venerdì 4 giugno 2010

"A chi vorrà scivere questo romanzo (Prefazione finale)" di Macedonio Fernández

Lo lascio libro aperto: sarà forse il primo "libro aperto" nella storia letteraria, vale a dire che l'autore, desiderando che fosse migliore o almeno buono, e convinto che per la sua struttura sconquassata è una temeraria goffaggine nei confronti del lettore, ma anche che è ricco di suggestioni, lascia autorizzato ogni scrittore futuro di slancio e di circostanze che favoriscano un intenso lavoro, a correggerlo e a pubblicarlo liberamente, con o senza menzione della mia opera e nome. Non sarà poco il lavoro. Sopprima, emendi, cambi, ma, magari, che resti qualcosa.
In questa occasione insisto che la vera esecuzione della mia teoria romanzistica potrebbe compiersi solo scrivendo il romanzo di diverse persone che si uniscono per leggerne un altro di modo che essi, lettori-personaggi, lettori dell'altro romanzo personaggi di questo, si profilino incessantemente come persone esistenti, non "personaggi", per contraccolpo con le figure e immagini del romanzo da loro stessi letto.
Tale intreccio di personaggi letti e leggenti con personaggi solo letti, sviluppato sistematicamente, realizzerebbe un'uniforme costante esigenza della dottrina. Intreccio di doppio romanzo.
Lo dico per confessare che il mio libro è molto lontano dalla formula dell'arte di personaggi per mezzo della parola. Anche questa, dunque, resta come "impresa aperta".
Lascio così date la teoria perfetta del romanzo, un'imperfetto esempio di esecuzione di essa, e un perfetto piano della sua esecuzione.
Si noti che c'è una vera possibilità nell'addossarsi della duplice trama, per cui otterrei mediante un'alchimia coscienziale un'assunzione di vita per il personaggio-lettore, con accentuazione del nulla esistenziale del personaggio-letto, che è molto più personaggio proprio per questo, che accentua il suo franco non essere con un'enfasi di inesistenza che lo purifica e esalta lungi da ogni promiscuità col reale; e nello stesso tempo ripercuote l'assunzione di esistenza del personaggio leggente nel lettore reale, che per controfigura del personaggio svanisce di esistenza lui stesso. Questo confusionismo deliberato è probabilmente di una fecondità coscienziale liberatrice; lavoro di genuina artisticità; artificiosità feconda per la coscienza del suo effetto di fragilizzare la nozione e certezza di essere, da cui procede l'universale intimidazione dell'ugualmente assurda e vacua nonzione verbale del non-essere. Non c'è altro che un-essere: quello del personaggio, quello della fantasia, quello dell'immaginato. L'immaginatore non conoscerà mail il non essere.

giovedì 3 giugno 2010

Considerazioni libere (121): a proposito di operai...

Chi fabbrica gli iPhone e gli i Pad? La domanda sembra prevedere una facile risposta: la Apple. Eppure questa risposta è sbagliata: a Cupertino, nel cuore della Silicon valley, c'è Steve Jobs, ci sono gli ingegneri e i programmatori, ci sono gli esperti di marketing e di bilanci, ma non ci sono gli operai. La risposta giusta è Foxconn. Questa grande azienda di Taiwan, per conto di Apple - ma anche di altre grandi imprese come Dell e Hewlett Packard - produce in Cina molto del materiale elettronico che noi acquistiamo e usiamo.
Gli iPhone e gli iPad in particolare vengono prodotti nel grande stabilimento di Shenzen, una città di oltre 13 milioni di abitanti nel sud della Cina, che si trova vicino a Hong Kong. In questo stabilimento lavorano circa 300mila persone, più o meno una media città italiana. E lo stabilimento è una vera e propria città, con i suoi dormitori, il suo ospedale, perfino il suo teatro, secondo la testimonianza di Jobs, che ha voluto ribadire che la Foxconn "non è una fabbrica di schiavi". Eppure gli operai lavorano per dodici ore al giorno per sei giorni alla settimana, quando non vengono fatti straordinari - suppongo che non rimanga molto tempo per andare a teatro. Sempre senza calcolare gli eventuali straordinari, un operaio guadagna 100 dollari al mese. Ritmi di lavoro e livelli retributivi non sono diversi da quelli di altre aziende cinesi, ma questa uniformità non li rende certamente giusti.
E infatti il motivo per cui si parla dello stabilimento di Shenzen non sono questi massacranti turni di lavoro né questi bassissimi salari. Steve Jobs è stato costretto a intervenire in difesa della Foxconn, perché dall'inizio del 2010 undici operai si sono suicidati all'interno della fabbrica e altri due sono rimasti feriti, gettandosi dai tetti dei loro dormitori. Visto il numero degli operai che lavorano a Shenzen, i suicidi della Foxconn non rappresentano un'anomalia rispetto alla media cinese, almeno da un punto di vista meramente statistico: ma anche in questo caso il fatto che sia la norma statistica non rende il fenomeno accettabile.
A rendere la cosa ancora più preoccupante è il fatto che gli operai che non ce l'hanno fatta sono giovani, avevano dai 18 ai 24 anni, solo uno ne aveva 27. Sono i più giovani, quelli che hanno cominciato a vedere l'impetuosa crescita economica del loro paese, quelli che sono meno abituati dei loro genitori e dei loro fratelli maggiori a durissime condizioni di vita a soffrire lo stress di turni di lavoro sempre più lunghi, della riduzione delle ore di sonno, della mancanza di spazi e tempi per sé, oltre il lavoro.
I dirigenti della Foxconn stanno cercando di intervenire. Hanno fatto installare delle reti attorno ai dormitori, per rendere impossibili i "voli" dai tetti; hanno chiamato psicologi e sociologi per studiare le condizioni degli operai; hanno mandato tra i ragazzi un monaco buddista; hanno anche diramato un ordine di servizio che vieta il suicidio. Hanno anche deciso di prevedere una serie di aumenti fino al 30%: chissà quanto gli operai si decideranno a non suicidarsi più. Non hanno pensato a ridurre a rendere più umani i turni di lavoro: sarebbe impossibile, visto il successo che in questi mesi sta avendo l'iPad, il nuovo gioiello della Apple. Il mercato globale richiede migliaia e migliaia di pezzi e la Foxconn è pronta a soddisfare queste richieste, anche facendo degli straordinari.
Al di là del paradosso che tutto questo sta avvenendo in un paese che è formalmente guidato da un partito che si definisce comunista, ma che ha assunto i peggiori "spiriti animali" del capitalismo, questa storia sarebbe potuta succedere in India o in qualche altro paese "rampante" dell'Asia e dell'Africa. Non sarebbe potuta succedere né negli Stati Uniti né in Europa, dove invece siamo ben felici di acquistare a un prezzo conveniente l'ultimo modello di iPhone. Dobbiamo essere consapevoli che anche noi siamo parte della catena che sfrutta gli operai cinesi.
Francamente non so cosa sia andato a fare Bersani in Cina la scorsa settimana, ma penso che i partiti della sinistra europea dovrebbero cominciare a ragionare di questo, se vogliono essere credibili anche quando affrontano le ingiustizie che ci sono nel nostro mondo. Una volta cantavamo "L'Internazionale": gli operai cinesi non meritano di non essere sfruttati?

martedì 1 giugno 2010

"Prefazione per un romanzo aperto" di Macedonio Fernández

Diamo oggi alle stampe l'ultimo romanzo cattivo e il primo romanzo buono. Quale sarà il migliore? Perché il lettore non opti per quello del genere da lui prediletto disdegnando l'altro, abbiamo disposto che la vendita sia indivisibile; dato che non abbiamo potuto istituire la lettura obbligatoria di entrambi, ci resta almeno la consolazione di aver escogitato l'acquisto irredimibile di quello che non si vuol comprare ma che e non è separabile da quello che si vuole: sarà Romanzo Obbligatorio l'ultimo romanzo cattivo o il primo buono, a piacere del Lettore. Ciò che in nessun modo gli si deve permettere per massimo ridicolo nostro, è che li ritenga ugualmente buoni entrambi, e ci congratuli per sì completa "fortuna".
Il Romanzo Cattivo merita un omaggio; eccogli il mio. Non si dirà così che non so fare cose male; che, limitato di talento, non me n'è rimasto per uno dei due generi del romanzo, quello cattivo; nello stesso mostro la pienezza delle mie capacità. E' vero che ho corso il rischio di confondere talvolta il male che ho dovuto pensare di Adriana Buenos Aires col bene che non smetteva di venirmi in mente per Romanzo dell'Eterna; ma è questione che il lettore collabori e li disconfonda. A volte mi sono trovato perplesso, quando il vento ha scompigliato i manoscritti, perché saprete che scrivevo una pagina di ciascun romanzo al giorno, e non sapevo più a quale dei due corrispondeva quella pagina; niente poteva aiutarmi, perché la numerazione era la stessa, uguale la qualità di idee, carta e inchiostro, dato che mi ero sforzato di essere ugualmente intelligente nell'uno e nell'altro perché i miei gemelli non litigassero. Cosa soffrivo quando non sapevo se una pagina brillante apparteneva all'ultimo romanzo cattivo o al primo buono!
Si renda conto il lettore del mio turbamento, e confidi nella mia promessa di un prossimo romanzo cattibuono, primultimo del suo genere, in cui si alleerà l'ottimo del cattivo di Adriana Buenos Aires con l'ottimo del buono di Romanzo dell'Eterna, e in cui raccoglierò l'esperienza guadagnata nei miei sforzi per provarmi che qualcosa di buono era cattivo, o viceversa, perché ne avevo bisogno per concludere un capitolo dell'uno o dell'altro...
Grazie, lettore, per l'Obbligatorio che ti compri. Ho la fortuna di essere il primo scrittore che può rivolgersi al doppio lettore, e già abusando di questo pendio mi lascio scivolare a pregare chi mi leggerà di volermi comunicare quale dei due romanzi gli è risultato obbligatorio. Si faccia lei un giudizio dell'opera, che io voglio farmi un giudizio del mio lettore.

Considerazioni libere (120): a proposito della ricostruzione di Haiti...

Sono passati quasi cinque mesi dal 13 gennaio di quest'anno quando un violentissimo terremoto ha distrutto la capitale di Haiti, Port-au-Prince. Dopo le prime settimane, in cui l'opinione pubblica mondiale ha seguito quello che stava succedendo nell'isola caraibica, i riflettori si sono ormai spenti e adesso è difficile sapere quale sia la situazione in quella terra infelice. Sui media italiani nessuna traccia, nonostante là continui a essere presente un nostro contingente militare, impegnato negli aiuti.
Fortunatamente, nei giorni scorsi è apparso sul New York Times un articolo di Damien Cave, che descrive bene quello che sta succedendo. Per quanto ho potuto vedere, in Italia la notizia è stata ripresa soltanto da Il Post.
Cave racconta l'esasperazione degli abitanti di Haiti, che vedono la ricostruzione sempre più come un miraggio. Le Nazioni Unite hanno stimato che il terremoto abbia distrutto 105.000 case e ne abbia danneggiate altre 208.000, per lo più a Port-au-Prince. A partire dall'inizio di maggio sono state distribuite alla popolazione circa 564.000 tende, sufficienti a coprire circa 1,7 milioni di persone; è stata un'azione importante, ovviamente apprezzata dalla gente - anche perché è iniziata la stagione delle piogge - ma il timore di molti è che queste tende rimarranno le loro "case" per molti anni.
Sui pochi muri rimasti, sulle macerie, gli haitiani hanno scritto "Abe Préval" e "Abe okipasyon", come se volessero lanciare un grido di aiuto, sperando che qualcuno abbia occhi e orecchie per captarlo. Préval è il presidente di Haiti, finora incapace di affrontare direttamente e con decisione la ricostruzione, ma anche il simbolo di una classe dirigente che sembra non offra alcuna valida alternativa. Alcuni funzionari dell'Onu tentano di tranquillizare la popolazione ricordando che il mandato di Préval scadrà a fine anno e si dovranno svolgere nuove elezioni presidenziali; questa per gli haitiani non è una prospettiva, da un lato perché non è affatto scontato che le elezioni si possano svolgere in queste condizioni, dall'altro perché non c'è nessuno che possa garantire una vera alternativa. La gente di Haiti chiede che la banca centrale garantisca i prestiti e allenti le richieste di garanzia per aiutare le piccole imprese che cercano di riaprire; e chiedono di abrogare la legge che prevede che le aziende che operino nel paese siano al 51% di haitiani, legge che limita di fatto la possibilità di stranieri di investire, anche per quegli haitiani che sono diventati cittadini degli Stati Uniti e ora vorrebbero fare qualcosa per aiutare il loro paese. Le strade continuano a essere invase dalle macerie, ma non è solo a causa del terremoto; la gente di Port-au-Prince, esasperata dalla lentezza governativa, ha cominciato a gettare in strada altre macerie, sperando che finalmente qualcuno decida di intervenire.
Damien Cave racconta quello che sta facendo Frank St.-Juste, un ingegnere che possiede una società di costruzione, che sperava che il terremoto costringesse le autorità pubbliche a introdurre procedure di gara più rigorose, criteri di pianificazione urbana che finora sono mancati ad Haiti. La società di St.-Juste ha avuto l'incarico da un amico che lavora per un'organizzazione internazionale di togliere le macerie su una collina vicino a Fort Nationale, uno dei quartier più colpiti dal sisma. Egli stesso ammette che questo "non è il modo giusto per farlo" e che non c'è un progetto, ha deciso lui da che parte cominciare, perché comunque " dobbiamo pur iniziare da qualche parte".
Avevo già avuto occasione di parlare di Haiti e della sfida che in quel paese si sarebbe giocata: il terremoto aveva dato la possibilità di segnare un nuovo inizio, ma probabilmente quella sfida la stiamo perdendo.

sabato 29 maggio 2010

"L'isola dell'amore" di Stefano Benni


per Zaira

Io e te partiremo
su un aereo di carta
in tre ore per passare il mare
dove il vento ci porta

un aereo di carta di giornale
che porta la notizia che
io e te siamo partiti
e non si sa dove siamo finiti
...

Considerazioni libere (119): a proposito di Bologna (II)...

Alcuni giorni fa ho scritto una "considerazione" piuttosto critica sulla mia città (la nr. 117, per la precisione); a questo punto mi sembra doveroso scriverne una sorta di seguito o meglio, per dirla alla maniera di Bacone, far seguire alla pars destruens una pars construens, per non lasciare un'eccessivo senso di pessimismo nei miei sparuti lettori.
In queste settimane a Bologna molti si domandano quale dovrà essere il profilo del prossimo sindaco o più prosaicamente scommettono su chi sarà il nuovo inquilino di Palazzo d'Accursio, saggiando alcuni nomi, bruciandone altri, tenendone nascosti altri ancora: in una parola il peggio della politica. Alcuni altri stanno provando a ragionare sul modello di città a cui aspiriamo e che legittimamente possiamo pensare di costruire; francamente questa discussione mi pare un poco più interessante. Questa città ha conosciuto la sua fase migliore, dall'immediato dopoguerra agli anni settanta del secolo scorso, perché la sua classe dirigente - tra il pragmatismo bonario di Giuseppe Dozza e l'analisi intellettuale un po' aristocratica di Renato Zangheri, passando per molti altri politici e amministratori, non solo proveniente dalle fila del Pci - aveva ben in testa un modello da seguire: Bologna doveva essere il modello della buona amministrazione, il modello del riformismo socialista in un Paese che era governato dall'immobilismo democristiano. Voglio far notare - ma è cosa nota - che il fatto che Bologna fosse l'unica grande città italiana da sempre governata dal Pci ha fatto sì che qui anche il livello degli esponenti della Dc sia stato mediamente più alto che a livello nazionale. Naturalmente non sempre i risultati furono all'altezza del modello - occorre essere onesti, al di là delle comprensibili nostalgie - ma fu importante avere una linea da seguire. E soprattutto fu importante che questa idea fosse non solo prerogativa di un gruppo dirigente, per quanto allargato, ma condivisa da un gran numero di cittadini, il cui senso civico e la cui sensibilità politica erano certamente sopra la media.
So bene che è impossibile ricreare quel clima ideale, non ci sono più da tempo le condizioni storiche e politiche perché questo avvenga. A essere onesti e per ristabilire una dura verità storica, Bologna è stata così duramente colpita dal terrorismo - basti pensare alla strage del 2 agosto - proprio perché non fosse più quel modello e bisogna dire che l'obiettivo è stato raggiunto. Nonostante questa necessaria premessa, credo che potremmo convenire su un'idea, su qualcosa su cui investire in maniera unanime, in modo che gli sforzi di tutti prendano una stessa direzione o almeno direzioni non troppo divergenti, come sta invece avvenendo ora. Personalmente penso che Bologna, accantonata l'idea di essere di nuovo un modello di qualcosa, potrebbe trovare la sua ragion d'essere, la sua idea forte - mi verrebbe da dire la sua anima, mi sembra il termine più chiaro - nel suo patrimonio culturale e creativo. Non pretendo di essere originale e so bene che tante volte ho sentito la frase "Bologna deve investire sulla cultura", ma altrettanto spesso ho visto disattesa questa dichiarazione di principio.
A Bologna c'è un'università che ha certo molti problemi, come ogni altra università italiana, ma che continua a godere di un prestigio in molti campi; a Bologna ci sono moltissimi artisti, scrittori, cineasti, teatranti, fumettisti, musicisti; a Bologna c'è già un pubblico potenzialmente attento e soprattutto può facilmente arrivarci da ogni parte d'Italia; Bologna continua a essere una bella città, nonostante l'incuria in cui versa da parecchi anni. E allora la città provi davvero a investire sulla cultura e sulla creatività. Facciamo in modo che i giovani che vengono a studiare a Bologna siano accolti dalla città, lottando veramente contro la piaga del caro affitti - basterebbero pochi controlli per scoprire i tantissimi proprietari che affittano in nero le loro case a prezzi oltre ogni vergogna - offrendo servizi e luoghi di aggregazione. Proviamo a immaginare iniziative, eventi, festival; negli anni passati, ne sono stati fatti di importanti e belli, pensiamo davvero di non esserne più capaci? Certo bisogna uscire dalla logica delle iniziative a spot, occorre programmare, seminare, anche rischiare. Torniamo a investire nei musei, nelle biblioteche, nei luoghi dove naturalmente e ogni giorno si produce cultura. Pensiamo cosa sarebbe la nostra città se si tornasse a lavorare sull'aggregazione associativa, su una miriade di piccoli eventi disseminati nelle vie e nelle piazze del centro e delle periferie - scusate l'inciso personale, ma ricordo con gioia alcune piccole feste dell'unità, ad esempio nei giardini della ex manifattura tabacchi e in piazza XX settembre. Sarebbe una città più pulita, più sicura e con una mobilità più sostenibile. Proviamo a immaginare un turismo diverso che non sia soltanto quello legato alle fiere. Io credo che ci sia una ricchezza possibile in una città che riscopra la sua anima accogliente, ospitale, anche un po' gaudente, che torni a essere un luogo a cui si guarda, in cui si abbia voglia di abitare, in cui faccia piacere venire, una città di cui si invidino almeno un po' i suoi cittadini.

venerdì 28 maggio 2010

da "Orlando furioso" (XXXIV, 73-85) di Ludovico Ariosto


Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l'apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch'in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch'eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro.

Ami d'oro e d'argento appresso vede
in una massa, ch'erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch'in laude dei signor si fanno.

Di nodi d'oro e di gemmati ceppi
vede c'han forma i mal seguiti amori.
V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi,
l'autorità ch'ai suoi danno i signori.
I mantici ch'intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.

Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l'opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch'era il servir de le misere corti.

Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch'importe.
- L'elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. -
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch'ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.

Vide gran copia di panie con visco,
ch'erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l'occurrenze nostre:
sol la pazzia non v'è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch'egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n'era quivi un monte,
solo assai più che l'altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d'Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l'altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d'Orlando.

E così tutte l'altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch'egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n'era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de' signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d'altro aprezze.
Di sofisti e d'astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n'era molto.

giovedì 27 maggio 2010

da "Sotto il sole giaguaro" di Italo Calvino

Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere, un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce. Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange. Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona. Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo. Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. Non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra? Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui! Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente. Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare. E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.

martedì 25 maggio 2010

"Quando avrai un passato" di Raymond Queneau


Quando tu avrai un passato,
Yvonne, ti accorgerai che cosa
curiosa che è. Prima di tutto, ce
ne sono angoli interi, di frane:
dove non c'è più niente. Altrove
erbacce che sono cresciute a
casaccio, e non ci si capisce più
niente neppure lì. E poi ci sono
posti che ci sembrano così belli
che uno se li rivernicia tutti
gli anni, una volta d'un colore, una
volta d'un altro. E lì la cosa
finisce per non somigliare più per
niente a quella che era. Senza
contare quello che uno ha creduto
molto semplicemente e senza
mistero quando è successo, e che
poi anni dopo si scopre che non
è tanto chiaro come sembrava,
così come alle volte tu passi tutti
i giorni davanti a un'affare
qualunque senza farci caso e poi
tutt'a un tratto te ne accorgi.

Considerazioni libere (118): a proposito di reality show...

Ammetto la mia ignoranza in merito al genere reality; conosco "Il grande fratello", conosco "L'isola dei famosi", so che ci sono varianti tipo "La fattoria" o "La talpa", ma sinceramente non avevo mai sentito nominare "The first 48". "The first 48" è giunto alla sua nona stagione ed è prodotto dalla casa di produzione statunitense A&E. Si tratta davvero di un reality, la troupe segue il lavoro della polizia nelle prime quarantotto ore che seguono un omicidio: un vero omicidio, con un vero colpevole e veri poliziotti che lo individuano e lo catturano. Le immagini riprese vengono poi montate e raccontate da un narratore, l'attore Dion Graham.
Il 16 maggio scorso la troupe di "The first 48" stava seguendo il lavoro della polizia di Detroit, impegnata nella cattura di un giovane sospettato di omicidio, che stava fuggendo. La squadra speciale, gli Swat - quelli che siamo abituati a vedere nei telefilm - hanno individuato il fuggiasco all'interno di una casa in un quartier popolare della città, hanno gettato una granata stordente nell'appartamento e hanno fatto irruzione, uccidendo una bambina di sette anni, Ayana Stanley-Jones, che stava dormendo nel suo letto. I genitori della bambina accusano la polizia di aver agito in maniera avventata, dicono che il colpo è stato sparato dall'esterno dell'abitazione e che il sospetto è stato poi arrestato in un'altra casa della via; la polizia afferma che il colpo è stato sparato in casa e non dà indicazioni sul luogo effettivo dell'arresto. Forse le riprese di "The first 48" saranno determinanti per sapere la verità.
Al di là di cosa emergerà dall'inchiesta, alcuni hanno cominciato a riflettere sulla responsabilità dello show. La povera Ayana non è morta per colpa della troupe di "The first 48", ma certamente dovrebbe far riflettere che ad esempio l'uso delle granate stordenti è in relazione proprio a questo tipo di interventi, perché hanno un maggior effetto televisivo. Fare un'irruzione in una casa per catturare un possibile omicida è già qualcosa di complicato, soggetto a moltissimi elementi imprevedibili e dannatamente rischioso, come è evidente anche da quello successo a Detroit domenica scorsa, ma certo non aiuta i poliziotti sapere che la loro azione sta per essere ripresa, c'è il rischio, sempre più concreto che finiscano per interpretare i poliziotti, secondo gli schemi che hanno visto in tanti telefilm. Chi ha analizzato questo reality e altri del genere - perché non è l'unico - ha messo in evidenza che le azioni tendono a concentrarsi in quartieri poveri, che spesso i sospettati sono persone di colore e soprattutto che nelle azioni c'è un maggior elemento di drammatizzazione rispetto a un normale inseguimento.
Ieri sera, quando ho raccontato l'episodio a Zaira, lei mi ha fatto notare che in Italia la polizia preferisce non essere filmata e mi ha venuto in mente quel dirigente di carcere che aveva rimproverato i suoi uomini perché avevano picchiato un ragazzo nella sua cella, dove potevano essere visti, mentre potevano farlo nei sotterranei. Francamente spero che questo reality non venga importato; penso ci basti "La pupa e il secchione".

lunedì 24 maggio 2010

Considerazioni libere (117): a proposito di Bologna... (I)

Mi scuso con i miei pochi e pazienti lettori, che vivono quasi tutti lontani da Bologna, ma questa nuova "considerazione" è dedicata alle vicende bolognesi; come è successo altre volte, spero di riuscire a ricavarne qualche riflessione che possa interessare anche i non-bolognesi.
Come è noto la città dal febbraio scorso è retta dal Commissario straordinario, la dottoressa Anna Maria Cancellieri; nonostante qualche sempre più timida richiesta, si voterà nella prossima primavera. Si tratta, come è evidente, di una situazione irrituale, di cui porta la responsabilità prima di tutto il precedente sindaco - e conseguentemente le forze politiche che lo hanno scelto e sostenuto; se Delbono si fosse dimesso nei tempi previsti dalla legge, si sarebbe votato regolarmente nelle scorse settimane, contestualmente alle elezioni regionali. Nonostante le proteste di rito, questi mesi di sospensione dell'attività amministrativa sembrano andar bene a tutti gli schieramenti, e questo la dice lunga sulla situazione politica in cui si trova la nostra città.
In città non si trova nessuno che non manchi di lodare il pragmatismo e il buon senso della "commissaria" e anzi qualcuno si spinge a dire che si sta facendo in questi mesi più di quanto si sia fatto negli anni precedenti. Francamente non mi sento di unirmi al coro dei lodatori; certo la dottoressa Cancellieri è persona di buon senso, è probabilmente un funzionario capace, anche sopra la media, ma la sua azione non può incidere più di tanto sulla città. Certo la breve esperienza amministrativa di Delbono è stata scialba e, per ragioni diverse, le amministrazioni Guazzaloca e Cofferati non hanno risposto alle tante aspettative, legittimamente diverse, che avevano suscitato, ma in tutta onestà non si può dire che la città governata dal commissario sia, almeno finora, migliore di come era quando è iniziato il suo periodo di governo: è ugualmente sporca, ugualmente poco accogliente, ugualmente lontana dai bisogni dei cittadini, continua a non essere curata dai suoi cittadini e a non prendersi cura di essi. Al di là di alcune lodevoli eccezioni, i principali funzionari che presidiano la macchina comunale non hanno la capacità non solo per dare un colpo d'ala all'azione amministrativa, ma neppure quella di svolgere con attenzione la manutenzione. Tra i più entusiasti lodatori della "commissaria" ci sono personaggi che, pur non eletti, rappresentano alcuni poteri della città, come l'ex-rettore e ora presidente di un'importante fondazione bancaria e il presidente della Camera di commercio, già presidente dei commercianti. Anch'essi fanno parte della mediocre classe dirigente della città e ora sperano di superare questa fase di crisi, addossando ogni colpa sulla politica. Tra i cosiddetti "poteri forti" che non sono contenti - anche se non lo dicono, o lo dicono a mezza bocca - ci sono i costruttori, perché in una città senza la politica non vanno avanti i progetti di edificazioni da cui essi traggono i loro lauti guadagni. E, anche qui con grande franchezza, un'azione amministrativa che è tutta incentrata sulle opere e sul mattone, come quella degli ultimi anni, non è una buona amministrazione.
Il fatto che la politica abbia dato così scarsa prova di sé nell'amministrare la città non significa, come qualcuno sta tentando di dimostrare, che la politica non serva e che anzi sarebbe un ostacolo allo sviluppo ideale della città. Certo non si vede nella politica bolognese una soluzione degna di questo nome. Il centrodestra sta tenendo sulla graticola un possibile candidato, che probabilmente quando si arriverà al dunque non sarà più tale e non ha un gruppo dirigente degno di questo nome, e pare non voglia neppure averlo, dal momento che ha deciso di rimandare a Roma la candidata sconfitta alle elezioni regionali, che pure aveva migliorato il risultato della coalizione di centrodestra e poteva essere una delle persone attorno a cui costruire un nuovo gruppo dirigente. Il Pd teme di avere troppi candidati, preferirebbe non essere costretto a scegliere e pare invochi nuovamente un "briscolone", magari un candidato civico a cui non si possa dire di no e che permetta di non sollevare troppa polvere rispetto ai precari equilibri interni. Il Pd intanto è impegnato nel congresso per scegliere il nuovo segretario provinciale, che sarà probabilmente quello designato dai "maggiorenti" del partito; al di là del giudizio di merito sulla persona, è piuttosto bizzaro che sia candidato a segretario quello che fino a ieri era di fatto il vicesegretario, con una piattaforma di forte rinnovamente rispetto alla gestione precedente. Intorno al Pd sinceramente c'è poco, sia numericamente purtroppo - vedi la sinistra - sia per qualità politica, vedi l'Italia dei valori che è riuscita a fare una figuraccia per accaparrarsi qualche delega in più in Provincia, sì proprio in quell'ente che andrebbe eliminato.
Mi pare che per oggi abbia prevalso una certa visione pessimistica; nei prossimi giorni mi piacerebbe riuscire a scrivere a proposito di quello che si dovrebbe fare.

domenica 23 maggio 2010

"C'è chi insegna" di Danilo Dolci


C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

sabato 22 maggio 2010

Considerazioni libere (116): a proposito di quello che sta succedendo in Thailandia...

Francamente non è facile capire quello che sta succedendo in Thailandia; gli scontri violenti di questi ultimi giorni e la morte di un fotoreporter italiano hanno costretto i mezzi di informazione ad accendere i riflettori su quel paese, che - come avviene solitamente - sono stati rapidamente spenti (vuoi mettere come è più interessante la politica italiana).
Al di là del notorio provincialismo italiano, credo che uno dei motivi che rende difficile intervenire sulle vicende di quel paese - uno dei più importanti del sud-est asiatico, con i suoi 64 milioni di abitanti - sia la difficoltà a definire in maniera netta da che parte stare. Certo l'attuale governo, sostenuto dai militari e dalle cosiddette "camicie gialle", non ha alcuna legittimazione democratica, è stato imposto con un colpo di stato nel settembre del 2006, tacitamente accettato dalla comunità internazionale, e rifiuta di proclamare nuove elezioni. A onor del vero, il capo del governo deposto Thaksin Shinawatra era un personaggio che aveva qualche difficoltà a rispettare le regole democratiche; eletto con una grande maggioranza, anche grazie alla sua grande fortuna economica, con un programma di chiara impronta populista, dopo una prima fase in cui aveva avviato alcune riforme a favore delle fasce più deboli della popolazione, aveva cominciato a restringere gli spazi di libertà, imponendo suoi familiari e amici nelle principali pubbliche e approfittando della sua posizione per favorire le sue attività economiche. Si era presentato come una sorta di Bloomberg thailandese, ma ricordava piuttosto il nostro Berlusconi. A rendere ancora più incerta la situazione da un lato c'è lo stato di salute dell'anziano monarca, molto amato dalla popolazione, ma ormai fuori dalla vita pubblica, e lo scarso credito di cui gode il principe ereditario e dall'altro lato le tendenze indipendentiste della popolazione mussulmana del su del paese.
C'è però qualcosa nelle proteste di queste settimane che è destinato a durare, anche al di là del possibile ritorno dall'esilio di Thaksin. Le persone che in questi giorni sono scesi in piazza, hanno duramente lottato, hanno rischiato la loro vita, le cosiddette "camicie rosse", chiedono sì nuove elezioni e la fine dell'esilio di Thaksin, ma soprattutto chiedono di poter contare nella vita politica e sociale del paese. Bangkok è in pochi anni diventata il simbolo della crescita impetuosa dell'economia della Thailandia, è diventata una città moderna, internazionale, in cui sono andati a vivere e a lavorare donne e uomini che hanno progressivamente abbandonato le campagne: in due decenni la popolazione della città è quasi raddoppiata. Queste donne e questi uomini, e soprattutto i loro figli, che sono nati nella città e non si sentono ormai più parte del mondo agricolo tradizionale, ora chiedono di far sentire la propria voce, vogliono portare avanti le proprie rivendicazioni, vogliono diritti politici ed economici. Queste persone avrebbero bisogni di leaders capaci di guidare questa lotta, ma certo non potranno più essere ignorati, perché ora non vivono lontani dal centro del potere, ma sono lì, come hanno dimostrato in questi giorni, occupando il cuore commerciale della capitale.
Forse dovremmo cominciare a sostenere la lotta delle "camicie rosse"...

venerdì 21 maggio 2010

Considerazioni libere (115): a proposito di spese e di risparmi...

"Si vis pacem, para bellum", recita il noto detto latino. Deve esserne ricordato anche il segretario generale della Nato, l'ex-premier danese Rasmussen, noto anche per la sua avvenenza, come fece notare un evidentemente invidioso Silvio Berlusconi un po' di tempo fa. Lunedì scorso, insieme a Madeleine Albright, ha presentato a Bruxelles il nuovo "Concetto strategico", ossia il documento di orientamento politico-strategico con cui periodicamente la Nato ridefinisce il proprio ruolo e le proprie funzioni. Nell'enfasi della presentazione Rasmussen ha detto, tra le altre cose: "Nonostante le grandi sfide economiche che gravano sui singoli stati" - evidentemente anche lui si è accorto che in Europa c'è la crisi, deve averlo letto in qualche memorandum riservato - "è preoccupante osservare il crescente divario nella spesa militare tra Stati Uniti e alleati europei". Infatti il bilancio della spesa militare degli Stati Uniti è quasi il 4,7% del Pil, mentre i ventisei alleati europei - quasi ventisei piccoli indiani - spendono in media l'1,7%. Sono soltanto sei i paesi europei che hanno un bilancio militare superiore al 2% e tra questi c'è la Grecia, che arriva al 3,2%, la percentuale più alta dopo quella degli Stati Uniti. Un esempio da lodare e da imitare, secondo Rasmussen; e infatti la Grecia è messa come ben sappiamo, gli stipendi e le pensioni sono stati congelati, le tasse sono state aumentate e così via. Il governo greco, pur incassando le lodi di Rasmussen e della Nato - le uniche lodi internazionali che riceve in questo periodo - ha deciso di ridurre un po' le proprie spese militari, passando da 6,8 a 6 miliardi. Mentre gli altri paesi europei hanno richiesto a voce la politica di rigore, di fronte a questa decisione di Atene hanno storto il naso. Il governo francese pretende che comunque la Grecia acquisti le sei navi da guerra già ordinate alla Dcns, per un totale di 2,5 milardi di euro e il governo tedesco che vengano acquistati i due nuovi sottomarini che sta costruendo la Thyssen-Krupp - sì, proprio la stessa azienda ben nota a Torino - per 150 milioni.
Chissà cosa farà il governo italiano, che spende soltanto 23 miliardi all'anno per il bilancio della difesa? Rinuncerà al programma di acquisto di 131 cacciabombardieri F-35, rischiando di scendere ancora nella considerazione di Rasmussen e degli esperti della Nato?

giovedì 20 maggio 2010

Considerazioni libere (114): a proposito di olimpiadi...

A proposito della decisione di Roma e di Venezia di candidarsi per le olimpiadi del 2020 e della successiva scelta del Coni di presentare al Cio la capitale come unica candidata italiana, francamente mi è sembrato paradossale che tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito si siano schierati per l'una o l'altra città, con argomenti più o meno condivisibili, con accenti più o meno campanilistici, ma che nessuno abbia sollevato questioni sull'opportunità di una candidatura italiana, a prescindere dalla città.
A parte i casi virtuosi di Genova e di Torino, che hanno saputo utilizzare bene due importanti manifestazioni come l'Expo del '92 e le recenti olimpiadi invernali, la tradizione italiana dei cosiddetti "grandi eventi" non mi pare che sia a nostro favore. Italia '90 non è stato certo un esempio di capacità amministrativa: sono state spese risorse ingentissime per costruire impianti ampiamente sottoutilizzati e non sono state completate molte delle opere infrastrutturali previste per quell'evento. A quello che si legge, la Figc sta cercando il modo di ritirarsi con onore dalla corsa per l'assegnazione dei campionati europei di calcio del 2016, per evitare una certa bocciatura, che certo non gioverebbe all'immagine del paese. Nonostante uno sbandierato impegno bipartisan e nonostante il centrodestra sia al governo nel Comune, nella Provincia e nella Regione e abbia nominato a capo dell'evento un ex-ministro dalla fama di manager, i lavori per l'Expo 2015 sono in grande ritardo; come spesso succede le uniche cose che si stanno realizzando sono gli insediamenti residenziali e commerciali privati, che hanno visto in questa manifestazione una grande opportunità di investimento, a scapito dell'interesse generale. Il fatto poi che i funzionari "esperti" nella realizzazione delle opere per i "grandi eventi" siano praticamente tutti in carcere non è certo il miglior viatico per la nostra candidatura: le irregolarità negli appalti e gli alti costi delle opere in relazione ai mondiali di nuoto sono a tutt'oggi oggetto di indagine.
Evidentamente non ci ha insegnato nulla l'esperienza della Grecia, che sta pagando, insieme a una corruzione sociale diffusa e all'inefficienza del settore pubblico - due elementi che accomunano i nostri paesi - anche i debiti fatti per ospitare le olimpiadi del 2004. Ho stima di due amministratori come Cacciari e Galan che per primi hanno sostenuto la candidatura ddi Venezia e credo che abbiano fatto delle valutazioni corrette; ho molta meno stima degli amministratori di Roma, di centrodestra e di centrosinistra, che dovrebbero preoccuparsi di far funzionare la città, di curare la manutenzione, piuttosto che immaginarsi come i promotori di nuovi grandi eventi. Nonostante la stima per la candidatura di Venezia, continuo a pensare che il nostro paese abbia bisogno di altro, ad esempio un grande piano per mettere in sicurezza gli edifici scolastici oppure interventi per l'assetto idrogeologico, che è sempre più fragile. Le risorse sono davvero poche, abbiamo proprio bisogno di un'olimpiade?

mercoledì 19 maggio 2010

"Siamo tutti politici (e animali) di Edoardo Sanguineti


Siamo tutti politici (e animali):
premesso questo, posso dirti che
odio i politici odiosi: (e ti risparmio anche soltanto un parco abbozzo di catalogo
esemplificativo e ragionato): (puoi sceglierti da te cognomi e nomi, e sparare
nel mucchio): (e sceglierti i perché, caso per caso)
ma, per semplificare,
ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto,
a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: (e questo mi definisce,
sempre per me, i politici odiosi, e il mio perché:
amo, così, quella grande politica
che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao,
pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi,
spraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva):
(e poi,
lo so che non si dice, ma, alla fine, mi sono odiosi e uomini e animali):

Considerazioni libere (113): a proposito dell'irruzione nella scuola Diaz e della fiducia nello stato...

Sono passati quasi nove anni, ma questa notte finalmente è stata emessa una sentenza che serve a far luce su quello che è successo a Genova in occasione delle manifestazioni contro il G8, in particolare durante l'irruzione nella scuola Diaz. La terza sezione della Corte d'appello della città ligure ha ribaltato la sentenza di primo grado, che aveva assolto i vertici della polizia e condannato a pene lievi solo 13 dei 27 imputati. La nuova sentenza ne condanna 25. Il capo dell'anticrimine Francesco Gratteri è stato condannato a quattro anni, l'ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque anni, l'ex vicedirettore dell'Ucigos Giovanni Luperi - che oggi lavora presso l'Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna - a quattro anni, l'ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola - che adesso è vicequestore vicario a Torino - a tre anni e otto mesi, l'ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi. Pietro Troiani e Michele Burgio, accusati di aver portato le molotov nella scuola, sono stati condannati a tre anni e nove mesi. Per i 13 poliziotti già condannati in primo grado le pene sono state inasprite.
Quello che è successo nella notte del 21 luglio del 2001 nella scuola Diaz, che il Comune di Genova aveva adibito come ostello per i giovani venuti da ogni parte d'Europa, è stato definito da uno degli stessi poliziotti "macelleria messicana". Ci sono video, foto, testimonianze: furono arrestati 93 giovani, che furono poi prosciolti, una sessantina di loro rimasero feriti, qualcuno anche in maniera grave. I poliziotti portarono loro stessi all'interno della scuola due bottiglie molotov per giustificare gli arresti.
Da parte mia non c'è davvero nessuna intenzione di criminalizzare la polizia e le forze dell'ordine; durante questi anni ho avuto modo di apprezzare tanti poliziotti, dirigenti e semplici agenti, che hanno fatto e fanno con coscienza e impegno il proprio lavoro, troppo spesso non riconosciuto. Mi disturbano certe semplificazioni, che purtroppo ancora si leggono, che portano a dire "polizia fascista". Probabilmente neppure nel caso della Diaz abbiamo assistito a un esempio di "polizia fascista", ma a una miscela di inesperienza, incapacità, malcelato senso di autoritarismo, che ha portato a questo episodio. Proprio per tutelare le donne e gli uomini che lavorano in polizia bisogna che chi si è macchiato di queste responsabilità sia allontanato da quel corpo. Francamente trovo vergognosa l'affermazione del sottosegretario Mantovano che stamattina si è affrettato a dichiarare che i condannati di Genova "resteranno al loro posto, perché hanno e continuano ad avere la piena fiducia del sistema di sicurezza e del Viminale". Su quello che è successo alla caserma Diaz negli anni si è alimentato un sistema di coperture e di omissioni che forse è perfino più grave dei fatti in sé, che pure sono molto gravi. Nessuno dei governi che si è avvicendato in questi anni, di centrodestra e di centrosinistra, ha avuto la forza per dire una parola chiara su quell'accaduto e il capo della polizia di allora è stato promosso, con il beneplacito di tutte le forze politiche, a capo dei servizi segreti. L'allora ministro dell'interno, Claudio Scajola, si dimise in seguito, ma solo per l'incredibile leggerezza con cui definì il professor Biagi un "rompicoglioni". Per inciso, Mantovano era già allora sottosegretario e francamente suona abbastanza interessata la sua difesa degli uomini che agirono nella scuola Diaz.
Sinceramente è difficile avere fiducia in uno stato che non riconosce le colpe delle proprie forze dell'ordine e non fa nulla per far sì che fatti del genere non avvengano. E' difficile avere fiducia in uno stato che di fronte al caso di un ragazzo morto in carcere per un'incredibile serie di responsabilità di guardie penitenziarie manesche, di dirigenti ligi solo alla burocrazia e di dottori incapaci, non riesce a dire una parola in grado di attenuare il dolore della famiglia e la rabbia dei cittadini, e soprattutto non riesce a definire norme che tutelino i carcerati. E' difficile avere fiducia in uno stato in cui dall'inizio dell'anno si sono suicidate in carcere 26 persone, una ogni cinque giorni.

martedì 18 maggio 2010

"Ballata della guerra" di Edoardo Sanguineti


dove stanno i vichinghi e gli aztechi,
e gli uomini e le donne di Cro-Magnon?
dove stanno le vecchie e nuove Atlantidi,
la Grande Porta e la Invincibile Armata,
la Legge Salica e i Libri Sibillini,
Pipino il Breve e Ivan il Terribile?
tutto è finito, lì a pezzi e a bocconi,
dentro le moli mascelle del tempo:
qui, se a una cosa non ci pensa un guerra,
un'altra guerra ci ha lì pronto il rimedio:
dove stanno le Triplici e Quadruplici,
la Belle Epoque e le Guardie di Ferro?
dove stanno Tom Mix e Tom Pouce,
il Celeste Impero, gli Zeppelin, il New Deal,
l'Orient Express, l'elettroshock, il situazionismo,
il twist, l'O.A.S., i capelli all'umberta?
tutto è finito, lì a pezzi e a bocconi,
dentro la pancia piena della storia:
qui, se a una cosa non ci pensa una guerra,
un'altra guerra ci ha lì pronto il rimedio:

oh, dove siete, guerre di porci e di rose,
guerre di secessione e successione?
oh, dove siete, guerre sante e fredde,
guerre di trenta, guerre di cento anni,
di sei giorni e di sette settimane,
voi, grandi guerre lampo senza fine?
finite siete, lì a pezzi e a bocconi,
dentro il niente del niente di ogni niente:
qui, se a una guerra non ci pensa una pace,
un'altra pace c'ha lì pronta la guerra:
principi, presidenti, eminenti militesenti potenti,
erigenti esigenti monumenti indecenti,
guerra alle guerre è una guerra da andare,
lotta di classe è la guerra da fare.

domenica 16 maggio 2010

"Hai viso di pietra scolpita" di Cesare Pavese


Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l'alba è silenzio.

E sei come le voci
della terra; l'urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo; le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.

Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov'è entrato una volta
ch'era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come il cortile antico
dove s'apriva l'alba.

sabato 15 maggio 2010

Considerazioni libere (112): a proposito delle leggi del capitalismo...

Ho già scritto qualcosa a proposito della crisi della Grecia e delle lezioni che dovremmo ricavarne, anche qui in Italia (per chi fosse interessato, si tratta della "considerazione" nr. 107).
Vorrei provare a fare un breve riassunto di quello che è successo, per vedere, insieme a voi, miei cari e sparuti lettori, se ho ci ho capito qualcosa: la materia infatti è assai ostica.
Il 15 settembre del 2008 i dirigenti della Lehman Brothers, una delle più importanti società attive nei servizi finanziari a livello globale, hanno chiesto l'avvio della procedura di fallimento pilotato, innescando una reazione a catena che ha portato alla bancarotta di banche e di società finanziarie negli Stati Uniti e in Europa.
Nelle settimane successive, sull'onda della crisi e incalzati dalla prospettiva di aumento della disoccupazione, i governi sono intervenuti per salvare le aziende sul rischio del fallimento, investendo un'enorme massa di denaro pubblico. La crisi finanziaria del 2008 ha portato alla crisi economica del 2009 e alle vicende di questi giorni, proprio per l'aumento della spesa pubblica: ora a rischio di fallimento sono gli stati, a causa del debito che è cresciuto e della difficoltà di ripianarlo in tempi certi. Gli stessi mercati finanziari, "salvati" poco più di un anno fa dai governi, oggi contribuiscono ad aggravare la crisi, minando la fiducia degli investitori nei titoli dei paesi considerati a rischio.
Forse ho saltato qualche passaggio, ma mi pare che il punto essenziale stia qui. Il problema non che all'improvviso una sorta di "cupola" degli speculatori ha deciso che la Grecia non era più solvibile e che l'euro poteva essere oggetto di attacchi speculativi, ma che è il mercato, con le sue regole - a cui non si è voluto mettere alcun limite - a dettare legge. Il mercato non è il male in sé, ma deve essere sottomesso all'interesse generale, anche con regole severe, che fino ad ora, nonostante qualche enunciazione, sono mancate. In buona sostanza quello che è successo in questi giorni non è una degenerazione del sistema capitalistico, ma la sua naturale evoluzione, quando smette di essere regolato, imbrigliato, appunto sottomesso all'interesse generale.
Perché non proviamo a ripartire da qui?