corpo; la Chiesa stessa detterà un altro comandamento dimenticato da Dio: “Amerai la natura in ogni sua forma”; saranno riforestati i deserti del mondo e i deserti dell’anima; i disperati diverranno speranzosi e i perduti saranno incontrati, poiché costoro sono quelli che si disperarono per il tanto sperare e si persero per il tanto cercare; saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che possiedono desiderio di giustizia e desiderio di bellezza, non importa dove siano nati o quando abbiano vissuto, giacchè le frontiere del mondo e del tempo non conteranno più nulla; la perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei; però, in questo mondo semplice e fottuto ogni notte sarà vissuta come se fosse l’ultima e ogni giorno come se fosse il primo.

"Quello che deve essere detto" di Gunter Grass



Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt'al più le note a margine.

E' l'affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un'atomica.

E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l'altro paese,
in cui da anni - anche se coperto da segreto -
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?

Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d'uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l´esistenza di un'unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.

Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d'Israele
al quale sono e voglio restare legato
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l´ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi - come tedeschi con sufficienti colpe a carico -
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.

E lo ammetto: non taccio più
perché dell'ipocrisia dell'Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un'istanza internazionale.

Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d'uscita,
e in fin dei conti anche per noi.

"Ignominia d'Europa" di Gunter Grass


Prossima al caos, perché non all'altezza dei mercati,
lontana sei dalla terra che a te prestò la culla.

Quello che, con l'anima hai cercato e consideravi tuo retaggio,
ora viene tolto di mezzo, alla stregua di un rottame.

Messo nudo alla gogna come debitore, soffre un Paese
al quale dover riconoscenza era per te luogo comune.

Paese condannato alla miseria, la cui ricchezza,
ben curata, orna i musei: preda che tu sorvegli.

Coloro che, in divisa, con la violenza delle armi funestarono il Paese
ebbro d'isole, tenevano Hölderlin nello zaino.

Paese a stento tollerato, di cui un tempo tollerasti
i colonnelli in veste di alleati.

Paese privo di diritti, al quale un potere che i diritti impone,
stringe sempre più la cintola.

Sfidandoti, veste di nero Antigone e dovunque lutto
ammanta il popolo di cui tu fosti ospite.

Eppure fuori dai confini il codazzo dei seguaci di Creso
ha ammassato tutto ciò che d'oro luccica nelle tue casseforti.

Trangugia infine, butta giù! gridano i claqueur dei Commissari,
ma Socrate ti restituisce irato il calice colmo fino all'orlo.

Malediranno in coro gli Dei ciò che possiedi,
quando il tuo volere esige di spossessare il loro Olimpo.

Priva di spirito deperirai senza il Paese
il cui spirito, Europa, ti ha inventata.

domenica 12 aprile 2015

"Noi insegniamo la vita, signore" di Rafeef Ziadah


Oggi, il mio corpo era un massacro in tv.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole,
colme a sufficienza di statistiche per replicare con risposte non sproporzionate.
E ho perfezionato il mio inglese e ho imparato le risoluzioni Onu.
Eppure, lui mi ha chiesto: "Signora Ziadah, non pensa che tutto si aggiusterebbe se solo voi la smetteste di insegnare tanto odio ai vostri figli?".
Pausa.
Cerco dentro di me la forza di essere paziente.
Ma la pazienza non è sulla punta della mia lingua mentre le bombe cadono su Gaza.
La pazienza mi ha appena abbandonata.
Pausa.
Sorriso.
Noi insegniamo la vita, signore.
Rafeef, ricorda di sorridere.
Pausa.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi insegniamo la vita, dopo che loro ci hanno occupato anche l’ultimo cielo.
Noi insegniamo la vita, dopo che loro hanno costruito le loro colonie, i loro muri di separazione, dopo gli ultimi cieli.
Noi insegniamo la vita, signore.
Ma oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
E "Ci dia una storia, una storia umana.
Vede, questa non è politica.
Vogliamo solo raccontare alla gente di lei e del suo popolo, ci dia una storia umana.
Non nomini le parole apartheid e occupazione.
Questa non è politica.
Lei deve aiutarmi come giornalista ad aiutarla a raccontare la sua storia, che non è una storia politica."
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
"Che ne dice di raccontarci la storia di una donna di Gaza che ha bisogno di farmaci?
Che mi dice di lei?
Ha abbastanza ossa rotte da coprire il sole?
Mi parli dei vostri morti e mi dia la lista dei nomi in non più di 1200 parole."
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole e commuovere quelli insensibili al sangue del terrorismo.
Però loro erano dispiaciuti.
Erano dispiaciuti per le bestie di Gaza.
Così gli fornisco le risoluzioni Onu e le statistiche
e condanniamo
e deploriamo
e rifiutiamo.
E queste non sono due parti uguali: occupanti e occupati.
E cento morti,
duecento morti,
e mille morti.
E in mezzo crimini di guerra e massacri.
Dò libero sfogo alle parole e a un sorriso "non esotico",
a un sorriso "non terrorista".
E riconto, riconto cento morti, duecento morti, mille morti.
C’è qualcuno là fuori?
Qualcuno ascolterà mai?
Vorrei piangere sui loro corpi.
Vorrei solo correre a piedi nudi in ogni campo profughi
e abbracciare ogni bambino,
coprire loro le orecchie
in modo che non debbano sentire il suono dei bombardamenti
per il resto della vita, come accade a me.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv.
E lasciatemi dire,
non c’è nulla che le risoluzioni ONU abbiano mai fatto per questo.
E nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto mi viene in mente,
non importa quanto sia buono il mio inglese.
Nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto,
nessuna frase ad effetto li riporterà in vita.
Nessuna frase ad effetto sistemerà le cose.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare la vita al resto del mondo, signore.

ascoltiamo questa poesia dalla voce di Rafeef Ziadah

sabato 11 aprile 2015

Verba volant (175): torturare...

Torturare, v. tr.

Capita a volte di ascoltare qualche bello spirito che si chiede che senso abbia ancora leggere i classici. Cosa può servire rileggere l'Iliade, con i suoi estenuanti duelli tra cavalieri che combattono da soli, dopo aver tenuto lunghi discorsi, mentre i loro eserciti schierati li osservano? O rileggere le tragedie elisabettiane, dato che non ci sono più re sanguinari come Macbeth o congiure feroci come quelle descritte nell'Amleto? Ha senso perché, nonostante tutte le illusioni che noi ci facciamo, nonostante la modernità in cui crediamo di vivere, gli uomini - e le donne - sono ancora quelli raccontati da Omero, da Shakespeare, da Dante. Certo sono cambiate tante cose, combattiamo in maniera diversa, viaggiamo in maniera diversa, gestiamo la politica e l'economia in maniera diversa, conosciamo il mondo in maniera molto più precisa e approfondita di quanto lo conoscessero le generazioni passate, eppure per tanti versi siamo uguali ai nostri genitori, ai nostri nonni, ai nostri bisnonni e così via.
Ci pensavo mentre riflettevo sulla sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato il governo italiano per quello che è successo alla scuola Diaz nel 2001. In fondo, nonostante i proclami, gli impegni solenni, i giuramenti, il potere, quando vuole manifestare la propria forza, quando vuole far sentire la propria presenza, lo fa ancora in maniera brutale, attraverso la violenza, attraverso la tortura. E noi, come tutti gli uomini di tutti i tempi, abbiamo paura della violenza, temiamo la tortura, saremmo disposti a confessare qualunque cosa - anche quello che non abbiamo commesso - pur di far smettere l'aguzzino. Il potere conosce questa nostra debolezza e se ne approfitta, sempre. Ho ripensato al poliziotto senza nome interpretato da Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, un film del 1970, datato per il contesto che in cui fa muovere i personaggi, eppure attualissimo nel descriverne i meccanismi psicologici.
Quanti funzionari come quello raccontato da Volonté infestano ancora le questure, le caserme dei carabinieri, le carceri italiane, quanti di questi personaggi frustrati esercitano il loro potere in maniera arbitraria, certi di rimanere impuniti, quanto odio c'è ancora nelle forze dell'ordine verso chi non la pensa come loro, verso chi è diverso, verso chi rifiuta il loro ordine. Un po' di cose sono state fatte per rendere costituzionale una struttura che l'Italia repubblicana e democratica ha ereditato praticamente senza soluzione di continuità dal regime fascista, eppure fatti come quelli di Genova, e tanti altri che capitano ogni giorno, ci dicono che tanto è ancora da fare. Perché a questa forma di fascismo autoritario, più o meno consapevole, si è via via aggiunta e sostituita una sostanziale ignoranza dei valori costituzionali. Questa ignoranza colpisce evidentemente tanta parte del pubblico impiego - siamo sempre meno consapevoli di esercitare una funzione pubblica, siamo sempre meno consapevoli di lavorare per gli altri, e infatti tanti lavorano per sé, al massimo per la propria famiglia - ma diventa pericolosa in chi esercita un potere così grande, in chi ha la possibilità di usare lo strumento della forza. Il funzionario disonesto al massimo può rubare, ma il poliziotto inconsapevole del fatto che a lui lo stato delega l'uso della violenza può fare danni ben maggiori. 
Nel luglio del 2001 alcune persone decisero che a Genova occorreva "dare una lezione" a quelli del movimento no global; loro devono essere condannati, insieme a quegli uomini che misero in pratica questi ordini, spesso eccedendo, anche per una forma malata di sadismo. Non sappiamo chi ordinò materialmente le torture, se il presidente del consiglio o il ministro degli interni o altri ancora - magari capaci di esercitare un potere ancora più forte su polizia e carabinieri rispetto allo stesso governo (in Italia purtroppo dobbiamo sempre dubitare che una parte delle forze dell'ordine siano eterodirette). Certo loro e gli altri membri del governo sapevano quello che sarebbe successo e non hanno fatto nulla per fermarlo. Volevano un poliziotto morto, volevano un altro Antonio Annarumma, per scatenare una reazione violenta contro un pezzo di paese. Alla fine morì solo Carlo Giuliani.
E con altrettanta decisione dobbiamo dire che sapevano l'allora capo della polizia e gli uomini che furono chiamati a gestire quell'operazione, tutti promossi negli anni successivi, tutti passati a carriere lucrose, tutti assolti da una giustizia complice della parte peggiore del paese, come è avvenuto troppe volte in Italia, dove l'indipendenza della magistratura dal potere è una chimera.
C'è però anche una responsabilità nostra, della sinistra di governo - chiamamola così, per capirci, anche se allora non eravamo al governo, ma c'eravamo stati prima e ci saremmo andati dopo, senza segnare su molti punti uno stacco netto e significativo con l'esperienza dei governi di destra. Io allora facevo politica e sinceramente non mi resi conto in maniera sufficiente della gravità di quello che era successo a Genova. Certo la discussione se andare o non andare - e se andare, come andare - fu accesa, ma credo non ci rendemmo conto di quanto quell'episodio sarebbe stato destinato a cambiare forse noi più degli altri. Alla luce di quello che è successo dopo, non esserci resi conto dell'attacco alla democrazia che era avvenuto a Genova, tra la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto, è stato il sintomo più evidente della fine, della morte della sinistra italiana, che infatti è arrivata poco più di dieci anni dopo, quando ci siamo consegnati a un leader di destra come renzi, che porta avanti un disegno neoautoritario e peronista. E l'aver fatto di tutto, negli anni successivi, quando eravamo al governo, per insabbiare quello era successo a Genova, anche attraverso le continue promozioni di De Gennaro e dei suoi uomini, di quelli che avevano le mani e le giacche sporche di sangue, è uno dei motivi che fa sì che ci meritiamo renzi e il pd.
C'è molto da fare in questo paese per recuperare alcune regole di convivenza civile e democratica. Forse non ne abbiamo neppure le forze.  

domenica 5 aprile 2015

Verba volant (174): coerente...

Coerente, agg. m. e f.

Cosimo Mele è un notabile democristiano dell'Italia meridionale. Uno come tanti: un cattolico integerrimo che tutte le domeniche va a messa, un buon marito e un ottimo padre, uno strenuo difensore della famiglia tradizionale, un nemico dichiarato della droga. Di Cosimo Mele avrebbero parlato solo le pagine locali dei gionali pugliesi, se una notte di otto fa non fosse avvenuto un "incidente" in una camera di un hotel di Roma, dove l'onorevole stava sniffando cocaina insieme a due puttane.
Oggi Cosimo Mele è il candidato del pd per le elezioni comunali a Carovigno. Sapete che giudizio io abbia di quel partito e sinceramente non mi serviva questo episodio di provincia a scandalizzarmi. C'è però qualcos'altro su cui vorrei attirare la vostra attenzione. Il pd di Carovigno ha cercato il buon Cosimo perché con lui "si vince": il problema quindi non è tanto che quel partito è riuscito - evidentemente prima degli altri - ad assicurarsi un tal candidato, quanto il fatto che uno come Mele può, con grande probabilità, vincere le elezioni. Per anni ci siamo cullati nell'illusione che ci fosse una classe politica corrotta che, per qualche misterioso motivo, era riuscita a tenere in ostaggio una società civile sana. Balle: la vicenda di Carovigno - e tante altre simili in giro per l'Italia - dimostra che non è la classe politica ad essere marcia, ma è proprio la società, che infatti, quando deve scegliere da chi farsi rappresentare, sceglie uno come Mele.
Gianluigi Cernusco è un imprenditore dell'Italia settentrionale. Uno come tanti: buon padre di famiglia, ecc. ecc.; come tanti altri ha cominciato a far politica nella Lega nord, stanco di un'immigrazione fuori controllo. Forse Cernusco esagerava un po' con i toni - per le elezioni comunali a Settimo Torinese aveva formato una lista che si chiamava Prima gli italiani. No privilegi a zingari e immigrati - e aveva messo in imbarazzo il centrodestra piemontese, ma era uno che diceva chiaro e forte quello che pensano in tanti nel "profondo" nord. Anche di Gianluigi Cernusco si sarebbero occupate solo le cronache locali, se non fosse che è stato indagato per favoreggiamento della prostituzione. Infatti è proprietario di un albergo dove giovani puttane, per lo più straniere e clandestine, incontravano i loro clienti, tutti padri di famiglia italiani, se non elettori, almeno simpatizzanti, di Cernusco.
Tra qualche anno immagino ci ritroveremo l'esponente leghista di nuovo candidato, con toni sempre più roboanti contro gli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani; magari farà una campagna per difendere le puttane italiane contro le straniere. Per inciso Cernusco, da operatore del settore, criticava la prefettura perché aveva messo dei profughi arrivati a Lampedusa in un albergo della zona. Probabilmente anche quell'albergatore vota Lega, ma intanto intasca i soldi di Roma "ladrona" per tenere i profughi in un albergo talmente malmesso che viene evitato dai clienti "perbene". Succede, anche in altre parti d'Italia.   
C'è una morale in queste due storie di provincia? Immagino di sì.
Intanto dimostrano che su un punto l'Italia è davvero unita, da nord a sud: i clienti delle puttane sono gli stessi, dall'hinterland torinese al Salento: i bravi padri di famiglia, i difensori dei valori e della tradizione. E insegna anche che la coerenza non paga.

sabato 4 aprile 2015

Verba volant (173): assumere...

Assumere, v. tr.

In questo verbo, la cui etimologia risale - come per gran parte della nostra lingua - al latino, si riconosce un'antica radice am- che ha il significato di prendere e di comperare.
Nei giorni scorsi un'agenzia di lavoro interinale ha diffuso un volantino per pubblicizzare i propri servizi. Al di là della retorica commerciale, credo sia utile riportare alcuni degli slogan utilizzati.
Vinci la crisi, cosa stai ancora aspettando: chi utilizza un lavoratore interinale rumeno risparmia. Beneficia del massimo della flessibilità ed in più: niente Inail, niente tredicesima, niente Inps, niente quattordicesima. Niente malattia, niente Tfr, niente infortuni, no problems, niente consulenti paghe. Alla tua azienda non rimane che pagare undici mensilità e non più 14 più Tfr, come stai facendo, ed in più senza nemmeno dover anticipare l'Iva essendo le nostre fatture intracomunitarie.
C'è un po' di inglese, che fa sempre "moderno", come insegna il presidente del consiglio. Ma soprattutto è un inno alla libertà: nessun vincolo, nessun controllo, nessuna complicazione. Finalmente un lavoratore che non dà problemi.
Uscita la notizia, i corifei del renzismo - compreso il sedicente professor taddei, responsabile economico del partito mal nato - hanno detto che si tratta di comportamenti illegali e che, come tali, dovranno essere perseguiti. Naturalmente queste prese di posizione - per quanto in malafede - mi fanno piacere - evidentemente qualcuno in quel partito ha ancora il senso della vergogna - ma mi pare che la questione non possa essere liquidata in questo modo.
Il problema è che tutti questi predatori sentono ormai l'odore del sangue, vedono che le loro vittime sono braccate, indifese e ferite, sanno che non ci sono più limiti alla loro ferocia. E quindi attaccano. Qualcuno, come l'estensore di questo volantino, lo fa in maniera scomposta e probabilmente rimarrà a bocca asciutta. Ma tutti gli altri lo stanno facendo in silenzio, senza gridare, senza vantarsi, ma con la stessa cinica indifferenza per gli altri.
Vuoi continuare a lavorare? Va bene, sei brava. Ma intanto ti riduco l'orario di lavoro da 40 a 35 ore, anche se naturalmente continuerai a lavorare 40 ore, senza essere pagata per quelle cinque ore in più. Lei si può rifiutare? Teoricamente sì, ma praticamente no, perché il suo stipendio è l'unico che arriva in casa - e ovviamente il suo padrone lo sa - e ci sono altre venti ragazze che potrebbero sostituirla. Naturalmente questo non lo troverete scritto in nessun volantino, ma succede, è successo. E deve anche ringraziare di avere ancora un lavoro.
Al di là della retorica, questo è il renzismo. Al di là dei provvedimenti legislativi, che sono molto negativi e che hanno riportato il nostro paese agli anni Cinquanta, è il clima politico e sociale ad essere cambiato. I padroni sanno che questo governo è apertamente schierato al loro fianco, perché ogni giorno dice che deve essere più facile licenziare, perché non fa nulla per impedire che padroni disonesti si comportino in questo modo, perché non fa nulla di concreto per alleviare la crisi e la crisi è la migliore alleata dei padroni che vogliono sfruttare i lavoratori. Perché i padroni, questi padroni, con la crisi ci guadagnano: il lavoro costa meno - solo undici mensilità, come recita il volantino - ma loro continuano a venderci le cose prodotte da quel lavoratore meno "pretenzioso" allo stesso prezzo, e quindi la differenza, che è cresciuta, va tutta in tasca a loro. Alla faccia della crisi.
E quindi, benvenuti nel paese dove i lavoratori non si assumono, si comprano. 

mercoledì 1 aprile 2015

Considerazioni libere (399): a proposito di sfide...

Maurizio Landini ha molti pregi, ma uno dei più importanti è la capacità di esprimersi in maniera chiara. Lo ha fatto sabato a Roma, nella bella e riuscita manifestazione della Fiom - in cui eravamo in migliaia - e lo ha fatto domenica, in un appuntamento dello Spi a Medicina - in provincia di Bologna - a cui Zaira ed io abbiamo avuto l'opportunità di partecipare. Proprio perché parla chiaro, solo un interprete fazioso e molto "disinvolto" può fargli dire cose che in queste settimane non ha mai detto. Landini non ha mai detto di volere fare un nuovo partito, l'ennesimo nuovo partito di sinistra destinato a racimolare l'1 o il 2%, né ha detto di voler fare il federatore della sinistra che c'è, come ha fatto - con un prevedibile insuccesso - Antonio Ingroia. Landini ha forse un'ambizione politica - del tutto legittima - ma adesso credo occorra stare sul merito delle cose che dice, che sono importanti.
Landini è partito, come molti di noi, da una constatazione. Al di là di quello che dice di essere, il governo renzi è il primo esecutivo che ha deciso di attuare in maniera integrale - anzi accentuandone i caratteri regressivi - il programma scritto da Confindustria. Questo governo non si propone di mediare tra interessi sociali contrapposti, ma ha semplicemente deciso di schierarsi con un unico blocco sociale, quello dei padroni. Noi chiamiamo questa cosa destra, renzi e i renziani la chiamano sinistra, ma è poco importante la disquisizione sui nomi, quello che conta sono le cose e questo governo è quello che ha abolito i punti fondanti dello Statuto dei lavoratori, cosa che non aveva fatto neppure un esecutivo dichiaratamente di destra, come quello guidato da Silvio Berlusconi. E' il governo che attua, con pedissequa puntualità, tutti i punti indicati nella lettera della Bce dell'agosto 2011, che neppure Monti - che pure era stato messo lì a quello scopo - era riuscito a completare. Infine è il governo che propone una serie di riforme istituzionali che stravolgono l'impianto della Costituzione, prevedendo un'inedita concentrazione di potere nelle mani di chi guida il governo, a scapito delle assemblee legislative, degli enti locali e degli organi di garanzia. So che ai miei amici piddini fa male sentirselo ripetere, ma si tratta, né più né meno, di quanto auspicato da Licio Gelli nel Piano di rinascita nazionale, un testo che voleva essere eversivo. 
Partendo da qui, Landini lancia delle sfide.
Sfida prima di tutto il sindacato, il suo sindacato, la Cgil. Se siamo arrivati a questo punto non possiamo dire che la colpa è tutta degli altri, che la colpa è di renzi o di Berlusconi o della "casta". In Italia non c'è stato un colpo di stato, non ci siamo ritrovati un governo così pericolo all'improvviso. C'è stata una transizione lunga che ha coinvolto il nostro paese come tutto il resto dell'Europa. In questa transizione è mancata una riflessione critica a sinistra, anzi noi di sinistra abbiamo teorizzato - e agito di conseguenza - l'adesione ai valori del liberismo, abbiamo pensato che dal governo, da raggiungere in qualunque modo, potessimo cambiare un sistema economico - che intanto diventava sempre più potente e spietato - e che invece ha cambiato noi, ci ha fagocitato.
Pensate a cosa è successo al sistema cooperativo, a come si è trasformato, a come è diventato permeabile alla criminalità, perdendo progressivamente tutti gli anticorpi. Ovviamente sapete cosa è diventato il pd, anche per colpa nostra, che pure in quel partito non ci siamo mai entrati, ma abbiamo contribuito a metterne le basi, attraverso l'ultima fase dei Ds.
E la Cgil non poteva rimanere immune da questa deriva. Troppi di noi, nei posti di lavoro, ci siamo scontrati con una Cgil che si è limitata a difendere qualche rendita di posizione, se non qualche vero e proprio privilegio, che non ha avuto la capacità di farsi interprete di bisogni nuovi. E abbiamo visto, nel paese, un sindacato incapace di difendere i "nuovi" lavoratori - le partire Iva, gli atipici, i precari - un sindacato che preferiva resistere nel proprio ridotto, mentre i diritti venivano via via erosi. Naturalmente so che la Cgil è molto altro e io sono fiero di essere iscritto a questo sindacato. Ma proprio perché credo nel valore di questo strumento, perché vedo quello che fanno ogni giorno sul territorio, penso che siamo stati deboli e adesso questa debolezza la stiamo scontando, e con gli interessi, visto che i padroni - e il governo loro complice - ci vogliono semplicemente distruggere. Landini parla di un sindacato diverso, in cui gli iscritti abbiano più ruolo, in cui i delegati possano scegliere i dirigenti e definire le scelte di fondo di quella organizzazione. Capisco che qualche collega di Landini storca il naso di fronte a queste proposte - lo ha fatto domenica Carla Cantone - ma adesso è il momento di mettersi in gioco. Perché altrimenti ne saremo travolti.
Poi Landini sfida la politica. Quando dice che il pd di renzi ha deciso di scegliere come proprio interlocutore l'altra parte, dice anche che c'è un vuoto, perché nessuno è rimasto a presidiare questa parte dello schieramento. In piazza a Roma c'erano persone che, se domani dovessero votare, non saprebbero per chi farlo. Domenica a Medicina ho incontrato vecchi compagni - che non vedevo da tempo e con cui ho condiviso splendidi anni di militanza - confessare con tristezza che si sono ritirati dalla politica: sono risorse che la sinistra non può perdere. Sempre domenica Cantone non è riuscita ad uscire dallo schema pernicioso - e per noi alla lunga mortale - del "meno peggio": ha detto in sostanza che visto che di là c'è Salvini, c'è il populismo lepenista, c'è il fascismo di Casa Pound, dobbiamo lavorare affinché il pd cambi. E' un'illusione naturalmente: il pd non cambierà, perché - al netto del malaffare che ormai permea tanta parte di quel partito - è ormai renziano nelle viscere, perché renzi non è una malattia da cui si può guarire, non è un tumore che può essere estirpato, renzi è l'evoluzione a cui ci hanno condotto questi trent'anni e non è più possibile tornare indietro.
Landini in sostanza dice: c'è un vuoto e quel vuoto dobbiamo essere capaci di riempirlo. La sfida che lancia alla politica è tutta qui, e non è un caso che in fondo, al di là di alcuni atteggiamenti un po' di maniera, pochi nella sinistra politica abbiano davvero sposato l'idea della coalizione sociale. Su questo punto sono d'accordo con Landini: la sinistra deve avere una rappresentanza politica. Ci vorrà tempo per farla nascere, ma dovrà nascere.
E qui veniamo all'ultima sfida, che in qualche modo Landini lancia a tutti noi, a chi crede in certi valori, a chi si sente, nonostante tutto, di sinistra. Non possiamo stare qui ad aspettare la prossima manifestazione, le prossime elezioni, perché intanto "loro" di là lavorano e ci tolgono sempre più spazio, ci stringono la corda intorno al collo. Intanto dobbiamo dire che ci siamo, che ci siamo accorti del loro gioco, che non ci possono più abbindolare con il trucco del "meno peggio", perché loro sono a tutti gli effetti il "peggio". Dobbiamo far crescere idee, dobbiamo contarci e raccontarci, dobbiamo manifestare anche per piccole cose, perché devono sapere che non ci arrenderemo facilmente. Devono avere paura di noi, della nostra reazione, della nostra capacità di mobilitarci, devono sapere che qualunque cosa facciano noi siamo pronti a criticarli, anche a sfotterli, a lanciare contro di loro una pernacchia, magari quando fanno la ruota e si fanno applaudire dalle loro claque organizzate e prezzolate. 
Ma al di là di questa resistenza, soprattutto dobbiamo fare in modo che le persone non si sentano sole. E' la riflessione di Landini che domenica mi ha colpito di più. Le persone si sentono sole, perché vengono lasciate sole nei loro bisogni, nelle loro povertà, nelle loro difficoltà, perché "loro" hanno bisogno che noi siamo così deboli. Uno dei sensi della coalizione sociale è proprio questo: l'impegno a non lasciare solo nessuno.
Come sapete il 30 marzo abbiamo festeggiato i cent'anni di un grande protagonista della sinistra italiana: Pietro Ingrao. Io ho cercato di ricordarlo pubblicando su questo blog parte di una sua riflessione, di un discorso che fece nel novembre del 1975 per l'apertura di una sessione della "scuola di partito" delle Frattocchie. Ingrao parlava allora di "socializzazione della politica", per dire che la politica deve entrare nelle cose, nella concretezza della vita delle persone. Forse, dopo quarant'anni, è necessario ripartire da qui, da questa idea di trasformazione radicale della società, per dare concretezza alla democrazia.

lunedì 30 marzo 2015

da "Che significa oggi fare politica" di Pietro Ingrao

da Rinascita, 14 novembre 1975

Ma c'è un altro aspetto che forse non è ancora sufficientemente chiaro: e riguarda la ne­cessità che - per uscire dalla crisi eco­nomica - si vada a nuove combinazioni (le chiamerei così) di momenti produtti­vi, a un intreccio originale di diverse competenze settoriali, e - in rapporto a ciò - ad una vera e propria invenzione di nuovi, ruoli sociali e di nuove forme di vita e direzione politica. Non basta insomma un coordinamento dell'esistente. C'è bisogno di una creatività sociale e politica. Quando parliamo di maggiore connessione fra scienza e produzione, dob­biamo pensare ad una maggiore incorpo­razione nella vita produttiva non solo di nuove tecnologie, ma - vorrei dire - an­che di scienza politica, di nuova cono­scenza della società e dello Stato.
Gli esempi emergono dai fatti e dalle lotte di ogni giorno. Si parla oggi di una programmazione articolata, decentrata a livello del potere locale, per individuare e realizzare, a livello ravvicinato, un col­legamento fra riforma nelle campagne e riconversione industriale, e giungere ad una organizzazione di consumi collettivi che dia un punto di riferimento alla pro­duzione. Questa sembra la strada attra­verso cui gli organi di potere locali pos­sono trovare il loro volto moderno e ri­spondere alla domanda impetuosa che og­gi li incalza e a volte li travolge. Ma ciò richiede una creazione diffusa di compe­tenze combinate, che va contro un'orga­nizzazione della direzione politica, concentrata in una somma di carrozzoni ministeriali, i quali agiscono dall'alto e se­parati.
Ancora. E' possibile che il campo ri­bollente della scuola possa durare nelle condizioni di caos, di crisi di identità e quindi di spreco che oggi lo travaglia? Sembra logico che si vada ad una ridefinizione del suo ruolo nella società e quindi del suo rapporto col lavoro produttivo. E' cosa urgente. Un tale cambiamento di contenuti, di ruolo, di collocazione nella società, appare possibile solo con una irruzione ancora più forte della società dentro la scuola (famiglie, organismi so­ciali, forze culturali) che si colleghi però con una proposta generale, con una idea dello Stato, con una sua riqualificazione.
E così, sembra arduo misurarsi con i problemi della salute, come si presenta­no ormai al nostro tempo e alla nostra coscienza, senza che si producano livelli diversi e più diffusi e più coordinati di sapere e di pratica medica, i quali colmino l'attuale distanza tra il grande "luminare" e il malato, evitino l'astrazione della ma­lattia e della sua cura dall'ambiente di vita, ci portino fuori dall'ingolfamento che sta riducendo la rete degli ospedali a stra­ripanti "ammucchiate". Ecco allora che la ricerca e la sperimentazione di me­todi e ruoli nuovi, che ancora ieri sem­brava esercizio utopistico, comincia ad ap­parire necessità razionale, bisogno di eco­nomicità, per evitare assurde dispersioni di ricchezza, materiale ed intellettuale, guasti nelle terapie, crisi delle profes­sioni.
Ecco, insomma, tutta una serie di cam­pi in cui bisogni elementari domandano ormai un altro modo di essere dello Stato che poggi su nuovi modelli di organizza­zione sociale. Il privatismo non regge più. Anzi tanti momenti privati della nostra vita rimandano sempre più al modo con cui è organizzato lo Stato: rimandano al­la politica nel suo significato più generale, nel senso che, per affrontare e risolvere certi problemi, diviene indispensabile non fermarsi a visioni settoriali, ma risalire alle connessioni fra l'uno e l'altro aspetto dello Stato, alle forme politiche e giuridiche più complesse in cui si realizza oggi il rapporto Stato-società e Stato-econo­mia. Parlavo del voto del 15 giugno. Credo che ciascuno di noi potrebbe por­tare esempi di gente che ha votato per noi, a sinistra, perché nella sua vita pri­vata, e ancora più nella sua "professio­ne", si è scontrata più di ieri con una disfunzione dello Stato, che non gli appa­re più settoriale, particolare, ma che co­mincia ad apparirgli generale, per così dire organica. Questa è la conferma di come la politica, nel suo senso più consapevole e più profondo, c'entri sempre di più nelle cose. Ma proprio perché tanti mo­menti della nostra vita sembrano intri­dersi sempre più direttamente di politica, essa non può restarsene confinata in al­to, né ridursi a una delega a gruppi illu­minati di vertice. Quella incorporazione di scienza politica, di direzione program­mata nell'attività produttiva e sociale, che è la grande spinta che scaturisce dai pro­blemi, se vuole essere effettiva, deve di­ventare diffusa e penetrante, deve diven­tare processo di massa che coinvolga e trasformi milioni di uomini e di donne e si realizzi in una molteplicità di livelli e di sedi. Il bisogno di "socializzazione della politica" si presenta sempre meno come sogno generoso, come astratta domanda di democrazia, e sempre più come necessità pratica, "economica". E d'al­tra non è proprio questo processo diffuso di "socializzazione della politica" la via vera non solo per dare concretezza alla democrazia, ma anche per giungere dalla confusione attuale a quello che noi chiamiamo un ordine nuovo e cioè per far camminare una disciplina reale, che sappia fare fronte ai rischi enormi di di­sgregazione, di frantumazione corporativa, che è poi spazio aperto all'autoritari­smo?

mercoledì 25 marzo 2015

Verba volant (172): cittadinanza...

Cittadinanza, sost. f.

Da vecchio internazionalista non ho mai dato un grande valore alla cittadinanza, né alla mia - anche perché non mi sento particolarmente orgoglioso di essere italiano - né a quella degli altri: un uomo - e una donna - valgono per quello che sono, per quello che pensano, per quello che fanno, per quello per cui lottano. E tutti gli uomini sono uguali, indipendentemente da dove sono nati. Però, da ufficiale d'anagrafe, so quanto sia importante la cittadinanza, per i diritti e i doveri che comporta; vedo la soddisfazione degli stranieri quando cambiano finalmente la carta d'identità perché sono diventati, dopo molti anni in cui vivono qui e dopo un iter complicato e costoso, cittadini italiani.
Premetto anche che io sono uno di quelli che vorrebbero che in Italia fosse applicato lo ius soli, ossia credo che possa diventare cittadino italiano chiunque nasca su suolo italiano: mi sembra un criterio oggettivo che prescinde dalla cittadinanza dei genitori - non sempre facile da definire - e da altre valutazioni di natura politica e burocratica. Sinceramente trovo ingiusto che adesso possano votare persone che non hanno mai messo piede in Italia, che sono nate e sempre vissute all'estero, solo perché un loro bisnonno era italiano, e che non lo possano fare persone che vivono in Italia, che lavorano in Italia, che pagano le tasse in Italia, ma i cui genitori sono senegalesi o filippini o ucraini.
Scrivo questa definizione perché, grazie al calcio - l'unico vero argomento di cui pare importare qualcosa alla maggioranza di chi vive in questo paese - si torna a parlare del tema. E ci si divide sull'opportunità o meno di convocare gli oriundi; dal momento che siamo tutti decubertiani, gli oriundi vanno bene quando vinciamo e vanno male quando perdiamo.
Non è questo però quello di cui voglio parlare. Legata a questa vicenda, leggo che il governo appoggia in maniera autorevole la proposta di legge di istituire la cosiddetta cittadinanza sportiva, che garantirebbe di diventare italiani ai minori stranieri tesserati nel nostro paese entro i dieci anni. Viste le premesse non sono tendenzialmente contrario a questa proposta, che comunque allarga la possibilità degli stranieri più giovani di diventare cittadini italiani, ma francamente ne temo le conseguenze. L'opportunità di essere tesserati verrà venduta da società sportive senza scrupoli a famiglie che fanno già fatica a sbarcare il lunario e che dovranno fare questo ulteriore sacrificio per garantire questo beneficio ai loro figli. Succederà - con meno rischi e molte meno possibilità di essere scoperti - quello che succede già con il mercato dei matrimoni: il racket della prostituzione usa le nozze con vecchi italiani, che vengono comprati con pochi soldi - visto il gramo livello delle pensioni dell'Inps - per "regolarizzare" ragazze che arrivano in Italia da ogni paese del mondo. Al di là del giro di soldi "sporchi" e del malaffare che si muoverà intorno a questa proposta - che servirà naturalmente ad arricchire la criminalità organizzata, che si conferma main sponsor di questo governo - è curioso che lo sport sia l'unico motivo che spinge la nostra malmessa classe politica e la cosiddetta società civile che la vota e la sostiene - ossia ne è complice - ad affrontare finalmente un tema così importante.
Mi rendo conto che entro i dieci anni è difficile valutare altre doti di un bambino e di una bambina, ma perché non istituire anche la cittadinanza scientifica? Se accettiamo l'idea che il nostro paese ha così bisogno di calciatori, da modificare una legge che molti considerano scolpita nella pietra, pur di ingrossare i vivai delle nostre società sportive, non siamo disposti a cambiare la legge per avere più ingegneri, più scienziati, magari più filosofi e perfino più poeti?
Chi conosce i bambini sa bene che non si controllano la cittadinanza a vicenda per diventare amici e per giocare insieme. Non è importante sapere che cittadinanza abbia un bambino o una bambina; la cosa importante è che venga educato per diventare un calciatore o uno scienziato o qualsiasi altra cosa, è importante che diventi una persona che sappia fare il proprio lavoro con coscienza e serietà.
Partiamo dalla scuola e proviamo a immaginare che il criterio per l’attribuzione della cittadinanza sia quello culturale: è cittadino chiunque, nato in Italia, risulti legato ai valori essenziali della nostra comunità, definiti dalla Costituzione. Fatto salvo il principio, dovremmo - senza isterismi e senza ipocrisie - provare a fissare dei parametri per compiere tale valutazione. Personalmente credo che un periodo di alcuni anni - meno di dieci, però - di residenza, lo svolgimento di un ciclo scolastico o universitario, l'inserimento nel mondo del lavoro, la regolarità contributiva, possano essere elementi utili. Non mi sembra irragionevole prevedere anche un percorso per gradi.
In questo modo potremmo costruire una comunità politica che sia prima di tutto culturale, e non più etnica. Perché l'Italia ha bisogno, prima di tutto, di cittadini.

lunedì 23 marzo 2015

Verba volant (171): pollo...

Pollo, sost. m.

Il termine latino pullus deriva dal greco polos e indica in maniera generica ogni animale ancora giovane, un puledro, un pulcino, e, usato come un vezzeggiativo, anche il cucciolo di uomo; la radice pu- è molto antica e rimanda, già nel sanscrito, all'atto di procreare, di generare. La parola italiana è il nome generico con cui chiamiamo i gallinacei domestici, soprattutto per indicare le specie che si allevano per la carne e si considerano sotto un aspetto culinario. Pellegrino Artusi illustra ben diciotto ricette con il pollo, da quello semplicemente lesso al ben più sostanzioso alla cacciatora. In questa definizione voglio parlare proprio dei polli che mangiamo (anche se non darò nessuna ricetta).
L'università dell'Ohio ha studiato i polli e ha scoperto un dato interessante. Nel 1957 un pulcino appena nato pesava circa 34 grammi, mentre nel 2005 44 grammi; sempre nel '57, quello stesso animale, dopo 56 giorni dalla nascita, pesava circa 905 grammi (un aumento di circa 15 grammi al giorno), mentre nel 2005 il suo peso arrivava ben a 4,202 chilogrammi (l'aumento è di 74 grammi al giorno). Per fare una sintesi, in cinquant'anni il peso del pollo è più che quadruplicato e soprattutto siamo riusciti a incidere sulla sua velocità di crescita. Il maggior peso è stato concentrato per lo più nel petto. Probabilmente questi dati sono già cambiati, dal momento che, nonostante la crescita di questi decenni, i polli non hanno ancora raggiunto il peso massimo consentito dalla loro struttura corporea: e naturalmente c'è chi studia per raggiungere il prima possibile questo limite. E, se possibile, per superarlo.
Mentre nei giorni scorsi leggevo questa notizia e prendevo qualche appunto per la definizione che adesso avete la pazienza di leggere, è scoppiata la polemica tra Domenico Dolce ed Elton John sui "figli sintetici". Vista la notorietà pop di questi due personaggi sul tema si è scatenata una vivace discussione, in cui molti ribadivano la necessità di non forzare la natura e quindi di lasciare che i cuccioli di uomo nascano attraverso il sistema tradizionalmente conosciuto. Va bene, credo anch'io che la natura sia importante e vada rispettata, ma come mai la natura non interessa più a nessuno quando parliamo dei polli?
Io non sono un animalista, sono un carnivoro che mangia, tra gli altri animali, anche i polli, però credo che dovremmo interrogarci anche su questa crescita, che ci può apparire naturale, ma è assolutamente artificiale, dettata unicamente dalle regole del mercato.
Sempre l'università dell'Ohio ha rilevato quanto sia aumentato il consumo di pollo negli Stati Uniti. Negli ultimi trent'anni c'è stata una vera e propria ossessione a sostituire la carne rossa con la carne bianca. Un americano mangia in media 35 chili di pollo all'anno; che poi una parte consistente di questo pollo venga consumato dopo essere stato pesantemente fritto è un'altra storia, che spiega come mai i bambini americani siano così obesi. Anche perché le patatine fritte non sono verdura.
I polli "naturali", quelli che nascevano di 34 grammi, non sarebbero mai bastati per soddisfare il bisogno dei venditori di pollo di far mangiare questa pietanza agli americani e dal momento che non volevano neppure allevare più polli, cosa che avrebbe aumentato i costi - e quindi diminuito i loro guadagni - hanno cominciato a studiare come far crescere ogni singolo pollo, come aumentare la carne in ciascun petto. E siccome hanno insegnato agli americani a mangiare la carne bianca dei petti, hanno anche cosce, ovviamente più grosse, che vendono ai paesi più poveri, che devono accontentarsi di quello che "non piace" negli Stati Uniti.
Per parafrasare lo stilista milanese questi non sono "polli sintetici"? Lo sono, ma dal momento che l'unico obiettivo è quello di spendere poco e di incassare molto, ossia di guadagnare sempre di più, in nome del sacro dio dollaro, siamo disposti a sorvolare su tutto il resto, senza farci troppe domande. Vale per i polli, ma vale per tutto il nostro rapporto con la natura: noi vogliamo costantemente forzarne i limiti. Gli scienziati che hanno creato - come novelli Frankenstein - questi super-polli, hanno applicato, tra le altre cose, le leggi darwinanie della selezione naturale, ma qui non c'è nulla di naturale: ai polli non serve avere un petto grande, anzi probabilmente li fa vivere peggio, ma a noi non interessa. A noi interessa che il pollo costi poco e che continui a essere un cibo popolare: è facile convincere le persone a mangiarne sempre di più, guadagnando sempre di più. Bisogna solo continuare ad aumentare il peso dei polli. Ma anche questo è semplice, solo che non è lecito: è immorale, perché forza i limiti che la natura ha posto e che noi uomini dobbiamo saper riconoscere e accettare.
Dante Alighieri mette nel terzo girone del settimo cerchio dell'Inferno coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, come spiega un anonimo commentatore del XIV secolo. Il poeta, senza mai citarla, si riferisce in particolare alla sodomia, ma quanti uomini nei nostri tempi peccano facendo violenza alla natura? Naturalmente non mi riferisco a Dolce e Gabbana, che ovviamente sono liberi di fare quello che vogliono. Chi fa crescere un pollo quattro volte più del normale, solo per arricchirsi, meriterebbe di camminare in eterno sul sabbione, colpito da una pioggia di fuoco.
Mi rendo conto che in una società in cui si applica costantemente e sistematicamente lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, probabilmente interessa poco lo sfruttamento dell'uomo sul pollo, eppure se ci pensate è qualcosa che nasce nello stesso modo, seguendo una stessa logica perversa, quella secondo cui tutto è lecito, in nome del guadagno individuale. Invece non è così. Prima lo impareremo, meglio sarà. Per gli uomini, e per i polli.

giovedì 19 marzo 2015

Considerazioni libere (398): a proposito della ricostruizione della sinistra...

So che dell'argomento ho appena scritto, ma francamente mi sembra la novità più rilevante da molto tempo nel campo travagliato della sinistra italiana. Io sostengo la proposta di Maurizio Landini e della Fiom di costituire quella che ormai abbiamo cominciato a chiamare coalizione sociale, parteciperò alla manifestazione di sabato 28 marzo a Roma e farò, nel mio piccolissimo, quello che posso per sostenere questa proposta politica, cercando di valorizzarne il carattere di originalità, sperando che non diventi l'ennesimo esperimento concluso male, l'ennesima occasione di rimpianti e recriminazioni.
Come ho scritto, credo che ci troviamo di fronte ad un'emergenza democratica e sociale: la risposta deve essere di conseguenza. I lavoratori sono sotto attacco, in un modo e con una violenza a cui non eravamo abituati; a questa situazione dobbiamo reagire, con la politica, in forme inedite, perché l'attacco è inedito, e radicali e rivoluzionarie - non spaventatevi di questa parola - perché l'attacco che stiamo subendo è di carattere eversivo.
Come sapete, sono politicamente un residuato del secolo scorso e di fronte a una proposta nata in questa modo, con queste caratteristiche, mi rimangono parecchi dubbi sul metodo. C'è in particolare questa accentuazione sul nome di Maurizio Landini che fatico ad accettare, perché per me un progetto politico deve partire dalle idee e dai valori, da un gruppo dirigente diffuso, da un radicamento ampio sul territorio, prima che da un leader, per quanto capace e carismatico, come si sta dimostrando in questa fase il segretario della Fiom. Che ci piaccia o no - a me non piace ovviamente - la nostra società è dominata dai media e quindi, nonostante tutti i nostri dubbi, tutti i nostri distinguo intellettualoidi, in Italia abbiamo bisogno di una persona come Alexis Tsipras, come Pablo Iglesias, abbiamo bisogno di un leader nuovo, che abbia un'impronta popolare e che sia capace di stare in televisione in maniera efficace. Landini ha queste caratteristiche e in più rispetto a quei due leader ha un legame forte - più forte del loro - con il mondo del lavoro salariato, con la fabbrica. Come ho scritto più volte, uno dei risultati più evidenti di questi decenni di incontrastato dominio dell'ideologia ultraliberista è stato la distruzione dei corpi intermedi, trasformando la politica in un rapporto diretto tra leader e popolo. Non abbiamo tempo di costruire adesso dei nuovi corpi intermedi; è una cosa che dovremmo fare - assolutamente - ma adesso siamo in guerra e dobbiamo combattere, con le armi che ci hanno messo a disposizione, anche se non siamo stati abituati ad usarle.
Certo nessuno può mettere in dubbio che Landini sia di sinistra e che la coalizione sociale nasca robustamente a sinistra - altrimenti molti di noi non sarebbero qui - eppure deve essere capace di parlare anche ad un mondo in cui questa identificazione identitaria non ha alcun senso. Anche questo può non piacerci - a me non piace - ma c'è una generazione a cui non importa nulla di sapere se sei di destra o di sinistra, anche perché nella sua vita non ha mai potuto apprezzare - nei comportamenti e nell'azione politica - una distinzione reale tra queste due categorie. Se vogliamo recuperare una parte del voto che in questi anni ha trovato casa nel Movimento Cinque stelle e soprattutto parlare a una parte significativa di chi si è naturalmente astenuto, non serve sventolare un drappo rosso - che scalda i nostri cuori, ma non i loro - ma bisogna saper usare un linguaggio diverso, in cui deve trovare spazio anche una qualche forma di populismo. Molti di noi non ne sono capaci - non ci hanno insegnato così - ma Landini mi pare lo sia. E quindi va bene così.
Un'altra cosa su cui non dovremmo perdere tempo - mentre vedo che ne perdiamo parecchio nei nostri dibattiti, spesso futili, per quanto interessanti - è la distinzione e la contrapposizione tra coalizione sociale e soggetto politico. La cosa importante adesso è aggregare le persone che lavorano nella società su alcuni temi, come ha ricordato in questi giorni Stefano Rodotà:
tutela dei diritti sociali, partecipazione, riconoscimento dei nuovi diritti civili, considerazione dei beni in relazione alla loro essenzialità per la soddisfazione di bisogni sociali e culturali, rafforzamento dei legami sociali attraverso la pratica della solidarietà, necessità di agire nella dimensione sovranazionale e internazionale in maniera coerente con queste indicazioni.
E naturalmente il grande tema del lavoro - e dei lavori - su cui il sindacato sta già svolgendo un'azione importante. Ed è abbastanza naturale che la nostra azione sia partita da lì, anche perché è proprio contro il lavoro - privato e pubblico - che l'azione del governo è più violenta ed eversiva, in particolare nel rapporto tra democrazia e lavoro, come è stato sancito in maniera altissima dall'art. 1 della Costituzione.
Torno sul punto che ritengo fondamentale, anche perché vorrei rispondere alle compagne e ai compagni che hanno ancora dubbi, che non vogliono fare un ulteriore passo verso la coalizione sociale, che trovano più motivi per ritrarsi e dissentire che per unirsi alla lotta. Ci sono parole - sinistra, socialismo, comunismo - che non parlano più alle persone, che non dicono nulla, che lasciano - quando va bene - indifferenti, ci sono strumenti, come i partiti e i sindacati, su cui non c'è più alcuna fiducia e che anzi vengono genericamente indicati, senza alcuna distinzione, tra i responsabili della crisi. Per molti di noi queste parole hanno un significato, questi strumenti devono continuare ad esistere, però dobbiamo accettare che per tanti non è così. Quindi smettiamo di parlare di sinistra, della sinistra che c'era, di quella che dovrebbe esserci, di quella che ciascuno di noi legittimamente vorrebbe e sogna, e partiamo dalla concretezza dei temi, dalle cose da fare e dalle persone, in carne ed ossa, che le fanno. Troveremo molte persone che nel nostro paese, nelle zone più difficili, nelle periferie - come le chiama il papa - reali e metaforiche, fanno delle cose. Per gli altri. Non sappiamo questi se votano e come votano. E' qualcosa di cui dovremo occuparci dopo, senza farci prendere dalla fretta, senza voler per forza cercare di essere pronti per questa o quella prova elettorale. Adesso non è la cosa più importante.
Adesso la cosa importante è ricostruire l'alfabeto primario della sinistra, proprio a partire dalle cose, riconoscere che aiutare una persona, in qualsiasi modo lo si faccia, è un gesto di sinistra; che lottare per affermare un diritto, negato o non riconosciuto, è un gesto di sinistra; che difendere un bene comune, che qualcuno vuole sottrarre alla collettività, è un gesto di sinistra; che fare una battaglia contro la mercificazione del lavoro, per ridare dignità al lavoro, è un gesto di sinistra. Bisogna ricostruire questo lessico, a partire dai concetti di solidarietà, di giustizia, di etica del lavoro, di legalità, di responsabilità civica. E dobbiamo ricordarci che questi trent'anni hanno pesato in maniera drammatica non tanto sulla politica quanto su questa dimensione che vorrei dire pre-politica, che è stata come annientata, in nomi di valori del tutto opposti.
Spero che la Cgil, la maggioranza della Cgil, che i rappresentanti di quei partiti che in qualche modo presidiano quest'area, se ne rendano conto, partecipando a questo lavoro di base, di educazione ai valori; altrimenti saremo travolti. Tutti. Dovremo farlo, senza fretta, ma con determinazione, partendo dalle energie che ci sono: questo per me è il senso autentico della coalizione sociale. Per questo il progetto non è in conflitto con il sindacato, ma anzi lo aiuta e ne rafforza l'azione; ad esempio allo stato attuale, con questo livello di consapevolezza politica e sociale, il referendum per abrogare il jobs act sarebbe destinato alla sconfitta. Per questo il progetto non è in conflitto con la politica, ma ne costituisce un elemento vivificante.
Prima di tutto ridiamo dignità ai nostri valori, ridiamo senso alle parole. Anche guardandoci negli occhi, in piazza e nei luoghi di lavoro, e imparando a riconoscerci.

giovedì 12 marzo 2015

Considerazioni libere (397): a proposito di coalizione sociale...

Quello che sta succedendo in questi giorni nel nostro paese rende sempre più necessaria e urgente la creazione, tra noi di sinistra, di una coalizione sociale, ampia e resistente. Uso questo aggettivo non a caso, perché credo occorra trovare tra di noi uno spirito di collaborazione tra diversi, che fino ad ora è evidentemente mancato e ci ha resi deboli, in balia di una forza che, diventata egemone culturalmente prima che politicamente, ci sta lentamente fagocitando.
Il partito di governo è sempre più forte e sempre più arrogante. In questo momento non esiste alcuna alternativa politica possibile al blocco di potere che si è aggregato intorno al pd renziano. I piccoli partiti della sinistra radicale, oltre a essere divisi da suggestioni ideologiche a questo punto incomprensibili - che spesso nascondono antipatie personali e rancori, ancora più incomprensibili - sono in alcuni casi tentati dal rapporto con il monolite renziano, nell'illusione, per loro mortale, di riuscire a spostarne il baricentro politico, che rimane invece ormai saldamente ancorato a destra. Mi dispiace doverlo dire ancora una volta, ma la parabola di Vendola è ormai finita, visto anche che è al termine la sua esperienza amministrativa, che ha avuto qualche luce, ma troppe ombre.
A destra l'unica prospettiva possibile - e l'unica che viene mantenuta in vita dal sistema dei media, finanziati da quegli stessi poteri che finanziano il pd - è quella della Lega, a cui presto o tardi si unirà anche quel che rimane del populismo berlusconiano. Renzi ha interesse ad avere come unico interlocutore ed avversario una destra impresentabile e credo lo vedremo presto alle elezioni regionali in Veneto: la radicalizzazione lepenista della Lega, il suo abbraccio con i cascami del fascismo italiano, l'uscita di amministratori moderati di centrodestra come Tosi, favoriscono il pd anche in quella regione finora ostile, perfino con una candidata impresentabile come Alessandra Moretti.
Poi c'è Grillo, la cui forza politica, per quanto non irrilevante, rimane ai margini, finendo comunque per costituire un puntello per l'egemonia renziana. Se le alternative sono Salvini o Grillo, Renzi diviene un candidato accettabile perfino per un pezzo - grande, troppo grande - della sinistra. In questo è evidente la forza del pd di Renzi, non tanto nella capacità di attrarre una parte di ceto politico - Migliore e la Giannini sono le maschere farsesche di quel trasformismo che è così tipico nel nostro paese.
Non illudiamoci poi che nasca una qualche resistenza dentro al pd: al di là di qualche dichiarazione, forse di qualche uscita che avverrà nei prossimi mesi, non è da lì che rinascerà un barlume di sinistra in Italia. Anche perché il pd è figlio - per quanto degenere e degenerato - dei Ds, è figlio nostro, della nostra incapacità di elaborare una risposta politica di sinistra all'affermazione sfrontata e violenta dell'ideologia ultraliberista. Noi, con le nostre "terze vie", con i nostri ragionamenti capziosi sul riformismo, con la nostra incessante ricerca del centro, e soprattutto con una pratica di governo, nazionale e locale, che non ha dato un segno forte, ma ha semplicemente scimmiottato le politiche di destra, siamo i responsabili della nascita di Renzi. E quindi suonano un po' patetiche - al di là della simpatia personale che io continuo ad avere per l'uomo - certe riflessioni di Bersani. Noi - e non Renzi - siamo quelli che abbiamo finanziato le scuole paritarie, che abbiamo introdotto una miriade di contratti atipici, che abbiamo privatizzato tanti beni pubblici e la lista potrebbe continuare; mi fermo per carità di patria. Scusate, ci siamo sbagliati. Adesso proviamo a ripartire, anche forti di quegli errori.
Il segno della forza di questo disegno egemonico - di cui Renzi è soltanto la punta dell'iceberg, la faccia presentabile e manovrabile, da spendere in campagna elettorale - è in due provvedimenti con cui il governo in questi giorni - e significativamente uno dopo l'altro, uno insieme all'altro - ha voluto rendere evidente il proprio disegno "riformatore", come lo chiamano loro: la pesante modifica dello Statuto dei lavoratori, con la cancellazione dell'art. 18 e l'introduzione del demansionamento, e la riforma costituzionale - peraltro votata dalla sola maggioranza - con l'abolizione del senato, lo spostamento del potere sull'esecutivo e la riscrittura di quasi tutta la seconda parte della Costituzione. Questi due provvedimenti, anche nel loro carattere simbolico, svelano il carattere autoritario e di destra di questa maggioranza, a cui si accompagna una retorica genericamente rivolta alla coesione sociale, tesa a impedire il conflitto, a presentare la lotta sociale come un male in sé.
E non a caso adesso il nuovo bersaglio di questa forza egemonica, dopo aver annientato il maggior partito del centrosinistra, è la Cgil, ossia l'ultimo corpo sociale intermedio rimasto nel paese. Per un potere autoritario e populista i corpi intermedi sono un intralcio, perché ha bisogno di entrare in una relazione emozionale con il popolo, senza passaggi intermedi. E quando non funziona l'incantesimo ci si può sempre rivolgere ai cacicchi di turno, ai vari De Luca sparsi per la provincia italiana, ai sempiterni gestori di clientele. Lo so che la Cgil ha delle responsabilità per quello che è successo, sono parte delle responsabilità di cui parlavo prima, quelle che abbiamo anche noi, però non possiamo fare l'errore di accodarci a quelli che sputano su questo sindacato - sugli altri due sputiamo pure, non meritano di più - ne abbiamo bisogno adesso e ne avremo bisogno dopo. Senza la Cgil, pur con tutti i suoi limiti - e magari un po' meglio di quella con cui ci confrontiamo adesso, un po' più consapevole del suo ruolo politico e sociale in questa fase di emergenza, un po' meno attenta a certi equilibri politici e più attenta ai bisogni degli ultimi della società, un po' più di lotta e un po' meno di governo, come si diceva con un antico slogan - non nascerà la coalizione sociale.
Questo governo ha chiaramente scelto da che parte stare, senza infingimenti: dalla parte di Confindustria, dei padroni, delle rendite, di cui ha sposato il programma, in parte andando perfino oltre i loro desiderata - un po' come successe negli anni Venti con  il fascismo - e garantendo a queste forze tutti i vantaggi legati alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni. Perché purtroppo il capitalismo italiano non è solo feroce ed avido, come quello degli altri paesi, è anche disonesto, arruffone, sempre pronto a legarsi alla criminalità. E adesso è vincente, e senza freni.
Spero di aver chiarito che si tratta di una situazione di emergenza, un'emergenza a un tempo democratica e sociale, a cui dobbiamo rispondere in maniera decisa, con risposte di emergenza. Prima di tutto rinunciando alle primogeniture, agli esami dei quarti di nobiltà di sinistra dei nostri interlocutori. Se hai fame, prima di chiederti di partecipare alla coalizione sociale, dovrei provare a offrirti un pasto, se sei malato, prima di chiederti di votare per la sinistra, dovrei provare a curarti. Noi non abbiamo ancora le pezze al culo come la Grecia - anche perché nelle regioni più povere del Mezzogiorno la criminalità organizzata sostituisce lo stato nella gestione del welfare - ma ci arriveremo e, se ci arriveremo avendo già l'idea di costruire una rete solidale di mense, di ambulatori, di servizi di aiuto per i bambini, per gli anziani soli, per i più deboli, la rinascita di una sinistra sociale sarà un po' meno difficile. E partirà da lì o non ripartirà.
Visto che loro ci attaccano sui fondamentali, ossia su democrazia e lavoro, noi dobbiamo resistere su questi stessi fondamentali, riscoprendo i valori fondanti di una sinistra che deve essere critica in maniera spietata degli attuali rapporti sociali e deve avere l'ambizione rivoluzionaria di trasformarli. In maniera radicale e non violenta.
Un compagno ha richiamato giustamente un pensiero di Antonio Gramsci che faccio mio:
Mi sono convinto che anche quando tutto è perduto, bisogna mettersi tranquillamente all'opera ricominciando dall'inizio.
Adesso tutto è perduto e noi non siamo tranquilli, siamo esasperati, siamo arrabbiati - e dobbiamo continuare ad esserlo - e per questo dobbiamo ricominciare dall'inizio, da una coalizione sociale che affondi nel territorio, avendo come valori la Costituzione, il lavoro, l'uguaglianza, la solidarietà.

mercoledì 11 marzo 2015

Verba volant (170): semplificare...

Semplificare, v. tr.

In Italia pagare le tasse è difficile e infatti molti, per evitare l'incomodo e per non sbagliare, preferiscono non pagarle. Naturalmente ci sono degli ostinati, per lo più lavoratori dipendenti e pensionati, che, nonostante la complessità della materia e il bizantinismo del fisco italiano, si ostinano ogni anno a pagarle, addirittura denunciandosi, ogni primavera, alle autorità costituite.
Nella sua magnanimità il governo italiano ha pensato a loro, anche se queste categorie non gli sono particolarmente simpatiche, visto che questi continuano a lamentarsi: che le pensioni sono basse, che i salari diminuiscono, che ci sono sempre meno diritti. Addirittura vanno in piazza contro il governo, che li tratta così bene. Renzi li considera - giustamente - degli ingrati e per questo preferisce di gran lunga la compagnia di quei valorosi italiani che hanno portato i loro soldi nei paradisi fiscali e hanno quindi parecchio tempo libero, visto che non devono pagare le tasse; nonostante ciò, ha deciso di aiutare anche i testardi che vogliono comunque pagarle, mandando loro a casa il 730 precompilato.
A dire il vero se siete lavoratori dipendenti o pensionati non aspettatevi di ricevere a casa una busta dal governo: la carta costa e poi è così poco moderna. Vi dovrete prima accreditare sul sito internet dell'Agenzia delle Entrate, poi riceverete il vostro pin e così finalmente potrete accedere al vostro "cassetto fiscale", dove potete scaricare il 730 precompilato. Come vedete la cosa è piuttosto semplice, anche se in Italia siamo in fondo alle classifiche europee per quel che riguarda l'uso della rete - un terzo degli italiani non ha mai navigato - la diffusione della banda larga e la velocità di banda.
Facciamo finta che siate riusciti a scaricare il vostro 730 precompilato. Fate attenzione perché alcune cose ci sono e altre non ci sono. Ci saranno i redditi comunica­ti dal vostro datore di lavoro o dall'Inps, gli interessi passivi sui mutui, i premi pagati per le assicurazioni sulla vita, le polizze infortuni e i contributi previdenziali. Anche ammettendo che tutti questi dati siano esatti - comunque fossi in voi un controllo lo farei, visto il livello della burocrazia italiana - mancano le spese mediche, le tasse scolastiche e universitarie, le spese di ristrutturazione e altre cose che, da contribuente, hai interesse a dichiarare, per pagare un po' meno tasse; perché, per quanto tu sia testardo e ti ostini a voler pagare le tasse, non ne vuoi pagare più del dovuto.
Non credere comunque che per il solo fatto che il governo ti ha messo a disposizione il 730 precompilato tu sia a posto con il fisco. Se non accedi al "cassetto" e devi pagare, sarai multato, mentre se tu fossi a credito, non sarai rimborsato. Devi confermare o modificare la tua dichiarazione. Se la modifichi, sta' attento, perché a quel punto sarai responsabile di tutto, compresi i dati inseriti dall'Agenzia delle Entrate, anche se lo sbaglio lo hanno fatto loro.
E' più semplice questo sistema? Io qualche dubbio ce l'ho. Questa tanto strombazzata riforma del fisco non affronta il cuore del problema, ossia non serve a semplificare il sistema fiscale, anzi in qualche modo lo complica, perché con pochissimo tempo per informare le persone, ha scaricato i problemi sui cittadini e anche su quelle strutture che li aiutano ad affrontare ogni anno la dichiarazione dei redditi.
Perché bisogna dire che questa riforma è stata fatta anche - e forse soprattutto - per colpire i caf e quindi i sindacati, uno dei bersagli preferiti di questo governo, che odia i corpi intermedi e fa di tutto per distruggerli. Così ad esempio, per risolvere i problemi di contenzioso, il governo ha deciso di scaricare sul sistema dei caf le responsabilità di ogni cosa, compresa l'assunzione dei rischi economici dell'infedeltà delle dichiarazioni. Quindi il caf deve risarcire il fisco per qualsiasi infedeltà della dichiarazione, compreso l'errore di digitazione. Per concludere, da un lato si danno maggiori responsabilità ai caf e dall'altro si tolgono risorse, così i caf piccoli saranno costretti a chiudere e quelli più grandi, ad esempio quello della Cgil, faranno fatica ad andare avanti, per la gioia di questo governo di destra.
In sostanza il governo dice al cittadino contribuente: questo è il tuo 730 precompilato, se lo accetti così com'è io non ti controllo, ma se tu lo vuoi modificare - magari andando da quei menagrami della Cgil - io comincio a farti dei controlli e ve la faccio pagare, a te e a loro. Questo non è un patto fiscale degno di un paese civile, ma un'idea partorita dallo sceriffo di Nottingham.
La cosiddetta semplificazione voluta da questo governo non ha modificato di una virgola un sistema fiscale complesso, che unisce un alto tasso di corruzione e un livello di evasione ormai insostenibile. Questa riforma non rende più giusto il fisco, ossia l'unica cosa di cui avremmo davvero bisogno.
Una vera riforma del fisco deve partire dalla modifica di tutte quelle norme che offrono agli evasori alibi e scorciatoie. Ci sarebbero alcune cose da fare subito: ripristinare il reato di falso in bilancio; impedire la costituzione dei fondi che alimentano la corruzione; unificare e far comunicare le banche dati; portare la soglia di tracciabilità del contante a 300 euro; impedire e perseguire l'autoriciclaggio. E, per quel che riguarda il 730, bisogna rendere più chiaro il sistema delle detrazioni, renderle più comprensibili e più facili da calcolare. L'attuale sistema fiscale, con le sue complessità, con le sue inutili complicazioni, con un linguaggio ottusamente burocratico, è stato creato scientemente per favorire l'evasione fiscale e per penalizzare quelli che le tasse le pagano fino all'ultimo centesimo. E visto che questo governo difende gli interessi degli evasori, delle rendite, di chi le tasse non le paga o ne paga troppo poche, non ci sarà nessuna semplificazione.
Quindi mettetevi il cuore in pace, voi dovete solo pagare. Semplicemente.

domenica 8 marzo 2015

"Blu scendente" di Hans Magnus Enzenberger

Dietro il muro nebbioso nel cervello
esistono ancora altre aree,
che sono più blu, di quanto pensi.

Come sembrerebbe piccola la storia,
vista dall’alto. Fresca e chiara,
senza peso andrebbe il tuo respiro lì,

dove il tuo Io non pesa.

domenica 1 marzo 2015

Verba volant (169): acqua...

Acqua, sost. f.

Come sapete, da qualche anno vivo in una piccola città - che amo - in cui l'acqua è molto importante, anzi è il bene primario, la fonte - non solo metaforica - della ricchezza di questa comunità. Pensandoci è curioso che io, che vengo dal paese del latte, sia arrivato proprio qui. Comunque sia, l'acqua è solo una delle due risorse di Salsomaggiore e di Tabiano, perché l'altra è il lavoro degli uomini - e delle donne - che quell'acqua l'hanno saputa - e la sanno - usare. E anche qui potremmo fare una qualche analogia con il latte, che non viene soltanto dalle mucche - come forse qualcuno di voi crede - ma anche dal lavoro delle donne e degli uomini. Per tornare al tema di questa definizione, senza il lavoro la nostra acqua sarebbe soltanto un liquido, formato dalla combinazione dell'idrogeno con l'ossigeno, arricchita con tutti i minerali che la natura le ha regalato; è il lavoro che la fa diventare quell'acqua per cui Salsomaggiore e Tabiano sono conosciute in Italia e in Europa da più di un secolo.
L'azienda, pubblica, che gestisce le terme di Salsomaggiore e di Tabiano sta per fallire. Le ragioni di questa lunga crisi sono molte e non è questa la sede per affrontarle in maniera dettagliata. C'è prima di tutto la crisi del termalismo in Italia, che ha coinvolto praticamente tutte le realtà come la nostra; poi a quella crisi qualcuno ha saputo reagire meglio e qualcuno, come Salsomaggiore, decisamente peggio. C'è stata l'incapacità e l'invadenza della politica e c'è stata una responsabilità dei lavoratori, che hanno troppe volte approfittato di una situazione privilegiata, senza mettersi mai in discussione. Terme di Salsomaggiore e Tabiano è un'azienda pubblica e quindi condivide i vizi di questo tipo di attività che, almeno in Italia, sono tutte destinate al fallimento.
Soprattutto in gran parte della nostra comunità c'è stata una notevole mancanza di lungimiranza, di saper vedere oltre alla contingenza del momento, e quindi quando le cose hanno cominciato ad andare male - dal momento che c'erano, nonostante tutto, ancora risorse e mezzi - molti hanno fatto le cicale, pensando che i tempi belli sarebbero tornati. I tempi belli non sono tornati e adesso siamo al punto in cui siamo. Non mi interessa però affrontare la storia del perché le terme siano sostanzialmente fallite - vivo qui da poco e quindi rischio di sbagliarmi o di dire cose banali - anche perché questo immagino interessi poco a chi ha la pazienza di leggermi e non è di Salsomaggiore. E non ho nemmeno la presunzione di avere la soluzione per risolvere il problema: mi pare siano già troppi quelli che sanno esattamente cosa fare, soprattutto quelli che a posteriori avrebbero saputo cosa fare. Almeno mi pare che, a questo punto, tutti - o quasi - si siano resi conto che stavolta è davvero finita: e un po' di realismo non credo faccia male.
Mi interessa invece fare una riflessione che credo riguardi tutto il nostro paese, proprio partendo da quello che succede qui, nella mia città.
Capisco che valga il detto a mali estremi, estremi rimedi e che quindi una soluzione possibile sia quella di trarre un beneficio dalla risorsa che c'è, ossia l'acqua. E' vero: l'acqua è una risorsa tangibile, è una cosa che può essere immediatamente venduta; e immagino ci siano già le persone interessate a comprare questo nostro bene, per poi rivendercelo. Ma siamo davvero disposti a "salvarci", vendendo - o svendendo - l'acqua?  E poi, chi può vendere l'acqua, visto che l'acqua è di tutti?
Guardando quello che succede in Italia, evidentemente non sono bastati 26 milioni di "sì" per trasformare il sistema di gestione del servizio idrico italiano. Quel referendum è stata un'occasione persa, anche perché, nonostante il 54% degli elettori abbia detto di essere contrario a qualunque forma di privatizzazione, non è stata fatta una norma a livello nazionale che regoli la materia. E quindi ogni territorio si muove come gli sembra più conveniente: ci sono regioni, come l'Emilia-Romagna e la Toscana, in cui il referendum è stato del tutto ignorato e, in alcuni casi, si è addirittura ridotta la partecipazione pubblica nelle multiutility. In questo paese, nonostante le energie che si sono messe in moto a partire proprio da quel referendum, non c'è una cultura dei beni comuni, mentre esiste - anzi è addirittura dominante e pervasiva - un'idea mercantile, per cui tutto può essere comprato e venduto, tutto ha un prezzo. Dobbiamo imparare che non è così, che ci sono cose che non hanno prezzo, semplicemente perché non possono essere vendute. In Grecia, quando c'era l'altro governo, i tecnici del Fondo monetario internazionale hanno inventariato e messo un valore, seppur simbolico, agli scavi archeologici, alle foreste e a tutti gli altri beni naturali. Poi si sono affrettati a spiegare che questo non significava che quei beni sarebbero stati venduti; ma se non li vuoi vendere o pensi che non possano essere venduti, perché determini un prezzo? E' la logica ad essere radicalmente sbagliata.
L'altra questione, per cui mi pare che Salsomaggiore racconti - in piccolo - quello che succede in Italia, è che si considera il lavoro solo come un costo e mai come una risorsa. Eppure - come ho detto all'inizio di questa definizione - l'acqua senza il lavoro non esiste. Al di là di quello che avviene qui, a me la cosa che preoccupa di più è che non si parta mai dal lavoro. Oggi il governo di questo paese "festeggia" il +0,1% di crescita, analisti e commentatori aspettano come oracoli gli indici delle borse, pare che lo spread determini la vita o la morte di un governo, ma nessuno di questi numeri misura il lavoro e infatti può succedere che a un aumento della crescita non corrisponda ad esempio un aumento del numero di occupati o un aumento dei salari. Anzi la diminuzione dei salari, insieme alla erosione dei diritti, è vista come un elemento di crescita. E quindi per tornare alla vicenda della mia città faccio davvero fatica a considerare una buona opportunità per Salsomaggiore, per la sua comunità, una soluzione che preveda decine di licenziamenti, condizioni di lavoro e salario peggiori per quelli che rimangono, oltre a una drastica eliminazione di diritti.
Ovviamente capisco che a questo punto i sacrifici siano indispensabili, lo capiscono quasi tutti. Per altro in questi anni alcuni i sacrifici li hanno già fatti, ad esempio i cassintegrati a zero ore; e spiace dover ricordare che se alcuni - i soliti - hanno fatto sacrifici, altri ne hanno fatti molti meno, ad esempio i manager che hanno portato l'azienda al punto in cui siamo ora. E quindi sarebbe ora che i sacrifici fossero "spalmati" con un po' più di equità.
In questi giorni le soluzioni vengono prospettate come ineluttabili, le uniche soluzioni "tecniche" possibili. Magari il messaggio è condito da qualche paternalistica pacca sulla spalla, ma il senso è chiaro: o mangi questa minestra, o salti... Come sapete, io non credo che esista una soluzione unica, altrimenti non si capirebbe a cosa serve la politica, credo che possano esserci percorsi diversi, che forse ci porteranno - purtroppo - a un esito, socialmente duro, simile a quello prospettato dai "tecnici", perché i danni a cui rimediare sono davvero tanti. E anche in questo Salsomaggiore sembra un po' l'Italia. E se provassimo a ragionare, usando categorie diverse? Proviamo a partire dalla tutela e dalla valorizzazione dei beni comuni e dalla difesa dei diritti del lavoro, sicuro ed equamente retribuito. Magari salta fuori qualcos'altro: a Salsomaggiore e in Italia.