sabato 30 luglio 2011

da "Le vespe ci insegnano la società liquida" di Zygmunt Bauman

Fin da quando il concetto di “insetti sociali” (che comprende api, termiti, formiche e vespe) è stato coniato ed è entrato nell’uso, gli zoologi più esperti, così come il pubblico profano, hanno nutrito la ferma e quasi indiscussa convinzione che la “socievolezza” degli stessi fosse limitata ai membri della colonia di appartenenza. Quest’ultima rappresenta il luogo in cui tali insetti sono venuti al mondo e al quale fanno ritorno ogni giorno della loro vita, portandovi il bottino delle loro scorribande in cerca di cibo per condividerlo con il resto della popolazione autoctona dell’alveare. La possibilità che qualche ape o vespa operaia potesse “migrare”, varcando i confini tra una colonia e l’altra e abbandonando l’alveare di nascita per unirsi ad un altro alveare - quello di elezione - era considerata (ammesso che fosse contemplata) come un’idea incongrua. Vigeva invece l’assioma che i membri “autoctoni”, nati all’interno della colonia e dunque “legittimi”, avrebbero prontamente scacciato il cane sciolto, eliminandolo se questi non si fosse allontanato.

[…] Ciò che passa per “logico”, tuttavia, al pari di quello che viene ritenuto “ovvio”, tende a cambiare col tempo. Si trasforma assieme alla condizione umana e alle sfide che pone. Contrariamente a tutto quello che si sapeva (o meglio si credeva di sapere) da secoli, l’équipe londinese ha scoperto a Panama che una cospicua maggioranza di “vespe operaie”, il 56 per cento, cambiano alveare nel corso della loro vita; e non semplicemente migrando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, mal accetti, discriminati ed emarginati, a volte energicamente perseguitati, e sempre visti con sospetto e ostilità, bensì come membri “legittimi” e a pieno titolo (si sarebbe tentati di dire “autorizzati”) della “comunità” adottiva che, al pari delle operaie “autoctone”, si procurano cibo, nutrono e accudiscono la nidiata locale. L’inevitabile conclusione è che gli alveari oggetto della ricerca sono di norma “popolazioni miste”, al cui interno le vespe native e quelle immigrate vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l’ausilio di identificatori elettronici.

Le notizie giunte da Panama rivelano innanzitutto uno straordinario ribaltamento di prospettiva: quelle convinzioni che fino a non molto tempo fa sembravano riflettere lo “stato di natura” si sono dimostrate, in retrospettiva, nient’altro che una proiezione sugli insetti di preoccupazioni e prassi fin troppo umane (prassi che oggi, tuttavia, perdono importanza e sbiadiscono nel passato) degli studiosi. È bastato che i ricercatori, di una generazione un poco più giovane della precedente, portassero nella foresta panamense la loro - e nostra - esperienza dei nuovi stili di vita, acquisita e assorbita nell’ormai cosmopolita Londra, patria “multiculturalizzata” di diaspore intrecciate, per “scoprire”, com’era doveroso, che la fluidità dell’appartenenza e l’eterno mescolarsi delle popolazioni sono la norma anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo “naturale”, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge introdotti frettolosamente, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo.

In questo caso, come in molti altri, la natura prasseomorfica della percezione umana li ha spinti a scoprire “là fuori nel mondo” quello che hanno appreso a fare e fanno “qui a casa”, e ciò che nella testa o nel subconscio di tutti noi rappresenta l’immagine di “come stanno veramente le cose”. La differenza tra le “mappe cognitive” presenti nel bagaglio mentale degli entomologi di vecchia generazione e quelle acquisite o adottate dai ricercatori più giovani riflette il passaggio, nella storia degli Stati moderni, dalla fase del nation-building alla fase “multiculturale”; più in generale, il passaggio dalla modernità “solida”, incline a trincerare e fortificare il principio della sovranità territoriale, esclusiva e indivisibile, e a circondare i territori sovrani con frontiere impermeabili, alla modernità “liquida”, con le sue linee di confine sfocate e altamente permeabili, l’inarrestabile (anche se biasimata, sofferta e respinta) svalorizzazione delle distanze spaziali e della capacità difensiva del territorio, e un intenso traffico umano attraverso qualsiasi tipo di frontiera. E, sul piano della prassi quotidiana degli esseri umani, dalle pressioni assimilative e dalle aspettative di un’imminente uniformità, alla prospettiva di convivere permanentemente con la varietà e la diversità.

La popolazione di quasi ogni paese, ormai, è una somma di diaspore. E quella di quasi ogni città di una certa dimensione è oggi un aggregato di enclaves etniche, religiose e di stili di vita in cui la linea divisoria tra insider e outsider è al centro di accese controversie, mentre il diritto a tracciare tale linea, a mantenerla intatta e a renderla inattaccabile rappresenta la principale posta in palio nelle scaramucce per l’autorità e nelle battaglie per il riconoscimento che ne derivano. La maggior parte degli Stati ha ormai superato e si è lasciata alle spalle la fase del nation-building, per cui non è più interessata ad “assimilare” gli stranieri in arrivo (ovvero costringerli a disfarsi e privarsi delle loro identità distinte e a “dissolversi” nella massa uniforme dei “nativi”), e dunque gli scenari della vita contemporanea e il filo che costituisce la trama del vissuto rimarranno probabilmente proteiformi, variegati e caleidoscopici per molto tempo a venire. Per quel che può contare, e per quanto ne sappiamo, potrebbero anche continuare a cambiare in eterno.

"Debito" di Titos Patrikios




Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l'altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.

giovedì 28 luglio 2011

Considerazioni libere (243): a proposito della definizione di democrazia...

Voi che leggete con una certa assiduità - e con notevole indulgenza - queste "considerazioni", sapete quanto io valuti positivamente quello che sta avvenendo in Africa settentrionale e in Medio oriente. Sono passati poco più di otto mesi dal 15 dicembre, quando Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, accendendo quella rivolta che ha coinvolto milioni di giovani in tutta la regione. Otto mesi sono un periodo troppo breve per tracciare un bilancio, anche in un'epoca come la nostra dove ci illudiamo, complice la potenza dei mezzi di comunicazione, che tutto possa avvenire e risolversi in pochi giorni. La storia ha tempi più lunghi e non si sottomette alla cronaca, alla nostra volontà di procedere senza memoria.
In alcuni paesi, come la Siria, la rivolta è ancora in atto e rischia di venire soffocata dalla brutalità del regime della famiglia Assad, nell'indifferenza dell'opinione pubblica internazionale che si occupa sempre meno di quello che sta avvenendo nelle coste meridionale e orientale del Mediterraneo. In Egitto qualche commentatore parla già di controrivoluzione, una sorta di Termidoro in salsa araba, dal momento che i militari soffocano ogni spinta progressista. In Algeria e in Marocco la situazione pare normalizzata, a vantaggio del vecchio establishment. In Arabia Saudita non è stata neppure scalfita la teocrazia della dinastia Saud, uno dei regimi più antidemocratici del mondo. Evidentemente gli elementi negativi sono molti, ma, nonostante tutto, qualcosa è cambiato. I giovani che protestano nelle piazze delle città mediorientali sono diventati uno degli attori politici della regione e non si può più far finta che non ci siano: questo è già un risultato importante.
Io credo che, anche alla luce di quello che sta avvenendo nel mondo, di fronte a questi milioni di persone che si ribellano in nome della democrazia, non sia superfluo da parte nostra - che viviamo in paesi che hanno una più o meno lunga tradizione democratica - ragionare, anche un po' astrattamente, sul concetto di democrazia. Anche perché le democrazie non sono affatto tutte uguali.
Cosa distingue una democrazia da una dittatura? Qualcuno potrebbe rispondere che il regolare svolgimento di elezioni è un indicatore per fare questa distinzione, ma francamente non mi pare sufficiente: sono molti i dittatori "eletti". La presenza di una costituzione è un altro indice importante, ma - anche in questo caso è piuttosto evidente - ci sono splendide costituzioni che rimangono scritte sulla carta. Il riconoscimento degli altri paesi è un argomento ancora più fallace: la Russia viene perfino invitata al vertice G8, nonostante sia notoriamente un regime autocratico. Gli interessi economici prevalgono molto spesso su ogni altra considerazione di carattere politico o ideologico, basti pensare a come le democrazie occidentali si rapportano alla Cina.
Ci sono grandi differenze tra le democrazie. E ci sono grandi differenze nell'idea che ciascuno di noi si fa della democrazia in cui vive. Per molti cittadini che vivono in regimi democratici la democrazia è il semplice esercizio del voto, che si esercita ogni quattro o cinque anni, delegando del tutto, in questo periodo tra un'elezione e l'altra, la gestione della cosa pubblica alle persone che più o meno consapevolmente, più o meno convintamente, hanno votato. Per altri la democrazia si esercita non soltanto con il proprio voto, ma con un controllo continuo sull'attività degli eletti e in forme di vera e propria partecipazione alle scelte. Su questo punto specifico tornerò dopo, commentando alcune riflessioni di Umberto Eco.
Di fatto molte democrazie sono molto più simili all'oligarchia descritta da Megabizo nel cosiddetto logos tripolitikos erodoteo - uno dei testi fondamentali della teoria politica dell'antichità - che alla forma di governo che "ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge", descritta da Otane. Senza arrivare alle degenerazioni della "casta" italiana, la politica è sempre più il campo specialistico di una categoria di persone professionalmente preparate allo scopo. In questi anni, nelle democrazie, anche di lunga tradizione, assistiamo a una vera e propria tendenza dinastica. Come noto, negli Stati Uniti Bush jr. è succeduto al padre e, se non fosse spuntata la stella di Obama, probabilmente Hillary Clinton sarebbe diventata presidente dopo il marito: sarebbe potuto succedere che per quasi trent'anni due sole famiglie si fossero alternate al governo degli Stati Uniti, la più importante democrazia del mondo. L'attuale primo ministro greco, socialista, è figlio di un ex primo ministro e lo stesso il suo predecessore del partito conservatore. L'attuale presidente dell'Argentina è la moglie, ora vedova, del precedente presidente; e gli esempi potrebbero continuare. In Italia, dove solitamente la storia si trasforma in farsa, assistiamo all'irresistibile ascesa politica del figlio di Bossi.
Proviamo a definire "democrazie elettorali" questi regimi che sono tali soltanto un giorno ogni quattro anni. Ci sono paesi democratici in cui non sono rispettati i diritti umani o il principio di uguaglianza di fronte alla legge: proviamo a definire questi altri paesi "democrazie illiberali". Ci sono altre democrazie, come quella israeliana o - fino all'inizio degli anni Novanta - quella sudafricana, che prevedono che ci siano cittadini a pieno diritto e cittadini con un minor grado di diritti e garanzie costituzionali. Se poi, in un paese di democrazia recente come la Spagna ha un tale successo il movimento Democracia real ya, ossia "democrazia reale subito", significa che questioni come la legittimità, la rappresentatività o la responsabilità sono così in crisi che la parola democrazia a volte sembra una formula priva di significato. Poi c'è la questione del ruolo delle donne: c'è una grande differenza tra i paesi scandinavi e, ad esempio, una democrazia come l'Italia, tanto da far nascere nel nostro paese un movimento come Se non ora quando, che intreccia questioni di genere a critiche più generali al sistema della rappresentanza.
Ci sono organizzazioni e studiosi che cercano di individuare le misure empiriche per verificare il grado di democrazia di un paese. L’organizzazione Freedom house classifica i paesi del mondo, dal punto di vista dell'adesione ai principi democratici, utilizzando una scala da uno a sette, da più a meno libero. Il progetto Polity IV analizza diversi dati sui regimi politici e assegna un punteggio su ventuno indicatori che oscilla tra -10 e +10. Il Democracy Index dell’Economist esamina i 167 paesi del mondo in base a cinque categorie, dividendoli poi tra democrazie complete, imperfette, regimi ibridi e regimi autoritari. Come è evidente la scala di grigi tra democrazia e dittatura è piuttosto vasta.
Torno un momento sul rapporto tra cittadini e politica. All'indomani del voto amministrativo, Umberto Eco ha scritto un articolo estremamente interessante, ricordando un episodio del 1997, successivo alla vittoria elettorale dell'Ulivo. Eco riporta un lungo passo di Massimo D'Alema, in cui egli rivendica il primato della politica come "un ramo specialistico delle professioni intellettuali", concludendo che "l'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout-court ai cittadini è un mito estremista". Il professore risponde, seppur dopo molti anni, al politico, con un ragionamento, la cui conclusione credo meriti di essere riportata integralmente e possa essere utile a questa mia "considerazione".
Quale rimane dunque la funzione, certamente insostituibile, dei partiti e della "politica" nel momento in cui si dà voce a elementi non professionalmente politici? Non solo quella di interrogare e comprendere le pulsioni, le idee, le aspirazioni che animano la società civile, ma di garantire la continuità di queste espressioni, perché certamente la società civile può aggregarsi e disgregarsi a seconda della situazione di un paese, può mobilitarsi in casi di estrema urgenza (come è avvenuto) ma disperdersi o impigrirsi nel momento successivo. Ed ecco che i partiti devono sentire non solo il dovere di rispondere alle sollecitazioni della società civile, ma anche quello di sollecitare queste sollecitazioni. Per poi ovviamente incanalarle nelle forme parlamentari e governative l'accesso alle quali non può che avvenire tramite i partiti.

Probabilmente tutte queste riflessioni sono lontane dalle rivendicazioni più elementari - e anche più "alimentari" dei dimostranti di piazza Tahir - ma noi, i nostri governi, i nostri politici, non possono eluderle, tanto più quanto si ha l'obiettivo di insegnare o di "esportare"" la democrazia. Ma quale democrazia?
Personalmente ritengo che il punto fondamentale sia richiamare non soltanto i processi di decisione costituzionali propri di un regime democratico, ma anche i principi della Dichiarazione universale dei diritti umani. Non c'è vera democrazia in un paese in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, in cui le bambine e i bambini non vanno a scuola, in cui la maggioranza della popolazione vive sotto il livello di povertà.
Concludo con queste parole di Norberto Bobbio.
Diritti dell'uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico. Senza diritti dell'uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia. Senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi, e tra quei grandi gruppi che sono gli Stati, tradizionalmente indocili e tendenzialmente critici rispetto agli altri Stati, anche quando sono democratici al proprio interno. Non sarà inutile ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo comincia affermando che "Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo".



mercoledì 27 luglio 2011

"Dubbi" di Hans Magnus Enzenberger


Resta nel complesso sospeso
sempre e per sempre
il gioco mondano
dei dadi bianchi e neri?
Resta così, pochi vincitori perdenti,
molti perdenti perduti?
Sì, dicono i miei nemici.
Dico: Quasi tutto ciò che vedo
potrebbe essere diverso. Ma a quale prezzo?
Le tracce del progresso sono insanguinate.
Sono tracce di progresso?
I miei desideri sono semplici.
Semplicemente irrealizzabili?
Sì, dicono i miei nemici.
Le segretari sono in vita.
Gli spazzini non ne sanno nulla.
I ricercatori conducono le loro ricerche.
I mangiatori mangiano. Bene così.
Intanto mi chiedo:
Domani sarà ancora un giorno?
Questo letto sarà una bara?
Qualcuno ha ragione, o no?
E’ consentito dubitare anche dei dubbi?
No, il vostro consiglio di impiccarmi,
per quanto sia così saggio, non lo seguirò.
Domani sarà ancora un giorno (vero?)
occhi da aprire, battito di ciglia.
Qualcosa di buono da dire: ho avuto tanto.
Dolce giorno, in cui ciò che è comprensibile
si comprende da solo, nell’insieme!
Quale trionfo, Cassandra!
Un futuro da gustare, che io confuto!
Qualcosa di nuovo, sarebbe buono,
(i saggi Anziani già sapevano…)
ascolto attento i miei nemici.
Chi sono i miei nemici?
I neri mi chiamano bianco,
i bianchi mi chiamano nero.
Ascolto questo volentieri. Potrebbe significare:
sono sul giusto cammino
(esiste un giusto cammino?)
Io non mi biasimo. Biasimo coloro
a cui i miei dubbi sono indifferenti.
Hanno altre preoccupazioni.
I miei nemici mi stupiscono.
Hanno buone intenzioni con me.
Sarebbe tutto perdonato, accontentarsi
di sé e di loro.
Una piccola sbadataggine rende già amabili.
Un singolo Amen,
indifferente, quale Credo,
e potrei benedire ciò che è mondano,
impiccarmi, nel complesso
consolato e riconciliato, senza dubbi,
col mondo intero.

martedì 19 luglio 2011

"Lascito" di Yiannis Ritsos


Disse: Credo nella poesia, nell'amore, nella morte,
perciò credo nell'immortalità. Scrivo un verso,
scrivo il mondo; esisto; esiste il mondo.
Dall'estremità del mio mignolo scorre un fiume.
Il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza
è di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio.

domenica 17 luglio 2011

da "Le storie" (III, 80-82) di Erodoto

Dopo che il tumulto si fu quietato e furono passati cinque giorni, quelli che si erano ribellati ai Magi tenevano un consiglio su tutto il complesso delle faccende dello stato, e furono pronunciati discorsi incredibili sì ad alcuni dei Greci, ma pure furono pronunciati.
Otane invitava a porre il potere nelle mani di tutti i Persiani dicendo questo: "A me sembra opportuno che nessuno divenga più nostro monarca, perché non è cosa né piacevole né conveniente. Voi sapete infatti l’insolenza di Cambise a qual punto è giunta, e avete provata anche l’arroganza del Mago. Come dunque potrebbe essere una cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far ciò che vuole senza doverne render conto? Perché anche il migliore degli uomini, una volta salito a tale autorità, il potere monarchico lo allontanerebbe dal suo solito modo di pensare. Dai beni presenti gli viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è innata in lui l’invidia. E quando ha questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte scelleratezze le compie perché pieno di arroganza, altre per invidia. Eppure un sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal momento che possiede tutti i beni. Invece egli si comporta verso i cittadini in modo ben differente, è invidioso che i migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini peggiori ed è prontissimo ad accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di tutte è questa: se qualcuno lo onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato abbastanza; se invece uno lo onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa più grave vengo ora a dirla: egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a morte senza giudizio. Il governo popolare invece anzi tutto ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca, perché a sorte esercita le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza". Questo parere esponeva Otane.
Megabizo invece esortava a volgersi all’oligarchia dicendo così: "Quel che ha detto Otane per por fine alla tirannide si intenda detto anche da me; ma quanto al fatto che vi invitava a conferire il potere al popolo, egli non ha colto il parere migliore: niente infatti c’è di più privo di intelligenza, né di più insolente del volgo buono a nulla. E certo, che per fuggire l’insolenza di un monarca gli uomini cadano nell’insolenza di una plebaglia sfrenata, è cosa assolutamente intollerabile. Quello infatti se fa qualcosa la fa a ragion veduta, questa invece non ha neppure capacità di discernimento: e come potrebbe aver discernimento chi né ha imparato da altri né conosce da sé niente di buono, e si getta alla cieca senza senno nelle cose, simile a torrente impetuoso? Della democrazia facciano dunque uso quelli che vogliono male ai Persiani; noi invece, scelto un gruppo degli uomini migliori, a questi affidiamo il potere; ché fra questi ci saremo anche noi, ed è giusto che dagli uomini migliori derivino le migliori deliberazioni". Megabizo esponeva dunque questo parere.
E per terzo Dario rivelava il suo parere dicendo: "A me quel che ha detto Megabizo riguardo al governo democratico mi pare l’abbia detto giustamente; non giustamente invece quel che riguarda l’oligarchia. Ché, offrendocisi tre forme di governo ed essendo tutte a parole ottime, ottima la democrazia e l’oligarchia e la monarchia, io affermo che quest’ultima è di molto migliore. Di un uomo solo che sia ottimo niente potrebbe apparire migliore, e valendosi di tale sua saggezza egli potrebbe guidare in modo perfetto il popolo, e così soprattutto potrebbero esser tenuti segreti i provvedimenti contro i nemici. Nell’oligarchia invece ai molti che impiegano le loro qualità nell’amministrazione dello stato sogliono capitare gravi inimicizie private, perché, volendo ciascuno essere il primo e prevalere con i suoi pareri, vengono a grandi inimicizie fra loro, e da queste nascono discordie, e dalle discordie stragi, e dalle stragi si passa alla monarchia, e con ciò si dimostra di quanto questo regime è il migliore. D’altra parte se il popolo è al potere è impossibile che non sopravvenga la malvagità. E sopravvenuta nello stato la malvagità sorgono fra i malvagi non inimicizie, ma salde amicizie, poiché quelli che danneggiano gli interessi comuni lo fanno cospirando fra loro. E questo succede fino a che uno del popolo, postosi a capo degli altri, li fa cessare; in conseguenza di ciò costui s’impone all’ammirazione del popolo, e così ammirato viene proclamato monarca. E così anche questo dimostra che la monarchia è la cosa migliore. E per dir tutto in una sola parola, donde ci è venuta la libertà e chi ce l’ha data? Forse dal popolo o dall’oligarchia o non piuttosto da un monarca? Il mio parere è dunque che noi, avendo ottenuta la libertà per opera di un sol uomo, dobbiamo mantenere in vigore la stessa forma di governo, e inoltre non dobbiamo abolire le istituzioni dei nostri padri, che sono buone, perché non sarebbe certo la cosa migliore".

sabato 16 luglio 2011

"Cose elementari" di Yiannis Ritsos


In modo maldestro, con ago grosso, con
filo grosso,
si attacca i bottoni della giacca. Parla da
solo:

Hai mangiato il tuo pane? Hai dormito
tranquillo?
Hai potuto parlare? Tendere la mano?
Ti sei ricordato di guardare dalla finestra?
Hai sorriso al bussare della porta?

Se la morte c'è sempre, è la seconda.
La libertà sempre è la prima.

martedì 12 luglio 2011

Considerazioni libere (242): a proposito di velocità, più o meno alta...

Sarà l'influenza dei film western, del mito americano della frontiera, ma anche dei più domestici racconti sulla Direttissima: tendenzialmente ho sempre considerato l'espandersi delle ferrovie come un elemento di progresso, come un evento positivo della storia degli uomini. Questo per dire che non sono pregiudizialmente contrario alla costruzione della linea ad alta velocità tra Torino e Lione, e conseguente alla creazione di un corridoio ferroiviario tra Lisbona e Kiev.
In linea di massima, da cittadino, sarei disposto a subire dei sacrifici - e un così pesante intervento sul territorio è indubbiamente un sacrificio - se ciò significasse un vantaggio per la collettività. Il problema è che in questa vicenda sono ben chiari i sacrifici, ma sono molto più aleatori e vaghi i vantaggi. Personalmente ritengo che, in queste condizioni, la Tav sia un errore e provo a spiegare perché.
Mi pare che in questa vicenda siano state finora prevalenti due opposte visioni ideologiche, quelli che considerano la Tav come un indispensabile elemento di progresso, una necessità strategica per l'Italia e per l'Europa e quelli che la considerano un danno, a prescindere. Fino a quando la discussione rimarrà su questo piano è evidente che nessuno riuscirà a convincere nessuno, tutti rimarranno sulle proprie posizioni, la Tav probabilmente non si realizzerà - e questo per alcuni è evidentemente un fatto positivo - ma non si riuscirà nemmeno a ragionare sul futuro dei trasporti e della logistica in questo Paese - e questo è un grave problema per tutti.
Viaggiare in Italia e far viaggiare le merci in Italia è un'impresa forse paragonabile a quella dei pioneri del selvaggio West: si sa quando si parte, ma non quando si arriverà. In Italia viaggiare è quasi sempre sinonimo di utilizzare l'automobile, far viaggiare le merci significa quasi sempre caricarle su camion. La rete del trasporto ferroviario, al netto della linea ad alta velocità tra Roma e Milano, è nettamente al di sotto degli standard degli altri paesi europei. Discorso analogo può essere fatto per il trasporto pubblico locale, nelle grandi città come nei piccoli centri.
In queste condizioni tra le priorità dell'Italia non c'è la linea Torino-Lione. Prima occorre rendere più snello il traffico locale, migliorando le reti di trasporto pubblico e creando reti di piste ciclabili; decongestionare il traffico di lungo raggio, potenziando la rete ferroviaria, tutta la rete ferroviaria, da nord a sud; ridurre il traffico dei tir, con una politica di disincentivi, attraverso l’imposizione di pedaggi molto più costosi. Come è evidente si tratta di uno sforzo economico incredibile - molto più gravoso di quello necessario per realizzare la Torino-Lione - che richiederebbe miliardi di investimenti diffusi sul territorio. Tra l'altro è lecito chiedersi che visione dell'Italia c'è dietro un'opera che potenzia il traffico di persone e merci tra ovest ed est dell'Italia settentrionale, mentre i collegamenti tra il nord e il sud dell'Italia, quelli sì veramente strategici alla luce dello sviluppo mediterraneo, sono al livello che conosciamo, basti pensare alla Salerno-Reggio Calabria o alle ferrovie siciliane.
Alcuni giorni fa, pochi giorni dopo gli incidenti in Val di Susa, quando sono partiti i lavori del cantiere, mi è capitato di parlare con un'amica "indignata" (credo che la definizione le possa star bene) - pendolare come me e quindi, come me, soggetta ai capricci di Trenitalia. Io criticavo Grillo per le sue estemporenee dichiarazioni sui dimostranti "tutti eroi", lei sosteneva che l'atteggiamento di chi criticava Grillo di fronte a un problema grave come quello della Tav era paragonabile a quello di chi, puntando alla luna, guarda il proprio dito piuttosto che l'astro notturno. Penso avessimo ragione entrambi. Le dichiarazioni di Grillo sono state inopportune, oltre a essere sbagliate, perché hanno alimentato ulteriormente quella discussione ideologica a cui mi riferivo all'inizio di questa "considerazione"; il problema è che le forze politiche, comprese purtroppo le forze di sinistra, preferiscono confrontarsi sui "massimi sistemi", senza affrontare i dati reali.
La linea Torino-Lione riuscirà a diminuire in maniera sensibile il traffico di automobili su quella tratta, come sta avvenendo per la linea Milano-Roma? No, anche perché i flussi di traffico su queste due tratte non sono paragonabili. L'alta velocità sposterà considerevolmente il traffico merci dalla gomma al ferro? No. Per raggiungere questo scopo non serve l'alta velocità, facendo guadagnare un'ora o due di tempo, basterebbe penalizzare la circolazione dei tir sulla strada, mentre in Italia avviene esattamente il contrario. Il problema è che Svizzera e Austria sono impegnati a potenziare la propria rete di trasporto su ferro, mentre in Italia preferiamo "impiccarci" a un progetto che interessa un angolo del paese dove viaggia solo una piccola parte delle merci.
Magari partendo da questi dati potremmo perfino trovare una soluzione. Perfino in Italia.

post scriptum del 2 marzo 2012
In questi mesi non è sostanzialmente cambiato il mio giudizio sul progetto di realizzare la Tav in Val di Susa e quindi ripubblico questa "considerazione", confidando nella consueta pazienza dei miei lettori. Non scriverei più la frase "la Tav probabilmente non si realizzerà"; a luglio del 2011 c'era un governo ben più debole e arrendevole di quello che c'è adesso e quindi penso che su questo - come è avvenuto sulle pensioni e come avverrà sulla riforma dello Statuto dei lavoratori - il governo Monti giocherà la sua partita fino in fondo, dando un segnale ben preciso al paese. A questo tema - che riguarda più direttamente la democrazia di questo paese - proverò a dedicare una nuova "considerazione" nei prossimi giorni.
Rispetto alla riflessione di alcuni mesi fa voglio fare una sola aggiunta, riferita ai costi dell'opera. A chi dice che bisogna comunque andare avanti, credo si debba rispondere che da quando è stata decisa la realizzazione della Torino-Lione a oggi è cambiato il mondo. Anche solo nei pochi mesi che ci separano da luglio scorso - quando ho scritto le righe precedenti - la situazione economica europea - e italiana - è radicalmente mutata. Siamo entrati in un periodo di recessione e questo credo obblighi a maggiore attenzione sull'uso delle poche risorse di cui disponiamo.
Mi preoccupa il fatto che su quanto costerà effettivamente la Torino-Lione ci siano forti divergenze. I comitati della Val di Susa stimano che quest'opera costerà almeno 23 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere altre spese difficili da prevedere, ad esempio per la gestione della sicurezza presso i cantieri (per Chiomonte si è arrivati a spendere 90mila euro al giorno); gli stessi comitati denunciano anche una sproporzione nell'accordo con la Francia per la ripartizione dei costi: l'opera sarà per un terzo sul suolo italiano, ma il nostro paese sosterrà il 57,9% delle spese; infine ci sono dei dubbi sull'effettiva misura del contributo europeo. Chi sostiene la necessità di realizzare la Tav, dice invece che costerà 2,8 miliardi di euro, e che questa spesa, dilazionata in dieci anni, è sostenibile; dicono inoltre che il contributo europeo è certo e che potranno esserci anche investimenti privati, sul modello di esperienze simili fatte in Europa. La differenza tra i due dati è troppo grande, anche perché, in buona sostanza, il tracciato non è ancora stato stabilito definitivamente e di conseguenza è difficile credere che i costi possano essere individuati in maniera univoca. Chi sostiene che la Tav debba essere completata gioca con le parole; i lavori non sono mai cominciati veramente né sul versante italiano né su quello francese. E' stata impiantato un cantiere dove saranno raccolti i detriti dei primi scavi conoscitivi che serviranno a ottenere informazioni sul tipo di rocce, in modo da stabilire il tracciato definitivo della linea. Forse siamo ancora in tempo a fermarci, magari decidendo di spendere quei soldi in maniera diversa.

giovedì 7 luglio 2011

"A comprare la città di Stoccolma" di Gianni Rodari

Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e più bravi di loro a vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l'Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un'ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma. La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione.
Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: "Proprietario della città di Stoccolma", e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
"E' una città della Svezia, anzi è la capitale".
"Ha quasi un milione di abitanti, e naturlmente sono tutti miei".
"C'è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario".
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l'anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà. La città di Stoccolama gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
"Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l'hanno fatto, il comunicato?" Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perchè non capivano ma erano gentili, e il barbiere si fregava le mani tutto contento: "Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L'ho proprio pagata a buon mercato".
E invece si sbagliava e l'aveva pagata troppo. Perchè ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo. Deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.

martedì 5 luglio 2011

da "Protagora" di Platone

Il mito di Protagora
C'era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione, nell'interno della terra gli dei le plasmarono, facendo una mescolanza di terra e di fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col fuoco e con la terra. E quando si trovarono nel momento di farle venire alla luce, affidarono a Prometeo e ad Epimeteo il compito di fornire e di distribuire le facoltà a ciascuna razza in modo conveniente. Ma Epimeteo chiese a Prometeo di poterle distribuire lui da solo: “Quando avrò finito la distribuzione - soggiunse - tu verrai a vedere”. E, così persuasolo, si accinse all'opera di distribuzione. Ad alcune razze diede la forza senza la velocità, e fornì invece le razze più deboli di velocità. Ad altre assegnò armi di difesa e di offesa, mentre per altre ancora, cui aveva dato una natura inerme, escogitò altre facoltà, per garantire la loro salvezza. Infatti, a quelle razze che egli rivestì di piccolezza, diede la capacità di fuggire con le ali, oppure di celarsi sotto terra; invece a quelle cui fornì la grandezza, diede la possibilità di salvarsi appunto con questa. E anche le altre facoltà distribuì in questo modo, in maniera che si equilibrassero. Ed escogitò queste cose facendo attenzione che nessuna razza si potesse estinguere. E, allorché ebbe premunite le varie razze dei mezzi per sfuggire alle distruzioni reciproche, escogitò un espediente perché si difendessero contro le intemperie delle stagioni che manda Zeus, rivestendole di folti peli e di spesse pelli, capaci di difenderle dal freddo e in grado di proteggerle dalle calure, e tali che, quando si coricavano nei loro giacigli, questi servissero da coltri naturali, proprie a ciascuna di esse. E ad alcune fornì zoccoli ai piedi, ad altre pelli dure e senza sangue. Successivamente, fornì cibi diversi per le diverse razze: ad alcune assegnò le erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici. E vi sono razze cui concesse di divorare altre razze di animali per nutrirsi; e provvide che le prime avessero una scarsa prole, e che quelle che dovevano essere divorate da queste avessero invece una numerosa prole, assicurando la conservazione della razza. Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurito tutte le facoltà per gli animali; a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l'uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai s'avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l'uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l'uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme con il fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona all'uomo. In tal modo, l'uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell'acropoli, dimora di Zeus; per giunta, c'erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque furtivamente nell'officina di Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l'arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all'uomo. Di qui vennero all'uomo le sue risorse per la vita. Ma Prometeo, a causa di Epimeteo, in seguito, come si narra, subì la pena per il furto.
E poiché l'uomo divenne partecipe di sorte divina, in primo luogo, in virtù di questo legame di parentela che venne ad avere con il divino, unico fra gli animali credette negli dei, e intraprese a costruire altari e statue di dei. In secondo luogo, rapidamente con l'arte sciolse la voce e articolò parole, inventò abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra. Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse: l'arte che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l'arte politica, di cui l'arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando città; ma allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l'un l'altro, perché non possedevano l'arte politica, sicché, disperdendosi nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: “Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l'arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un'arte. Ebbene anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?”. E Zeus rispose: “A tutti quanti. Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male della città”.

domenica 3 luglio 2011

"Promessa" di Alexandros Panagulis


Le lacrime che dai nostri occhi
Vedrete sgorgare
Non crediatele mai
Segni di disperazione
Promessa sono solamente
Promessa di lotta

Considerazioni libere (241): a proposito di modelli di sviluppo...

Com’era facilmente prevedibile i mezzi di informazione non parlano praticamente più della cosiddetta “primavera araba”; qualche volta sono costretti a raccontare quello che succede in Libia, perché lì sono impegnati i nostri soldati, e in Siria, perché è davvero impossibile non dare testimonianza della dura repressione del regime della famiglia Assad. Questo atteggiamento era prevedibile perché in genere la classi dirigenti, a cui appartengono gli editori e i grandi giornali, preferiscono non enfatizzare troppo le rivoluzioni democratiche: la democrazia tende a essere contagiosa ed è naturale per loro fare tutto il possibile per non estendere il contagio. Per questo credo sia nostro dovere di donne e uomini della sinistra continuare a parlare di quello che sta avvenendo in quei paesi, utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo - e la rete è probabilmente uno dei più efficaci - per non permettere che l’attenzione sia distolta per troppo tempo dalle storie di quelle persone.
Il 27 giugno scorso, tra l’indifferenza generale, 67 organizzazioni non governative, in rappresentanza di dodici paesi del mondo arabo, hanno reso pubblica una dichiarazione congiunta in cui hanno dato voce a tutte le loro preoccupazioni sui pacchetti di aiuti finanziari sponsorizzati dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, attraverso la Banca mondiale e il Fmi - che ora finalmente ha trovato una nuova guida, dopo le repentine dimissioni di Strauss-Kahn - per sostenere la transizione nei paesi della regione del Mediterraneo attraversati dalle recenti rivoluzioni popolari. Questi pacchetti rischiano di avere degli impatti negativi sui processi di transizione democratica e sconvolgere gli obiettivi di giustizia sociale ed economica che quelle rivoluzioni si erano date.
I cambiamenti democratici ricercati dalle popolazioni locali non saranno raggiunti con l’aumento degli aiuti legati a condizionalità politiche, ulteriori liberalizzazioni di commercio e investimenti, deregolamentazioni e ricette economiche molto ortodosse che hanno così tanto contribuito alle ingiustizie contro le quali si sono ribellati i popoli di Tunisia ed Egitto. Il percorso verso lo sviluppo passa necessariamente per la volontà dei popoli di ogni singolo Paese, attraverso un processo costituzionale e un dialogo nazionale.

Come ho già avuto modo di ricordare - credo che in questo caso non sia inutile sottolinearlo ancora una volta - su queste stesse istituzioni finanziarie internazionali ricade la responsabilità di aver promosso in maniera sistematica per anni gli ingiusti modelli economici che hanno portato all’impoverimento e alla marginalizzazione di molti paesi dell’Africa settentrionale e del Medio oriente. Nei giorni successivi alla rivolta in Tunisia molti leader internazionali hanno deplorato le scelte economiche del governo di Ben Ali, ma nel settembre 2010 il Fondo monetario internazionale lodava “l’adeguato modello di gestione macroeconomica della Tunisia e le riforme compiute nell’ultimo decennio”, chiedendo in proposito ulteriori riforme dello stesso stampo in merito “al contenimento della spesa pubblica sui salari, il cibo e i sussidi sui combustibili”. Ai nuovi governi di Tunisia ed Egitto i rappresentanti della Banca mondiale e del Fmi chiedono di continuare sulla stessa azione e condizionano l’erogazione degli aiuti, al perseguimento rigoroso di questi obiettivi. Di fatto questi organismi internazionali e i governi occidentali che li sostengono tendono a confondere la transizione verso la democrazia con quella verso le liberalizzazioni che servono ai loro interessi e non necessariamente a quelli delle persone a cui dovrebbero recare un beneficio.
Non è inutile sottolineare che di questi temi dobbiamo occuparci perché rischia di riguardare molto da vicino anche noi. Gli organismi internazionali stanno imponendo le stesse ricette alla Grecia, presto le imporranno alla Spagna e in seguito all’Italia. Indignarsi a quel punto sarà probabilmente tardi. Una volta si parlava di diversi modelli di sviluppo, ora questi discorsi sono stati sacrificati all'altare del pensiero unico liberista: è urgente ricominciare a riannodare i fili di quella discussione.

sabato 2 luglio 2011

"L'oblio è pieno di memoria" di Mario Benedetti


Ogni volta che ci danno lezioni di amnesia
come se mai fossero esistiti
i combustibili occhi dell'anima
o le labbra della pena orfana
ogni volta che ci danno lezioni di amnesia
e ci obbligano a cancellare
l'ebbrezza della sofferenza
mi convinco che la mia regione
non è la commedia di altri
nella mia regione ci sono calvari di assenza
moncherini di avvenire / sobborghi di lutto
ma anche candori di rosa muschiata
pianoforti strappalacrime
cadaveri che guardano ancora dai loro orti
nostalgie immobili in un pozzo d'autunno
sentimenti insopportabilmente attuali
che si negano a morire laggiù al buio

l'oblio è così pieno di memoria
che a volte non entrano le rimenbranze
e c'è da buttar rancori dal bordo
nel fondo l'oblio è un gran simulacro
nessuno sa ne può / malgrado voglia / dimenticare
un grande simulacro ripieno di fantasmi
questi pellegrini che viaggiano nell'oblio
come se fosse il cammino di Santiago

il giorno o la notte che scoppi l'oblio
che salti a pezzi o crepiti /
i ricordi atroci e di meraviglia
spezzeranno le sbarre di fuoco
trascineranno finalmente la verità per il mondo
e questa verità sarà che non c'è oblio.

lunedì 27 giugno 2011

da "Le città invisibili" di Italo Calvino


Laudomia
Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un'altra città i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la Laudomia dei morti, il cimitero. Ma la speciale dote di Laudomia è d'essere, oltre che doppia, tripla, cioè di comprendere una terza Laudomia che è quella dei non nati.
Le proprietà della città doppia sono note. Più la Laudomia dei vivi si affolla e si dilata, più cresce la distesa delle tombe fuori delle mura. Le vie della Laudomia dei morti sono larghe appena quanto basta perché giri il carro del becchino, e vi s'affacciano edifici senza finestre; ma il tracciato delle vie e l'ordine delle dimore ripete quello della Laudomia viva, e come in essa le famiglie stanno sempre più pigiate, in fitti loculi sovrapposti. Nei pomeriggi di bel tempo la popolazione vivente rende visita ai morti e decifra i propri nomi sulle loro lastre di pietra: a somiglianza della città dei vivi questa comunica una storia di fatiche, arrabbiature, illusioni, sentimenti; solo che qui tutto è diventato necessario, sottratto al caso, incasellato , messo in ordine. E per sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovarvi di più o di meno: spiegazioni per più di una Laudomia, per città diverse che potevano essere e non sono state, o ragioni parziali, contraddittorie, elusive. Giustamente Laudomia assegna una residenza altrettanto vasta a coloro che devono ancora nascere; certo che lo spazio non è in proporzione al loro numero che si suppone sterminato, ma essendo un luogo vuoto, circondato da un'architettura tutta nicchie e rientranze e scanalature, e potendosi attribuire ai non nati la dimensione che si vuole, pensarli grandi come topi o come bachi da seta o come formiche o uova di formica, nulla vieta di immaginarli ritti o accoccolati su ogni aggetto o mensola che sporge dalle pareti, su ogni capitello o plinto, in fila oppure sparpagliati, intenti alle incombenze delle loro vite future, e contemplare in una sbavatura del marmo l'intera Laudomia di qui a cento o mille anni, gremita di moltitudini vestite in fogge mai viste, tutti per esempio in barracano color melanzana, o tutti con piume di tacchino sul turbante e riconoscervi i discendenti propri e quelli delle famiglie alleate e nemiche, dei debitori e creditori, che vanno e vengono perpetuando i traffici, le vendette, i fidanzamenti d'amore o d'interesse. I viventi di Laudomia frequentano la casa dei non nati interrogandoli; i passi risuonano sotto le volte vuote; le domande si formulano in silenzio: ed è sempre di sé che chiedono i vivi, e non di quelli che verranno; chi si preoccupa di lasciare illustre memoria di sé, chi di far dimenticare le sue vergogne; tutti vorrebbero seguire il filo delle conseguenze dei propri atti; ma più aguzzano lo sguardo, meno riconoscono una traccia continua; i nascituri di Laudomia appaiono puntiformi come granelli di polvere, staccati dal prima e dal poi. La Laudomia dei non nati non trasmette, come quella dei morti, una qualche sicurezza agli abitanti della Laudomia viva, ma solo sgomento. Ai pensieri dei visitatori finiscono per aprirsi due strade, e non si sa quale riserbi più angoscia: o si pensa che il numero dei nascituri superi di gran lunga quello di tutti i vivi e tutti i morti, e allora in ogni poro della pietra s'accalcano folle invisibili, stipate sulle pendici di un imbuto come sulle gradinate d'uno stadio, e poiché a ogni generazione la discendenza di Laudomia si moltiplica, in ogni imbuto s'aprono centinaia di imbuti ognuno con milioni di persone che devono nascere e protendono i colli e aprono la bocca per non soffocare; oppure si pensa che anche Laudomia scomparità, non si sa quando, e tutti i suoi cittadini con lei, cioè le generazioni si succederanno fino a raggiungere una cifra e non andranno più in là, e allora la Laudomia dei morti, e quella dei non nati sono come le ampolle d'una clessidra che non si rovescia, ogni passaggio tra la nascita e la morte è un granello di sabbia che attraversa la strozzatura, e ci sarà un ultimo abitante di Laudomia a nascere, un ultimo granello a cadere che ora è qui che aspetta in cima al mucchio.

domenica 26 giugno 2011

da "I-TIGI Racconto per Ustica" di Marco Paolini


Insomma a bordo c’era: un dentista, un commerciante di carni, c’era una laureanda in lingua dell’Università di Padova, una insegnante di scuola media, un operaio, c’era un’avvocatessa, un bracciante agricolo, un carabiniere in licenza... poi c’era due impiegati del Ministero delle Finanze, c’erano un ingegnere, alcuni pensionati, un giornalista di “Lotta continua”, un rappresentante di ditte dolciarie e fitofarmaci, un fotografo ambulante, il gestore dei laboratori di produzione dei gelati Nevada; un altro commerciante, c’era poi una laureata in ingegneria nucleare, un’agente di cambio, un agente di commercio, un agente di pubblica sicurezza, un impiegato dell’Ospedale militare di Palermo, una impiegata dell’Hotel De Palm; un piastrellista, una bracciante agricola temporaneamente baby sitter, un altro carabiniere in permesso, un assicuratore, un imprenditore edile, un manovale edile, poi c’era un ragioniere, c’era un geometra, c’erano alcuni studenti universitari, una impiegata di farmacia, un’albergatrice e poi un perito metalmeccanico, altri pensionati. Sì, e poi c’era anche una professoressa di analisi matematica e una borsista anch’essa in matematica e c’era anche un commerciante in tessuti, e poi c’erano due tecnici della Snam Progetti. Un viaggiatore di commercio, sì e poi, un capo ufficio di banca e un impiegato di banca, poi c’era un maresciallo della Guardia di Finanza in pensione; poi c’erano tredici bambini, di cui due neonati, tutti in attesa di futuro e occupazione nella vita, una hostess, un’assistente di volo, un comandante pilota e un primo Ufficiale copilota al posto di servizio.
A me sto aereo, sembra un treno, con tutti questi mestieri, non è più nel 1980, che gli aerei li guardi passare e basta, è quel momento che li puoi cominciare a prenderli, puoi decidere costa un po’ di più…

da "Lettera ad una professoressa" di don Lorenzo Milani

Dopo l'istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche i ragazzi di paese. Tutti bocciati naturalmente.
Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose.
Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. Il maestro per loro era dall'altra parte della barricata e conveniva ingannarlo.
Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c'era registro.
Anche sul sesso gli stessi sotterfugi. Credevano che bisognasse parlarne di nascosto. Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio. Comunque sul principio era l'unica materia scolastica che li svegliasse.
Avevamo un libro di anatomia. Si chiudevano a guardarlo in un cantuccio.
Due pagine erano tutte consumate. Più tardi scoprirono che son belline anche le altre. Poi si accorsero che è bella anche la storia.
Qualcuno non s'è più fermato. Ora gli interessa tutto. Fa scuola ai più piccini, è diventato come noi.
Qualcuno invece siete riusciti a ghiacciarlo un'altra volta. Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente. E' razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori. Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l'avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta. Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l'avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno. Né l'uno né l'altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l'officina. Sono venuti da noi solo perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età. Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E' stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. Sandro se ne ricorderà per sempre. Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no. La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose estano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani. Per esempio in prima gli avreste detto riletto per la seconda o terza volta la Piccola Fiammiferaia e la neve che fiocca fiocca fiocca. Invece in seconda ed in terza leggete roba scriba per adulti.
Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale.
Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza respirare. A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale.
Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino”; si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l'odio per i libri.
Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi a fargli amare anche il resto. Ma agli esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?
Lo so anch'io che il Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l'avete buttato fuori di scuola l'anno prima.
Bella cura la vostra. Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: - Non si dice lalla, si dice aradio. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. "Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua"; l'ha detto la Costituzione pensando a lui.

sabato 25 giugno 2011

da "Le città invisibili" di Italo Calvino

Leonia
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche che dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo i tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose di ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arrestare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’inalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermantazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri. Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle altre città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

venerdì 24 giugno 2011

Considerazioni libere (240): a proposito di associazioni segrete e di oscure conventicole...

Della loggia massonica P2 conosciamo almeno due documenti importanti. C'è prima di tutto la lista degli affiliati: si tratta di 932 nomi, tra cui c'erano quarantaquattro parlamentari, tre ministri del governo allora in carica, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti militare e civile, dodici generali dei carabinieri, cinque generali della guardia di finanza, ventidue generali dell'esercito, quattro dell'aeronautica militare, otto ammiragli, un gran numero di magistrati e di funzionari pubblici, ventisette giornalisti e dieci dirigenti Rai. Poi c'è il cosiddetto Piano di rinascita democratica, una sorta di programma dell'organizzazizone segreta, le cui linee guida prevedevano, se non un vero e proprio regime dittatoriale - come quello instaurato dai Colonnelli in Grecia - sicuramente una svolta decisamente autoritaria, con la messa in mora di molti principi della Costituzione repubblicana.
Nonostante il lavoro meritorio di alcuni magistrati e di una parte della commissione parlamentare d'inchiesta, in particolare della sua presidente, Tina Anselmi, sono ancora molte le cose che non si conoscono della P2; non sappiamo quale era l'effettivo ruolo di Licio Gelli e se c'era, sopra di lui, un livello di controllo e di "governo" della loggia mai emerso, non sappiamo quale fu il peso dell'amministrazione statunitense nel sostenere e nel finanziare questa organizzazione, soprattutto non sappiamo esattamente come la P2 influì sulla vita politica e istituzionale del nostro paese tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli Ottanta. Sarebbe importante leggere alcuni dei libri che sono stati scritti su questa storia, come Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2 di Sergio Flamigni, per molti anni parlamentare del Pci e tra i più profondi conoscitori delle trame oscure di questo paese. La storia della P2 è comunque una storia tragica, perché intrecciata più o meno strettamente, con stragi e delitti, da Aldo Moro agli ignari viaggiatori della stazione di Bologna, per ricordare soltanto due episodi della nostra storia recente, in cui la loggia segreta ha avuto un ruolo, ancora da capire fino in fondo.
Di quella che i giornali in questi giorni hanno ribattezzato, con poca fantasia, P4 non sappiamo ancora molto. Pare non ci sia una lista così nutrita di persone: i "soci" di questo club - affiliati mi pare troppo, visto il livello - sono tre, al massimo quattro, per quanto questi pochi possano dire di conoscere molte altre persone: Bisignani, l'uomo al centro di questa nuova rete, è stato definito da uno dei suoi più autorevoli "amici", Gianni Letta, "amico di tutti", anzi pare proprio che la sua professione sia essere "uomo di relazioni". Sicuramente non c'è un testo analogo al Piano di rinascita democratica. Visto però che siamo nell'epoca delle comunicazioni via telefono cellulare, sempre e comunque, della P4 conosciamo centinaia e centinaia di pagine di intercettazioni che in questi giorni leggiamo nei giornali. E ne esce un ritratto del paese desolante.
Non so se nelle intercettazioni ci sono gli estremi per condannare qualcuno, se si tratti solo di un legittimo lavoro di lobby o ci siano dei reati, ma certo tutti quelli che che ci compaiono dovrebbero vergognarsi per la magra figura che ci fanno. C'è il nobile Montezemolo, il modello dello spirito bipartisan della "nuova Italia", che telefona a Bisignani per chiedere che questi interceda presso il direttore generale affinché faccia lavorare la casa di produzione della sua ex fidanzata. Al centro delle trame della P2 c'era il controllo del Corriere della sera, mentre i novelli cospiratori della P4 pare che aspirino al controllo di Dagospia. Gran parte delle telefonate sono piene di pettegolezzi, maldicenze, piccole beghe da comari di provincia. Uno dei presunti capi della P4, l'ex magistrato napoletano Papa è solito regalare alla sue "amiche" orologi "nudi", senza scatola. E via elencando, basta prendere un qualsiasi giornale - tranne ovviamente gli house organ di B. - per farsi un'idea di questa Italia meschina e piccina, delle piccole raccomandazioni, delle prebende da quattro soldi, delle minacce e delle blandizie da millantatori.
Dice Marx: "la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia la seconda in farsa"; ecco ora siamo chiaramente alla seconda fase. Con questa "considerazione" non voglio certo rivalutare la P2, una delle pagine più nere della nostra storia repubblicana. Probabilmente se avessimo potuto ascoltare gli arcani conversari degli affiliati avremmo ascoltato anche in quel caso i tentativi di trovare un posto di lavoro per un figlio, un'amante, un cognato, mascherati dai propositi di salvare l'Italia dal comunismo e di mantere il paese nell'area atlantica. Né voglio sottovalutare il peso e il ruolo di questa nuova associazione di ribaldi - che però non vorrei etichettare come P4. Il fatto che un uomo come Bisignani abbia un tale potere nelle proprie mani la dice lunga sulla debolezza della nostra classe politica e imprenditoriale. Personalmente mi pare che nelle intercettazioni i reati ci siano e fa bene la magistratura a proseguire le indagini. Ma c'è soprattutto lo squallore di una classe dirigente che non trova neppure giustificazione alla propria avidità, all'affannosa ricerca di un privilegio per sé e per i propri familiari. Certamente nessuno della P4 immagina un golpe, è sufficiente piazzare la propria "favorita" in un reality show.

giovedì 23 giugno 2011

Considerazioni libere (239): a proposito di pubblicità...

Un po' meno di un anno fa - il 2 settembre del 2010, nella "considerazione" n. 158, per la precisione - ho parlato della volgarità di uno spot di una grande azienda di telefonia mobile, in cui si indugiava, con insistita morbosità, sul corpo di Belen Rodriguez, appena uscita da una piscina. Nei mesi successivi c'è stata una campagna, probabilmente alimentata dalla stessa azienda, per denunciare il cattivo gusto di tutta una serie di spot, gli ultimi della serie, il cui unico elemento narrativo era ormai l'ossessivo mostrarsi della stessa Belen. Come ho scritto allora, io non ho nulla contro questa ragazza, che anzi dimostra nelle interviste una certa intelligenza e sagacità.
Credo appunto che gli stessi creativi - usiamo pure questa parola che si usa il più delle volte, come in questo caso, a sproposito - assoldati dalla Tim, abbiamo prima realizzato quei brutti messaggi pubblicitari e in seguito, accortisi che ormai i due testimonial, insieme all'incolpevole Belen c'era anche il povero De Sica, avevano esaurito il proprio compito - avevano esaurito la propria "spinta propulsiva", diciamo così, con un'espressione d'altri tempi - abbiano deciso che quegli stessi spot da loro ideati erano diventati volgari. La regola è sempre quella: parlatene pure male, l'importante è che se ne parli. Anzi hanno impostato una nuova campagna promozionale ingaggiando una nuova bellissima ragazza, la modella Bianca Balti, vestendola di tutto punto, per interpretare monna Lisa e un'improbabile dama dell'ermellino accanto al Leonardo di Neri Marcorè. Gli spot sono abbastanza divertenti e quindi tutto è a posto madama la marchesa: salvo il fatturato e salva la dignità della donna, ormai non più prigioneria soltanto della propria bellezza. La nuova campagna promozionale è stata preceduta e accompagnata da una serie di interviste con la stessa Balti, in cui importanti firme del giornalismo italiano si sperticavano in lodi per il nuovo corso scelto dalla Tim. Anche in questo nulla contro la Balti, anch'essa ragazza intelligente e capace.
Tutto bene fino a quando è durato l'inverno. Da alcuni giorni, con l'arrivo dell'estate, i soliti creativi si sono resi conto che avere sotto contratto una bellezza come Bianca Balti e non sfrutturla doveva sembrare un peccato mortale. E infatti sono comparsi lungo le strade delle nostre città cartelli pubblicitari in cui la giovane, smessi i castigati panni di monna Lisa, indossa un meno leonardesco bikini. L'immagine è sempre quella: una bella e giovane donna che serve a promuovere un prodotto. Francamente non mi pare che i "nuovi" creativi della Tim abbiano fatto un grande sforzo.

p.s. neppure i creativi incaricati di "inventare" la campagna della prossima Festa dell'Unità di Roma hanno fatto un grande sforzo: due belle gambe, scoperte dal vento del cambiamento...