Tacchino, sost. m.
E' interessante e curiosa la storia delle parole con cui i nostri progenitori hanno chiamato questa strana gallina arrivata dalle Americhe. In Toscana cominciarono a chiamarlo tacchino, perché le sue piume erano screziate, piene di tacche appunto, ossia di macchie, come si diceva allora. E allo stesso modo i piemontesi lo chiamarono pitto, ovvero dipinto, e ancora adesso qui a Parma lo chiamiamo pit. Siccome però nel Cinquecento arrivarono qui in Europa i tacchini, i pomodori, il mais, le patate - e l'oro naturalmente - prima che avessimo ben chiaro da dove davvero provenisse tutto questo ben di Dio, il tacchino in Francia fu chiamato coq d'Inde, ossia gallina d'India, da cui - per crasi - l'odierno termine francese dindon, in Inghilterra turkey, come se venisse dalla Turchia - e anche il mais noi lo chiamiamo ancora granoturco - e nei paesi di lingua tedesca Calecutischerhahn, ossia gallo di Calcutta. Quello che era strano, esotico, mai visto prima, doveva essere o turco o indiano, perché non sapevano di preciso né dove fosse la Turchia né dove fosse l'India. In fondo non lo sapeva di preciso neppure Cristoforo Colombo tanto da buscar el levante por el poniente.
A dire la verità non è che noi sappiamo poi molto di più di quei nostri bis-bis-bisnonni, che adesso ci sembrano così ingenui. Forse riusciamo a indicare su un mappamondo che quel rettangolo a fianco della Grecia è la Turchia e che quel triangolo rovesciato più a destra è l'India, ma ci fermiamo lì, perché la storia che ci insegnano a scuola, dalle elementari all'università - anche se ci siamo stati parecchi anni, a dispetto del ministro Poletti - è rigorosamente eurocentrica e tratta poco e male le vicende di quei paesi che escono dalla nostra visione così schiettamente provinciale. Quando abbiamo studiato la storia della prima guerra mondiale i nostri insegnanti ci hanno sfrangiato i cosiddetti per farci capire perché l'Italia sia entrata in guerra e c'è tutta una letteratura sul Piave e su Caporetto e su Vittorio Veneto, mentre è stato ben più rilevante che a quel conflitto abbia partecipato l'Impero Ottomano, a fianco della Germania e dell'Austia-Ungheria. Anzi proprio la sconfitta di quell'impero antichissimo e la divisione famelica dei suoi territori tra le potenze vincenti - la Gran Bretagna e la Francia - è una delle ragioni per cui adesso, dopo oltre un secolo, siamo ancora lì a combattere in quegli stessi territori. Nasce tutto lì, perché allora nacquero la Siria e l'Iraq - che erano e sono entità statali solo sulla carta - perché allora non si volle risolvere la questione dei curdi, come quella dei palestinesi. Poi abbiamo fatto molti altri errori - e altri ne stiamo facendo ancora adesso, visto che i nostri governi hanno deciso di bombardare la Siria e l'Iraq - ma tutto è cominciato allora. Studiare è una cosa importante e non è tutta la stessa roba quello che c'è al di là di Istanbul, come molti sembrano credere.
Un po' come il tacchino, che alla fine abbiamo scoperto non essere né turco né indiano, ma americano. E gli americani hanno festeggiato il tacchino proprio ieri, durante il Thanksgiving day, il Giorno del ringraziamento. Ovviamente i tacchini hanno un po' meno da festeggiare, a parte quello più fortunato che è stato "graziato" dal Presidente. Si tratta di un rito che si ripete da qualche anno: un tacchino - a volte una coppia - viene risparmiato dal Presidente in carica, sotto gli occhi delle telecamere, e, invece di essere ripieno e cotto al forno, viene inviato nella tenuta di Mount Vernon, in Virginia, nella casa dove è nato Washington. In genere il tacchino fortunato muore poco dopo, perché prima del Ringraziamento - così come avviene a tutti gli esemplari della sua specie - è stato ingrassato oltre i limiti della sua struttura ossea: il tacchino è carne da macello, modificato artificialmente per diventare sempre più grosso, con un petto sempre più sviluppato e quindi la grazia presidenziale non fa che prolungare la sua agonia. Comunque gli americani credono - o si illudono di credere - che quel tacchino sia più fortunato dei suoi simili. Chissà se anche quell'avvocato di Chicago dalla pelle scura, mentre grazia il tacchino, pensa a quanto anche lui sia stato fortunato, perché, anche se nero, è nato dalla parte giusta del mondo, quella dei ricchi. Perché per i ragazzi neri e poveri Chicago non è un posto così sicuro per crescere, come ci racconta la storia la storia di Laquan McDonald che l'anno scorso non è riuscito a mangiare il tacchino e a ringraziare nessuno, perché un poliziotto bianco lo ha ucciso, semplicemente perché era povero e nero.
Ci sono ancora troppe ingiustizie nel mondo, e un po' ce le racconta anche questo pennuto.
Puli puli puli pu fa il tacchino, con tutto quello che segue...
venerdì 27 novembre 2015
lunedì 23 novembre 2015
Verba volant (85): libertà...
Libertà, sost. f.
Libertà è la parola del 25 aprile, che è proprio la Festa della Liberazione.
E' una parola su cui sono stati scritti molti libri e probabilmente la voce di questo vocabolario potrebbe essere superflua, anche se sulla libertà c'è sempre qualcosa da dire.
Partiamo, come al solito, dall'etimologia. L'aggettivo latino liberum ha la stessa radice del verbo libere, ossia far piacere, perché - come spiega sinteticamente il Pianigiani:
Questa definizione non può essere appunto un saggio sulla libertà, ma - trattandosi appunto di un vocabolario - voglio raccontare di come questa parola sia stata rubata. Sembra un paradosso, visto che le parole sono di tutti, ma capita a volte che vengano sottratte all’uso comune e vengano considerate patrimonio solo di qualcuno: è quello che è successo negli ultimi vent'anni proprio alla parola libertà.
Berlusconi - con la complicità degli aedi al suo servizio - ha messo cappello sulla parola libertà, l’ha fatta sua. Quando noi finalmente ce ne siamo accorti, ormai era troppo tardi, lo scippo era già avvenuto e i ladri ormai lontani all’orizzonte.
Nella cosiddetta prima Repubblica libertà era una parola di tutti, campeggiava sullo scudo crociato della Democrazia cristiana ed era l’ultima parola con cui si chiudeva Bandiera rossa. Vi ricordate come finisce quella bella canzone di lotta?

E poi c’era il 25 aprile, dove libertà era scritto dappertutto, sui manifesti, sulle bandiere, sui fazzoletti al collo dei partigiani. Insomma nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato qualcuno a dire che libertà era una parola solo loro, tanto più quelli che il 25 aprile non lo avevano mai festeggiato, perché era proprio da loro che ci eravamo liberati.
Eppure è andata proprio così, a un certo punto hanno perfino cominciato a chiamarsi Popolo della libertà e noi, che eravamo popolo prima di loro - Avanti popolo… ricordate? – niente: siamo stati zitti.
Ricordate un celebre sketch di Totò? Il comico napoletano racconta all’amico Mario Castellani che un giovane, un marcantonio, gli si è avvicinato, l’ha chiamato Pasquale e gli ha dato uno schiaffo; Totò ride ricordando l’episodio, tra l’incredulità di Castellani. Continua raccontando che ad ogni ceffone, sempre più pesante, pensava:
Per questo 25 aprile credo sia un buon esercizio cominciare a recuperare la parola libertà. Sicuramente loro non vorranno restituirla, ma non dobbiamo chiedere permesso, ce la riprendiamo e basta. Ne dobbiamo andare orgogliosi, della sua storia e del suo futuro, andando in piazza e urlandola forte.
Perché libertà, come cantava il poeta,
scritto il 24 aprile 2014
Libertà è la parola del 25 aprile, che è proprio la Festa della Liberazione.
E' una parola su cui sono stati scritti molti libri e probabilmente la voce di questo vocabolario potrebbe essere superflua, anche se sulla libertà c'è sempre qualcosa da dire.
Partiamo, come al solito, dall'etimologia. L'aggettivo latino liberum ha la stessa radice del verbo libere, ossia far piacere, perché - come spiega sinteticamente il Pianigiani:
sol chi è libero fa ciò che gli piaceMi pare che non si potrebbe dare miglior definizione.
Questa definizione non può essere appunto un saggio sulla libertà, ma - trattandosi appunto di un vocabolario - voglio raccontare di come questa parola sia stata rubata. Sembra un paradosso, visto che le parole sono di tutti, ma capita a volte che vengano sottratte all’uso comune e vengano considerate patrimonio solo di qualcuno: è quello che è successo negli ultimi vent'anni proprio alla parola libertà.
Berlusconi - con la complicità degli aedi al suo servizio - ha messo cappello sulla parola libertà, l’ha fatta sua. Quando noi finalmente ce ne siamo accorti, ormai era troppo tardi, lo scippo era già avvenuto e i ladri ormai lontani all’orizzonte.
Nella cosiddetta prima Repubblica libertà era una parola di tutti, campeggiava sullo scudo crociato della Democrazia cristiana ed era l’ultima parola con cui si chiudeva Bandiera rossa. Vi ricordate come finisce quella bella canzone di lotta?
Evviva il comunismo e la libertàLo sappiamo che tra queste due parole già allora ci sembrava fosse una qualche contraddizione, poi abbiamo smesso di cantare Bandiera rossa perché comunisti non lo eravamo più - forse qualcuno non lo era mai stato - e soprattutto non volevamo che gli altri pensassero che lo eravamo ancora. Comunque, al di là di ogni altra elucubrazione politico-semantica, quando cantavamo quel ritornello, libertà - anche per via dell’accento finale - chiudeva ogni dibattito e riusciva a prevalere su comunismo, più lungo e meno facile da cantare.

E poi c’era il 25 aprile, dove libertà era scritto dappertutto, sui manifesti, sulle bandiere, sui fazzoletti al collo dei partigiani. Insomma nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato qualcuno a dire che libertà era una parola solo loro, tanto più quelli che il 25 aprile non lo avevano mai festeggiato, perché era proprio da loro che ci eravamo liberati.
Eppure è andata proprio così, a un certo punto hanno perfino cominciato a chiamarsi Popolo della libertà e noi, che eravamo popolo prima di loro - Avanti popolo… ricordate? – niente: siamo stati zitti.
Ricordate un celebre sketch di Totò? Il comico napoletano racconta all’amico Mario Castellani che un giovane, un marcantonio, gli si è avvicinato, l’ha chiamato Pasquale e gli ha dato uno schiaffo; Totò ride ricordando l’episodio, tra l’incredulità di Castellani. Continua raccontando che ad ogni ceffone, sempre più pesante, pensava:
Chissà questo stupido dove vuole arrivareE quando la spalla gli chiede perché non ha reagito, risponde:
Che me ne importa, mica sono PasqualeA noi è successa la stessa cosa e siamo ancora qui a tamponarci le ferite: neppure noi ci chiamiamo Pasquale.
Per questo 25 aprile credo sia un buon esercizio cominciare a recuperare la parola libertà. Sicuramente loro non vorranno restituirla, ma non dobbiamo chiedere permesso, ce la riprendiamo e basta. Ne dobbiamo andare orgogliosi, della sua storia e del suo futuro, andando in piazza e urlandola forte.
Perché libertà, come cantava il poeta,
non è star sopra un albero.
scritto il 24 aprile 2014
Verba volant (57): internazionale...
Internazionale, agg.
Questa è una parola che, a differenza di quasi tutte le altre, ha una data di nascita precisa e di cui sappiamo l’autore. Infatti l'aggettivo international fu usato per la prima volta nel 1780 dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che è unanimemente considerato il padre dell’utilitarismo, ossia la dottrina secondo la quale è eticamente giusto ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili; ed è proprio Bentham a definire utilità la misura della felicità di ogni essere sensibile, uomo o animale che sia.
Bentham è stato un pensatore molto importante - probabilmente sottovalutato - anche perché ha influenzato molti filosofi, giuristi e politici; merita di ricordare che tra gli allievi del filosofo londinese ci sono stati sia John Stuart Mill, uno dei massimi esponenti del liberalismo dell’Ottocento, sia Robert Owen, uno dei padri del socialismo. Bentham fu un grande educatore e, non a caso, fu uno degli ispiratori della fondazione dell’University College of London, la prima università inglese ad ammettere tutti, senza distinzione di razza e credo politico o religioso, al contrario di quello che avveniva ad Oxford e Cambridge.
Ma è meglio non divagare troppo. La parola internazionale ha scaldato i cuori dimolte generazioni. Come noto, questo aggettivo, diventato sostantivo e nome proprio, ha indicato le diverse associazioni internazionali dei lavoratori che dalla seconda metà del XIX secolo si sono costituite con lo scopo di coordinare e svolgere su un piano mondiale - e soprattutto oltre i confini degli stati - la lotta contro il capitalismo e di instaurare il socialismo.
L’Internazionale per antonomasia - la prima - fu costituita a Londra nel 1864 da socialisti, marxisti, anarchici, mazziniani.
Infine si chiama Internazionale l’inno dei lavoratori aderenti a tali associazioni, scritto nel 1871 dal francese Éugéne Pottier e musicato quasi vent’anni dopo da Pierre Degeyter, mentre fino ad allora era stato cantato con la musica della Marsigliese. Ma vedo che continuo a divagare. A noi vecchi “sinistri” succede spesso.
Ho deciso di affrontare questa parola per raccontare un paradosso della storia. Come ho detto, una volta quelli internazionali - o internazionalisti - eravamo noi di sinistra, tanto che una parte dei socialisti rifiutarono di combattere nella prima guerra mondiale, proprio perché si trattava del conflitto degli stati-nazione. Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista avevano scritto
Adesso è cambiato tutto e le parti si sono decisamente invertite: è il paradosso di cui parlavo prima. Dopo che è finito il comunismo e che anche il socialismo non sta troppo bene, vista la fregola con cui gli ultimi superstiti del Pse in Europa – da Schultz ad Hollande – hanno abbracciato il pensiero liberista, per tacere di quello che avviene nella cosiddetta sinistra italiana, internazionali sono diventati i padroni.
Emblematico è il caso di Fiat - o di Fca, come dobbiamo cominciare a chiamarla - che ha la sede legale in Olanda - dal momento che le leggi di quel paese garantiscono maggiori vantaggi agli azionisti, oltre al fatto di poter aprire una filiale alle Antille olandesi, che è un noto paradiso fiscale - paga le tasse in Gran Bretagna, visto che lì le aliquote sono le più basse dell’area Ocse, ed è quotata alla Borsa di New York. Incidentalmente produce alcune auto in Italia, ancora per un po’, anche se a questo punto è abbastanza probabile che preferirà farlo dove il lavoro costa meno. Questo nuovo internazionalismo ce lo hanno spiegato bene anche quelli della Electrolux dicendo che gli operai italiani devono costare - per loro gli stipendi sono costi, of course - come quelli polacchi e bielorussi.
E noi? Siamo ancora internazionali? Ma soprattutto ci siamo ancora?
scritto il 31 gennaio 2014
Questa è una parola che, a differenza di quasi tutte le altre, ha una data di nascita precisa e di cui sappiamo l’autore. Infatti l'aggettivo international fu usato per la prima volta nel 1780 dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che è unanimemente considerato il padre dell’utilitarismo, ossia la dottrina secondo la quale è eticamente giusto ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili; ed è proprio Bentham a definire utilità la misura della felicità di ogni essere sensibile, uomo o animale che sia.
Bentham è stato un pensatore molto importante - probabilmente sottovalutato - anche perché ha influenzato molti filosofi, giuristi e politici; merita di ricordare che tra gli allievi del filosofo londinese ci sono stati sia John Stuart Mill, uno dei massimi esponenti del liberalismo dell’Ottocento, sia Robert Owen, uno dei padri del socialismo. Bentham fu un grande educatore e, non a caso, fu uno degli ispiratori della fondazione dell’University College of London, la prima università inglese ad ammettere tutti, senza distinzione di razza e credo politico o religioso, al contrario di quello che avveniva ad Oxford e Cambridge.
Ma è meglio non divagare troppo. La parola internazionale ha scaldato i cuori dimolte generazioni. Come noto, questo aggettivo, diventato sostantivo e nome proprio, ha indicato le diverse associazioni internazionali dei lavoratori che dalla seconda metà del XIX secolo si sono costituite con lo scopo di coordinare e svolgere su un piano mondiale - e soprattutto oltre i confini degli stati - la lotta contro il capitalismo e di instaurare il socialismo.
L’Internazionale per antonomasia - la prima - fu costituita a Londra nel 1864 da socialisti, marxisti, anarchici, mazziniani.
Infine si chiama Internazionale l’inno dei lavoratori aderenti a tali associazioni, scritto nel 1871 dal francese Éugéne Pottier e musicato quasi vent’anni dopo da Pierre Degeyter, mentre fino ad allora era stato cantato con la musica della Marsigliese. Ma vedo che continuo a divagare. A noi vecchi “sinistri” succede spesso.
Ho deciso di affrontare questa parola per raccontare un paradosso della storia. Come ho detto, una volta quelli internazionali - o internazionalisti - eravamo noi di sinistra, tanto che una parte dei socialisti rifiutarono di combattere nella prima guerra mondiale, proprio perché si trattava del conflitto degli stati-nazione. Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista avevano scritto
Proletarier aller Länder, vereinigt euch!In una parola, era la sinistra a essere, per definizione, attenta ai problemi del mondo, a porre se stessa in un piano di lotta appunto internazionale; contro gli stati e contro i capitalisti, i cui interessi coincidevano, tanto che uno degli ultimi esponenti del capitalismo italiano del secolo scorso poteva dire, non senza una qualche ragione dal suo punto di vista, che “quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”. Non era proprio così, quello che andava bene per gli Agnelli, ossia per i padroni della Fiat, andava bene anche per le classi dirigenti di questo paese. In questo quadro, apparentemente idillico, i lavoratori erano programmaticamente esclusi. Comunque sia allora c’era una sinistra “internazionale” che lottava contro un padrone decisamente nazionale, tanto che Italia era nell’acronimo di quella grande industria, la più grande del nostro paese.
Adesso è cambiato tutto e le parti si sono decisamente invertite: è il paradosso di cui parlavo prima. Dopo che è finito il comunismo e che anche il socialismo non sta troppo bene, vista la fregola con cui gli ultimi superstiti del Pse in Europa – da Schultz ad Hollande – hanno abbracciato il pensiero liberista, per tacere di quello che avviene nella cosiddetta sinistra italiana, internazionali sono diventati i padroni.
Emblematico è il caso di Fiat - o di Fca, come dobbiamo cominciare a chiamarla - che ha la sede legale in Olanda - dal momento che le leggi di quel paese garantiscono maggiori vantaggi agli azionisti, oltre al fatto di poter aprire una filiale alle Antille olandesi, che è un noto paradiso fiscale - paga le tasse in Gran Bretagna, visto che lì le aliquote sono le più basse dell’area Ocse, ed è quotata alla Borsa di New York. Incidentalmente produce alcune auto in Italia, ancora per un po’, anche se a questo punto è abbastanza probabile che preferirà farlo dove il lavoro costa meno. Questo nuovo internazionalismo ce lo hanno spiegato bene anche quelli della Electrolux dicendo che gli operai italiani devono costare - per loro gli stipendi sono costi, of course - come quelli polacchi e bielorussi.
E noi? Siamo ancora internazionali? Ma soprattutto ci siamo ancora?
scritto il 31 gennaio 2014
"Asilo" di Ashraf Fayadh
Ricevere un boccone di pane.
Resistere! Qualcosa che tuo nonno era solito fare.
Senza saperne la ragione.
Il boccone? Tu.
La patria: un documento da mettere nel portafoglio.
Denaro: carta con sopra immagini dei leader.
La foto: il tuo sostituto previo tuo ritorno.
E il ritorno: mitologica creatura… uscita dai racconti di tua nonna.
Fine della prima lezione.
tradizione dall'inglese di Sultan Sooud al-Qassemi e dall'italiano di Chiara De Luca
domenica 22 novembre 2015
"Dovrò scansare la memoria" di Ashraf Fayadh
e affermare che ho dormito bene.
Ho dovuto stracciare le domande
che sono giunte in cerca di fondamento, per avere risposte convincenti.
Le domande che, per motivi molto personali, sono giunte dopo il punto di domanda.
tradizione dall'inglese di Mona Kareem e dall'italiano di Chiara De Luca
sabato 21 novembre 2015
Verba volant (66): busto...
Busto, sost. m.
Ecco una parola che ha una storia etimologica particolarmente interessante, che merita di essere raccontata.
Deriva dal latino bustus, participio passato di burĕre, che significa bruciare, e quindi ha l'originario significato di bruciato, arso. Dal momento che tra gli antichi l'incinerazione era una pratica molto diffusa, la parola passò ad indicare il crematoio, ossia il tumolo sotto cui si trovavo le ceneri dei defunti. L'italiano del Trecento usa ancora la parola busto con questo significato, perdutosi nell'italiano moderno, e infatti Boccaccio scrive:
A me però in questa definizione interessa il secondo significato di busto, ossia quello di statua. A dire il vero oggi questo vocabolario potrebbe essere intitolato, invece che Verba volant, Forse non tutti sanno che, come la fortunata rubrica della Settimana enigmistica. Infatti forse non tutti i miei lettori sanno che in Italia ci sono ancora due busti di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin. E’ vero che tra di voi ci sono molti vecchi “sinistri”, che sicuramente conoscono le storie che sto per raccontare; immagino che qualcuno di voi conservi gelosamente il selfie - come si usa chiamare ormai l’autoscatto - con il busto di Lenin. E probabilmente altri di voi, di razza emiliana, hanno letto qualche giorno fa sul Carlino la notizia che ignoti vandali, aiutandosi con una fune, hanno cercato, fortunatamente senza riuscirci, di staccare uno di questi due busti dal cippo su cui poggia. Oppure avete letto in altre occasioni delle ricorrenti polemiche sulla presenza di questi due busti, perché c’è sempre qualche bello spirito che ne chiede, di entrambi, la rimozione, in nome di un viscerale anticomunismo. Ma Lenin per fortuna resiste; resiste a Putin, figurarsi se non può resistere a Giovanardi e a quelli di tal fatta.
Comunque sia, per quelli che ancora non lo sanno, in Italia i busti di Lenin si trovano a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, e a Capri.
Meno stupisce che il busto del padre dell’Unione sovietica stia a Caviago, nel cuore dell’Emilia rossa. A dire il vero non si trova nella cittadina emiliana - in piazza Lenin, ovviamente - da moltissimo tempo, ma solo dal 1970. Questo busto in bronzo ha una storia movimentata: fu realizzato nel 1922 dagli operai della città ucraina di Lugansk, destinato a essere posto davanti alla locale fabbrica di treni; fu trafugato durante l’occupazione tedesca e portato in Italia, dove finì nelle mani dei partigiani. Il busto fu riconsegnato all’ambasciata sovietica a Roma e infine fu donato quarantaquattro anni fa al Comune di Cavriago, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin.
Naturalmente la scelta di Cavriago non fu casuale. Nella città emiliana, tra il 1918 e il 1920, prevlse l’ala massimalista del Partito socialista, quella che guardava al bolscevismo russo come ad un modello cui ispirare la propria lotta. Il 6 gennaio 1919 i compagni di Cavriago scrivono un ordine del giorno in cui sostengono
Un po’ diversa è la storia del busto di Capri. Lenin andò due volte nell’isola del golfo di Napoli, nel 1908 e nel 1910, ospite dello scrittore Maksim Gor’kij. Il politico russo si trovava in esilio e in quegli anni Capri, proprio grazie all’autore del romanzo La madre, divenne un luogo di rifugio per numerosi rivoluzionari russi in esilio. Il turismo mondano e modaiolo era ancora di là da venire.
Il monumento fu realizzato nel 1968 dallo scultore Giacomo Manzù, al quale l’ambasciata sovietica in Italia commissionò l’opera. E non è esente dello stile un po’ retorico di opere di questo genere, seppur sia stata realizzata da un autore importante come Manzù. La scultura soffre dell‘incuria - sorte peraltro condivisa da opere di ben maggiore valore - ma si è salvata dalle inevitabili polemiche anticomuniste, che pure non l’hanno risparmiata, proprio grazie alla fama del suo autore. Anche in questo i capresi fanno bene a tenersi caro questo busto, a memoria di una stagione particolare della loro storia.
In fondo è un po’ come capita con i funerali. Apparentemente si fanno per ricordare i morti, ma ci dicono molto di più dei vivi che li hanno organizzati. Per i monumenti è più o meno lo stesso, parlano più di chi li ha voluti e di chi li ha realizzati che del soggetto ritratto. Altrimenti non si spiegherebbe la foga di chi vuole abbatterli, come capita a questi due busti di Lenin, che io spero resistano. Ai cretini e ai piccioni.
scritto il 17 febbraio 2014
Ecco una parola che ha una storia etimologica particolarmente interessante, che merita di essere raccontata.
Deriva dal latino bustus, participio passato di burĕre, che significa bruciare, e quindi ha l'originario significato di bruciato, arso. Dal momento che tra gli antichi l'incinerazione era una pratica molto diffusa, la parola passò ad indicare il crematoio, ossia il tumolo sotto cui si trovavo le ceneri dei defunti. L'italiano del Trecento usa ancora la parola busto con questo significato, perdutosi nell'italiano moderno, e infatti Boccaccio scrive:
chiamansi ancora, i sepolcri, busti: e questi son detti da’ corpi combusti, cioè arsi.Dal momento che era uso mettere su queste tombe statue che rappresentavano i volti dei defunti, busto cominciò a essere chiamata la statua che rappresenta una figura umana dalla testa al petto, senza le braccia. Giorgio Vasari usa già il termine con questo significato. Da qui si è cominciato a chiamare in questo modo - ed è quello oggi più comune - il tronco del corpo umano; e anche quello che lo può contenere, ad esempio il busto ortopedico.
A me però in questa definizione interessa il secondo significato di busto, ossia quello di statua. A dire il vero oggi questo vocabolario potrebbe essere intitolato, invece che Verba volant, Forse non tutti sanno che, come la fortunata rubrica della Settimana enigmistica. Infatti forse non tutti i miei lettori sanno che in Italia ci sono ancora due busti di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin. E’ vero che tra di voi ci sono molti vecchi “sinistri”, che sicuramente conoscono le storie che sto per raccontare; immagino che qualcuno di voi conservi gelosamente il selfie - come si usa chiamare ormai l’autoscatto - con il busto di Lenin. E probabilmente altri di voi, di razza emiliana, hanno letto qualche giorno fa sul Carlino la notizia che ignoti vandali, aiutandosi con una fune, hanno cercato, fortunatamente senza riuscirci, di staccare uno di questi due busti dal cippo su cui poggia. Oppure avete letto in altre occasioni delle ricorrenti polemiche sulla presenza di questi due busti, perché c’è sempre qualche bello spirito che ne chiede, di entrambi, la rimozione, in nome di un viscerale anticomunismo. Ma Lenin per fortuna resiste; resiste a Putin, figurarsi se non può resistere a Giovanardi e a quelli di tal fatta.
Comunque sia, per quelli che ancora non lo sanno, in Italia i busti di Lenin si trovano a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, e a Capri.
Meno stupisce che il busto del padre dell’Unione sovietica stia a Caviago, nel cuore dell’Emilia rossa. A dire il vero non si trova nella cittadina emiliana - in piazza Lenin, ovviamente - da moltissimo tempo, ma solo dal 1970. Questo busto in bronzo ha una storia movimentata: fu realizzato nel 1922 dagli operai della città ucraina di Lugansk, destinato a essere posto davanti alla locale fabbrica di treni; fu trafugato durante l’occupazione tedesca e portato in Italia, dove finì nelle mani dei partigiani. Il busto fu riconsegnato all’ambasciata sovietica a Roma e infine fu donato quarantaquattro anni fa al Comune di Cavriago, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin.
Naturalmente la scelta di Cavriago non fu casuale. Nella città emiliana, tra il 1918 e il 1920, prevlse l’ala massimalista del Partito socialista, quella che guardava al bolscevismo russo come ad un modello cui ispirare la propria lotta. Il 6 gennaio 1919 i compagni di Cavriago scrivono un ordine del giorno in cui sostengono
il programma degli spartachisti tedeschi e il programma del Soviet di Russia e plaudono il suo capo Lenin per l’instancabile opera che sostiene contro i reazionari sostenitori dell’imperialismo.Questo documento venne pubblicato dall’Avanti e citato dallo stesso Lenin tre mesi dopo, in un discorso davanti al Comitato Esecutivo Centrale del Soviet di Mosca. Nel settembre del 1921 il Comune di Cavriago, guidato dal massimalista Domenico Cavecchi, approva un altro ordine del giorno con il quale
accogliendo l’invocazione di dolore e di fame che i fratelli della Russia lanciano al mondo troppo estraneo alla grande sventura, interpretando nel soccorso oltre all’aiuto materiale, la morale assistenza, l’incoraggiamento al Governo proletario sovietista, delibera di elargire un sussidio non inferiore a £ 500.Da lì a poco le amministrazioni socialiste furono sciolte dai fascisti. Alla memoria di quei solidali compagni di Cavriago è stato giusto regalare quel busto di Lenin. Si tratta appunto di un monumento che celebra non tanto il capo dell’Unione sovietica, quanto la storia della sinistra di Cavriago, le lotte di quel territorio, la passione civile e politica di un popolo che si manifestò poi nella Resistenza. Fanno bene gli amici di Cavriago a tenerselo caro quel busto; e se qualcuno non capisce, peggio per loro.
Un po’ diversa è la storia del busto di Capri. Lenin andò due volte nell’isola del golfo di Napoli, nel 1908 e nel 1910, ospite dello scrittore Maksim Gor’kij. Il politico russo si trovava in esilio e in quegli anni Capri, proprio grazie all’autore del romanzo La madre, divenne un luogo di rifugio per numerosi rivoluzionari russi in esilio. Il turismo mondano e modaiolo era ancora di là da venire.
Il monumento fu realizzato nel 1968 dallo scultore Giacomo Manzù, al quale l’ambasciata sovietica in Italia commissionò l’opera. E non è esente dello stile un po’ retorico di opere di questo genere, seppur sia stata realizzata da un autore importante come Manzù. La scultura soffre dell‘incuria - sorte peraltro condivisa da opere di ben maggiore valore - ma si è salvata dalle inevitabili polemiche anticomuniste, che pure non l’hanno risparmiata, proprio grazie alla fama del suo autore. Anche in questo i capresi fanno bene a tenersi caro questo busto, a memoria di una stagione particolare della loro storia.
In fondo è un po’ come capita con i funerali. Apparentemente si fanno per ricordare i morti, ma ci dicono molto di più dei vivi che li hanno organizzati. Per i monumenti è più o meno lo stesso, parlano più di chi li ha voluti e di chi li ha realizzati che del soggetto ritratto. Altrimenti non si spiegherebbe la foga di chi vuole abbatterli, come capita a questi due busti di Lenin, che io spero resistano. Ai cretini e ai piccioni.
scritto il 17 febbraio 2014
Verba volant (108): bonus...
Bonus, sost. m.
Ecco un’altra parola che la nostra lingua ha preso direttamente dal latino, dandole però un significato un po’ differente da quello originale. Si tratta della forma sostantivata dell’aggettivo bonus; in italiano questa parola viene usata per indicare un’aggiunta, un incremento, e quindi una gratifica, un incentivo, in sostanza qualcosa di buono, qualcosa che ci fa piacere ricevere.
In queste settimane alcuni di voi hanno trovato in busta paga il cosiddetto bonus Renzi. Si tratta, come noto, del solo provvedimento adottato dal nostro garrulo presidente del consiglio.
Per il resto l’azione di governo finora è fatta di carta straccia, come la riforma della pubblica amministrazione, o di promesse, come la ripresa dell’economia; o infine di minacce, come la cancellazione del senato. L’unica cosa che ha fatto Renzi è di darci questi benedetti 80 euro in busta paga. Ovviamente ce li ha fatti pesare, lo ha ripetuto in lungo e in largo in tutte le trasmissioni televisive, dalle previsioni del tempo e Protestantesimo, si è vantato di averceli dati, e questi soldi sono tra i motivi per cui ha vinto le elezioni europee. Vorrei provare a vedere se questo bonus è veramente buono.
Io e mia moglie, da lavoratori dipendenti con un reddito inferiore a 26mila euro, abbiamo avuto i nostri bonus, come promesso dal fiorentino. Grazie. Noi due però lavoriamo entrambi per dodici mesi nello stesso posto e quindi sappiamo con certezza quale sarà il nostro reddito complessivo nell’anno, e di conseguenza le tasse che ci saranno trattenute dall’unico datore di lavoro, calcolate appunto su quel reddito. Noi però siamo ormai lavoratori atipici rispetto a tantissime altre persone che hanno una situazione ben diversa dalla nostra.
Ormai per tanti lavoratori - non solo giovani - è normale non avere un unico rapporto di lavoro durante l’anno, ma due o tre, a cui magari si aggiunge anche la disoccupazione. I precari - che in questo paese ci sono, anche se nessuno sembra ricordarsi di loro - quando fanno la dichiarazione dei redditi è facile che presentino tre o quattro cud. Proprio per questo motivo questi lavoratori non sanno all’inizio dell’anno quale sarà il loro reddito complessivo e - quel che è peggio - è quasi impossibile che gli vengano trattenute tutte le tasse che devono effettivamente pagare, perché ogni datore di lavoro fa i conti solo per la propria parte; è normale per tanti precari, al momento di fare la dichiarazione dei redditi, dover pagare una differenza di tasse.
Qui sta il primo problema, perché il bonus di Renzi non è proprio un bonus, ossia non sono soldi in più, ma una detrazione fiscale, ossia uno sconto sulle tasse che dobbiamo pagare. Per questo meccanismo al precario può facilmente capitare di doverlo restituire nella prossima dichiarazione dei redditi.
Altre persone che non hanno avuto un particolare vantaggio dal provvedimento sbandierato dal giovin rottamatore sono quelli che hanno un reddito inferiore a 8mila euro, i cosiddetti incapienti. E ce ne sono, ve lo assicuro. Questi non devono nulla al fisco, ma non pagando tasse non possono neppure godere di una detrazione e quindi gli 80 euro non li vedono, neppure in fotografia. Peggio ancora, se il datore di lavoro li ha calcolati nella loro busta paga, li dovranno restituire con la dichiarazione dei redditi dell’anno successivo.
In sostanza, dato che la situazione dei lavoratori nel nostro paese è molto varia e moltissimi sanno solo alla fine dell’anno con certezza quanto sarà il loro reddito finale sarebbe stato meglio non fare l’applicazione automatica, che è stata invece uno dei cavalli di battaglia del riformista all’uccelletto. Per molte persone questo meccanismo di applicazione automatica rischia di essere un danno, però Renzi aveva bisogno di farlo subito, prima delle elezioni europee, per incassare il suo bonus elettorale e quindi non ha valutato le conseguenze. Per adesso vi si dà l’80 euro a tutti e vussiete ‘ontenti, poi l’anno venturo pol’esse quarcuno me li dovrà ridà ‘ndietro, ma intanto vummavete votato; obbravi.
Per me e per mia moglie - che non abbiamo figli - questa operazione ha significato 160 euro al mese in più. Ancora grazie. Un lavoratore con tre figli e il coniuge che non lavora porta a casa solo 80 euro, perché questa operazione è legata soltanto al reddito personale.
Francamente penso che questa seconda famiglia avrebbe più bisogno di noi, ma evidentemente non la pensa così il cattolicissimo presidente del consiglio, pur così attento ai temi della famiglia.
Quasi dimenticavo: tra gli esclusi dei vantaggi del bonus ci sono anche i pensionati, che spesso mantengono i figli precari. D’altra parte a loro avevano già pensato Monti e Fornero e quindi sarebbe stato ingiusto gratificarli di nuovo.
Si ha quasi l’impressione che questa legge, a pare la fretta di essere presentata prima delle elezioni, sia stata scritta da persone che non hanno la più pallida idea di come funziona il fisco in Italia e che non sanno che ci sono precari, incapienti, lavoratori a basso reddito e così via.
Per il precario, per l’incapiente, per il lavoratore con molti figli il bonus non è poi così bonus, tutti costoro vengono poco agevolati, se non addirittura penalizzati, mentre una coppia di dipendenti a reddito fisso senza figli gode del massimo beneficio. Pensate che ingiustizia per il povero Renzi: ha fatto una riforma praticamente per favorire solo me e io lo tratto così male, sono proprio un ingrato.
scritto il 26 luglio 2014
Ecco un’altra parola che la nostra lingua ha preso direttamente dal latino, dandole però un significato un po’ differente da quello originale. Si tratta della forma sostantivata dell’aggettivo bonus; in italiano questa parola viene usata per indicare un’aggiunta, un incremento, e quindi una gratifica, un incentivo, in sostanza qualcosa di buono, qualcosa che ci fa piacere ricevere.
In queste settimane alcuni di voi hanno trovato in busta paga il cosiddetto bonus Renzi. Si tratta, come noto, del solo provvedimento adottato dal nostro garrulo presidente del consiglio.
Per il resto l’azione di governo finora è fatta di carta straccia, come la riforma della pubblica amministrazione, o di promesse, come la ripresa dell’economia; o infine di minacce, come la cancellazione del senato. L’unica cosa che ha fatto Renzi è di darci questi benedetti 80 euro in busta paga. Ovviamente ce li ha fatti pesare, lo ha ripetuto in lungo e in largo in tutte le trasmissioni televisive, dalle previsioni del tempo e Protestantesimo, si è vantato di averceli dati, e questi soldi sono tra i motivi per cui ha vinto le elezioni europee. Vorrei provare a vedere se questo bonus è veramente buono.
Io e mia moglie, da lavoratori dipendenti con un reddito inferiore a 26mila euro, abbiamo avuto i nostri bonus, come promesso dal fiorentino. Grazie. Noi due però lavoriamo entrambi per dodici mesi nello stesso posto e quindi sappiamo con certezza quale sarà il nostro reddito complessivo nell’anno, e di conseguenza le tasse che ci saranno trattenute dall’unico datore di lavoro, calcolate appunto su quel reddito. Noi però siamo ormai lavoratori atipici rispetto a tantissime altre persone che hanno una situazione ben diversa dalla nostra.
Ormai per tanti lavoratori - non solo giovani - è normale non avere un unico rapporto di lavoro durante l’anno, ma due o tre, a cui magari si aggiunge anche la disoccupazione. I precari - che in questo paese ci sono, anche se nessuno sembra ricordarsi di loro - quando fanno la dichiarazione dei redditi è facile che presentino tre o quattro cud. Proprio per questo motivo questi lavoratori non sanno all’inizio dell’anno quale sarà il loro reddito complessivo e - quel che è peggio - è quasi impossibile che gli vengano trattenute tutte le tasse che devono effettivamente pagare, perché ogni datore di lavoro fa i conti solo per la propria parte; è normale per tanti precari, al momento di fare la dichiarazione dei redditi, dover pagare una differenza di tasse.
Qui sta il primo problema, perché il bonus di Renzi non è proprio un bonus, ossia non sono soldi in più, ma una detrazione fiscale, ossia uno sconto sulle tasse che dobbiamo pagare. Per questo meccanismo al precario può facilmente capitare di doverlo restituire nella prossima dichiarazione dei redditi.
Altre persone che non hanno avuto un particolare vantaggio dal provvedimento sbandierato dal giovin rottamatore sono quelli che hanno un reddito inferiore a 8mila euro, i cosiddetti incapienti. E ce ne sono, ve lo assicuro. Questi non devono nulla al fisco, ma non pagando tasse non possono neppure godere di una detrazione e quindi gli 80 euro non li vedono, neppure in fotografia. Peggio ancora, se il datore di lavoro li ha calcolati nella loro busta paga, li dovranno restituire con la dichiarazione dei redditi dell’anno successivo.
In sostanza, dato che la situazione dei lavoratori nel nostro paese è molto varia e moltissimi sanno solo alla fine dell’anno con certezza quanto sarà il loro reddito finale sarebbe stato meglio non fare l’applicazione automatica, che è stata invece uno dei cavalli di battaglia del riformista all’uccelletto. Per molte persone questo meccanismo di applicazione automatica rischia di essere un danno, però Renzi aveva bisogno di farlo subito, prima delle elezioni europee, per incassare il suo bonus elettorale e quindi non ha valutato le conseguenze. Per adesso vi si dà l’80 euro a tutti e vussiete ‘ontenti, poi l’anno venturo pol’esse quarcuno me li dovrà ridà ‘ndietro, ma intanto vummavete votato; obbravi.
Per me e per mia moglie - che non abbiamo figli - questa operazione ha significato 160 euro al mese in più. Ancora grazie. Un lavoratore con tre figli e il coniuge che non lavora porta a casa solo 80 euro, perché questa operazione è legata soltanto al reddito personale.
Francamente penso che questa seconda famiglia avrebbe più bisogno di noi, ma evidentemente non la pensa così il cattolicissimo presidente del consiglio, pur così attento ai temi della famiglia.
Quasi dimenticavo: tra gli esclusi dei vantaggi del bonus ci sono anche i pensionati, che spesso mantengono i figli precari. D’altra parte a loro avevano già pensato Monti e Fornero e quindi sarebbe stato ingiusto gratificarli di nuovo.
Si ha quasi l’impressione che questa legge, a pare la fretta di essere presentata prima delle elezioni, sia stata scritta da persone che non hanno la più pallida idea di come funziona il fisco in Italia e che non sanno che ci sono precari, incapienti, lavoratori a basso reddito e così via.
Per il precario, per l’incapiente, per il lavoratore con molti figli il bonus non è poi così bonus, tutti costoro vengono poco agevolati, se non addirittura penalizzati, mentre una coppia di dipendenti a reddito fisso senza figli gode del massimo beneficio. Pensate che ingiustizia per il povero Renzi: ha fatto una riforma praticamente per favorire solo me e io lo tratto così male, sono proprio un ingrato.
scritto il 26 luglio 2014
mercoledì 18 novembre 2015
Verba volant (225): noi...
Noi, pron. pers.
Svanite le ultime note della Marsigliese, consumate le candele, appassiti i fiori, cosa ci rimane del 13 novembre? Cosa ci rimane di quella tragica notte di Parigi? Ci resta la paura naturalmente, perché quelle persone potevamo essere noi o quelli a cui vogliamo bene. Ci resta un senso di impotenza e di incredulità. Ci resta la sensazione della nostra fragilità e della nostra insicurezza. E ci restano purtroppo i discorsi pieni di retorica dei nostri governanti, ci resta quella divisione imposta tra noi e loro, tra i buoni - che siamo ovviamente noi, tutti noi - e i cattivi - che sono ovviamente loro, tutti loro. Non è così, non è mai stato così. Sbagliavamo quando da bambini pensavamo che i cowboy fossero i buoni e i pellerossa i cattivi, ma sbagliavamo allo stesso modo quando, cresciuti, abbiamo cominciato a dire che i cowboy erano i cattivi e i pellerossa erano i buoni. Il mondo è un po' più complesso di come ce lo raccontano. E ce lo raccontiamo.
Io sento di appartenere ai noi delle molte delle persone che sono scese in piazza in questi giorni, di quelli che hanno manifestato la loro solidarietà a quelle famiglie così duramente colpite, di quelli che hanno raccontato la loro paura. Ma allo stesso modo sento, con la stessa forza, di non appartenere ai noi di quelli che hanno lucrato - e che lucreranno - su queste paure: sia chiaro che quando Hollande dice noi non parla per me, anche se un minuto prima insieme a lui ho cantato il bellissimo inno di quel paese. Non ci sto a questa divisione che mi vogliono imporre tra noi e loro. Voglio scegliere io da che parte stare e certamente non è la parte dove stanno i terroristi, dove stanno gli uomini che li guidano, che li armano, che li indottrinano, ma non è neppure la parte dove sta Hollande, dove sta renzi, dove stanno Obama e Putin. Il mio noi sono le vittime di Parigi e quelle di Raqqa, quelle di Beirut e quelle di Yola, in Nigeria.
Noi siamo più deboli dopo Parigi e di questa debolezza si stanno approfittando i nostri nemici, i nostri veri nemici. Hollande ha immediatamente decretato lo stato di emergenza, ossia ha limitato le libertà dei francesi, ha chiesto di modificare la Costituzione, affinché siano assegnati al presidente maggiori poteri, poteri straordinari e in qualche modo incontrollabili. Poi ha deciso di bombardare la città siriana di Raqqa. Immagino che questa decisione gli sarà utile a fini elettorali, ma dubito che sia utile per smantellare le cellule dei terroristi che hanno ucciso tante persone a Parigi. Anche in Italia qualcuno ha detto che dobbiamo accettare di essere meno liberi per essere più sicuri. E immagino che allo stesso modo, in tante città piccole e grandi del Medio oriente, in queste ore ci siano leader che stiano convincendo i loro popoli che l'attacco francese a Raqqa, l'uccisione di famiglie innocenti, meriti di essere vendicato. Anche loro in qualche modo dicono che bisogna rinunciare a qualcosa in nome della loro sicurezza. Che non è la nostra naturalmente.
Per questo noi ci dobbiamo opporre con forza a questo tipo di reazione, a questi ragionamenti, che ci vengono presentati come ineluttabili. In molti hanno fatto notare come in questi giorni non si sia sentita la voce dei pacifisti. E' vero, perché il pacifismo, in questa fase, rischia di essere una risposta altrettanto inadeguata quanto quella bellica ed emergenziale proposta da Hollande e da tutti i leader mondiali. C'è bisogno di altro, c'è bisogno di immaginare e - quando e come è possibile, nel piccolo delle nostre azioni - cominciare a costruire una società diversa.
La nostra società sarà più sicura se saprà coltivare la diversità, la mescolanza. Credo che non sia un caso se l'obiettivo è stata proprio Parigi e non un'altra città francese. Parigi rappresenta il punto di arrivo per tante persone che giungono lì da ogni parte del mondo. E infatti le vittime degli attentati sono di nazionalità, di culture, di religioni, diverse. Penso che la Parigi obiettivo dei terroristi non sia la città istituzionale, il simbolo della storia e anche della grandeur francese, ma piuttosto la Parigi raccontata da Pennac, la Parigi in cui si intrecciano le vite di tante donne e di tanti uomini che vengono da paesi diversi, la Parigi laica e tollerante, la Parigi governata per tanto tempo da un sindaco omosessuale dichiarato, una Parigi "impura" e per questo odiata da chi crede che le donne e gli uomini abbiano un loro posto assegnato nel mondo, a seconda del sesso, della razza, della religione. Ai razzisti di ogni paese questo mescolarsi non piace e per questo saremo sempre più sicuri quanto più coltiveremo questa mescolanza. Per questo saremo più sicuri se apriremo le frontiere invece di chiuderle, se costruiremo ponti invece che muri.
La nostra società sarà più sicura se saprà investire nell'educazione. Il terrorismo, il fanatismo, la paura del diverso crescono dove c'è ignoranza, dove non si leggono libri - o si leggono solo i libri imposti dal regime - dove non si va a teatro o al cinema - o si vedono solo gli spettacoli graditi ai dittatori. Una società che dà valore all'educazione, alla cultura, all'arte, allo spettacolo, è una società in cui si vive meglio, in cui si è culturalmente più ricchi, in cui è più facile e più naturale coltivare certi valori positivi e abbandonare quelli negativi. Eppure noi vediamo aumentare le spese per gli armamenti, per l'intelligence, per lo spionaggio e diminuire quelle destinate all'educazione e alla cultura. Il fanatismo si combatte con i libri, non con i fucili.
La nostra società sarà più sicura se crescerà la partecipazione, se saremo più informati, se aumenteranno gli spazi e gli ambiti della democrazia. In questi anni le nostre società vanno nella direzione opposta. Nonostante l'apparente semplicità con cui possiamo accedere alle informazioni, nonostante la massa di informazioni da cui siamo quotidianamente investiti, sappiamo sempre meno, ci fanno sapere sempre meno, perché queste notizie sono filtrate, precostituite, in qualche modo predigerite, perché le notizie che ci arrivano sono spesso irrilevanti, perché non abbiamo gli strumenti - non ce li danno - per distinguere un'informazione importante da una che non lo è, perché non ci educano - non ci vogliono educare - alla critica. Anche perché uno, quando è educato alla critica, tende a usarla sempre, soprattutto quando dà fastidio al potente di turno. E allo stesso modo riducono il nostro potere, non tengono conto del nostro voto, fingendo magari di seguire la nostra volontà pilotata dai loro sondaggi. I terroristi, a ogni latitudine, hanno paura della democrazia; per questo abbiamo bisogno che si consolidi, pur sapendo che è un cammino faticoso. Noi ci abbiamo messo secoli e ancora fatichiamo a usarla bene.
La nostra società sarà più sicura se sarà più libera. A chi ci dice che dovremo rinunciare alla nostra libertà per essere più sicuri non rispondiamo che preferiamo rinunciare alla sicurezza, non cadiamo in questa trappola, perché la domanda è capziosa e intellettualmente sbagliata. Non dobbiamo rinunciare a nessuna delle due, perché l'una fa crescere l'altra. E soprattutto saremo davvero più sicuri quando saremo liberi dal bisogno, perché la povertà crea ignoranza, porta a chiudersi, favorisce l'odio tra i popoli, l'odio tra i poveri. Noi, quelli che stiamo da questa parte, dobbiamo anche essere consapevoli che ci sarà da lottare, anche duramente, perché loro, quelli che hanno i privilegi, quelli che controllano la ricchezza, quelli che ci vogliono consumatori prima che sudditi, non cederanno i loro privilegi, le loro ricchezze, il loro potere, senza combattere. Per questo noi non dobbiamo dividerci, perché contre nous de la tyrannie, l'étendard sanglant est levé. Chissà cosa pensava Hollande quando cantava queste parole, chissà se si ricorda ancora cosa significano. Noi lo sappiamo.
Aux armes, citoyens,
formez vos bataillons,
marchons, marchons!
Qu'un sang impur
abreuve nos sillons!
Svanite le ultime note della Marsigliese, consumate le candele, appassiti i fiori, cosa ci rimane del 13 novembre? Cosa ci rimane di quella tragica notte di Parigi? Ci resta la paura naturalmente, perché quelle persone potevamo essere noi o quelli a cui vogliamo bene. Ci resta un senso di impotenza e di incredulità. Ci resta la sensazione della nostra fragilità e della nostra insicurezza. E ci restano purtroppo i discorsi pieni di retorica dei nostri governanti, ci resta quella divisione imposta tra noi e loro, tra i buoni - che siamo ovviamente noi, tutti noi - e i cattivi - che sono ovviamente loro, tutti loro. Non è così, non è mai stato così. Sbagliavamo quando da bambini pensavamo che i cowboy fossero i buoni e i pellerossa i cattivi, ma sbagliavamo allo stesso modo quando, cresciuti, abbiamo cominciato a dire che i cowboy erano i cattivi e i pellerossa erano i buoni. Il mondo è un po' più complesso di come ce lo raccontano. E ce lo raccontiamo.
Io sento di appartenere ai noi delle molte delle persone che sono scese in piazza in questi giorni, di quelli che hanno manifestato la loro solidarietà a quelle famiglie così duramente colpite, di quelli che hanno raccontato la loro paura. Ma allo stesso modo sento, con la stessa forza, di non appartenere ai noi di quelli che hanno lucrato - e che lucreranno - su queste paure: sia chiaro che quando Hollande dice noi non parla per me, anche se un minuto prima insieme a lui ho cantato il bellissimo inno di quel paese. Non ci sto a questa divisione che mi vogliono imporre tra noi e loro. Voglio scegliere io da che parte stare e certamente non è la parte dove stanno i terroristi, dove stanno gli uomini che li guidano, che li armano, che li indottrinano, ma non è neppure la parte dove sta Hollande, dove sta renzi, dove stanno Obama e Putin. Il mio noi sono le vittime di Parigi e quelle di Raqqa, quelle di Beirut e quelle di Yola, in Nigeria.
Noi siamo più deboli dopo Parigi e di questa debolezza si stanno approfittando i nostri nemici, i nostri veri nemici. Hollande ha immediatamente decretato lo stato di emergenza, ossia ha limitato le libertà dei francesi, ha chiesto di modificare la Costituzione, affinché siano assegnati al presidente maggiori poteri, poteri straordinari e in qualche modo incontrollabili. Poi ha deciso di bombardare la città siriana di Raqqa. Immagino che questa decisione gli sarà utile a fini elettorali, ma dubito che sia utile per smantellare le cellule dei terroristi che hanno ucciso tante persone a Parigi. Anche in Italia qualcuno ha detto che dobbiamo accettare di essere meno liberi per essere più sicuri. E immagino che allo stesso modo, in tante città piccole e grandi del Medio oriente, in queste ore ci siano leader che stiano convincendo i loro popoli che l'attacco francese a Raqqa, l'uccisione di famiglie innocenti, meriti di essere vendicato. Anche loro in qualche modo dicono che bisogna rinunciare a qualcosa in nome della loro sicurezza. Che non è la nostra naturalmente.
Per questo noi ci dobbiamo opporre con forza a questo tipo di reazione, a questi ragionamenti, che ci vengono presentati come ineluttabili. In molti hanno fatto notare come in questi giorni non si sia sentita la voce dei pacifisti. E' vero, perché il pacifismo, in questa fase, rischia di essere una risposta altrettanto inadeguata quanto quella bellica ed emergenziale proposta da Hollande e da tutti i leader mondiali. C'è bisogno di altro, c'è bisogno di immaginare e - quando e come è possibile, nel piccolo delle nostre azioni - cominciare a costruire una società diversa.
La nostra società sarà più sicura se saprà coltivare la diversità, la mescolanza. Credo che non sia un caso se l'obiettivo è stata proprio Parigi e non un'altra città francese. Parigi rappresenta il punto di arrivo per tante persone che giungono lì da ogni parte del mondo. E infatti le vittime degli attentati sono di nazionalità, di culture, di religioni, diverse. Penso che la Parigi obiettivo dei terroristi non sia la città istituzionale, il simbolo della storia e anche della grandeur francese, ma piuttosto la Parigi raccontata da Pennac, la Parigi in cui si intrecciano le vite di tante donne e di tanti uomini che vengono da paesi diversi, la Parigi laica e tollerante, la Parigi governata per tanto tempo da un sindaco omosessuale dichiarato, una Parigi "impura" e per questo odiata da chi crede che le donne e gli uomini abbiano un loro posto assegnato nel mondo, a seconda del sesso, della razza, della religione. Ai razzisti di ogni paese questo mescolarsi non piace e per questo saremo sempre più sicuri quanto più coltiveremo questa mescolanza. Per questo saremo più sicuri se apriremo le frontiere invece di chiuderle, se costruiremo ponti invece che muri.
La nostra società sarà più sicura se saprà investire nell'educazione. Il terrorismo, il fanatismo, la paura del diverso crescono dove c'è ignoranza, dove non si leggono libri - o si leggono solo i libri imposti dal regime - dove non si va a teatro o al cinema - o si vedono solo gli spettacoli graditi ai dittatori. Una società che dà valore all'educazione, alla cultura, all'arte, allo spettacolo, è una società in cui si vive meglio, in cui si è culturalmente più ricchi, in cui è più facile e più naturale coltivare certi valori positivi e abbandonare quelli negativi. Eppure noi vediamo aumentare le spese per gli armamenti, per l'intelligence, per lo spionaggio e diminuire quelle destinate all'educazione e alla cultura. Il fanatismo si combatte con i libri, non con i fucili.
La nostra società sarà più sicura se crescerà la partecipazione, se saremo più informati, se aumenteranno gli spazi e gli ambiti della democrazia. In questi anni le nostre società vanno nella direzione opposta. Nonostante l'apparente semplicità con cui possiamo accedere alle informazioni, nonostante la massa di informazioni da cui siamo quotidianamente investiti, sappiamo sempre meno, ci fanno sapere sempre meno, perché queste notizie sono filtrate, precostituite, in qualche modo predigerite, perché le notizie che ci arrivano sono spesso irrilevanti, perché non abbiamo gli strumenti - non ce li danno - per distinguere un'informazione importante da una che non lo è, perché non ci educano - non ci vogliono educare - alla critica. Anche perché uno, quando è educato alla critica, tende a usarla sempre, soprattutto quando dà fastidio al potente di turno. E allo stesso modo riducono il nostro potere, non tengono conto del nostro voto, fingendo magari di seguire la nostra volontà pilotata dai loro sondaggi. I terroristi, a ogni latitudine, hanno paura della democrazia; per questo abbiamo bisogno che si consolidi, pur sapendo che è un cammino faticoso. Noi ci abbiamo messo secoli e ancora fatichiamo a usarla bene.
La nostra società sarà più sicura se sarà più libera. A chi ci dice che dovremo rinunciare alla nostra libertà per essere più sicuri non rispondiamo che preferiamo rinunciare alla sicurezza, non cadiamo in questa trappola, perché la domanda è capziosa e intellettualmente sbagliata. Non dobbiamo rinunciare a nessuna delle due, perché l'una fa crescere l'altra. E soprattutto saremo davvero più sicuri quando saremo liberi dal bisogno, perché la povertà crea ignoranza, porta a chiudersi, favorisce l'odio tra i popoli, l'odio tra i poveri. Noi, quelli che stiamo da questa parte, dobbiamo anche essere consapevoli che ci sarà da lottare, anche duramente, perché loro, quelli che hanno i privilegi, quelli che controllano la ricchezza, quelli che ci vogliono consumatori prima che sudditi, non cederanno i loro privilegi, le loro ricchezze, il loro potere, senza combattere. Per questo noi non dobbiamo dividerci, perché contre nous de la tyrannie, l'étendard sanglant est levé. Chissà cosa pensava Hollande quando cantava queste parole, chissà se si ricorda ancora cosa significano. Noi lo sappiamo.
Aux armes, citoyens,
formez vos bataillons,
marchons, marchons!
Qu'un sang impur
abreuve nos sillons!
domenica 15 novembre 2015
da "Il paradiso degli orchi" di Daniel Pennac
Cento metri più in là, la voce lamentosa di un muezzin si leva nel crepuscolo di Belleville. So bene cosa gli funge da minareto. E' una finestrella quadrata, una presa d'aria per latrine o un lucernario sul pianerottolo tra il terzo e il quarto piano di una facciata decrepita. Mi lascio trascinare per un attimo dalle geremiadi di questo prete venuto da lontano. Snocciola una sura che forse tratta di una malvarosa il cui sacro stelo spunta nelle mutande del Profeta. In tutto ciò c'è un dolore di esilio poco sopportabile. Per la prima volta, rivedo il morto dilaniato del Grande Magazzino. Poi penso a Louna e mi dò dello stronzo. E di nuovo le budella del meccanico dell'hinterland. Faccio appena in tempo ad appoggiarmi a un albero per non vomitare una seconda volta. Devo contare i passi per riuscire ad attraversare il viale ed entrare da Koutoubia.
Julius fila direttamente da Hadouch, in cucina. La voce del muezzin è coperta dalle conversazioni e dallo schioccare del domino. Il fumo ristagna e la maggioranza dei presenti sta seduta davanti a un pastis. Mi sa che il fratello mussulmano del lucernario dovrà faticare parecchio per riportare i suoi alla purezza dell'Islam!
Julius fila direttamente da Hadouch, in cucina. La voce del muezzin è coperta dalle conversazioni e dallo schioccare del domino. Il fumo ristagna e la maggioranza dei presenti sta seduta davanti a un pastis. Mi sa che il fratello mussulmano del lucernario dovrà faticare parecchio per riportare i suoi alla purezza dell'Islam!
sabato 14 novembre 2015
Verba volant (224): disertare...
Sì, è vero, siamo in guerra: quello di ieri è stato un atto di guerra; odioso, inumano, vile, immorale. Però non basta dire siamo in guerra, dobbiamo dire contro chi siamo in guerra. E perché siamo in guerra.
Questo è il punto fondamentale. Se ci vorranno far combattere contro una religione, contro le donne e gli uomini che professano quella religione, allora dovremo disertare, dovremo rifiutarci di sparare; perché io sono ateo, ma i miei fratelli sono cristiani, musulmani, ebrei. Se ci vorranno far combattere contro un altro popolo, anche allora dovremo abbassare le armi, perché io sono europeo, ma mio fratello è arabo. Ci diranno che è impossibile distinguere il musulmano buono da quello cattivo, l'arabo buono da quello cattivo; è vero, così come è impossibile distinguere il cristiano buono da quello cattivo, l'europeo buono da quello cattivo. Questa è una distinzione che in un campo di battaglia è impossibile da fare. Per questo qualcuno di noi pensa che sia sbagliato fare la guerra, e che sia un gravissimo errore fare la guerra che vorrebbero farci combattere domani, per vendicare gli attentati di Parigi, per impedire che ne vengano compiuti altri, a Roma, a Londra, a Washington.
E' vero, noi siamo in guerra; dobbiamo esserlo. Siamo in guerra contro i fanatici che si uccidono per uccidere, ma soprattutto siamo in guerra contro chi li educa, li arma, li spinge a scegliere un bersaglio piuttosto che un altro. Siamo in guerra contro chi predica l'odio, contro chi falsifica le religioni, contro i razzisti che insegnano a disprezzare gli altri popoli. Siamo in guerra contro chi sfrutta la povertà per reclutare nuovi terroristi e siamo in guerra contro chi non fa nulla per rimuovere le cause di questa povertà. Siamo in guerra contro chi costruisce le armi, contro chi le vende e contro chi fa finta di non accorgersi di questo mercato. Siamo in guerra contro chi fa affari con chi arma i terroristi, contro chi si arricchisce grazie a questa instabilità politica, contro chi costruisce le proprie fortune grazie alla miseria degli altri. Siamo in guerra contro chi fa di tutto per impedire che in alcuni paesi del mondo si sviluppi la democrazia, perché a loro servono dittature facili da controllare. Siamo in guerra contro chi da una parte spinge i nostri fratelli a fuggire dai loro paesi e dall'altra impedisce loro di arrivare da un'altra parte. Siamo in guerra contro chi rifiuta di riconoscere il diritto di un popolo a vivere in pace nella propria terra. Siamo in guerra contro quei ricchi che ci vogliono sempre più poveri. In questa guerra non possiamo fuggire, non possiamo rifiutarci di combattere. Non solo perché loro continueranno a combatterla contro di noi - ad Aleppo come a Parigi, a Tripoli come a Londra, a Baghdad come a Roma - ma perché è nostro dovere, è un imperativo etico, che dobbiamo ai nostri padri che questa guerra l'hanno già combattuta, ai nostri fratelli degli altri paesi che ne soffrono più di noi le conseguenze, ai nostri figli a cui dovremo consegnare un mondo diverso e migliore di quello che sembra loro destinato.
giovedì 12 novembre 2015
Verba volant (223): leader...
Leader, sost. m. e f.
Troppe volte si sente dire che in questo paese il romanzo è finito, che non siamo più capaci di inventare storie. Non è vero, vi voglio segnalare un autore capace di usare la fantasia, un affabulatore, un creatore di narrazioni inverosimili, ma non per questo meno divertenti. Si chiama Edoardo Di Benedetto; ammetto che non lo conoscevo, perché scrive su testate underground, note soltanto a un ristretto numero di amatori.
La sua ultima fatica letteraria è stata pubblicata proprio su uno di questi giornali d'avanguardia, l'Unità, ed è dedicata a dimostrare un'inedita - e finora misconosciuta - analogia tra Pericle e renzi. Visti i meriti artistici di questo testo, credo meriti un pubblico più ampio e per questo ne cito uno stralcio.
E' vero che Tucidide definisce Pericle protos aner, riferendosi al suo ruolo politico ad Atene. Curiosa è la traduzione del nostro esegeta, che usa la formula "primo cittadino", forse per ricordarci - in maniera subliminale - che renzi è stato per alcuni anni "primo cittadino" della sua città - anzi questa è finora l'ultima volta che è stato eletto a qualche carica. E anzi renzi sogna - e tutte le sue riforme vanno in questa direzione - di diventare "sindaco d'Italia", magari a vita.
Ad Atene le cose non andavano proprio come le immagina questo apologeta del renzismo. Il potere, anche in quel lungo periodo in cui Pericle venne rieletto - perché lui, a differenza di renzi, si sottoponeva al voto dei cittadini - anno dopo anno, alla strategia, non sfuggì mai al controllo dei cittadini riuniti in assemblea.
Non pretendo che Di Benedetto abbia studiato storia greca, ma gli vorrei ricordare che la costituzione di quella città favoriva in ogni modo il coinvolgimento di ogni cittadino alla vita politica. Per non sembrare che invento - come fa lui - voglio citare uno studioso importante, Moses I. Finley.
Quindi non deve stupire se alcune decisioni dell'assemblea cittadina non erano in linea con gli indirizzi politici in quel momento prevalenti. Pericle aveva un controllo dell'assemblea tutt'altro che assoluto, potevano essere approvati dei decreti che stridevano con quelli assunti i giorni precedenti: questo era uno dei rischi del sistema democratico ateniese. Un cittadino poteva un giorno votare a favore di una proposta di un oratore e il giorno successivo votare contro una proposta dello stesso oratore, perché non c'era una rigida disciplina di partito e non esistevano veri partiti come noi li abbiamo conosciuti in un'altra epoca. Pericle nel 430 fu messo in minoranza, fu accusato di condurre male la guerra e fu multato: evidentemente in quei giorni tra i cittadini si era sollevato del malumore contro di lui, che gli oratori avversari seppero alimentare e sfruttare in maniera particolarmente efficace, ma poco dopo Pericle fu rieletto stratega, il suo prestigio aveva ripreso posto nell'animo degli ateniesi.
Quando Tucidide usa protos non si riferisce a un ruolo politico vero e proprio, dice semplicemente che il governo della città era allora condizionato da uno dei suoi migliori cittadini, forse il migliore. E il giudizio di Tucidide è importante perché egli non era un sostenitore di Pericle, anzi era un suo avversario politico. Lo storico pensava che il potere dell'assemblea dei cittadini, di tutti i cittadini, dovesse essere limitato, circoscritto, a favore di quelli che erano migliori per nascita. Tucidide osteggiava Pericle e quelli come lui, perché, nonostante fosse aristocratico di nascita, permetteva che il popolo avesse un tale potere.
Tucidide è un grande storico - il più importante dell'antichità - perché quando scriveva non si lasciava influenzare dalle sue idee politiche e con grande obiettività ci ha lasciato uno dei testi fondamentali dell'ideologia democratica di Atene, un sistema politico che da aristocratico osteggiava, ma che ha raccontato e spiegato meglio di tutti. Tucidide infatti ci ha lasciato il resoconto - non sapremo mai quanto testualmente esatto - del discorso che Pericle fece in onore dei caduti del primo anno della guerra contro Sparta.
In questo discorso Pericle spiega quali sono le caratteristiche della democrazia e - sia detto per inciso - tra queste non c'è affatto "l'importanza di un leader". Dice Pericle, elogiando la costituzione di Atene:
Troppe volte si sente dire che in questo paese il romanzo è finito, che non siamo più capaci di inventare storie. Non è vero, vi voglio segnalare un autore capace di usare la fantasia, un affabulatore, un creatore di narrazioni inverosimili, ma non per questo meno divertenti. Si chiama Edoardo Di Benedetto; ammetto che non lo conoscevo, perché scrive su testate underground, note soltanto a un ristretto numero di amatori.
La sua ultima fatica letteraria è stata pubblicata proprio su uno di questi giornali d'avanguardia, l'Unità, ed è dedicata a dimostrare un'inedita - e finora misconosciuta - analogia tra Pericle e renzi. Visti i meriti artistici di questo testo, credo meriti un pubblico più ampio e per questo ne cito uno stralcio.
L'atteggiamento tirannofobico, che ereditiamo dall'orrenda parentesi del fascismo e che è la principale causa delle illazioni sulla "deriva autoritaria" renziana, ha precluso una valutazione positiva di una delle caratteristiche essenziali della democrazia: l'importanza di un leader.A parte gli scherzi credo che un articolo del genere, di così bieca propaganda, di pornografia politica così volgare, si commenti da solo. In un primo momento avevo pensato di lasciar perdere, poi ho deciso di scrivere una risposta, perché tratta con sufficienza un argomento fondamentale come la democrazia e perché usa con una disinvoltura intellettuale assolutamente ipocrita un tema che mi sta a cuore. E su cui credo di avere qualcosa da dire.
Forse i nostri bislacchi difensori dell'ordine democratico dimenticano le parole con cui uno dei più eminenti storici della Grecia antica, Tucidide, ricordava Pericle. Egli definiva il governo dello statista greco, come quello del Protos Aner, ovvero del primo cittadino, segno inequivocabile che anche nella patria della democrazia si sentisse il bisogno di far affidamento ad un leader.
Si dovrebbe, dunque, affermare secondo i preoccupati oppositori al renzismo che la Grecia classica del periodo pericleo fosse una tirannia, che producesse feroci leggi liberticide. Da difensori della democrazia a revisionisti classici, il passo, dunque, sembrerebbe abbastanza agevole.
E' vero che Tucidide definisce Pericle protos aner, riferendosi al suo ruolo politico ad Atene. Curiosa è la traduzione del nostro esegeta, che usa la formula "primo cittadino", forse per ricordarci - in maniera subliminale - che renzi è stato per alcuni anni "primo cittadino" della sua città - anzi questa è finora l'ultima volta che è stato eletto a qualche carica. E anzi renzi sogna - e tutte le sue riforme vanno in questa direzione - di diventare "sindaco d'Italia", magari a vita.
Ad Atene le cose non andavano proprio come le immagina questo apologeta del renzismo. Il potere, anche in quel lungo periodo in cui Pericle venne rieletto - perché lui, a differenza di renzi, si sottoponeva al voto dei cittadini - anno dopo anno, alla strategia, non sfuggì mai al controllo dei cittadini riuniti in assemblea.
Non pretendo che Di Benedetto abbia studiato storia greca, ma gli vorrei ricordare che la costituzione di quella città favoriva in ogni modo il coinvolgimento di ogni cittadino alla vita politica. Per non sembrare che invento - come fa lui - voglio citare uno studioso importante, Moses I. Finley.
Sin dalla nascita ogni ragazzo ateniese aveva qualcosa di più della probabilità puramente ipotetica di diventare presidente dell'assemblea, una carica basata su un sistema di avvicendamento che veniva assegnata per un solo giorno e, come al solito, per sorteggio. Inoltre quello stesso ragazzo poteva diventare commissario del mercato per un anno, membro del consiglio per un anno o due anni (purché non consecutivi), sedere ripetutamente in una giuria e infine partecipare all'assemblea con diritto di voto tutte le volte che lo desiderava.Pericle, e gli altri leader della città prima di lui, non ha mai avuto poteri eccezionali. Grazie alle sue doti riusciva a influenzare i suoi concittadini, a imporre le sue linee politiche, che venivano poi tradotte in una serie di disposizioni e di decreti dell'assemblea, composta da tutti - sottolineo tutti - i cittadini liberi, maschi e maggiorenni. Questa è la politica, o almeno così dovrebbe essere: in Italia fa così schifo che ce ne siamo dimenticati.
Quindi non deve stupire se alcune decisioni dell'assemblea cittadina non erano in linea con gli indirizzi politici in quel momento prevalenti. Pericle aveva un controllo dell'assemblea tutt'altro che assoluto, potevano essere approvati dei decreti che stridevano con quelli assunti i giorni precedenti: questo era uno dei rischi del sistema democratico ateniese. Un cittadino poteva un giorno votare a favore di una proposta di un oratore e il giorno successivo votare contro una proposta dello stesso oratore, perché non c'era una rigida disciplina di partito e non esistevano veri partiti come noi li abbiamo conosciuti in un'altra epoca. Pericle nel 430 fu messo in minoranza, fu accusato di condurre male la guerra e fu multato: evidentemente in quei giorni tra i cittadini si era sollevato del malumore contro di lui, che gli oratori avversari seppero alimentare e sfruttare in maniera particolarmente efficace, ma poco dopo Pericle fu rieletto stratega, il suo prestigio aveva ripreso posto nell'animo degli ateniesi.
Quando Tucidide usa protos non si riferisce a un ruolo politico vero e proprio, dice semplicemente che il governo della città era allora condizionato da uno dei suoi migliori cittadini, forse il migliore. E il giudizio di Tucidide è importante perché egli non era un sostenitore di Pericle, anzi era un suo avversario politico. Lo storico pensava che il potere dell'assemblea dei cittadini, di tutti i cittadini, dovesse essere limitato, circoscritto, a favore di quelli che erano migliori per nascita. Tucidide osteggiava Pericle e quelli come lui, perché, nonostante fosse aristocratico di nascita, permetteva che il popolo avesse un tale potere.
Tucidide è un grande storico - il più importante dell'antichità - perché quando scriveva non si lasciava influenzare dalle sue idee politiche e con grande obiettività ci ha lasciato uno dei testi fondamentali dell'ideologia democratica di Atene, un sistema politico che da aristocratico osteggiava, ma che ha raccontato e spiegato meglio di tutti. Tucidide infatti ci ha lasciato il resoconto - non sapremo mai quanto testualmente esatto - del discorso che Pericle fece in onore dei caduti del primo anno della guerra contro Sparta.
In questo discorso Pericle spiega quali sono le caratteristiche della democrazia e - sia detto per inciso - tra queste non c'è affatto "l'importanza di un leader". Dice Pericle, elogiando la costituzione di Atene:
Essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell'amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale, ma più per quello che vale.Per questo noi "bislacchi difensori dell'ordine democratico" non amiamo le riforme di renzi, perché non vogliamo "affidarci" a un leader, ma vogliamo avere la possibilità che tutti esprimano la propria capacità politica, una capacità che tutti possiedono, che tutti possono possedere. E che tutti hanno il diritto - e il dovere - di esercitare. Questa è la democrazia e questa è la democrazia che noi difendiamo; perfino per quelli del pd.
lunedì 9 novembre 2015
Verba volant (222): ponte...
Ponte, sost. m.
Non so che effetto fa a voi, ma a me questa storia del ponte affascina.
Naturalmente ci sono moltissime ragioni per essere contro l'idea di costruire il ponte sullo stretto di Messina. E chi ha un po' di senno sa che per fortuna il ponte non verrà mai costruito, perché quella terra è troppo fragile. Nel frattempo però tantissimi soldi se ne andranno in studi, consulenze, analisi, progetti di fattibilità, come tantissimi se ne sono già andati per gli stessi motivi in questi anni.
A dire il vero non serve spendere tanto denaro per sapere che lì quel ponte non si può fare: basta leggere il libro XII dell'Odissea. Ovviamente non esistono i due mitologici mostri descritti da Omero - Scilla e Cariddi - ma quel mito ci racconta che quei due lembi di terra, che sembrano unire la penisola e la Sicilia, sono così intrinsecamente uniti eppure incollegabili. E poi - per chi non vuole andare così indietro - ci sono stati i terribili terremoti che hanno colpito quella terra, fino a quello devastante del 1908.
Allora perché renzi ha sposato in maniera così incondizionata questa idea?
Mi rifiuto di credere a una spiegazione - per così dire clinica - che pure mi era balenata nei giorni scorsi. Per quanto l'uomo sia malato di egocentrismo - a uno stadio ormai incurabile - non credo sia così pazzo da non sapere che quel ponte non verrà realizzato o che, se mai lo sarà, non sarà lui a inaugurarlo. Quindi credo si sia messo l'animo in pace e sfogherà la sua malattia in altri modi, per così dire più domestici e alla sua portata, volando da una parte all'altra del pianeta con il "suo" aereo di stato - il Lampredotto One - o danzando nei corridoi di Palazzo Chigi con il mappamondo gonfiabile che gli hanno comprato Lotti e la Boschi per Natale.
Sappiamo che il ponte è in cima ai desiderata della mafia e dei grandi gruppi industriali, due tra i principali sostegni di questo governo, ma sia i mafiosi che i padroni preferiscono ottenere benefici più concreti, come gli appalti per il giubileo. Certo un po' di soldi arriveranno anche per il ponte, ma a questi interessa l'arrosto molto più del fumo. Alle mafie e ai padroni interessano i soldi degli appalti "eterni" della Salerno-Reggio Calabria, fanno gola i denari che adesso lo stato stanzierà, in emergenza e quindi senza alcun controllo, per portare l'acqua a Messina. Per fortuna in questo nostro bel paese le emergenze non mancano mai e quindi c'è sempre da rubare. E quando sfortunatamente non ci sono terremoti, alluvioni, catastrofi naturali, il governo riesce a organizzare un bell'Expo o un'olimpiade o si mette di piglio per costruire un inutile treno superveloce da far passare in mezzo alle Alpi. Vedete che con tutto questo ben di Dio su cui fare affari, non serve proprio il ponte sullo stretto.
E' poi curioso che renzi si faccia promotore di uno dei principali progetti di Berlusconi, anzi di quel progetto per cui il vecchio satiro è stato "sfanculato" da tutto il pd, renzi compreso, in ogni modo possibile e immaginabile. Il fantoccio di Rignano sa ovviamente che questo paese non si ricorda mai nulla e quindi può contare sulle amnesie dei suoi elettori, e spera in qualche modo di recuperare un po' di voti del leader morente. La feccia di destra, i cascami fascisti, li ha ormai ereditati Salvini, ma c'è un'area di elettori di Berlusconi, ad esempio gli evasori fiscali, i puttanieri ipocriti, i cummenda dei film dei Vanzina, che cercano ancora una guida ed è probabile che questa cosa del ponte faccia presa, un po' come il campanello per il cane di Pavlov. Però neppure questo basta a convincermi: non può aver messo su questo cinema per quattro voti, deve esserci qualcosa di più.
E allora mi è venuto in mente Zenone e finalmente ho capito. E' una penitenza: ci sta conducendo tutti verso lo cavalcone. Ringraziamo lo Sommo che ci rende la via della salvazione irsuta di ostacoli. Transitare in fila longobarda. Seguitatemi. Deus vult!
Non so che effetto fa a voi, ma a me questa storia del ponte affascina.
Naturalmente ci sono moltissime ragioni per essere contro l'idea di costruire il ponte sullo stretto di Messina. E chi ha un po' di senno sa che per fortuna il ponte non verrà mai costruito, perché quella terra è troppo fragile. Nel frattempo però tantissimi soldi se ne andranno in studi, consulenze, analisi, progetti di fattibilità, come tantissimi se ne sono già andati per gli stessi motivi in questi anni.
A dire il vero non serve spendere tanto denaro per sapere che lì quel ponte non si può fare: basta leggere il libro XII dell'Odissea. Ovviamente non esistono i due mitologici mostri descritti da Omero - Scilla e Cariddi - ma quel mito ci racconta che quei due lembi di terra, che sembrano unire la penisola e la Sicilia, sono così intrinsecamente uniti eppure incollegabili. E poi - per chi non vuole andare così indietro - ci sono stati i terribili terremoti che hanno colpito quella terra, fino a quello devastante del 1908.
Allora perché renzi ha sposato in maniera così incondizionata questa idea?
Mi rifiuto di credere a una spiegazione - per così dire clinica - che pure mi era balenata nei giorni scorsi. Per quanto l'uomo sia malato di egocentrismo - a uno stadio ormai incurabile - non credo sia così pazzo da non sapere che quel ponte non verrà realizzato o che, se mai lo sarà, non sarà lui a inaugurarlo. Quindi credo si sia messo l'animo in pace e sfogherà la sua malattia in altri modi, per così dire più domestici e alla sua portata, volando da una parte all'altra del pianeta con il "suo" aereo di stato - il Lampredotto One - o danzando nei corridoi di Palazzo Chigi con il mappamondo gonfiabile che gli hanno comprato Lotti e la Boschi per Natale.
Sappiamo che il ponte è in cima ai desiderata della mafia e dei grandi gruppi industriali, due tra i principali sostegni di questo governo, ma sia i mafiosi che i padroni preferiscono ottenere benefici più concreti, come gli appalti per il giubileo. Certo un po' di soldi arriveranno anche per il ponte, ma a questi interessa l'arrosto molto più del fumo. Alle mafie e ai padroni interessano i soldi degli appalti "eterni" della Salerno-Reggio Calabria, fanno gola i denari che adesso lo stato stanzierà, in emergenza e quindi senza alcun controllo, per portare l'acqua a Messina. Per fortuna in questo nostro bel paese le emergenze non mancano mai e quindi c'è sempre da rubare. E quando sfortunatamente non ci sono terremoti, alluvioni, catastrofi naturali, il governo riesce a organizzare un bell'Expo o un'olimpiade o si mette di piglio per costruire un inutile treno superveloce da far passare in mezzo alle Alpi. Vedete che con tutto questo ben di Dio su cui fare affari, non serve proprio il ponte sullo stretto.
E' poi curioso che renzi si faccia promotore di uno dei principali progetti di Berlusconi, anzi di quel progetto per cui il vecchio satiro è stato "sfanculato" da tutto il pd, renzi compreso, in ogni modo possibile e immaginabile. Il fantoccio di Rignano sa ovviamente che questo paese non si ricorda mai nulla e quindi può contare sulle amnesie dei suoi elettori, e spera in qualche modo di recuperare un po' di voti del leader morente. La feccia di destra, i cascami fascisti, li ha ormai ereditati Salvini, ma c'è un'area di elettori di Berlusconi, ad esempio gli evasori fiscali, i puttanieri ipocriti, i cummenda dei film dei Vanzina, che cercano ancora una guida ed è probabile che questa cosa del ponte faccia presa, un po' come il campanello per il cane di Pavlov. Però neppure questo basta a convincermi: non può aver messo su questo cinema per quattro voti, deve esserci qualcosa di più.
E allora mi è venuto in mente Zenone e finalmente ho capito. E' una penitenza: ci sta conducendo tutti verso lo cavalcone. Ringraziamo lo Sommo che ci rende la via della salvazione irsuta di ostacoli. Transitare in fila longobarda. Seguitatemi. Deus vult!
sabato 7 novembre 2015
"L'Internazionale" di Franco Fortini
Noi siamo gli ultimi del mondo.
Ma questo mondo non ci avrà.
Noi lo distruggeremo a fondo.
Spezzeremo la società.
Nelle fabbriche il capitale
come macchine ci usò.
Nelle scuole la morale
di chi comanda ci insegnò.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l'Internazionale
un'altra umanità.
Questa lotta che uguale
l'uomo all’uomo farà,
è l'Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
Noi siamo gli ultimi di un tempo
che nel suo male sparirà.
Qui l'avvenire è già presente
chi ha compagni non morirà.
Al profitto e al suo volere
tutto l'uomo si tradì,
ma la Comune avrà il potere.
Dov'era il no faremo il sì.
Questo pugno che sale…
E tra di noi divideremo
lavoro, amore, libertà.
E insieme ci riprenderemo
la parola e la verità.
Guarda in viso, tienili a memoria
chi ci uccise, chi mentì.
Compagni, porta la tua storia
alla certezza che ci unì.
Questo pugno che sale…
Noi non vogliam sperare niente.
il nostro sogno è la realtà.
Da continente a continente
questa terra ci basterà.
Classi e secoli ci han straziato
fra chi sfruttava e chi servì:
compagno, esci dal passato
verso il compagno che ne uscì.
Questo pugno che sale…
Ma questo mondo non ci avrà.
Noi lo distruggeremo a fondo.
Spezzeremo la società.
Nelle fabbriche il capitale
come macchine ci usò.
Nelle scuole la morale
di chi comanda ci insegnò.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l'Internazionale
un'altra umanità.
Questa lotta che uguale
l'uomo all’uomo farà,
è l'Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
Noi siamo gli ultimi di un tempo
che nel suo male sparirà.
Qui l'avvenire è già presente
chi ha compagni non morirà.
Al profitto e al suo volere
tutto l'uomo si tradì,
ma la Comune avrà il potere.
Dov'era il no faremo il sì.
Questo pugno che sale…
E tra di noi divideremo
lavoro, amore, libertà.
E insieme ci riprenderemo
la parola e la verità.
Guarda in viso, tienili a memoria
chi ci uccise, chi mentì.
Compagni, porta la tua storia
alla certezza che ci unì.
Questo pugno che sale…
Noi non vogliam sperare niente.
il nostro sogno è la realtà.
Da continente a continente
questa terra ci basterà.
Classi e secoli ci han straziato
fra chi sfruttava e chi servì:
compagno, esci dal passato
verso il compagno che ne uscì.
Questo pugno che sale…
giovedì 5 novembre 2015
Verba volant (221): giubileo...
Visto quello che ci stanno preparando, credo valga la pena ripercorrere la storia di questa parola. Nel 1300, quando papa Bonifacio VIII decise di istituire il giubileo, ossia un anno in cui tutti i pellegrini che fossero arrivati a Roma avrebbero goduto di un'indulgenza plenaria, utilizzò una parola che richiamava un'antica tradizione biblica. Infatti gli antichi Ebrei chiamavano così una festa che ricorreva ogni cinquant'anni, che santificavano con il riposo della terra - e infatti erano vietati sia la semina che il raccolto - con la restituzione della terra al primitivo proprietario, quando un ricco creditore se ne fosse impossessato, e infine con la liberazione degli schiavi.
Il giubileo di Bonifacio VIII non fu il successo politico che quel papa aveva sperato: nessun regnante davvero importante andò a Roma a dimostrare un omaggio non solo formale al capo della chiesa. Però il successo "turistico" dell'evento fu clamoroso: lo storico fiorentino Giovanni Villani racconta che furono almeno trecentomila i pellegrini giunti in quell'anno nella Città eterna. Quindi il papa vide che era cosa buona e la tradizione prese piede. A dire la verità Bonifacio VIII aveva previsto che il giubileo sarebbe dovuto cadere ogni cento anni, ma i suoi successori decisero di accorciare un bel po' questo lasso di tempo: Clemente VI stabilì che si celebrasse ogni cinquant'anni, mentre Urbano VI decise che il tempo ideale fosse di trentatré anni. Infine, nel 1470, Paolo II sancì in maniera definitiva che il giubileo ci sarebbe stato ogni venticinque anni, a causa della brevità della vita umana e della debolezza degli uomini verso il peccato. Intento lodevolissimo e pio quello di spalancare le porte della Gerusalemme celeste al maggior numero possibile di persone, ma forse quel papa pensava, più concretamente, anche alle finanze della Gerusalemme terrena.
Naturalmente si possono indire anche giubilei straordinari ed è - come noto - proprio quello che ha fatto l'attuale papa. Ovviamente non voglio sindacare su questa decisione del sommo pontefice, presa dall'alto della sua infallibilità. Come sapete non amo intromettermi nelle loro faccende, almeno quanto non voglio che loro si intromettano nelle nostre. Anche se forse in questo caso al tanto vituperato Bonifacio VIII dovremmo riconoscere almeno una maggior capacità in fatto di marketing: ripetere questo rito con una tale frequenza rischia di far perdere prestigio e credibilità all'evento. Magari qualche buon cattolico ha perfino pensato di poter rubare con gli appalti di questo giubileo, tanto ce ne sarà uno tra qualche anno in cui redimersi da tutti i peccati.
A dire il vero l'attuale pontefice quando aveva annunciato il giubileo aveva lasciato intendere che forse qualche modalità dell'evento sarebbe stata cambiata. In particolare disse - e non disse - che non sarebbe stato proprio necessario andare a Roma per ottenere l'indulgenza, che non era obbligatorio fare un viaggio faticoso, spendere molti soldi e fare lunghe fila - come fosse un Expo qualsiasi - ma che fosse possibile celebrare il giubileo in tutto il mondo. In sostanza ci era parso che alla tesi del "giubileo in un solo paese" si contrapponesse una visione - come dire trotzkista - del "giubileo permanente". Quando sono uscite le disposizioni relative al giubileo gli albergatori e i ristoratori di Roma hanno tirato un sospiro di sollievo: per salvarsi è sempre meglio fare un viaggetto nella città dove ci stanno il papa e i cardinali.
Mi perdonerà papa Francesco, ma del giubileo deve occuparsi anche un ateo impenitente come me, perché la sua festa si svolge nel mio paese. Qualche ricaduta laica del giubileo l'abbiamo già vista. Al papa e ai cardinali il sindaco che i romani si erano scelti non sembrava proprio adatto per il giubileo. Aveva questa idea balzana di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso e poi poche settimane fa aveva perfino dedicato una piazza - per quanto piccola e senza case - a Martin Lutero, uno che i giubilei non li aveva mai sopportati. Allora il papa e i cardinali hanno chiesto al governo di cambiare il sindaco. Non si potrebbe, ci sarebbe la Costituzione, ma al governo sembrava brutto rifiutare questo piccolo favore al papa e così hanno tolto il sindaco che c'era prima e ne hanno messo uno che non ha queste idee strane.
Poi il papa e i cardinali hanno detto al governo: ricordatevi che arriveranno a Roma tantissimi pellegrini e saranno necessarie nuove strade, nuove stazioni, nuovi ponti. Il governo è rimasto un po' così, chiedendosi come fare a costruire in così poco tempo: ci sono delle regole da rispettare per fare tutte queste cose. I costruttori allora, vista la difficoltà del governo, hanno detto: non preoccupatevi, faremo tutto noi, per la gloria dell'Altissimo e al doppio del prezzo di mercato, basta che togliate tutte queste regole che rallentano i lavori. E così il governo ha tolto le regole e i lavori sono cominciati: tanto, anche se qualcuno ruba, con il giubileo tutti i peccati sono perdonati. Omnia munda mundis.
Per fortuna che noi non seguiamo le regole degli antichi Ebrei e quindi noi durante il giubileo non solo semineremo, ma raccoglieremo - o meglio noi semineremo e qualcuno raccoglierà - le terre, le case, gli attici rimarranno tutti agli attuali proprietari - finché Lui non rimette a noi i nostri debiti noi non li rimetteremo ai nostri debitori - e non libereremo nemmeno uno schiavo: devono servire le pizze surgelate ai pellegrini.
Il giubileo di Bonifacio VIII non fu il successo politico che quel papa aveva sperato: nessun regnante davvero importante andò a Roma a dimostrare un omaggio non solo formale al capo della chiesa. Però il successo "turistico" dell'evento fu clamoroso: lo storico fiorentino Giovanni Villani racconta che furono almeno trecentomila i pellegrini giunti in quell'anno nella Città eterna. Quindi il papa vide che era cosa buona e la tradizione prese piede. A dire la verità Bonifacio VIII aveva previsto che il giubileo sarebbe dovuto cadere ogni cento anni, ma i suoi successori decisero di accorciare un bel po' questo lasso di tempo: Clemente VI stabilì che si celebrasse ogni cinquant'anni, mentre Urbano VI decise che il tempo ideale fosse di trentatré anni. Infine, nel 1470, Paolo II sancì in maniera definitiva che il giubileo ci sarebbe stato ogni venticinque anni, a causa della brevità della vita umana e della debolezza degli uomini verso il peccato. Intento lodevolissimo e pio quello di spalancare le porte della Gerusalemme celeste al maggior numero possibile di persone, ma forse quel papa pensava, più concretamente, anche alle finanze della Gerusalemme terrena.
Naturalmente si possono indire anche giubilei straordinari ed è - come noto - proprio quello che ha fatto l'attuale papa. Ovviamente non voglio sindacare su questa decisione del sommo pontefice, presa dall'alto della sua infallibilità. Come sapete non amo intromettermi nelle loro faccende, almeno quanto non voglio che loro si intromettano nelle nostre. Anche se forse in questo caso al tanto vituperato Bonifacio VIII dovremmo riconoscere almeno una maggior capacità in fatto di marketing: ripetere questo rito con una tale frequenza rischia di far perdere prestigio e credibilità all'evento. Magari qualche buon cattolico ha perfino pensato di poter rubare con gli appalti di questo giubileo, tanto ce ne sarà uno tra qualche anno in cui redimersi da tutti i peccati.
A dire il vero l'attuale pontefice quando aveva annunciato il giubileo aveva lasciato intendere che forse qualche modalità dell'evento sarebbe stata cambiata. In particolare disse - e non disse - che non sarebbe stato proprio necessario andare a Roma per ottenere l'indulgenza, che non era obbligatorio fare un viaggio faticoso, spendere molti soldi e fare lunghe fila - come fosse un Expo qualsiasi - ma che fosse possibile celebrare il giubileo in tutto il mondo. In sostanza ci era parso che alla tesi del "giubileo in un solo paese" si contrapponesse una visione - come dire trotzkista - del "giubileo permanente". Quando sono uscite le disposizioni relative al giubileo gli albergatori e i ristoratori di Roma hanno tirato un sospiro di sollievo: per salvarsi è sempre meglio fare un viaggetto nella città dove ci stanno il papa e i cardinali.
Mi perdonerà papa Francesco, ma del giubileo deve occuparsi anche un ateo impenitente come me, perché la sua festa si svolge nel mio paese. Qualche ricaduta laica del giubileo l'abbiamo già vista. Al papa e ai cardinali il sindaco che i romani si erano scelti non sembrava proprio adatto per il giubileo. Aveva questa idea balzana di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso e poi poche settimane fa aveva perfino dedicato una piazza - per quanto piccola e senza case - a Martin Lutero, uno che i giubilei non li aveva mai sopportati. Allora il papa e i cardinali hanno chiesto al governo di cambiare il sindaco. Non si potrebbe, ci sarebbe la Costituzione, ma al governo sembrava brutto rifiutare questo piccolo favore al papa e così hanno tolto il sindaco che c'era prima e ne hanno messo uno che non ha queste idee strane.
Poi il papa e i cardinali hanno detto al governo: ricordatevi che arriveranno a Roma tantissimi pellegrini e saranno necessarie nuove strade, nuove stazioni, nuovi ponti. Il governo è rimasto un po' così, chiedendosi come fare a costruire in così poco tempo: ci sono delle regole da rispettare per fare tutte queste cose. I costruttori allora, vista la difficoltà del governo, hanno detto: non preoccupatevi, faremo tutto noi, per la gloria dell'Altissimo e al doppio del prezzo di mercato, basta che togliate tutte queste regole che rallentano i lavori. E così il governo ha tolto le regole e i lavori sono cominciati: tanto, anche se qualcuno ruba, con il giubileo tutti i peccati sono perdonati. Omnia munda mundis.
Per fortuna che noi non seguiamo le regole degli antichi Ebrei e quindi noi durante il giubileo non solo semineremo, ma raccoglieremo - o meglio noi semineremo e qualcuno raccoglierà - le terre, le case, gli attici rimarranno tutti agli attuali proprietari - finché Lui non rimette a noi i nostri debiti noi non li rimetteremo ai nostri debitori - e non libereremo nemmeno uno schiavo: devono servire le pizze surgelate ai pellegrini.
lunedì 2 novembre 2015
Verba volant (220): parola...
E Pier Paolo Pasolini è morto proprio a causa delle sue parole, di quello che aveva scritto e di quello che avrebbe scritto. Naturalmente tutti - perfino chi usa le parole in maniera ipocrita - si dichiarano tristi per la morte di Pasolini. E' vero che quell'uccisione ha privato l'Italia, l'Europa, il mondo, di un artista, e di una coscienza critica. E rileggendo proprio le denunce di Pasolini, guardando a quello che è successo in questi quarant'anni, vediamo che hanno vinto loro, ha vinto quel potere oscuro di cui forse Pasolini aveva paura, ma da cui evidentemente non si è guardato abbastanza.
Nei suoi testi degli inizi degli anni Settanta racconta con una precisione che quasi spaventa quello che sarebbe successo negli anni successivi, lo strapotere del capitale, l'idolatria del mercato, il ribaltamento del sistema dei valori a favore del denaro, la fine di un certo modo di intendere la politica e l'impegno civile. E' vero, hanno vinto, ci hanno schiacciato, tanto che si permettono perfino di organizzare delle manifestazioni per questo anniversario, di celebrare quell'uomo che hanno ucciso, di lodarne le capacità poetiche, ma sempre ricordando che in fondo era un pederasta e che quella morte se l'è andata a cercare. Hanno vinto perché la storia la raccontano come vogliono loro, anche la storia dell'uccisione di Pasolini, di cui continuano a incolpare Pelosi che fu solo spettatore impaurito e complice forse poco consapevole.
Hanno vinto perché controllano quello che leggiamo, quello che guardiamo al cinema e in televisione, perché ci offrono un'immagine falsa del mondo, l'immagine che hanno costruito per noi. Quello che avviene proprio in questi giorni, la progressiva riduzione degli ambiti della democrazia, la messa in mora della Costituzione, la concentrazione del vero potere in poche mani è l'evoluzione naturale di quel disegno cominciato con la stagione delle bombe, di cui Pasolini ci ha detto con chiarezza scopi e mandanti. Noi oggi sappiamo, perché Pasolini allora disse Io so. E ci ha spiegato anche che quello che allora sembrava il nemico, il ritorno di un fascismo che effettivamente in quegli anni prendeva il potere in tanti paesi del cosiddetto terzo mondo, ma anche in Grecia, qui in Europa, non era il vero nemico, e che alla fine sarebbe caduta la maschera e avremmo visto che il vero potere è nella mani di quei pochissimi che controllano l'economia, che ci hanno trasformati in consumatori prima che in sudditi. E oggi è chiarissimo che siamo arrivati a quel punto, visto che i nostri governi fanno quello che fanno proprio in nome dell'ultraliberismo e sotto gli ordini diretti di questi nuovi poteri.
C'è da essere pessimisti, e - lo sapete - io lo sono, perché sono, come tanti di voi, tra gli sconfitti. Però c'è una cosa che ci insegna la vicenda di Pasolini ed è proprio la forza della parola. Pasolini non aveva nient'altro eppure le sue parole facevano tanta paura da costringerli ad ammazzarlo. Allora questa parola deve essere davvero un'arma insidiosa, potente, letale, se perfino chi ha un potere così smisurato, così sfacciato, così violento, la teme. E allora anche noi che le parole non le sappiamo usare così bene come Pasolini, ma in qualche modo le mettiamo in fila, abbiamo una responsabilità, perché maneggiamo un'arma potente, un'arma che loro temono. In qualche modo la loro paura è la nostra speranza, o più probabilmente la speranza di una generazione che verrà e a cui dobbiamo consegnare delle parole.
"Sfida ai dirigenti della televisione" di Pier Paolo Pasolini
Corriere della sera, 9 dicembre 1973
Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro "cattivo" nelle periferie "buone" (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali - appunto fino a pochi anni fa - era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili.
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.
Non c'è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?
No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d'animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i "figli di papà", i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l'hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l'analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di "studente". Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell'adeguarsi al modello "televisivo" - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale - diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio "uomo" che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.
La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. E il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre.
venerdì 30 ottobre 2015
Verba volant (219): semplice...
Semplice, agg.
Quando i Frigi non avevano ancora un re, un antico oracolo predisse che il primo uomo che fosse entrato nella loro città su un carro trainato da dei buoi, sarebbe stato investito di tale potere. Come era prevedibile, fu un contadino il primo a giungere in città su un carro e questi divenne re. Il carro di Gordio - così si chiamava quel contadino - fu legato a un palo, assicurandone la stanga con un intricato nodo di corda in corteccia di corniolo. Tempo dopo, un altro oracolo profetizzò che se qualcuno fosse riuscito a sciogliere quel nodo avrebbe dominato su tutta l'Asia minore. Quando, nella primavera del 333 a.C., Alessandro Magno arrivò in quell'antica città, avendo l'ambizione di dominare sull'intero oriente, presto capì che il nodo non poteva essere sciolto e lo tagliò con la sua spada; la profezia così si compì.
Ho raccontato questa storia perché il potere ha sempre avuto la tentazione di annullare la complessità del mondo, di semplificare - magari con un taglio netto - quello che gli appare troppo difficile da risolvere. Mi è venuto in mente, vedendo che semplice è uno degli aggettivi preferiti e più utilizzati dall'attuale regime.
Alcuni giorni fa il garrulo presidente-segretario, per festeggiare l'approvazione in Senato della riforma costituzionale Gelli-Napolitano, ha scritto uno dei suoi soliti tweet, per dire che grazie a questo provvedimento può continuare "il sogno di un’Italia più semplice e più forte". Mentre era in Sudamerica, per mettere a tacere le polemiche contro l'innalzamento della soglia all'uso del contante, ha detto che il suo governo ha reso più semplice trovare gli evasori, perché "questo è lo stato che funziona solo con un clic". Qualche tempo fa aveva dichiarato, con la solita baldanza, che anche l'Europa dovrebbe essere più semplice.
A me questa affannosa ricerca della semplicità suona un po' sospetta. Come la spada di Alessandro.
Al di là di certi aspetti decisamente naif, l'uomo sceglie con cura le parole e in particolare questo aggettivo rivela il fatto che la filosofia che sta dietro alle riforme istituzionali e più in generale all'azione di governo non è assolutamente di sinistra. Un uomo di sinistra dovrebbe sognare un'Italia più giusta, renzi invece, che di sinistra non è mai stato, sogna un'Italia forte, richiamando una retorica di altri tempi - infelici per il nostro paese - e soprattutto più semplice. Questo è davvero l'aggettivo più rivelatore del pensiero profondo che sta dietro queste riforme e questo modo di fare politica, così profondamente di destra.
E' complesso il governo di una società come la nostra, in cui ci sono tanti interessi, spesso contrapposti. Perfino un manicheo come me, uno che divide il mondo in buoni e cattivi, sa che in mezzo tra questi due poli c'è sostanzialmente di tutto. Per anni abbiamo pensato che creare nuove industrie avrebbe significato creare nuovi posti di lavoro, poi ci siamo accorti che significava anche ridurre le risorse del pianeta e aumentare l'inquinamento. Produrre più cibo potrebbe sfamare il mondo, ma aumentare la produzione di cibo richiede un'energia che il nostro pianeta non può produrre e sopportare. E potremmo fare molti altri esempi. Una società vive inevitabilmente di conflitti, le nostre famiglie vivono di conflitti, noi siamo cresciuti anche contrapponendoci ai nostri genitori, così come loro sono cresciuti contrapponendosi ai loro. Questo è qualcosa che non può essere semplificato, può essere studiato - anzi deve esserlo - e deve essere usato come una risorsa. Non esistono soluzioni semplici, esistono soluzioni più o meno giuste, più o meno democratiche, più o meno condivise.
Un paese democratico è per forza di cose complesso, perché la democrazia è in sé complessa e complessi sono i meccanismi affinché possa funzionare nel miglior modo possibile. Voler ridurre la complessità della democrazia a questa pretesa semplicità significa sostanzialmente ridurre tutto al pensiero unico, significa dire ai cittadini che è meglio che loro non pensino, perché adesso ci penseranno "lor signori".
La tecnologia semplifica la vita in molti campi, ad esempio migliora il nostro modo di lavorare, perfino di noi burocrati della pubblica amministrazione. Certo la burocrazia è stata creata per essere complessa, fumosa, volutamente oscura, perché così poteva essere utilizzata come uno strumento per tenere sottomessi i cittadini. E quindi semplificare la burocrazia è giusto e necessario. Io ovviamente sarei contento se davvero bastasse un clic per scoprire tutti gli evasori fiscali che ci sono nel nostro paese, però credo che sia davvero importante sapere chi è che spinge quel bottone e soprattutto come è stata impostata e programmata quella macchina. E questo non è una questione tecnica, ma tutta politica, tutta democratica, tutta legata alla conoscenza e alla consapevolezza delle persone.
Essere di sinistra credo significhi anche - tra le tante cose - battersi non per annullare la complessità, ma per dare a tutti - o almeno al maggior numero possibile di persone - gli strumenti per capirla, per interpretarla, per fare in modo che questa complessità porti vantaggi e non svantaggi, giustizia e non ingiustizie.
Personalmente non ho mai sognato un'Italia più forte - anche perché quello è un sogno da fascisti - e soprattutto non ho mai sognato un'Italia più semplice, per questo non voglio che questi novelli emuli di Alessandro mettano mano alla Costituzione, che è nata proprio per reazione a un regime che voleva un paese forte e semplice. Per questo, quando finalmente li avremo cacciati, dovremo pensare a come costruire un'Italia più onesta, più intelligente, più giusta, più solidale. E più complessa.
Quando i Frigi non avevano ancora un re, un antico oracolo predisse che il primo uomo che fosse entrato nella loro città su un carro trainato da dei buoi, sarebbe stato investito di tale potere. Come era prevedibile, fu un contadino il primo a giungere in città su un carro e questi divenne re. Il carro di Gordio - così si chiamava quel contadino - fu legato a un palo, assicurandone la stanga con un intricato nodo di corda in corteccia di corniolo. Tempo dopo, un altro oracolo profetizzò che se qualcuno fosse riuscito a sciogliere quel nodo avrebbe dominato su tutta l'Asia minore. Quando, nella primavera del 333 a.C., Alessandro Magno arrivò in quell'antica città, avendo l'ambizione di dominare sull'intero oriente, presto capì che il nodo non poteva essere sciolto e lo tagliò con la sua spada; la profezia così si compì.
Ho raccontato questa storia perché il potere ha sempre avuto la tentazione di annullare la complessità del mondo, di semplificare - magari con un taglio netto - quello che gli appare troppo difficile da risolvere. Mi è venuto in mente, vedendo che semplice è uno degli aggettivi preferiti e più utilizzati dall'attuale regime.
Alcuni giorni fa il garrulo presidente-segretario, per festeggiare l'approvazione in Senato della riforma costituzionale Gelli-Napolitano, ha scritto uno dei suoi soliti tweet, per dire che grazie a questo provvedimento può continuare "il sogno di un’Italia più semplice e più forte". Mentre era in Sudamerica, per mettere a tacere le polemiche contro l'innalzamento della soglia all'uso del contante, ha detto che il suo governo ha reso più semplice trovare gli evasori, perché "questo è lo stato che funziona solo con un clic". Qualche tempo fa aveva dichiarato, con la solita baldanza, che anche l'Europa dovrebbe essere più semplice.
A me questa affannosa ricerca della semplicità suona un po' sospetta. Come la spada di Alessandro.
Al di là di certi aspetti decisamente naif, l'uomo sceglie con cura le parole e in particolare questo aggettivo rivela il fatto che la filosofia che sta dietro alle riforme istituzionali e più in generale all'azione di governo non è assolutamente di sinistra. Un uomo di sinistra dovrebbe sognare un'Italia più giusta, renzi invece, che di sinistra non è mai stato, sogna un'Italia forte, richiamando una retorica di altri tempi - infelici per il nostro paese - e soprattutto più semplice. Questo è davvero l'aggettivo più rivelatore del pensiero profondo che sta dietro queste riforme e questo modo di fare politica, così profondamente di destra.
E' complesso il governo di una società come la nostra, in cui ci sono tanti interessi, spesso contrapposti. Perfino un manicheo come me, uno che divide il mondo in buoni e cattivi, sa che in mezzo tra questi due poli c'è sostanzialmente di tutto. Per anni abbiamo pensato che creare nuove industrie avrebbe significato creare nuovi posti di lavoro, poi ci siamo accorti che significava anche ridurre le risorse del pianeta e aumentare l'inquinamento. Produrre più cibo potrebbe sfamare il mondo, ma aumentare la produzione di cibo richiede un'energia che il nostro pianeta non può produrre e sopportare. E potremmo fare molti altri esempi. Una società vive inevitabilmente di conflitti, le nostre famiglie vivono di conflitti, noi siamo cresciuti anche contrapponendoci ai nostri genitori, così come loro sono cresciuti contrapponendosi ai loro. Questo è qualcosa che non può essere semplificato, può essere studiato - anzi deve esserlo - e deve essere usato come una risorsa. Non esistono soluzioni semplici, esistono soluzioni più o meno giuste, più o meno democratiche, più o meno condivise.
Un paese democratico è per forza di cose complesso, perché la democrazia è in sé complessa e complessi sono i meccanismi affinché possa funzionare nel miglior modo possibile. Voler ridurre la complessità della democrazia a questa pretesa semplicità significa sostanzialmente ridurre tutto al pensiero unico, significa dire ai cittadini che è meglio che loro non pensino, perché adesso ci penseranno "lor signori".
La tecnologia semplifica la vita in molti campi, ad esempio migliora il nostro modo di lavorare, perfino di noi burocrati della pubblica amministrazione. Certo la burocrazia è stata creata per essere complessa, fumosa, volutamente oscura, perché così poteva essere utilizzata come uno strumento per tenere sottomessi i cittadini. E quindi semplificare la burocrazia è giusto e necessario. Io ovviamente sarei contento se davvero bastasse un clic per scoprire tutti gli evasori fiscali che ci sono nel nostro paese, però credo che sia davvero importante sapere chi è che spinge quel bottone e soprattutto come è stata impostata e programmata quella macchina. E questo non è una questione tecnica, ma tutta politica, tutta democratica, tutta legata alla conoscenza e alla consapevolezza delle persone.
Essere di sinistra credo significhi anche - tra le tante cose - battersi non per annullare la complessità, ma per dare a tutti - o almeno al maggior numero possibile di persone - gli strumenti per capirla, per interpretarla, per fare in modo che questa complessità porti vantaggi e non svantaggi, giustizia e non ingiustizie.
Personalmente non ho mai sognato un'Italia più forte - anche perché quello è un sogno da fascisti - e soprattutto non ho mai sognato un'Italia più semplice, per questo non voglio che questi novelli emuli di Alessandro mettano mano alla Costituzione, che è nata proprio per reazione a un regime che voleva un paese forte e semplice. Per questo, quando finalmente li avremo cacciati, dovremo pensare a come costruire un'Italia più onesta, più intelligente, più giusta, più solidale. E più complessa.
domenica 25 ottobre 2015
Considerazioni libere (406): a proposito di un anno che è passato invano...
Il 25 ottobre dell'anno scorso abbiamo riempito le strade di Roma. E' stata una bellissima manifestazione: c'eravamo, in tanti, in tantissimi, c'era la Cgil, tutta la Cgil, c'erano le nostre bandiere, c'era l'orgoglio della sinistra italiana e c'era la voglia di costruire un'opposizione, costruttiva, consapevole, entusiasta. Io sono uno di quelli che, grazie a quella manifestazione, è tornato in piazza, dopo tanti anni in cui non mi sentivo più a casa in una piazza. E come me erano tanti, ci siamo ritrovati, provenendo ciascuno da una strada diversa. Pensavamo di esserci ritrovati, finalmente, di aver ripreso un cammino insieme, che per troppo tempo avevamo interrotto. E' passato un anno, ma l'opposizione non è nata, né da quella piazza né da altre parti.
In un anno qualcosa in Europa è successo. Un anno fa non avremmo realisticamente creduto che la sinistra radicale avrebbe vinto le elezioni in Grecia - due volte - che due donne di sinistra sarebbero diventate sindaco di Madrid e di Barcellona, che uno come Jeremy Corbyn sarebbe diventato il leader del Labour, che i partiti della sinistra, uniti dopo quarant'anni, sarebbero stati in grado di offrire un governo diverso al Portogallo, un governo che non è ancora nato perché c'è stato un colpo di stato orchestrato dal presidente della Repubblica di quel paese (evidentemente Napolitano ha fatto scuola nella peggior destra europea).
In Italia non abbiamo neppure cominciato o, quando lo abbiamo fatto, con troppa timidezza. Leggo che tra le forze - per usare un eufemismo - che stanno a sinistra del pd si sta ragionando di dar vita a un soggetto comune, almeno a una sorta di coordinamento parlamentare, ma pare che la discussione sia tutta incentrata - e forse arenata - sull'opportunità o meno di fare delle alleanze locali con il pd nelle prossime elezioni amministrative di primavera. Con tutto il rispetto per le amministrazioni di quelle città, non possiamo pensare che la sinistra possa rinascere così, in un dibattito che coinvolge - quando va bene - soltanto un po' di ceto politico. Di fronte a una crisi che coinvolge la sinistra europea da almeno vent'anni e che riguarda temi fondanti, come l'identità, i valori, l'idea stessa di socialismo, non possiamo perdere tempo su un pugno di assessorati tra Milano, Bologna e Napoli. La nostra agenda, almeno per qualche anno, non può essere dettata dalle scadenze elettorali. Per noi l'unico appuntamento fondamentale nel 2016 dovrà essere il referendum sulla riforma costituzionale Gelli-Napolitano, a cui dovremo rispondere convintamente NO, convincendo la maggioranza degli italiani a bocciare questo vero e proprio attentato alla Costituzione. Per il resto dovremo occuparci di altre questioni, a partire dalla critica radicale al modello economico e politico in cui viviamo, in una prospettiva che io credo debba essere autenticamente rivoluzionaria.
Io sono uno di quelli che - forse ingenuamente - ha sperato che la Cgil saltasse il fosso, decidesse di diventare opposizione a questo governo, a questo regime. Evidentemente c'è una discussione all'interno dell'organizzazione, qualcuno pensa che sia possibile, qualcuno ha anche provato a mettere in fila alcune idee, alcune proposte, in un percorso che avrebbe coinvolto necessariamente lo stesso modo di essere sindacato, ma la maggioranza della Cgil pensa ad altro. Ha pensato ad altro nel corso di tutto questo anno, che abbiamo sostanzialmente perso, ha pensato che la cosiddetta minoranza pd avrebbe avuto il coraggio e ha investito su di loro in un'attesa che ormai rischia di essere vana e inconcludente come quella di Godot. Forse non manca intelligenza in qualcuno di quelli della minoranza - partire da Bersani - ma certamente fa loro difetto il coraggio, e un anno fa era già evidentissimo, dal modo in cui si erano ripetutamente piegati a una serie di atti incostituzionali portati avanti dalle maggiori cariche istituzionali del paese. Da uno come Bersani, che ha accettato, senza fiatare, tutto quello che lui stesso ha subito, quando gli fu impedito di presentarsi alle camere, pur avendo vinto le elezioni, non possiamo adesso sperare nulla. Anche perché loro hanno ormai fatto una scelta di campo e purtroppo non a sinistra, hanno scelto l'altra parte, hanno scelto il liberismo, hanno scelto i padroni, è una scelta legittima, ma non può essere la nostra. E spero non sia neppure quella della Cgil, che però non riesce ad affrancarsi da questa zavorra.
Personalmente in questo anno ho smesso di credere che la Cgil possa essere il motore di questo nuovo inizio. Con tanti compagni della Cgil certamente faremo quel cammino, certamente sosterremo battaglie importanti che il sindacato condurrà, a partire da quella per abolire la controriforma dello Statuto dei lavoratori, ma dobbiamo cominciare un percorso dal basso che purtroppo prescinde dalla Cgil che rischierebbe a questo punto di essere soltanto un elemento di freno.
Evidentemente sarà un percorso diverso da quello fatto dagli inglesi non solo perché non esiste un Corbyn italiano, ma soprattutto perché il pd ormai non è più scalabile, è in mano a renzi e ai suoi complici e con loro morirà. Né possiamo sperare, come è successo in Spagna e in Portogallo, in un'alleanza tra la sinistra radicale e quella moderata. In Italia, proprio perché la sinistra moderata non esiste più, anche il senso della definizione di sinistra radicale ha perso di senso. Personalmente continuo a pensare che per l'Italia l'unico modo di ricostruire la sinistra sia quello di ripartire da zero, da qualcosa di simile alle società di mutuo soccorso, alle leghe dei lavoratori, ovviamente alla luce di come il mondo è cambiato in questo secolo. Nella solidarietà tra gli ultimi, tra gli oppressi, tra i vinti della storia, rinascerà una storia diversa. Qualcuno di noi che era in piazza il 25 ottobre di un anno fa non avrà la fortuna di vedere questa storia nuova, ma non per questo bisogna smettere di lottare.
In un anno qualcosa in Europa è successo. Un anno fa non avremmo realisticamente creduto che la sinistra radicale avrebbe vinto le elezioni in Grecia - due volte - che due donne di sinistra sarebbero diventate sindaco di Madrid e di Barcellona, che uno come Jeremy Corbyn sarebbe diventato il leader del Labour, che i partiti della sinistra, uniti dopo quarant'anni, sarebbero stati in grado di offrire un governo diverso al Portogallo, un governo che non è ancora nato perché c'è stato un colpo di stato orchestrato dal presidente della Repubblica di quel paese (evidentemente Napolitano ha fatto scuola nella peggior destra europea).
In Italia non abbiamo neppure cominciato o, quando lo abbiamo fatto, con troppa timidezza. Leggo che tra le forze - per usare un eufemismo - che stanno a sinistra del pd si sta ragionando di dar vita a un soggetto comune, almeno a una sorta di coordinamento parlamentare, ma pare che la discussione sia tutta incentrata - e forse arenata - sull'opportunità o meno di fare delle alleanze locali con il pd nelle prossime elezioni amministrative di primavera. Con tutto il rispetto per le amministrazioni di quelle città, non possiamo pensare che la sinistra possa rinascere così, in un dibattito che coinvolge - quando va bene - soltanto un po' di ceto politico. Di fronte a una crisi che coinvolge la sinistra europea da almeno vent'anni e che riguarda temi fondanti, come l'identità, i valori, l'idea stessa di socialismo, non possiamo perdere tempo su un pugno di assessorati tra Milano, Bologna e Napoli. La nostra agenda, almeno per qualche anno, non può essere dettata dalle scadenze elettorali. Per noi l'unico appuntamento fondamentale nel 2016 dovrà essere il referendum sulla riforma costituzionale Gelli-Napolitano, a cui dovremo rispondere convintamente NO, convincendo la maggioranza degli italiani a bocciare questo vero e proprio attentato alla Costituzione. Per il resto dovremo occuparci di altre questioni, a partire dalla critica radicale al modello economico e politico in cui viviamo, in una prospettiva che io credo debba essere autenticamente rivoluzionaria.
Io sono uno di quelli che - forse ingenuamente - ha sperato che la Cgil saltasse il fosso, decidesse di diventare opposizione a questo governo, a questo regime. Evidentemente c'è una discussione all'interno dell'organizzazione, qualcuno pensa che sia possibile, qualcuno ha anche provato a mettere in fila alcune idee, alcune proposte, in un percorso che avrebbe coinvolto necessariamente lo stesso modo di essere sindacato, ma la maggioranza della Cgil pensa ad altro. Ha pensato ad altro nel corso di tutto questo anno, che abbiamo sostanzialmente perso, ha pensato che la cosiddetta minoranza pd avrebbe avuto il coraggio e ha investito su di loro in un'attesa che ormai rischia di essere vana e inconcludente come quella di Godot. Forse non manca intelligenza in qualcuno di quelli della minoranza - partire da Bersani - ma certamente fa loro difetto il coraggio, e un anno fa era già evidentissimo, dal modo in cui si erano ripetutamente piegati a una serie di atti incostituzionali portati avanti dalle maggiori cariche istituzionali del paese. Da uno come Bersani, che ha accettato, senza fiatare, tutto quello che lui stesso ha subito, quando gli fu impedito di presentarsi alle camere, pur avendo vinto le elezioni, non possiamo adesso sperare nulla. Anche perché loro hanno ormai fatto una scelta di campo e purtroppo non a sinistra, hanno scelto l'altra parte, hanno scelto il liberismo, hanno scelto i padroni, è una scelta legittima, ma non può essere la nostra. E spero non sia neppure quella della Cgil, che però non riesce ad affrancarsi da questa zavorra.
Personalmente in questo anno ho smesso di credere che la Cgil possa essere il motore di questo nuovo inizio. Con tanti compagni della Cgil certamente faremo quel cammino, certamente sosterremo battaglie importanti che il sindacato condurrà, a partire da quella per abolire la controriforma dello Statuto dei lavoratori, ma dobbiamo cominciare un percorso dal basso che purtroppo prescinde dalla Cgil che rischierebbe a questo punto di essere soltanto un elemento di freno.
Evidentemente sarà un percorso diverso da quello fatto dagli inglesi non solo perché non esiste un Corbyn italiano, ma soprattutto perché il pd ormai non è più scalabile, è in mano a renzi e ai suoi complici e con loro morirà. Né possiamo sperare, come è successo in Spagna e in Portogallo, in un'alleanza tra la sinistra radicale e quella moderata. In Italia, proprio perché la sinistra moderata non esiste più, anche il senso della definizione di sinistra radicale ha perso di senso. Personalmente continuo a pensare che per l'Italia l'unico modo di ricostruire la sinistra sia quello di ripartire da zero, da qualcosa di simile alle società di mutuo soccorso, alle leghe dei lavoratori, ovviamente alla luce di come il mondo è cambiato in questo secolo. Nella solidarietà tra gli ultimi, tra gli oppressi, tra i vinti della storia, rinascerà una storia diversa. Qualcuno di noi che era in piazza il 25 ottobre di un anno fa non avrà la fortuna di vedere questa storia nuova, ma non per questo bisogna smettere di lottare.
mercoledì 21 ottobre 2015
Verba volant (218): occupare...
Occupare, v. tr. Solo qualche anno fa - una vita fa, a essere sincero - pensavo e scrivevo cose diverse su molte questioni. Ad esempio pensavo che occupare fosse un reato. Certo anche allora provavo a capire le ragioni, spesso molto serie e complesse, a volte drammatiche, delle persone che si trovavano a occupare delle case vuote e lavoravo, nei limiti delle mie capacità e di quello che potevo fare per il mio ruolo politico e amministrativo, per risolvere queste situazioni. Nonostante questi distinguo, su questo punto avevo un'idea ferma e precisa: occupare è un reato e quindi è una forma sbagliata di lotta politica e sociale. Adesso non credo più sia un reato - naturalmente lo è per il codice, ma questo non mi interessa più o almeno mi sembra rilevante molto meno di allora - e soprattutto credo che sia un'azione di lotta possibile, certo non l'unica, ma una delle possibili.
Ci pensavo ascoltando alcune notizie che in queste settimane sono passate sugli organi di informazione, su cui c'è stata più o meno attenzione - ma quasi mai sono finite in prima pagina - a seconda del contesto politico e sociale in cui sono avvenute queste occupazioni. Anche se in nessun caso si è affrontato davvero il problema alla sua radice, ossia lo scandalo della povertà di un numero sempre crescente di persone e della disparità nella distribuzione delle risorse.
A Bologna ormai ogni settimana avviene uno sgombero. In un caso l'amministrazione comunale è stata platealmente ignorata, mentre in un altro è stata probabilmente connivente, anche se chiamata soltanto a cose fatte, quando c'era da recuperare i cocci. E' ormai cominciata la campagna elettorale, il partito che governa la città fa di tutto per cancellare il proprio passato di sinistra e cerca di accreditarsi a destra, per costruire una nuova maggioranza, ma soprattutto la magistratura vuole condizionare l'azione amministrativa del sindaco e purtroppo ci sta riuscendo. Quando la politica è debole - e oggi a Bologna è debolissima - è inevitabile che altri poteri, più o meno palesi, più o meno legittimi, più o meno democratici, ne prendano il posto: è un problema che dovrebbe interessare tutti quelli che hanno a cuore la democrazia, dovrebbe interessare perfino a quelli del pd. Mi preoccupa, da persona che ha amato Bologna, che ha un debito di riconoscenza per quello che ha insegnato a tanti di noi e che l'ha conosciuta diversa, l'indifferenza di una città che un tempo si sarebbe mobilitata di fronte a un attacco sistematico della magistratura alla convivenza sociale e alle prerogative politiche e democratiche, che avrebbe espresso maggiore solidarietà a quelle persone in difficoltà e soprattutto che avrebbe provato a costruire soluzioni per risolvere quel problema. Soluzioni politiche, perché da questa crisi si esce con la politica e non con la forza, come temo immagini qualcuno e qualcuno dice esplicitamente in piazza.
Un paio di settimane fa a Parma la magistratura e le forze dell'ordine hanno sgombrato una palazzina che era stata occupata da alcune famiglie, tutte con bambini piccoli. Questo edificio apparteneva a una delle società di Calisto Tanzi - era la sede di una delle agenzie di viaggi del gruppo - e, a causa dei noti dissesti finanziari della Parmalat, è passata da tempo nella disponibilità di una banca creditrice. L'edificio è rimasto vuoto per anni e così alcune famiglie lo hanno occupato, sistemando i danni più gravi e adattandolo alla meglio come abitazione, visto che prima veniva usato come sede di uffici. A un certo punto però la banca si è ricordata di avere quel bene, ne ha chiesto lo sgombero e l'ha ottenuto, perché formalmente ne è la proprietaria e perché evidentemente anche qui c'è qualcuno che vuole usare le "maniere forti". Chi ha commesso il reato più grave? Le famiglie che hanno occupato quell'edificio o la banca che è stata prima complice dei vertici di Parmalat e poi ha arraffato quel che poteva quando l'azienda è fallita? Di chi è quella casa? Di chi l'ha occupata, l'ha sistemata e l'ha ricominciata a utilizzare o di chi la usa come un numero, come un valore per garantire i propri investimenti? Chi ha più diritto su quell'edificio? Le famiglie che l'hanno occupato o la banca che l'ha "rubato"?
Io trovo scandaloso - e questo sì che dovrebbe essere un reato - che nelle nostre città ci siano migliaia e migliaia di case vuote, di proprietà della rendita finanziaria, delle banche a seguito di pignoramenti, delle assicurazioni. E ancora più scandaloso che ce ne siano tantissime di proprietà pubblica; probabilmente non c'è neppure un censimento preciso di tutti questi immobili vuoti o mal utilizzati di proprietà pubblica. Spesso queste case sono nelle aree centrali delle città, mentre in questi anni abbiamo continuato a costruire, troppo e troppo male, abbiamo realizzato case brutte, in brutte periferie. In sessant'anni abbiano cementificato un'area pari all'Emilia-Romagna, concentrandoci quasi sempre sulle aree più fragili dal punto di vista idrogeologico, più delicate da quello ambientale e più belle da quello paesaggistico. Abbiamo rovinato questo paese costruendo male e lasciando andare in malora un patrimonio immobiliare notevole. E il paradosso è che abbiamo costruito tanto, troppo, e tante persone, troppe, sono senza casa. E' qui che la politica ha fallito, che abbiamo fallito anche noi che abbiamo avuto responsabilità nel governo locale.
Diventando vecchio, contrariamente a quello che succede ai più, sono diventato più radicale e, come succede invece un po' a tutti, sono sempre meno paziente. Per questo non sono più disponibile a pensare a piani a lungo termine, a protocolli di intenti, a progetti su larga scala: non abbiamo più tempo per queste c...te. Bisogna cominciare a fare qualcosa. Occupare - al di là del fatto che sia un reato, ma questo ormai non mi importa - è un sistema che ha dei difetti. Quasi mai risolve i problemi di chi ha più bisogno, è una forma di lotta che aiuta i più forti tra i deboli. Però ormai, visto il punto in cui siamo arrivati, è indispensabile e auspicabile. Fa bene chi occupa. Intanto per mettere il potere di fronte alle proprie responsabilità: ti abbiamo scoperto, sappiamo che hai delle case vuote, perché non le metti a disposizione? Per mettere le amministrazioni locali di fronte ai loro errori: perché continuate a far costruire, se ci sono tante case vuote che potrebbero essere recuperate? Per costringere il capitale a cedere una parte dei propri beni: perché non vuoi dare ai più poveri quello che hai ottenuto, spesso togliendolo a loro, con la truffa e con la violenza?
Chi non ha nulla, chi è stato derubato fin della dignità, chi non immagina un futuro per sé e per i propri figli, è una vittima. Se occupa è una reazione legale, un atto di legittima difesa, perché fino ad ora è stato sistematicamente escluso dai diritti dei poteri dominanti. Occupare quello che è vuoto, che è in attesa di speculazioni immobiliari - come la sede dove c'era una volta la Telecom in via Fioravanti a Bologna - che viene lasciato deperire, non deve e non può essere punito. L'unico discrimine deve essere la condanna della violenza, che non è mai accettabile, e il non riconoscere il diritto di un altro povero: così ad esempio è sbagliato occupare una casa popolare che sta per essere assegnata, perché in questo modo si lede quel diritto, assolutamente legittimo, di qualcuno che ha più bisogno. La vera ingiustizia, la vera violenza è quella contro la dignità delle persone e delle famiglie. Ingiustizia è quando le case non sono al servizio dell'uomo, ma del profitto.
In Spagna da questo tema è ripartita la sinistra, la sinistra vera, perché migliaia di persone erano state gettate fuori dalle loro case da quelle banche che avevano concesso loro mutui in maniera disinvolta - per usare un eufemismo - e che quindi si sono ritrovate con un enorme patrimonio immobiliare inutilizzato. Così sono cominciate le occupazioni, gestite da associazioni, gruppi, realtà spontanee. E' stata bandita la violenza e sono state attivate reti di aiuto. Le famiglie che hanno occupato si sono impegnate a pagare un affitto equo, sostenibile, spesso aprendo dei conti in quelle stesse banche che stavano facendo di tutto per cacciarle, proprio per versare ogni mese questo affitto autoimposto. Le nostre città hanno bisogno che noi facciamo nascere realtà simili a queste, che - al di là della politica ufficiale, ormai sempre più incapace di guardare a quello che succede nel corpo vivo del paese - ricostruiscano quel tessuto solidale, di mutuo aiuto che tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento mise in moto il progresso sociale e politico che ha portato tanti risultati nel secolo scorso. E che noi abbiamo colpevolmente gettato alle ortiche, seguendo un sogno neoliberale.
Quelle donne e quegli uomini furono rivoluzionari, perché rispettarono prima le leggi morali che quelle dei codici. Noi dobbiamo riscoprire quello spirito là, se non vogliamo morire servi di un potere che ci concederà soltanto quello che potremo spendere nei loro centri commerciali. Abbiamo bisogno di dire che ci sono leggi ingiuste che non riconosciamo più e che non riconosciamo un'autorità - come quella vista all'opera a Parma, a Bologna, in tante altre realtà - che è solo violenza, sopraffazione, difesa dei più ricchi contro i più poveri.
Spesso in queste occupazioni sono nate forme di solidarietà inedite. Di questo ha bisogno la nostra società, che ne conosce sempre meno. Don Giovanni Nicolini, uno dei pochi a Bologna che ha protestato, ha detto che alcune di queste realtà, benché fuori dalla legalità, danno vita a una legalità superiore. I compagni e gli amici di Coalizione Civica Bologna, altri che hanno protestato, hanno detto che c'è un solo modo per stare dalla parte della giustizia sociale: stare dalla parte dei deboli. Credo che dobbiamo ripartire da qui, dal basso, dall'inizio, anche riprendendoci spazi e parole, anche occupando - o rioccupando - un luogo politico e ideale che era nostro. E rioccupandoci degli altri.
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