giovedì 30 settembre 2021

Verba volant (803): dinamite...

Dinamite
, sost. f.

Domenica 15 settembre 1963: alle 10.22 una violenta esplosione scuote il cielo di Birmingham. A dire il vero gli abitanti di quella città dell'Alabama non ci fanno troppo caso: dal 4 di quello stesso mese ci sono già stati tre attentati dinamitardi e da tempo la loro città è conosciuta in tutta l'America come "Bombingham", visto l'alto numero di attacchi contro le case dei neri a opera di esponenti del Ku Klux Klan. Ma quella mattina quindici candelotti di dinamite piazzati sotto i gradini dell'ala est della Chiesa battista della 16esima Strada provocano la morte di quattro bambine afroamericane che insieme a molti altri loro coetanei si stavano preparando per la funzione delle undici: Addie Mae Collins, Carole Rosamond Robertson e Cynthia Dionne Wesley hanno quattordici anni, mentre Carol Denise McNair ne ha soltanto undici.
La Chiesa battista della 16esima Strada è un bersaglio perché quella è la chiesa in cui predicano e operano Ralph David Abernathy, Fred Shuttlesworth e Martin Luther King jr., è da lì che quegli uomini dirigono le proteste in quella che è una delle città più razziste di tutti gli Stati Uniti. A Birmingham nessun afroamericano è nella polizia o nei vigili del fuoco, ai cittadini di colore viene impedito di registrarsi per il voto, gli attentati contro i neri sono continui, perché gli uomini del Ku Klux Klan hanno a disposizione la dinamite che viene usata per estrarre il ferro nelle miniere che rappresentano la ricchezza della città, e dove i neri fanno i lavori più duri e pericolosi. Le proteste nella comunità nera sono sempre più frequenti e di conseguenza gli arresti: anche il reverendo King viene arrestato e il 16 aprile scrive una lettera aperta proprio dal carcere della città. La Lettera dalla prigione di Birmingham è uno dei suoi testi più conosciuti. Ma in quell'anno sono le ragazze e i ragazzi neri i veri protagonisti della protesta: il 2 maggio più di mille studenti lasciano le loro scuole segregate e si riuniscono proprio alla Chiesa battista della 16esima Strada, da lì marciano verso il centro della città, decisi a incontrare il sindaco. Quel giorno vengono effettuati seicento arresti, ma le manifestazioni continuano fino al 5. La polizia non sa più dove mettere gli arrestati e l'amministrazione comunale è costretta a cedere: a partire dal 4 settembre tre scuole della città saranno aperte anche agli studenti neri. La fine del sistema delle scuole segregate scatena la reazione violenta dei bianchi, che culmina appunto nell'attentato del 15 settembre.

Quel giorno a Birmingham sono morte quattro donne, quattro giovanissime donne. Alcuni mesi dopo Nina Simone scrive una canzone che decide di intitolare proprio Four Women. Sarebbe stato semplice raccontare la storia di quelle quattro bambine, il cui sacrificio aveva comunque accelerato l'approvazione del Civil Right Act. Ma questo a Nina non basta, decide di raccontare altre quattro donne, quattro donne afroamericane. C'è "zia" Sarah, la cui schiena è piegata alla fatica, la donna costretta a fare i lavori più pesanti e umili, che è così forte da riuscire a supportare tutti i dolori subiti da lei e dalle donne come lei, c'è Saffronia, sospesa tra due mondi con la sua pelle chiara, perché suo padre è un bianco, un uomo ricco e potente, che ha abusato di sua madre, c'è Sweet Thing, bella con i capelli lisci sempre a posto, che vende il proprio corpo e conosce bene gli orrori della vita, e infine c'è Peaches, la ribelle, la donna che non riesce più ad accettare quella loro condizione di donne nere e che urla il suo nome, che diventa, alla fine del brano, una sorta di grido di guerra, perché Nina vuol essere Peaches, non vuole più arrendersi.
Prevedibilmente le radio dei bianchi non fanno passare quella canzone, troppo violenta e provocatoria: quella ragazza della Carolina ha una splendida voce, perché non continua a cantare gli standard jazz? Perché si è messa in testa di scrivere le sue canzoni? Vuol fare politica? Non dalle nostre frequenze. Ma neppure le radio delle comunità nere accettano di trasmetterla: cosa è venuto in mente a Nina? Perché non canta della voglia di riscatto? Perché continua ad alimentare quegli stereotipi, la puttana nera, la serva nera, la mulatta? Non lo farà certo dalle nostre frequenze. 
Non sentire il suo brano nelle radio, vedere i suoi dischi distrutti addolora Nina, che però va avanti: sa che quella è la canzone che doveva scrivere. L'attentato di Birmingham, la morte di quelle quattro ragazzine ha scosso profondamente Nina che ha capito che la musica che ha interpretato fino a quel momento non bastava più: deve usare la sua voce per protestare, per cambiare quello stato di cose. 
E scrive questa canzone proprio perché non ne può più di come le donne nere vengono raccontate. Four Women è un atto d'accusa contro le immagini troppo semplificate con cui le donne nere sono descritte nella cultura popolare americana, nel cinema, nelle canzoni, in televisione. La rabbia di Nina vuole combattere una cultura che presentando le donne nere come stereotipi finisce per renderle invisibili: sono donne senza nome e, se sono così,  anche la tragedia della loro morte rischia di passare sotto silenzio. Le quattro giovani donne uccise dal Ku Klux Klan a Birmingham non sono stereotipi, e per questo dobbiamo continuare a ricordare il dramma della loro morte. Nina con questa canzone dice all'America - e lo dice ancora a noi - che ogni persona vale come essere umano: le quattro giovani donne la cui vita è stata spezzata dall'attentato di Birmingham, come le quattro donne di cui parla nella canzone, di cui ricorda ossessivamente i nomi.
Ma Four Women è anche di più - ed è per questo che viene "censurata" dalle radio dei neri - è soprattutto una canzone femminista, perché zia Sarah non è solo "schiava" dei suoi padroni, ma anche di un marito, di un padre, di un fratello, che sono neri come lei - e che magari lottano per i diritti dei neri, dei maschi neri, dimenticando quelli delle donne. Perché Saffronia, con quella pelle definita sprezzantemente "gialla", è emarginata prima di tutto dalla comunità nera. Perché sono neri i clienti di Sweet Thing, sono neri quelli che vogliono possedere quella "cosa" che deve avere i capelli come le donne dei bianchi. E Peaches urla la sua rabbia anche contro di loro, soprattutto contro di loro, contro la loro ipocrisia, contro la loro arroganza, contro la loro violenza.
Per questo dobbiamo continuare ad ascoltare questa canzone, dobbiamo pensare a quelle quattro donne, alla loro storia, dobbiamo continuare a cantare i loro nomi.

giovedì 23 settembre 2021

Verba volant (802): stella...

Stella
, sost. f.

Maxwell ha già cinquantatré anni: è troppo vecchio per potersi arruolare. Kurt ne ha solo quarantuno, ma non ha ancora la cittadinanza quando gli Stati Uniti entrano in guerra, anche se ormai lui e sua moglie vivono lì da quasi sei anni. E poi quei due non hanno proprio la stoffa dei soldati: probabilmente sarebbero ridicoli con un fucile tra le braccia. Però vogliono fare la loro parte e così si uniscono al servizio civile volontario e fanno molti turni di guardia sull'High Tor Mountain, per segnalare l'arrivo di eventuali raid aerei nemici. Gli americani temono che i tedeschi siano riusciti a progettare e costruire dei bombardieri in grado di attaccare New York e così quel servizio di sentinelle notturne che controlla la grande città sulle rive dell'Hudson viene mantenuto attivo per tutta la durata del conflitto. 
I servizi segreti probabilmente sanno che si tratta di timori infondati, ma anche quella paura serve a tenere vivo lo sforzo bellico del popolo americano. E infatti in quelle lunghe notti di attesa i due amici non avvisteranno mai un aereo mandato da Hitler. Ma hanno tutto il tempo di osservare il cielo e di raccontarsi delle storie, anche perché è questo quello che loro due sanno fare, rispettivamente con le parole e con la musica. Maxwell e Kurt, osservando il cielo stellato sopra l'oceano, immagino abbiano provato la stessa meraviglia che prova ciascuno di noi quando alza gli occhi verso l'alto durante una notte d'estate, perché non è necessario essere Kant per rimanere sopraffatti da questo incredibile spettacolo della natura. Sono tutti e due atei e vivono in un tempo in cui è sempre più difficile credere alla legge morale dentro di sé. Kurt è uno di quelli che è riuscito a fuggire, ma sa bene quello che sta succedendo agli ebrei come lui in Germania e in gran parte d'Europa. Maxwell ha scritto un dramma basato sulla storia di Sacco e Vanzetti, nelle sue opere teatrali e nei suoi articoli ha raccontato il razzismo e le ingiustizie sociali dell'America. In quel mondo, sconvolto dalle guerre, schiacciato tra Auschwitz e Hiroshima, è difficile credere in qualcosa. Forse si può credere soltanto alla bellezza delle stelle.

Credo sia proprio durante una di quelle notti che i due amici pensano di scrivere insieme un'opera sulle peregrinazioni di uno schiavo afroamericano che cerca di ritrovare la strada di casa durante la guerra di secessione. Maxwell comincia a scrivere il libretto e i testi delle canzoni, mentre Kurt abbozza le musiche di quello che nelle loro intenzioni dovrebbe intitolarsi Ulysses Africanus, perché nella storia ci sono molti riferimenti all'Odissea. Non sono soddisfatti di quel lavoro, anche se c'è una canzone che a entrambi piace molto. L'opera rimane incompiuta, ma nel 1946 la Chappell & Co. pubblica lo spartito di Lost in the Stars come canzone a sé stante, uno dei capolavori, insieme a September Song, della feconda, per quanto breve, collaborazione creativa tra il drammaturgo Maxwell Anderson e il compositore Kurt Weill.
Anche dopo che è finita la guerra, dopo aver smesso di fare le sentinelle sull'High Tor Mountain, Maxwell e Kurt continuano a raccontarsi storie e nel 1948 leggono un romanzo appena pubblicato dello scrittore sudafricano Alan Paton, intitolato Cry, the Beloved Country: è una storia di ingiustizie, in cui i buoni soccombono e vincono i cattivi, è una storia che Maxwell e Kurt conoscono bene, anche se non sono mai stati in Sudafrica. Forse non sanno esattamente cosa sia l'apartheid, ma conoscono bene l'America e il suo razzismo segregazionista, forse non sanno come può essere la condizione di un minatore nero in quel lontano paese africano, ma conoscono bene come vivono i neri nella città che hanno "protetto" durante quei lunghi turni di guardia. Così in poche settimane riescono a trarre da quel romanzo un musical che debutta al Music Box Theatre a Broadway il 30 ottobre 1949.
Il protagonista è Stephen Kumalo, un pastore anglicano di un piccolo villaggio sudafricano. Stephen è preoccupato per la sorte di suo figlio Absalom che vive a Johannesburg e decide di andare nella grande città, dove abita anche la sorella di Stephen, che vive facendo la prostituta. Il pastore vorrebbe salvare entrambi, ma arriva troppo tardi. Gertrude sta morendo e può solo affidare a Stephen suo figlio, il piccolo Alex. Absalom è in prigione, per aver ucciso durante una rapina Arthur Jarvis, un ricco bianco che si batte contro il nascente regime dell'apartheid e che è un vecchio amico di Stephen. L'uomo si rende conto che il suo arrivo è stato inutile. Alex, nella sua innocenza infantile, cerca di confortarlo: "Puoi chiedere a Dio di aiutarti. E sicuramente ti aiuterà.". Stephen ha ormai perso la fede, ha perso Gertrude, ha perso Arthur, ha perso Absalom, lui stesso si sente perduto; è convinto che Dio se ne sia andato e esprime tutta la sua amara disillusione cantando Lost in the Stars.
Todd Duncan è Stephen in quella produzione che rimane in cartellone fino a luglio del 1950. Todd era stato scelto da George Gershwin nel 1935 per interpretare Porgy ed è solo grazie alla sua resistenza che al National Theatre di Washington anche le persone di colore possono assistere allo spettacolo: Todd non accetta di salire su un palco di un teatro in cui le donne e gli uomini non possono sedere in platea. E finalmente nel 1945 è il primo cantante afroamericano a cantare alla New York Opera insieme a un cast di bianchi, quando interpreta Tonio nei Pagliacci di Leoncavallo. Todd è uno dei più grandi tenori della sua epoca, ma il colore della sua pelle è "sbagliato" e quindi la sua carriera non potrà mai essere come quella di un cantante bianco: è un altro che sa che quella piccola stella si è persa. Per sempre.
Nonostante sia stata scritta per un'altra opera, Lost in the Stars si adatta perfettamente, sia dal punto di vista musicale che da quello drammaturgico, al nuovo spettacolo. Nell'America che ha conosciuto la guerra, nonostante la soddisfazione per la vittoria, le ferite sono ancora vive, molte famiglie piangono per un soldato che è morto in Europa o sul Pacifico. I versi di quella canzone colpiscono la sensibilità del pubblico.
E continua a vivere anche fuori di quello spettacolo, che viene raramente riproposto a Broadway, perché tocca un tema, il razzismo, troppo sensibile per il pubblico americano. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta sono tanti gli artisti che incidono la canzone di Anderson e Weill. Judy Garland la canta nel suo seguitissimo show televisivo sulla CBS, e poi i grandi crooner, da Frank Sinatra a Tony Bennett, e alcune delle regine del jazz, da Sarah Vaughan a Mahalia Jackson, e naturalmente Lotte Lenya che la incide in un album in cui interpreta i grandi successi del marito, morto il 3 aprile 1950, prima di vedere quanto la sua musica sia apprezzata in quello che alla fine è diventato, nonostante tutto, il suo paese.
Ma quei versi continuano a raccontare qualcosa anche all'America del Vietnam e perfino a quella degli anni di Reagan. La incidono nei loro dischi due attori che hanno una certa abitudine a stare in mezzo alle stelle: Leonard Nimoy e William Shatner; a dire il vero il capitano Kirk la recita, mentre Spock la canta con una bella voce blues. E poi cantanti lirici come Samuel Ramey e signore di Broadway come Patti LuPone. E molto intensa è la versione di Elvis Costello in un album del 1994 in cui tanti artisti rendono omaggio al genio di Kurt Weill.

Riascoltate Lost in the Stars, scegliete la versione che preferite - a me piace molto questa di Barbara Hannigan, accompagnata al pianoforte da Simon Rattle - fatevi trascinare dalla poesia della musica di Weill, e ascoltate con attenzione le parole di Maxwell Anderson, perché questa è anche la "nostra" canzone, persi tra la pandemia e le guerre, in mezzo a una imminente catastrofe ambientale. 
Può essere cantata come un inno o come una ninnananna. È come una specie di fiabesca cosmogonia: Dio, prima di creare l'acqua e la terra, tiene tra le mani le stelle, ma una di queste, una delle più piccole, scivola tra le sue dita. Il Creatore, dopo averla a lungo cercata, finalmente ritrova quella piccola stella e promette che se ne prenderà cura e che farà in modo che non possa perdersi di nuovo. Ma chi canta questa struggente canzone, che non offre la speranza di un inno né regala la tranquillità di una nenia, spiega che ormai Dio si è dimenticato di quella promessa e gli uomini se ne stanno persi tra le stelle, piccole e grandi, sparse nel vento della notte. 
È quello che noi sentiamo ogni momento, osservando le stelle del cielo, mentre aspettiamo un aereo che non arriverà.