Balneare, agg. m. e f.
Dobbiamo riconoscerlo: a noi orfani della prima Repubblica questa crisi non è proprio piaciuta. È stata troppo veloce. A quelli come noi è mancato soprattutto il giro delle consultazioni: senza quelle come facciamo a conoscere le posizioni dell’Union Valdotaine e della Südtiroler Volkspartei? I più viziosi avrebbero voluto un “mandato esplorativo”, ovviamente anche quello con le sue consultazioni. E poi l’incarico pieno: per questo ce ne sarebbero voluti almeno due di giri, se non tre. A occhio e croce, per noi una bella crisi di governo dovrebbe durare almeno un mesetto, non questa roba qui, fatta di furia.
E poi non ci è proprio andata giù questa cosa di votare a fine settembre, con la campagna elettorale in agosto. Noi nella prima Repubblica non l’avremmo mai fatto. Intanto, nonostante quello che vi raccontano, noi non abbiamo mai avuto questa smania di andare a votare. Lo so, spesso non riuscivamo a finire una legislatura, andavamo a elezioni anticipate, ma a malincuore, come extrema ratio, e, quando ci andavamo volevamo proprio essere sicuri che non ci fosse un’altra possibilità. E poi ci siamo inventati il “governo balneare”. Anche perché ai nostri tempi, in agosto l’Italia si fermava. All’inizio del mese il telegiornale faceva vedere le macchine in fila che entravano in A1 al casello di Melegnano, per poi far vedere le stesse macchine, allo stesso casello, ma in fila in uscita, dopo due settimane. Le città si riempivano di cartelli “chiuso per ferie” e a chi sarebbe venuto in mente di fare una campagna elettorale in uno stabilimento balneare, quelli erano zona franca, come la Svizzera.
Adesso vi racconto una storia. È la primavera del 1963: si vota per eleggere il parlamento della IV legislatura. Quella precedente si è chiusa con il quarto governo Fanfani, in cui, accanto alla Dc, ci sono il Psdi e il Pri, con l’appoggio esterno del Psi. Si tratta, nonostante tutto, di un esecutivo che attua alcune importanti riforme: viene istituita la scuola media unica, vengono nazionalizzate le industrie elettriche e creata l’Enel e viene introdotta una cedolare sugli utili delle attività finanziarie. Per una parte dei democristiani e per il Pli questi provvedimenti sembrano cose da bolscevischi, mentre per una parte dei socialisti è troppo poco in cambio del sostegno al governo. Di fatto le elezioni del ’63 sono una specie di referendum sul centrosinistra. La Dc, pur prima con il 38,8%, perde quattro punti percentuali, guadagnati dai liberali, mentre il Psi tiene e il Pci avanza del 2,5%, arrivando al 25,2%. Per allora si tratta di scostamenti significativi.
È Aldo Moro l’uomo forte della Dc, è lui che vuole andare avanti, in maniera organica, nell’alleanza con i socialisti e quindi è a lui che il Presidente della Repubblica, il conservatore Antonio Segni, affida l’incarico di formare il governo, sperando probabilmente che fallisca. Si è votato il 28 e 29 aprile e Moro riceve l’incarico il 25 maggio. Intanto ci sono stati un paio di consigli nazionali della Dc e i comitati centrali del Pci e del Psi. Il segretario socialista, Pietro Nenni, che vuole andare avanti, ponendo come condizioni l’attuazione delle Regioni e la riforma urbanistica, deve fronteggiare una forte opposizione interna da parte dei suoi compagni di partito che dicono che il rapporto con la Dc non deve isolare il Pci. E Palmiro Togliatti dal canto suo dice che il Pci è pronto per tornare al governo, accusando il centrosinistra come una manovra per impedirlo.
Le consultazioni di Moro procedono lentamente. Anche perché le condizioni di salute di papa Giovanni si aggravano e il 3 giugno quel pontefice così amato muore, proprio durante il Concilio. Allora quello che succedeva Oltretevere aveva una qualche influenza sulla politica italiana. Poi l’8 e il 9 di quello stesso mese si vota per le amministrative in Sicilia: vanno bene per la Dc che recupera i voti perduti. Finalmente sembra che il governo Moro possa nascere, ma gli autonomisti del Psi votano contro la relazione di Nenni, anche perché nell’accordo per il nuovo governo non è citata la riforma urbanistica. A questo punto Moro si ritira. Anche Nenni si dimette da segretario del Psi, e viene convocato il congresso del partito per ottobre. Siamo già a metà giugno. Intanto i cardinali hanno eletto il nuovo papa, Paolo VI. Cosa fare? Non si vogliono sciogliere le Camere: non si può mica votare in estate.
Nasce così il primo “governo balneare”. Al presidente della Camera, il giurista napoletano Giovanni Leone viene affidato il compito di formare un governo di transizione, in attesa del congresso del Psi. Leone è un notabile di provata fede democristiana, che è stimato dalle molte anime del suo partito e considerato poco ambizioso: l’uomo perfetto per un incarico del genere.
Il 22 giugno il primo governo Leone giura. Un bel monocolore democristiano. Ci sono Andreotti, Rumor, Colombo, e tanti notabili, dalla Sicilia arriva Bernardo Mattarella - il padre dell’attuale inquilino del Colle - e da Napoli Angelo Raffaele Jervolino - sì, il padre di Rosa. Poi ci sono il vecchio Attilio Piccioni, garante del saldo rapporto con gli Stati Uniti e Giulio Pastore, il fondatore della Cisl, in un delicato equilibrio di correnti e di rappresentanze territoriali.
Il 5 e l’11 luglio il governo ottiene la fiducia prima al Senato e poi alla Camera. Solo i democristiani votano a favore, Psi, Psdi e Pri si astengono, mentre il Pci, il Pli e i fascisti votano contro. Leone sa bene che il suo governo non è destinato a entrare nella storia. Aumenta le pensioni degli statali, aderisce a un patto contro le atomiche, promosso dalla nato con l’Unione Sovietica. Il suo compito è tirare avanti, aspettando il congresso del Psi, che finalmente si tiene alla fine di ottobre. Non è un congresso semplice per Nenni: almeno un terzo dei delegati si schiera contro l’idea di collaborare con la Dc. Il 29 ottobre il congresso si chiude con un pieno mandato a Nenni ad avviare un governo con la Dc di Moro. Leone lascia passare i Santi e i Morti e il 4 novembre – che è ancora festa nazionale – si dimette. Da quel momento comincerà il cosiddetto centrosinistra organico, con i tre governi guidati da Moro.
Il 9 ottobre di quell’anno avviene il disastro del Vajont: sarebbe ingeneroso imputarne le colpe al governo momentaneamente in carica, ma certamente quella classe dirigente, presa nel suo complesso, è responsabile di quella terribile tragedia.
Sono trascorsi cinque anni: ci sono di nuovo le elezioni. Ovviamente in primavera. La Dc ottiene un buon risultato, aumenta del 3,4%. Anche il Pci avanza, grazie all’alleanza con il Psiup, un nuovo partito formato dai compagni che sono usciti dal Psi in polemica con i governi di centrosinistra della legislatura appena finita. È proprio il Psi il più colpito. E al suo interno si fanno più forti le voci di chi chiede la fine dell’esperienza del centrosinistra. Il partito non è pronto a entrare in un nuovo governo con la Dc.
Siamo di nuovo a uno stallo. E di nuovo viene chiamato in gioco Giovanni Leone. Il 5 luglio giura il suo secondo governo. Diversi ministri sono gli stessi del Leone I: stesso delicato equilibrio tra correnti e rappresentanze territoriali per questo nuovo monocolore Dc. Fa sorridere leggere i nomi e soprattutto guardare le foto in bianco e nero dei ministri: sembrano di un’altra epoca rispetto all’Italia della contestazione. Eppure il paese vive anche di questo contrasto, di una classe dirigente che è molto lontana, culturalmente e antropologicamente, prima ancora che politicamente, dalle novità che si respirano nel paese.
Anche questa volta Leone non pretende di passare alla storia, ma, visto il dilagare della contestazione studentesca il suo governo non può non presentare una serie di riforme per l’università. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre riprendono le trattative tra la Dc e il Psi per la formazione di un nuovo governo di coalizione. Quando queste finalmente si concludono, il 19 novembre Leone presenta le dimissioni: il suo secondo “governo balneare” ha svolto dignitosamente il suo compito di traghettatore. Anche grazie a questi non memorabili, ma utili, governi, il 24 dicembre 1971 viene inaspettatamente eletto, dopo una snervante serie di scrutini, alla Presidenza della Repubblica. Come noto, quell’esperienza non è andata bene, ma questa è un’altra storia.
Immagino che adesso molti di voi si chiederanno: “ma perché ci racconti tutto questo?”.
Intanto perché mi piace raccontarvi vecchie storie: lo sapete, è una mia debolezza.
Ma anche perché voglio dire a chi non c’era e a chi, anche se c’era, non lo ricorda più, che è esistita un’Italia diversa. Non era un’Italia migliore, anzi. E se siamo diventati quello che siamo ora è anche per colpa di quello che è successo allora, delle insipienze, delle meschinerie, del connivente malaffare di quegli anni. Eppure c’era più democrazia, più di quanta ce ne sia ora in questa Italia così apparentemente moderna. Perché c’era una cosa che adesso non c’è più: i partiti. E quei partiti raccontavano, nelle loro differenze, nel bene e nel male, il paese.
Adesso possiamo sorridere guardando le vecchie foto dei ministri prese dalla Navicella, con quelle facce serie, con i capelli fissati dalla brillantina - ovviamente Linetti - con quei grigi completi tutti uguali. Ma c’erano gli italiani così, erano i nostri nonni, i nostri genitori. Sono nostre fotografie di famiglia. E in quelle gallerie in bianco e nero mancavano le donne, perché dovevano stare un passo indietro in quella società. I vecchi democristiani erano tanti in Italia. Come erano tanti i vecchi comunisti e i vecchi socialisti. Per me hanno nomi e cognomi, sono persone che fanno parte del mio vissuto. Quel parlamento raccontava l’Italia, la rappresentava. E quando quei partiti decidevano qualcosa, con i loro riti, a volte bizantini, c’erano pezzi del paese che da un lato accettavano e dall’altro condizionavano quelle scelte, in un rapporto bidirezionale piuttosto complesso. E i congressi di partito erano processi lunghi, non solo perché non c’erano né internet né i telefonini, ma perché coinvolgevano un popolo, che voleva discutere e le cui decisioni avevano un peso.
Da molti anni tutto questo non esiste più. Anche per colpa di noi che siamo stati gli ultimi, tristi, epigoni di quella stagione. Quell’identificazione si è spezzata. Eliminati i partiti, il loro posto è stato preso da bande, più o meno raccogliticce, da capitani di ventura, da corsari, da donne e uomini che non rispondono più a nessuno, se non alle emozioni del momento, a interessi più o meno leciti. Si scambiano per partiti i gruppi di clientes e parassiti che sostano in anticamera. E così può succedere che una crisi di governo si consumi in una manciata di ore, tra le arroganti prepotenze di Draghi, i calcoli furbeschi di Meloni e di Letta, le volubili paure di Conte, le bizze infantili di Renzi e Calenda, i rosari ipocriti di Salvini, le senili ambizioni di Berlusconi, personaggi che rappresentano a fatica se stessi. Chissà come si deve essere sentito il figlio del vecchio Bernardo Mattarella? Comprensibile che non abbia voluto neppure riceverli. E in fondo, a pensarci, cos’è stato il governo Draghi se non un lunghissimo ed estenuante governo di transizione? Una lunga parentesi, tra il nulla e il nulla. E senza neppure la dignità di considerarsi “balneare”.
sabato 27 agosto 2022
giovedì 4 agosto 2022
Storie (XXXII). "I fatti di Parma. Cent'anni fa io c'ero"
Parma, 5 agosto 1922
“Signora, dobbiamo aspettare il commendatore per servire il pranzo?”.
“Sì, dovrebbe tornare tra pochi minuti. Intanto fate mangiare i bambini in cucina. Mio marito sarà di pessimo umore dopo l’incontro con il prefetto. Meglio che non lo disturbino”.
Leonora torna in cucina. Da quando è a servizio in quella casa, è la prima volta che in quei giorni di agosto non sono già in villeggiatura a Salsomaggiore, ma quest’anno, con lo sciopero degli operai nella fabbrica del commendatore e gli scontri in città, i signori hanno preferito rimanere a Parma, nonostante il gran caldo. Dopo pochi minuti suona il campanello: la giovane cameriera si affretta a raggiungere la sala da pranzo. La signora ha ragione: il commendatore è davvero molto arrabbiato. “Svelta, porta il pranzo. Non posso aspettare i tuoi comodi”. E così anche Leonora viene a sapere cosa sta succedendo in Oltretorrente.
“Credevo che Balbo sarebbe riuscito a spezzare la schiena a questi porci di comunisti”.
“Caro, contieniti, siamo a tavola”.
“Accidenti, ci sei solo tu, potrò pur sfogarmi, almeno a casa mia. Lo abbiamo pagato e doveva far finire lo sciopero. E adesso è bloccato lì, sulla Parma, da quei quattro straccioni”.
“Il prefetto cosa dice?”.
“È un debole, teme che la situazione ci sfugga di mano, che muoia qualcuno. Ma gli operai capiscono solo le botte. E devono avere paura di noi. Quel napoletano, come il vescovo, pensa che sia possibile trovare un accordo: dicono che vogliono evitare lo spargimento di sangue. Rammolliti… adesso è proprio il momento di colpire, qualcuno di quei comunisti deve morire. Certo non possiamo uccidere Picelli: non abbiamo bisogno di un martire comunista. Questo l’ha capito anche Balbo. Ma quei porci di operai devono sapere che se si mettono contro di noi possono anche morire. Serve un esempio, anche perché quei comunisti fanno figli come conigli. Dobbiamo insegnargli la paura, fin da piccoli. Altrimenti faranno come in Russia. Per questo ci servono i fascisti. E invece il prefetto vuole mandare via le squadre di Balbo e trasferire la gestione dell’ordine pubblico all’esercito”.
“E non è buona cosa?”.
“Ma cosa ti dice la testa? Così sembrerà che l’abbiamo data vinta ai comunisti, quei cani penseranno di poter fare la rivoluzione”.
“Ma vedrai che prima o poi si stancheranno, è agosto, anche loro vorranno andare in villeggiatura”. Leonora non vuole perdere nulla di quella conversazione - perché ci sono anch’io, commendatore, non sono “nessuno” - anche se le sta montando una rabbia a sentire quelle parole. Gli operai, cara signora, non vanno in villeggiatura, devono stare qui, al caldo. Da quando è cominciato lo sciopero e sono arrivati i fascisti, non sa nulla di quello che succede davvero in Oltretorrente, se non quello che dice il padrone a tavola. Quei porci, come li chiami tu, io li conosco, sono la mia famiglia, i miei amici. Non ha notizie di sua madre. Immagina stia aiutando gli uomini di Picelli. E tu, con tutti i tuoi soldi, non sei neppure degno di allacciargli le scarpe a uno come Picelli. Sa che lo fa per suo fratello, che è morto in guerra. La guerra che voi padroni avete fatto combattere a noi poveri. E combatte anche per lei. Io invece me ne sto qui, a servirvi. Voi sì che siete cani. I pensieri affollano la testa di Leonora. Cosa ci sto a fare ancora qui? Sono stata contenta quando mi hanno preso a servizio. Una delle più belle case di Parma. Una fortuna, dicevano le mie amiche dell’Oltretorrente. Qualcuna di loro mi ha invidiata, perché andavo a vivere di là dal fiume. E adesso io invidio loro, che sono rimasti di là e che possono fare la loro parte, contro i fascisti e soprattutto contro quelli come i miei padroni. Se sto qui, lo faccio anche per te, mamma, perché la guerra ha portato via Manrico e la spagnola mio padre. Ma mi vergogno a non essere là con i compagni, a combattere.
È notte ormai. Carlo, tenendo il moschetto tra le gambe, è seduto vicino al ponte di mezzo. Dall’altra parte della strada c’è Gino, anche lui viene da Sermide, si conoscono da quando erano bambini.
“Signora, dobbiamo aspettare il commendatore per servire il pranzo?”.
“Sì, dovrebbe tornare tra pochi minuti. Intanto fate mangiare i bambini in cucina. Mio marito sarà di pessimo umore dopo l’incontro con il prefetto. Meglio che non lo disturbino”.
Leonora torna in cucina. Da quando è a servizio in quella casa, è la prima volta che in quei giorni di agosto non sono già in villeggiatura a Salsomaggiore, ma quest’anno, con lo sciopero degli operai nella fabbrica del commendatore e gli scontri in città, i signori hanno preferito rimanere a Parma, nonostante il gran caldo. Dopo pochi minuti suona il campanello: la giovane cameriera si affretta a raggiungere la sala da pranzo. La signora ha ragione: il commendatore è davvero molto arrabbiato. “Svelta, porta il pranzo. Non posso aspettare i tuoi comodi”. E così anche Leonora viene a sapere cosa sta succedendo in Oltretorrente.
“Credevo che Balbo sarebbe riuscito a spezzare la schiena a questi porci di comunisti”.
“Caro, contieniti, siamo a tavola”.
“Accidenti, ci sei solo tu, potrò pur sfogarmi, almeno a casa mia. Lo abbiamo pagato e doveva far finire lo sciopero. E adesso è bloccato lì, sulla Parma, da quei quattro straccioni”.
“Il prefetto cosa dice?”.
“È un debole, teme che la situazione ci sfugga di mano, che muoia qualcuno. Ma gli operai capiscono solo le botte. E devono avere paura di noi. Quel napoletano, come il vescovo, pensa che sia possibile trovare un accordo: dicono che vogliono evitare lo spargimento di sangue. Rammolliti… adesso è proprio il momento di colpire, qualcuno di quei comunisti deve morire. Certo non possiamo uccidere Picelli: non abbiamo bisogno di un martire comunista. Questo l’ha capito anche Balbo. Ma quei porci di operai devono sapere che se si mettono contro di noi possono anche morire. Serve un esempio, anche perché quei comunisti fanno figli come conigli. Dobbiamo insegnargli la paura, fin da piccoli. Altrimenti faranno come in Russia. Per questo ci servono i fascisti. E invece il prefetto vuole mandare via le squadre di Balbo e trasferire la gestione dell’ordine pubblico all’esercito”.
“E non è buona cosa?”.
“Ma cosa ti dice la testa? Così sembrerà che l’abbiamo data vinta ai comunisti, quei cani penseranno di poter fare la rivoluzione”.
“Ma vedrai che prima o poi si stancheranno, è agosto, anche loro vorranno andare in villeggiatura”. Leonora non vuole perdere nulla di quella conversazione - perché ci sono anch’io, commendatore, non sono “nessuno” - anche se le sta montando una rabbia a sentire quelle parole. Gli operai, cara signora, non vanno in villeggiatura, devono stare qui, al caldo. Da quando è cominciato lo sciopero e sono arrivati i fascisti, non sa nulla di quello che succede davvero in Oltretorrente, se non quello che dice il padrone a tavola. Quei porci, come li chiami tu, io li conosco, sono la mia famiglia, i miei amici. Non ha notizie di sua madre. Immagina stia aiutando gli uomini di Picelli. E tu, con tutti i tuoi soldi, non sei neppure degno di allacciargli le scarpe a uno come Picelli. Sa che lo fa per suo fratello, che è morto in guerra. La guerra che voi padroni avete fatto combattere a noi poveri. E combatte anche per lei. Io invece me ne sto qui, a servirvi. Voi sì che siete cani. I pensieri affollano la testa di Leonora. Cosa ci sto a fare ancora qui? Sono stata contenta quando mi hanno preso a servizio. Una delle più belle case di Parma. Una fortuna, dicevano le mie amiche dell’Oltretorrente. Qualcuna di loro mi ha invidiata, perché andavo a vivere di là dal fiume. E adesso io invidio loro, che sono rimasti di là e che possono fare la loro parte, contro i fascisti e soprattutto contro quelli come i miei padroni. Se sto qui, lo faccio anche per te, mamma, perché la guerra ha portato via Manrico e la spagnola mio padre. Ma mi vergogno a non essere là con i compagni, a combattere.
È notte ormai. Carlo, tenendo il moschetto tra le gambe, è seduto vicino al ponte di mezzo. Dall’altra parte della strada c’è Gino, anche lui viene da Sermide, si conoscono da quando erano bambini.
Che caldo… Non resisto più. Perfino di notte non si respira. Se fossi a casa potrei scendere nel Po, nuotare sotto la luna, ma qui… Certo questo non è grande come il mio fiume, ma sentire il rumore dell’acqua e non potersi bagnare… In queste notti è un vero tormento. Potessi almeno metterci dentro i piedi… Ma se scendo da qui, sicuro uno dall’altra parte mi spara.
Il comandante ci aveva detto che in un paio di giorni sarebbe finito tutto. Come dalle altre parti: noi siamo arrivati, ne abbiamo picchiati un po’, tutti gli altri si sono spaventati e hanno smesso di fare sciopero. Nelle altre città hanno capito subito che noi siamo più forti, che contro di noi non ha senso resistere. E così ce ne siamo tornati a casa dopo pochi giorni, con qualche soldo in tasca. I miei amici li hanno spesi subito in osteria. Io invece li ho dati a mia madre… Le sono rimasto solo io. Se continuo a obbedire, a fare quello che il comandante mi dice di fare, tra poco tempo avremo messo via abbastanza soldi per affittare una piccola casa. Io lo faccio per lei, mica per ubriacarmi. Lo faccio anche perché mi fido di Balbo, e perché siamo noi, solo noi, che possiamo costruire un’Italia migliore.
Questa invece è una strana città… Non solo non hanno smesso di scioperare, ma hanno anche cominciato a combattere. Hanno costruito perfino delle barricate. Il comandante è furioso: non riusciamo neppure ad attraversare questo torrente che di giorno è quasi asciutto. Sono giorni che siamo fermi qui e loro ci prendono in giro, sventolando quelle loro bandiere rosse.
Non capisco… Anche loro hanno disegnato un fascio sulle loro bandiere. Come il nostro, solo che il loro è spezzato. Ugo dice che sono fascisti anche loro, anche se sono strani. Sono reduci come noi, arrabbiati per come è andata la pace. Come noi. Io non voglio più farla la guerra. Ho sofferto troppo in quelle trincee. Ho rischiato di morire chissà quante volte, di non rivedere più mia madre, seguendo gli ordini assurdi dei miei comandanti. Ma a quei bellimbusti non fregava nulla di noi, volevano solo far bella figura con lo stato maggiore. Dovremmo essere noi a fare i comandanti, noi sappiamo cosa serve ai soldati che stanno nelle trincee. Per loro invece noi fanti potevano pure morire. Che se non ci sparava un austriaco, ci ammazzava la spagnola, o la debolezza per la fame. O i nostri generali con i loro errori: morire in guerra è brutto, ma morire per colpa dei tuoi è ancora peggio. Io quelli che sono scappati li capivo… Qualche volta sarei scappato anch’io… se non fosse stato per mia madre. Il comandante però è diverso da quei damerini, sta insieme a noi, combatte con noi, e non ci dice di attaccare solo per fare bella figura.
Però se fosse davvero come dice Ugo, che anche loro sono dei reduci, gli arditi si chiamano tra loro, non ci sparerebbero, perché nessuno è più ardito di noi, saprebbero che noi abbiamo ragione, che facciamo bene a far smettere i loro scioperi. Loro dicono di essere come noi, ma invece sono bolscevichi, vogliono mandare via i padroni. Lo so anch’io che ci sono dei padroni che bisognerebbe proprio ammazzarli, per come ci trattano. Il padrone che ci ha mandati via, dopo che è morto mio padre, dopo vent’anni che i miei si sono spaccati la schiena per lavorare i suoi campi… Meriterebbe di essere buttato nel Po con un sasso legato ai piedi. E alla fine noi fascisti li cacceremo questi padroni, Balbo ce l’ha promesso. Però ci ha spiegato che i padroni ci vogliono, che mondo sarebbe senza padroni, lo dice anche il parroco. I bolscevichi non vogliono che ci siano più i padroni. Non li vorrei neppure i padroni, ma come si fa a star senza.
E poi loro non credono in niente, neppure in dio. In mezzo alle trincee, quando vedevo morire i miei compagni, anch’io qualche volta ho pensato che dio sia una cosa che si sono inventati i preti. Ma poi quando guardo gli alberi, quando ascolto il rumore dell’acqua, quando mi metto sdraiato a osservare le stelle, non puoi mica credere che dio non ci sia.
Se solo riuscissimo a fargli capire che lo stiamo facendo per loro, per i loro figli. Che poi a me non fa piacere picchiare quelli che fanno sciopero, perché quelli là sono come me. A me dispiaceva anche sparare contro gli austriaci, perché quelli che avevo davanti io erano sicuro contadini come me. Poi dovevo sparare, prima che loro sparassero a me… Ma non è mica naturale spararsi tra contadini. Però questi bolscevichi proprio non la vogliono capire che noi lo stiamo facendo per loro. E se ci sparano allora noi dobbiamo sparare a loro. È che io mi imbroglio quando c’è da parlare davanti agli altri, ma vorrei andare di là, davanti alle loro barricate, per dirgli che noi siamo poveri come loro. Che siamo uguali a loro, che vogliamo tutti la giustizia. Che per i poveri non c’è differenza di qua e di là del fiume.
Ma prima o poi ce la faremo a farci capire.
Che strani pensieri che mi vengono questa notte… Sarà il caldo… Spero che si arrendano presto così potrò tornare a casa… Però sono cocciuti, sono gente strana questi di Parma.
E poi ho visto perfino delle donne lungo le barricate, come se combattessero insieme agli uomini. Questa davvero non la capisco. Io non vorrei che mia madre combattesse a fianco a me… Che mondo verrà se anche le donne si devono mettere a combattere.
Un rumore interrompe i pensieri di Carlo. “Chi va là?”.
“Lasciami passare, sto tornando a casa”.
Il giovane fascista si trova di fronte questa ragazza, dall’aria fiera. I grandi occhi neri di Leonora sembrano sfidarlo. Carlo pensa che sia la ragazza più bella che abbia mai visto.
“A casa?”.
“Sì, devo tornare da mia madre, di là, nell’Oltretorrente, ne ho abbastanza di servire nella case dei padroni”.
“Ma è pericoloso, ci sono le barricate”.
“Non è pericoloso, se stai dalla parte giusta”.
Carlo vorrebbe dirle che questa è la parte giusta, quella dove c’è lui.
Intanto Gino si è svegliato. “Cosa c’è? Con chi parli? Hai preso un bolscevico?”.
Senza pensarci Carlo fa segno a Leonora di stare zitta e di accucciarsi dietro al parapetto. “No, non c’è nessuno, torna pure a dormire”. I due giovani stanno seduti vicini, senza parlare. Aspettano che l’uomo dall’altra parte si addormenti. Carlo sa che ci metterà poco, ma vorrebbe che quel momento non finisse, guarda quegli occhi, come guarda le stelle nel cielo. Sentono che Gino comincia a russare. Leonora si alza. “Grazie, sei un bravo ragazzo per essere un fascista”. Carlo avrebbe da dirle tante cose, ma quando c’è da parlare si imbroglia. La giovane è già di là. Nel buio non la vede più, Carlo immagina ci sia un qualche passaggio che lui ovviamente non conosce. No, non mi piace stare in un mondo in cui le donne devono combattere.
Nota. Con la locuzione fatti di Parma s’intende l’assedio operato dagli squadristi, comandati prima da un quadrumvirato locale e successivamente da Italo Balbo, alla città di Parma, in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del Popolo e le formazioni di difesa proletaria, all’inizio dell’agosto 1922.
Il comandante ci aveva detto che in un paio di giorni sarebbe finito tutto. Come dalle altre parti: noi siamo arrivati, ne abbiamo picchiati un po’, tutti gli altri si sono spaventati e hanno smesso di fare sciopero. Nelle altre città hanno capito subito che noi siamo più forti, che contro di noi non ha senso resistere. E così ce ne siamo tornati a casa dopo pochi giorni, con qualche soldo in tasca. I miei amici li hanno spesi subito in osteria. Io invece li ho dati a mia madre… Le sono rimasto solo io. Se continuo a obbedire, a fare quello che il comandante mi dice di fare, tra poco tempo avremo messo via abbastanza soldi per affittare una piccola casa. Io lo faccio per lei, mica per ubriacarmi. Lo faccio anche perché mi fido di Balbo, e perché siamo noi, solo noi, che possiamo costruire un’Italia migliore.
Questa invece è una strana città… Non solo non hanno smesso di scioperare, ma hanno anche cominciato a combattere. Hanno costruito perfino delle barricate. Il comandante è furioso: non riusciamo neppure ad attraversare questo torrente che di giorno è quasi asciutto. Sono giorni che siamo fermi qui e loro ci prendono in giro, sventolando quelle loro bandiere rosse.
Non capisco… Anche loro hanno disegnato un fascio sulle loro bandiere. Come il nostro, solo che il loro è spezzato. Ugo dice che sono fascisti anche loro, anche se sono strani. Sono reduci come noi, arrabbiati per come è andata la pace. Come noi. Io non voglio più farla la guerra. Ho sofferto troppo in quelle trincee. Ho rischiato di morire chissà quante volte, di non rivedere più mia madre, seguendo gli ordini assurdi dei miei comandanti. Ma a quei bellimbusti non fregava nulla di noi, volevano solo far bella figura con lo stato maggiore. Dovremmo essere noi a fare i comandanti, noi sappiamo cosa serve ai soldati che stanno nelle trincee. Per loro invece noi fanti potevano pure morire. Che se non ci sparava un austriaco, ci ammazzava la spagnola, o la debolezza per la fame. O i nostri generali con i loro errori: morire in guerra è brutto, ma morire per colpa dei tuoi è ancora peggio. Io quelli che sono scappati li capivo… Qualche volta sarei scappato anch’io… se non fosse stato per mia madre. Il comandante però è diverso da quei damerini, sta insieme a noi, combatte con noi, e non ci dice di attaccare solo per fare bella figura.
Però se fosse davvero come dice Ugo, che anche loro sono dei reduci, gli arditi si chiamano tra loro, non ci sparerebbero, perché nessuno è più ardito di noi, saprebbero che noi abbiamo ragione, che facciamo bene a far smettere i loro scioperi. Loro dicono di essere come noi, ma invece sono bolscevichi, vogliono mandare via i padroni. Lo so anch’io che ci sono dei padroni che bisognerebbe proprio ammazzarli, per come ci trattano. Il padrone che ci ha mandati via, dopo che è morto mio padre, dopo vent’anni che i miei si sono spaccati la schiena per lavorare i suoi campi… Meriterebbe di essere buttato nel Po con un sasso legato ai piedi. E alla fine noi fascisti li cacceremo questi padroni, Balbo ce l’ha promesso. Però ci ha spiegato che i padroni ci vogliono, che mondo sarebbe senza padroni, lo dice anche il parroco. I bolscevichi non vogliono che ci siano più i padroni. Non li vorrei neppure i padroni, ma come si fa a star senza.
E poi loro non credono in niente, neppure in dio. In mezzo alle trincee, quando vedevo morire i miei compagni, anch’io qualche volta ho pensato che dio sia una cosa che si sono inventati i preti. Ma poi quando guardo gli alberi, quando ascolto il rumore dell’acqua, quando mi metto sdraiato a osservare le stelle, non puoi mica credere che dio non ci sia.
Se solo riuscissimo a fargli capire che lo stiamo facendo per loro, per i loro figli. Che poi a me non fa piacere picchiare quelli che fanno sciopero, perché quelli là sono come me. A me dispiaceva anche sparare contro gli austriaci, perché quelli che avevo davanti io erano sicuro contadini come me. Poi dovevo sparare, prima che loro sparassero a me… Ma non è mica naturale spararsi tra contadini. Però questi bolscevichi proprio non la vogliono capire che noi lo stiamo facendo per loro. E se ci sparano allora noi dobbiamo sparare a loro. È che io mi imbroglio quando c’è da parlare davanti agli altri, ma vorrei andare di là, davanti alle loro barricate, per dirgli che noi siamo poveri come loro. Che siamo uguali a loro, che vogliamo tutti la giustizia. Che per i poveri non c’è differenza di qua e di là del fiume.
Ma prima o poi ce la faremo a farci capire.
Che strani pensieri che mi vengono questa notte… Sarà il caldo… Spero che si arrendano presto così potrò tornare a casa… Però sono cocciuti, sono gente strana questi di Parma.
E poi ho visto perfino delle donne lungo le barricate, come se combattessero insieme agli uomini. Questa davvero non la capisco. Io non vorrei che mia madre combattesse a fianco a me… Che mondo verrà se anche le donne si devono mettere a combattere.
Un rumore interrompe i pensieri di Carlo. “Chi va là?”.
“Lasciami passare, sto tornando a casa”.
Il giovane fascista si trova di fronte questa ragazza, dall’aria fiera. I grandi occhi neri di Leonora sembrano sfidarlo. Carlo pensa che sia la ragazza più bella che abbia mai visto.
“A casa?”.
“Sì, devo tornare da mia madre, di là, nell’Oltretorrente, ne ho abbastanza di servire nella case dei padroni”.
“Ma è pericoloso, ci sono le barricate”.
“Non è pericoloso, se stai dalla parte giusta”.
Carlo vorrebbe dirle che questa è la parte giusta, quella dove c’è lui.
Intanto Gino si è svegliato. “Cosa c’è? Con chi parli? Hai preso un bolscevico?”.
Senza pensarci Carlo fa segno a Leonora di stare zitta e di accucciarsi dietro al parapetto. “No, non c’è nessuno, torna pure a dormire”. I due giovani stanno seduti vicini, senza parlare. Aspettano che l’uomo dall’altra parte si addormenti. Carlo sa che ci metterà poco, ma vorrebbe che quel momento non finisse, guarda quegli occhi, come guarda le stelle nel cielo. Sentono che Gino comincia a russare. Leonora si alza. “Grazie, sei un bravo ragazzo per essere un fascista”. Carlo avrebbe da dirle tante cose, ma quando c’è da parlare si imbroglia. La giovane è già di là. Nel buio non la vede più, Carlo immagina ci sia un qualche passaggio che lui ovviamente non conosce. No, non mi piace stare in un mondo in cui le donne devono combattere.
Nota. Con la locuzione fatti di Parma s’intende l’assedio operato dagli squadristi, comandati prima da un quadrumvirato locale e successivamente da Italo Balbo, alla città di Parma, in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del Popolo e le formazioni di difesa proletaria, all’inizio dell’agosto 1922.
lunedì 25 luglio 2022
Verba volant (815): dubbio...
I motivi di questo interesse, che coinvolge sia il pubblico che gli addetti ai lavori, sono davvero tanti. Questo nuovo allestimento della tragedia shakespeariana è diretto da John Gielgud, considerato da molti come il più grande Amleto del Novecento. È la settima volta che Gielgud, come attore o regista, si cimenta con questo classico. Tra la fine del 1936 e l’inizio del ’37 lo spettacolo con lui protagonista è rimasto in cartellone, prima all’Empire e successivamente al St. James Theater, per ben centotrentadue repliche. Neppure il vecchio Barrymore aveva fatto meglio. Nel ’64 è un record ancora imbattuto, perché l’Amleto di Maurice Evans, nella versione integrale, senza alcun taglio, si è fermato a centotrentuno repliche. Eppure John era preoccupato prima del debutto - tra l’altro per lui era la prima volta che si esibiva in America - perché in quegli stessi giorni a Broadway era in scena con lo stesso titolo anche il suo connazionale Leslie Howard, che pochi anni dopo sarebbe stato il romantico e sfortunato Ashley di Via col vento. Comunque “the battle of the Hamlets” - come l’avevano chiamata i giornali di New York - alla fine ha avuto un unico e incontrastato vincitore: l’Amleto di Howard ha chiuso dopo meno di un mese.
Qualche mese dopo, nel 1937, anche per rispondere al successo di Gielgud, Laurence Olivier aveva messo in scena il suo Amleto all’Old Vic, in una memorabile edizione, piaciuta poco alla critica, ma osannata dal pubblico. Comunque, nonostante il successo - e i due Oscar - del film diretto e interpretato da Olivier nel 1948, con la splendida Jean Simmons come Ofelia - in Italia conosciamo quel film anche perché è un ispirato Gino Cervi a doppiare Olivier - per Broadway Amleto rimane il nobile e distaccato John Gielgud. E un motivo in più per andare a vedere quel suo nuovo allestimento è l’annuncio che il grande attore inglese darà voce al Fantasma, che non sarà in scena, perché Gielgud in quelle settimane è impegnato con altri spettacoli.
Un ulteriore motivo di discussione tra i tavoli di Sardi’s è che il regista ha deciso di eliminare quasi del tutto le scene: gli attori si muoveranno in un teatro quasi vuoto, a parte un paio di pedane, qualche sedia e un tavolo, vestendo i loro abiti di tutti i giorni. A dire la verità Gielgud è molto pignolo con gli attori sugli abiti che devono indossare e se ne fa mostrare molti prima di dare il proprio benestare. Si tratta quindi di una sorta di prova generale della tragedia. Gielgud spiega che spesso amici, colleghi e critici gli avevano chiesto nel corso della sua carriera di poter assistere alle prove: una cosa che lui aveva sempre negato. Con quel nuovo spettacolo vuole offrire questa opportunità a tutto il pubblico. E togliere ogni altro orpello è un modo per dare maggiore risalto alle parole del Bardo, per coglierne l’universalità.
Al di là di tutte queste considerazioni, che appassionano i critici, la curiosità del pubblico pagante è rivolta soprattutto al protagonista, perché ormai da settimane si sa che sarà Richard Burton. Nel mondo teatrale inglese l’attore di origini gallesi è considerato uno dei più importanti interpreti shakespeariani della sua generazione, il “successore naturale di Olivier”, secondo i critici più entusiasti, e il suo Amleto nel 1953 all’Old Vic, diretto da Michael Benthall, così energico e minaccioso, ha avuto un grande successo. Sempre diretto da Benthall, il grande direttore dell’Old Vic tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Burton è stato anche Calibano nella Tempesta, Coriolano - anche se inizialmente aveva rifiutato la parte, perché il dittatore mostra disprezzo per i poveri e gli ultimi - Enrico V e Otello. Ma il giovane Richard recita anche in opere di autori contemporanei: nel 1950 è molto convincente in The Lady’s Not For Burning di Christopher Fry, diretto da Gielgud, la prima delle loro collaborazioni.
A Broadway invece Burton è diventato popolare grazie a un musical. Nel 1960 è Artù nel successo di Lerner e Loewe Camelot, insieme a Julie Andrews e Robert Goulet nei panni di Ginevra e Lancillotto. Camelot si rivela un successo inaspettato, anche perché la sua realizzazione è molto accidentata, a causa dei gravi problemi di salute di Lerner. Burton salva lo spettacolo, dando fiducia agli altri componenti del cast quando le prove diventano sempre più difficili e il musical sembra desinato al naufragio. Camelot chiude dopo più di ottocento repliche e con un meritato Tony per l’attore gallese, che si rivela anche un ottimo cantante. E nell’immaginario dell’America sconvolta dall’attentato di Dallas, gli anni della presidenza Kennedy saranno identificati come il favoloso e pacifico regno di Camelot: si tratta ovviamente di un’illusione, come ben sanno in Vietnam e nei tanti paesi del cosiddetto Terzo mondo dove arriva la pax americana imposta dalla Tavola rotonda del 1600 di Pennsylvania Avenue.
Il pubblico che in quei primi giorni di aprile del ’64 fa la fila davanti al Lunt-Fontanne Theatre, al 205 West della 46th Street, per accaparrarsi un biglietto per Hamlet, conosce Richard Burton soprattutto come una star del cinema, grazie a classici film di guerra come I topi del deserto e Il giorno più lungo, e kolossal in costume come La tunica e Alessandro il Grande. Ma in quegli stessi anni Richard mette a disposizione la sua crescente notorietà interpretando il film I giovani arrabbiati dell’inglese Tony Richardson, dal dramma di John Osborne Ricorda con rabbia: è il film con cui comincia il Free Cinema, una stagione particolarmente vitale della cultura inglese.
Al pubblico dei rotocalchi importa assai poco del suo impegno politico o dei suoi ruoli nei drammi di Shakespeare: per loro Richard Burton è Marco Antonio in Cleopatra, il grande successo del 1963 che segna l’apice della popolarità di Elizabeth Taylor. E insieme fanno letteralmente scintille. Antonio e Cleopatra, Liz e Richard: queste due storie d’amore si intrecciano e finiranno per essere inscindibili. Non è possibile guardare il lungo - e anche un po’ noioso - film di Joseph L. Mankiewicz senza appassionarsi alla vicenda di questi due attori, bellissimi, sregolati, la grande coppia di divi degli anni Sessanta.
Richard e Liz si sposano il 15 marzo 1964, per lui è il secondo matrimonio, mentre per lei il quinto. Le nozze vengono celebrate a Montreal, perché lui sta recitando Hamlet a Toronto e la legislazione del Québec accetta i divorzi registrati in Messico. E il pubblico che affolla la prima del 9 aprile, a meno di un mese da quelle nozze le cui fotografie hanno fatto il giro del mondo, vuole vedere oltre a Richard che declama pensoso, trattenendo a fatica la rabbia, “To be or not to be”, anche Elizabeth che lo applaude in platea. E naturalmente Liz è splendida quella sera, sensuale come una gatta e solenne come una regina d’Egitto.
Ma prima di questa sfolgorante première, per capire come è nato questo spettacolo, occorre tornare indietro di alcuni mesi, alla fine del 1962, negli Shepperton Studios del Surrey dove si stanno ultimando le riprese di Becket - in Italia arrivato come Becket e il suo re - un film diretto da Peter Glenville, come adattamento cinematografico di un testo teatrale del drammaturgo francese Jean Anouilh andato in scena a Parigi nel 1959 e in seguito a Broadway con Laurence Olivier nei panni di Thomas Becket e Anthony Quinn in quelli di re Enrico II (anche se i due attori amavano scambiarsi le parti).
Anche per il film i produttori vogliono attori che sbanchino il botteghino e ne scritturano due molto popolari, Richard Burton e Peter O’Toole, rispettivamente come Becket ed Enrico II: Marco Antonio versus Lawrence d’Arabia. Nel cast ci sono anche Gielgud, che interpreta re Luigi VII di Francia e due grandissimi attori italiani, Paolo Stoppa, papa Alessandro III, e Gino Cervi, il cardinale Zambelli. Cervi è stato anche Enrico II nella prima edizione italiana del dramma, nel 1960 a Modena, con la traduzione di Luigi Squarzina. E con Massimo Girotti come Becket.
Mentre si concludono le riprese arriva la notizia che Olivier sta per allestire come regista un nuovo Amleto per l’Old Vic e i due attori, il gallese e l’irlandese, decidono di giocarsi il ruolo del protagonista tirando in aria una moneta. Vince Lawrence d’Arabia.
Lo spettacolo diretto da Laurence Olivier, con cui il 22 ottobre 1963, viene inaugurato il nuovo National Theatre, è uno dei più più importanti eventi delle celebrazioni per il quattrocentesimo anniversario della nascita di Shakespeare. Peter O’Toole è in scena con l’energia e il furore di uno dei “giovani arrabbiati” di Osborne, anche se indossa costumi elisabettiani. C’è una foga che dimostra in tutto il dramma - che Olivier vuole in forma integrale - tanto che Derek Jacobi, che interpreta Laerte, è spaventato ogni sera durante il duello finale per il modo in cui quel “selvaggio irlandese” lo attacca. Anche Rosemary Harris, che interpreta Ofelia, viene dal cast di Ricorda con rabbia e porta la stessa giovanile energia. Una lunga carriera quella di Rosemary, che tra il 2002 e il 2007, sarà zia May nella trilogia dedicata a Spider-Man diretta da Sam Raimi.
Burton però non si dà per vinto. Se Londra è occupata, c’è sempre New York e nel progetto coinvolge il produttore Alexander H. Cohen e Gielgud, che in questo modo ha ancora una volta l’occasione di incrociare le spade con Olivier.
Mentre Burton è in Messico per girare La notte dell’iguana di John Houston, con Ava Gardner e Deborah Kerr e la giovane “lolita” Sue Lyon, e Gielgud è in Australia per uno spettacolo, in lunghe telefonate viene definito il cast. Alfred Drake è scritturato come Claudio. Alfredo Capurro - i suoi genitori vengono da Recco - nel 1964 è una star di Broadway: è stato l’acclamato protagonista di Oklahoma!, Kiss me, Kate e Kismet, un ruolo per cui ha ottenuto il Tony e ha convinto la critica in Molto rumore per nulla, accanto a Katharine Hepburn. Per il ruolo di Gertrude viene scelta l’attrice scozzese Eileen Herlie. Gertrude è il ruolo a teatro per cui è più famosa: nel 1945, a ventisette anni, lo interpreta per la prima volta, a Stratford-upon-Avon, con Peter Glenville, più vecchio di lei di quattro anni come Amleto. Poi la chiama Olivier per il suo film: e ha undici anni in meno di “suo” figlio. Nel ’64 è una Gertrude più matura, più vecchia di Burton, anche se solo di otto anni. Dopo Hamlet la sua carriera è continuata con successo, in teatro e in televisione. E sarà, dal 1976 al 2008, Myrtle Fargate, un personaggio che si porta dietro in ben tre soap-opera della serie La valle dei pini.
Hume Cronyn, che viene scelto per il ruolo di Polonio, è un grande caratteristica, attivo per decenni tra cinema e teatro. Dal 1943 al 2001 compare in una quarantina di film - compreso Cocoon, insieme ad altri “vecchi” di Hollywood - ed è molto attivo a Broadway dove recita spesso in coppia con la moglie Jessica Tandy. Per il suo Polonio Hume ottiene un meritato Tony. Non convince la critica la giovane attrice americana Linda Marsh, ma Gielgud difende strenuamente la sua scelta, resistendo alle pressioni della produzione che la vorrebbe sostituire con qualcuna più nota.
Nel cast ci sono ottimi attori che poi ritroveremo al cinema e in televisione: George Rose - un Tony come Alfred Doolittle in un revival di My Fair Lady - George Voskovec - il giurato nr. 11 di La parola ai giurati - John Cullum - due Tony per il musical e diversi episodi di Law & Order – Bernard Hughes - Polonio nell’edizione del 1970 prodotta da Papp per il Delacorte Theatre. Nell’ensemble c’è anche un giovanotto di Pittsburgh, che dopo quell’esperienza in un grande teatro sarà impegnato nel circuito off-off-Broadway, fino a quando incontra un altro “ribelle” e insieme scrivono Hair. Anche Gerome Ragni, a suo modo, è un “giovane arrabbiato”, per il Vietnam e le ingiustizie del mondo.
Anche per merito di Liz Taylor Hamlet è un successo: centotrentasette repliche. Meglio di quello di Gielgud e, ad oggi, nessun’altra edizione del dramma ambientato nel castello di Elsinore ha raggiunto questo risultato.
Liz e Richard, dopo Hamlet, lavorano insieme per circa dieci anni: International Hotel, Castelli di sabbia, Chi ha paura di Virginia Woolf? - una delle migliori interpretazioni di Taylor - I commedianti, Il dottor Faustus - diretto dallo stesso Burton con Liz che, in un cameo senza dialoghi, interpreta Elena di Troia - La bisbetica domata - ancora Shakespeare e loro due sono perfetti come Caterina e Petruccio - La scogliera dei desideri, Una faccia di…. Non sempre sono film memorabili, ma il pubblico vuole vederli insieme, sul grande schermo come sui rotocalchi. Nel 1967 i loro film hanno guadagnato più di duecento milioni di dollari.
Quando decidono di prendersi tre mesi di pausa, Hollywood trema: quasi la metà degli incassi cinematografici statunitensi negli anni Sessanta dipende da loro due. Per poter interpretare La bisbetica domata - e quindi essere come le altre storiche coppie che hanno interpretato la commedia, Alfred Lunt e Lynn Fontanne, Mary Pickford e Douglas Fairbanks - le due star decidono di partecipare loro stessi alla produzione: investono un milione di dollari a testa, tenendo una percentuale degli incassi. Una scelta oculata: solo negli Stati Uniti il film incassa otto milioni di dollari. Come il matrimonio di Caterina e Petruccio - e probabilmente anche quello di Cleopatra e Antonio, se fossero vissuti abbastanza - anche quello di Liz e Richard è molto turbolento. Il 26 giugno 1974 divorziano, ma dopo poco più di un anno si sposano di nuovo - il 10 ottobre 1975 in Botswana - e divorziano definitivamente il 1° agosto 1976.
Merita di essere ricordata anche la carriera successiva di John Gielgud che conosce nella maturità un’inattesa popolarità al cinema, un mezzo che aveva poco frequentato in gioventù - a differenza di Olivier - forse per un pregiudizio snobistico verso un’arte “inferiore”. È, per citarne solo alcuni, l’inappuntabile - e romantico - Beddoes in Assassinio sull’Orient Express, il direttore dell’ospedale in Elephant Man, il sardonico maggiordomo Hobson in Arturo - ruolo per cui ottiene l’Oscar - il professor Parkes in Shine, Prospero ne L’ultima tempesta, uno dei pochissimi film in cui è protagonista. E quando Kenneth Branagh realizza il suo monumentale Hamlet chiede a sir John Gielgud di essere Priamo nel racconto della fine di Troia, inventando un ruolo che Shakespeare ovviamente non aveva: il giusto tributo al più grande Amleto del Novecento.
Noi abbiamo l’opportunità di sederci in una delle poltrone del Lunt-Fontanne e di assistere allo spettacolo: lo so che non è la stessa cosa, ma credo sia una fortuna poter avere, tra l’altro in maniera gratuita, la possibilità di vedere quella mitica rappresentazione.
Tra il 30 giugno e il 1° luglio è stata effettuata una registrazione utilizzando un processo chiamato Electrovision. Il film è stato trasmesso al cinema, riscuotendo uno scarso successo. Il contratto stipulato tra Electrovision e il produttore dello spettacolo prevedeva la distruzione di tutte le copie dopo l’uscita nelle sale. Dopo la morte di Richard Burton, la moglie ha scoperto nel loro garage una copia che l’attore aveva conservato e ha deciso di metterla a disposizione del pubblico, dopo un necessario lavoro di restauro. Nel 1995 è stato proiettato al Lunt-Fontanne Theatre e due anni dopo è stato trasmesso in streaming su internet: e così il film - ormai intitolato Richard Burton’s Hamlet - è stato uno dei primi ad andare in rete. Potenza del “vecchio” Shakespeare.
Anche per merito di Liz Taylor Hamlet è un successo: centotrentasette repliche. Meglio di quello di Gielgud e, ad oggi, nessun’altra edizione del dramma ambientato nel castello di Elsinore ha raggiunto questo risultato.
Liz e Richard, dopo Hamlet, lavorano insieme per circa dieci anni: International Hotel, Castelli di sabbia, Chi ha paura di Virginia Woolf? - una delle migliori interpretazioni di Taylor - I commedianti, Il dottor Faustus - diretto dallo stesso Burton con Liz che, in un cameo senza dialoghi, interpreta Elena di Troia - La bisbetica domata - ancora Shakespeare e loro due sono perfetti come Caterina e Petruccio - La scogliera dei desideri, Una faccia di…. Non sempre sono film memorabili, ma il pubblico vuole vederli insieme, sul grande schermo come sui rotocalchi. Nel 1967 i loro film hanno guadagnato più di duecento milioni di dollari.
Quando decidono di prendersi tre mesi di pausa, Hollywood trema: quasi la metà degli incassi cinematografici statunitensi negli anni Sessanta dipende da loro due. Per poter interpretare La bisbetica domata - e quindi essere come le altre storiche coppie che hanno interpretato la commedia, Alfred Lunt e Lynn Fontanne, Mary Pickford e Douglas Fairbanks - le due star decidono di partecipare loro stessi alla produzione: investono un milione di dollari a testa, tenendo una percentuale degli incassi. Una scelta oculata: solo negli Stati Uniti il film incassa otto milioni di dollari. Come il matrimonio di Caterina e Petruccio - e probabilmente anche quello di Cleopatra e Antonio, se fossero vissuti abbastanza - anche quello di Liz e Richard è molto turbolento. Il 26 giugno 1974 divorziano, ma dopo poco più di un anno si sposano di nuovo - il 10 ottobre 1975 in Botswana - e divorziano definitivamente il 1° agosto 1976.
Merita di essere ricordata anche la carriera successiva di John Gielgud che conosce nella maturità un’inattesa popolarità al cinema, un mezzo che aveva poco frequentato in gioventù - a differenza di Olivier - forse per un pregiudizio snobistico verso un’arte “inferiore”. È, per citarne solo alcuni, l’inappuntabile - e romantico - Beddoes in Assassinio sull’Orient Express, il direttore dell’ospedale in Elephant Man, il sardonico maggiordomo Hobson in Arturo - ruolo per cui ottiene l’Oscar - il professor Parkes in Shine, Prospero ne L’ultima tempesta, uno dei pochissimi film in cui è protagonista. E quando Kenneth Branagh realizza il suo monumentale Hamlet chiede a sir John Gielgud di essere Priamo nel racconto della fine di Troia, inventando un ruolo che Shakespeare ovviamente non aveva: il giusto tributo al più grande Amleto del Novecento.
Noi abbiamo l’opportunità di sederci in una delle poltrone del Lunt-Fontanne e di assistere allo spettacolo: lo so che non è la stessa cosa, ma credo sia una fortuna poter avere, tra l’altro in maniera gratuita, la possibilità di vedere quella mitica rappresentazione.
Tra il 30 giugno e il 1° luglio è stata effettuata una registrazione utilizzando un processo chiamato Electrovision. Il film è stato trasmesso al cinema, riscuotendo uno scarso successo. Il contratto stipulato tra Electrovision e il produttore dello spettacolo prevedeva la distruzione di tutte le copie dopo l’uscita nelle sale. Dopo la morte di Richard Burton, la moglie ha scoperto nel loro garage una copia che l’attore aveva conservato e ha deciso di metterla a disposizione del pubblico, dopo un necessario lavoro di restauro. Nel 1995 è stato proiettato al Lunt-Fontanne Theatre e due anni dopo è stato trasmesso in streaming su internet: e così il film - ormai intitolato Richard Burton’s Hamlet - è stato uno dei primi ad andare in rete. Potenza del “vecchio” Shakespeare.
martedì 5 luglio 2022
Verba volant (814): fila...
Lei gli sorride: “È un rito, amico, un Martini dopo ogni audizione fallita”.
“Allora capisco, per questa volta offro io. Sperando che la prossima tu non debba festeggiare allo stesso modo”.
“Grazie”.
“Per che spettacolo?”.
“Il nuovo musical di Merrick…”.
“Ho letto, 42nd Street. Certo il vecchio ama rischiare. Mettere in scena a Broadway uno spettacolo da un film in bianco e nero è un azzardo. Gigi è stato un fiasco”.
“Te ne intendi di spettacoli”. Mentre beve il suo Martini, Sheila osserva l’uomo dietro il bancone. Devono essere più o meno coetanei. Pensa che forse lui ci sta provando: non sarebbe la prima volta che le capita in un bar. Anche se ha la sensazione che sia gay.
“No, semplicemente leggo Variety, tanti miei clienti sono artisti, anche se per lo più off-Broadway, e devo sapere di cosa parlano quando hanno voglia di sfogarsi con il loro barista”. L’uomo le sorride. Pensa che è una donna molto sexy, se ci fossero degli altri uomini nel bar la mangerebbero con gli occhi. Ma a quell’ora della mattina sono soli. Quando è entrata, lui ha notato le sue gambe, forti e snelle: deve essere una ballerina.
“La verità è che sono vecchia per Broadway”.
Paul lo sa, e capisce che non è il caso di mentire. Lei non si aspetta di essere ingannata con una frase del tipo: “no, tu sei ancora giovane”. E non vuole certo corteggiarla. Meglio dirle la verità: “È un mondo spietato, basta un attimo per esserne buttati fuori”.
“Credo che ritornerò a Los Angeles. Lì almeno c’è la televisione, qualche piccola parte in una sit riesco sempre a trovarla, ma il mio sogno è sempre stato quello di ballare. Per questo ho provato a tornare a New York. Ma tutte le audizioni sono andate male. Questa è stata la mia ultima occasione”.
“Almeno ci hai provato. Tra qualche anno potrai dire che hai fatto di tutto per seguire il tuo sogno. E non avrai rimpianti”.
“Magari, ma credo che ne avrò sempre. Per quella volta che sono arrivata in ritardo, perché ho perso tempo con un ballerino che mi piaceva, e a cui io non piacevo, o per quella volta che non sono stata zitta e ho detto all’assistente del regista che poteva mettere le mani da un’altra parte e soprattutto per le volte in cui non ho ballato come io so fare”.
“Però ti sei rialzata ogni volta. Hai potuto farlo”.
“Certo, ma la danza è la vita che ho sognato, fin da bambina. Mia madre si è sposata che era molto giovane, mio padre la tradiva e non si è mai occupato troppo di noi. Non ho avuto un’infanzia felice, ma quando ho cominciato a ballare ho pensato che tutto potesse cambiare. Da bambina mi sembrava tutto così magico: uomini gentili e forti che sollevano giovani donne vestite di bianco. Naturalmente, allo scoccare del metronomo, ho capito subito che la danza sarebbe stata una vita faticosa, piena di sacrifici, che non sarebbe stata il paradiso. Ma per me è casa”.
Paul guarda la donna ed è come se la vedesse ora per la prima volta. Sheila nota che l’uomo sembra invecchiato di colpo, travolto da brutti ricordi.
“Scusa, mi spiace raccontarti i miei problemi”.
“Sono un barista, è il mio lavoro ascoltare i clienti. Ti posso fare compagnia? Ho bisogno di bere qualcosa anch’io”.
Solo adesso Sheila nota che l’uomo zoppica. Forse è stato in Vietnam o magari un incidente. Ma pensa sia meglio non chiedergli nulla. Intanto è entrato un altro cliente. Sheila capisce che è abituale, perché si è seduto bofonchiando un saluto e il barista gli ha servito un caffè, senza aspettare l’ordinazione. Sheila vede su una parete una grande foto di Cyd Charisse, sensuale nel vestito rosso di The Bandwagon. Adesso ricorda tutto: certo allora non portava i baffi, ma il barista è quel ragazzo portoricano che ha fatto un brutta caduta durante quella terribile audizione di dieci anni fa, per scegliere otto ballerini di fila. Per uno spettacolo che poi non è stato fatto. Lei alla fine è stata scartata – non se ne rammarica troppo: le quattro scelte erano davvero più brave di lei – ma a lui è andata decisamente peggio.
*****
Ovviamente possiamo solo immaginare cosa è successo “dopo” a Sheila Bryant e a Paul San Marco, passata quell’incredibile audizione raccontata in A Chorus Line. E ciascuno di voi può divertirsi - come ho fatto io - a raccontare altre storie o su loro due o su uno dei tanti personaggi di quel bel musical.
Però sappiamo cosa è successo a Kelly Bishop e Sammy Williams, che hanno interpretato questi due personaggi in quel fortunato spettacolo del 1975, ruoli per cui hanno vinto entrambi il Tony, dei nove ottenuti dal musical, che l’anno successivo ha vinto anche il Pulitzer per il teatro.
Kelly, nata nel 1944 in Colorado, grazie al ruolo della forte e sensuale Sheila, ha ottenuto il suo più importante, ma anche ultimo, successo a Broadway. La notorietà le è arrivata qualche anno dopo, a Hollywood, tra il cinema e la televisione. E sempre per il ruolo di una madre. Infatti è lei a interpretare la signora Houseman in Dirty Dancing nel 1987 e Emily Gilmore in Gilmore Girls, dal 2000 al 2007. Ma nel 2011 Kelly si è anche tolta la soddisfazione di tornare a Broadway, come guest star, nel fortunato revival di Anything Goes, accanto a Sutton Foster e Joel Grey, nel ruolo di Mrs Evangeline Harcourt, la madre - molto invadente e snob - della giovane Hope.
Non è andata altrettanto bene a Sammy, nato nel 1948 nel New Jersey. Nonostante il successo del musical, per lui non è stato l’inizio di una grande carriera. Ha ottenuto qualche piccola parte al cinema, un’apparizione in una puntata di Kojak, ma nulla di più. E così si è trasferito alla fine degli anni Ottanta in California, dedicandosi all’attività di fiorista. Per più di dieci anni ha disegnato e allestito i carri allegorici per la Rose Parade a Pasadena.
Merita di ricordare come il piccolo Sammy ha cominciato a ballare. Era sua sorella che frequentava le lezioni di danza del maestro Tucci a Trenton, ma quando un giorno lei si è rifiutata di continuare, lui, che era lì perché la madre non sapeva a chi lasciarlo, ha detto: “Posso farlo io”. E questa storia è entrata in A Chorus Line, grazie alla genesi molto particolare di questo spettacolo.
Il 26 gennaio del 1974, in una piccola sala prove dell’East Village i ballerini Michon Paecock e Tony Stevens hanno chiamato un gruppo di loro colleghi e quel variegato gruppo di “zingari” si sono messi a raccontare come hanno cominciato a danzare e cosa il balletto rappresentava per loro. Quei laboratori sono continuati, il regista e coreografo Micheal Bennett ha cominciato a frequentarli, prima per semplice curiosità, e, man mano che quelle storie crescevano, si è reso conto che poteva nascere qualcosa. Dopo di lui si sono aggiunti James Kirkwood Jr. e Nicholas Dante. In poco tempo, da tutti quei racconti, da quelle confessioni notturne, è nato lo spettacolo, con le canzoni scritte da Marvin Hamlisch per le musiche e Edward Kleban per le parole. Otto di quei ballerini, tra cui Sammy, hanno fatto parte del cast, prima al Public Theatre nel circuito off-Braodway e poi allo Shubert. E allora proprio nessuno avrebbe immaginato che la corsa di quello spettacolo sarebbe durata per più di seimila repliche.
L’esperienza di Sammy è diventata la storia di uno dei personaggi, Mike - anche se non quello interpretato da lui - nella canzone I Can Do That. Mentre la storia di Paul, il giovane ballerino di origini portoricane che vive in maniera drammatica la propria omosessualità, è la storia dello stesso Dante. E nel corso dei seminari tante ballerine hanno raccontato una storia come quella che Sheila, insieme a Babe e Maggie, racconta in At the Ballet. Il complicato rapporto d’amore tra il tirannico coreografo Zach e Cassie, la ballerina solista che pur di poter continuare a danzare, è disposta a fare le audizioni per la fila, nonostante le riserve dell’uomo che la considera troppo brava, racconta la contrastata vicenda sentimentale di Bennett e dell’attrice e ballerina Donna McKechnie - che ottiene il Tony per il ruolo di Cassie: The Music and the Mirror è uno dei capolavori della storia del musical.
La forza di A Chorus Line, al di là della bellezza delle canzoni e dell’energia dei balletti, è soprattutto in questa verità, nello strappare il sipario e nel raccontare quello a cui di solito noi spettatori non assistiamo. Noi vediamo la fila, le ballerine e i ballerini che, come nel famosissimo finale, vestiti tutti uguali nei loro luccicanti abiti dorati, sono praticamente indistinguibili l’uno dall’altra. Eppure ciascuno di loro - e lo abbiamo ben visto durante tutto lo spettacolo - è assolutamente One.
*****
Fortunatamente il bar si sta lentamente animando. Paul può smettere di rivolgersi a quell’unica cliente. Non ha mai saputo chi degli altri, dopo il suo incidente, è stato “chiamato”. Anche se ha sempre pensato che Sheila fosse una degli otto. Poi certo lo spettacolo non è stato fatto e quell’audizione non è servita a nulla, se non a distruggere la sua carriera.
Anche Sheila è felice di non dover parlare ancora con il barista. Ricorda che Zach, una volta che l’ambulanza aveva portato via Paul, aveva chiesto a tutti di pensare cosa avrebbero fatto quando non avessero più potuto ballare. Lei non è mai riuscita a trovare una risposta.
Won’t forget, can’t regret
What I did for love what I did for love
Però sappiamo cosa è successo a Kelly Bishop e Sammy Williams, che hanno interpretato questi due personaggi in quel fortunato spettacolo del 1975, ruoli per cui hanno vinto entrambi il Tony, dei nove ottenuti dal musical, che l’anno successivo ha vinto anche il Pulitzer per il teatro.
Kelly, nata nel 1944 in Colorado, grazie al ruolo della forte e sensuale Sheila, ha ottenuto il suo più importante, ma anche ultimo, successo a Broadway. La notorietà le è arrivata qualche anno dopo, a Hollywood, tra il cinema e la televisione. E sempre per il ruolo di una madre. Infatti è lei a interpretare la signora Houseman in Dirty Dancing nel 1987 e Emily Gilmore in Gilmore Girls, dal 2000 al 2007. Ma nel 2011 Kelly si è anche tolta la soddisfazione di tornare a Broadway, come guest star, nel fortunato revival di Anything Goes, accanto a Sutton Foster e Joel Grey, nel ruolo di Mrs Evangeline Harcourt, la madre - molto invadente e snob - della giovane Hope.
Non è andata altrettanto bene a Sammy, nato nel 1948 nel New Jersey. Nonostante il successo del musical, per lui non è stato l’inizio di una grande carriera. Ha ottenuto qualche piccola parte al cinema, un’apparizione in una puntata di Kojak, ma nulla di più. E così si è trasferito alla fine degli anni Ottanta in California, dedicandosi all’attività di fiorista. Per più di dieci anni ha disegnato e allestito i carri allegorici per la Rose Parade a Pasadena.
Merita di ricordare come il piccolo Sammy ha cominciato a ballare. Era sua sorella che frequentava le lezioni di danza del maestro Tucci a Trenton, ma quando un giorno lei si è rifiutata di continuare, lui, che era lì perché la madre non sapeva a chi lasciarlo, ha detto: “Posso farlo io”. E questa storia è entrata in A Chorus Line, grazie alla genesi molto particolare di questo spettacolo.
Il 26 gennaio del 1974, in una piccola sala prove dell’East Village i ballerini Michon Paecock e Tony Stevens hanno chiamato un gruppo di loro colleghi e quel variegato gruppo di “zingari” si sono messi a raccontare come hanno cominciato a danzare e cosa il balletto rappresentava per loro. Quei laboratori sono continuati, il regista e coreografo Micheal Bennett ha cominciato a frequentarli, prima per semplice curiosità, e, man mano che quelle storie crescevano, si è reso conto che poteva nascere qualcosa. Dopo di lui si sono aggiunti James Kirkwood Jr. e Nicholas Dante. In poco tempo, da tutti quei racconti, da quelle confessioni notturne, è nato lo spettacolo, con le canzoni scritte da Marvin Hamlisch per le musiche e Edward Kleban per le parole. Otto di quei ballerini, tra cui Sammy, hanno fatto parte del cast, prima al Public Theatre nel circuito off-Braodway e poi allo Shubert. E allora proprio nessuno avrebbe immaginato che la corsa di quello spettacolo sarebbe durata per più di seimila repliche.
L’esperienza di Sammy è diventata la storia di uno dei personaggi, Mike - anche se non quello interpretato da lui - nella canzone I Can Do That. Mentre la storia di Paul, il giovane ballerino di origini portoricane che vive in maniera drammatica la propria omosessualità, è la storia dello stesso Dante. E nel corso dei seminari tante ballerine hanno raccontato una storia come quella che Sheila, insieme a Babe e Maggie, racconta in At the Ballet. Il complicato rapporto d’amore tra il tirannico coreografo Zach e Cassie, la ballerina solista che pur di poter continuare a danzare, è disposta a fare le audizioni per la fila, nonostante le riserve dell’uomo che la considera troppo brava, racconta la contrastata vicenda sentimentale di Bennett e dell’attrice e ballerina Donna McKechnie - che ottiene il Tony per il ruolo di Cassie: The Music and the Mirror è uno dei capolavori della storia del musical.
La forza di A Chorus Line, al di là della bellezza delle canzoni e dell’energia dei balletti, è soprattutto in questa verità, nello strappare il sipario e nel raccontare quello a cui di solito noi spettatori non assistiamo. Noi vediamo la fila, le ballerine e i ballerini che, come nel famosissimo finale, vestiti tutti uguali nei loro luccicanti abiti dorati, sono praticamente indistinguibili l’uno dall’altra. Eppure ciascuno di loro - e lo abbiamo ben visto durante tutto lo spettacolo - è assolutamente One.
*****
Fortunatamente il bar si sta lentamente animando. Paul può smettere di rivolgersi a quell’unica cliente. Non ha mai saputo chi degli altri, dopo il suo incidente, è stato “chiamato”. Anche se ha sempre pensato che Sheila fosse una degli otto. Poi certo lo spettacolo non è stato fatto e quell’audizione non è servita a nulla, se non a distruggere la sua carriera.
Anche Sheila è felice di non dover parlare ancora con il barista. Ricorda che Zach, una volta che l’ambulanza aveva portato via Paul, aveva chiesto a tutti di pensare cosa avrebbero fatto quando non avessero più potuto ballare. Lei non è mai riuscita a trovare una risposta.
Won’t forget, can’t regret
What I did for love what I did for love
giovedì 2 giugno 2022
Verba volant (813): strada...
Strada, sost. f.
Quando arriverete a New York, immagino vorrete andare a Broadway - tanto più se siete tra i fedeli lettori delle mie storie. Una cosa importante: ricordate che prima di essere una metonimia, Broadway è una strada. Ma fate attenzione: nella “Grande mela” ce ne sono ben quattro con questo nome. Dovete scegliere quella giusta.
Ce n’è una a Staten Island, la grande isola che chiude a sud la baia di New York e che è, tra i cinque Distretti, quello che ha il più alto numero di cittadini di origine italiana. La Broadway di Staten Island comincia a nord, costeggia il Kill Van Kull, lo stretto che divide l’isola da Bayonne nel New Jersey, e poi taglia a sud, fino a incrociarsi con Clove Road, proprio all’altezza del St. Peters Cemetery, il più antico cimitero cattolico del Distretto, fondato nel 1848.
Invece la Broadway di Brooklyn comincia dall’East River, quasi all’altezza del Williamsburg Bridge. Questo ponte è stato aperto nel 1903, quando quello di Brooklyn - quello delle “ciccles” e della panchina di Io e Annie - non è stato più sufficiente a reggere il traffico tra Manhattan e la parte della città che sorge su Long Island. Fino al 1924 il Williamsburg è stato il ponte sospeso più lungo del mondo e alla fine degli anni Cinquanta potevi incontrarci Sonny Rollins che andava lì a suonare il sax per non disturbare i vicini. La strada prosegue diritta in direzione sud-est per quasi cinque miglia, fino all’incrocio con Jamaica Avenue. Poco distante da questo punto c’è uno degli ingressi dell’Evergreen Cemetery, uno dei più grandi di Brooklyn. Qui è sepolta Adelaide Hall, una grandissima musicista, la prima cantante jazz, l’indiscussa regina della Harlem Renaissance.
Anche la Broadway del Queens comincia dall’East River, però più a nord, all’altezza del Socrates Sculpture Park, una sorta di museo a cielo aperto di sculture contemporanee e un laboratorio per giovani artisti. Poi anche questa strada prosegue verso sud-est, attraversa Astoria, il quartiere che ospita la più importante comunità greca di New York, per finire all’intersezione con il Queens Boulevard, dove c’è il negozio della Raymour & Flanigan.
Ma ovviamente nessuna di queste tre strade, per quanto importanti, è la “nostra” Broadway.
A essere precisi la Broadway dove vogliamo andare noi appassionati di musical non comincia nemmeno a New York, ma più a nord, nella contea di Westchester, e precisamente nel villaggio di Sleepy Hollow. Questo è un paesino di neppure diecimila abitanti, ma la Broadway comincia proprio qui, come una diramazione della U. S. Route 9, la strada che porta da Laurel nel Delaware fino a Champlain nello Stato di New York, al confine con il Canada.
Il villaggio di Sleepy Hollow, fondato da un colono olandese nella seconda metà del Seicento, oltre a essere il punto di inizio della Broadway - o di fine, se partite da Battery Park - è famoso perché qui Washington Irving ha ambientato il suo racconto La leggenda di Sleepy Hollow, una delle più famose e terrificanti storie di Halloween, visto che uno dei suoi protagonisti è il misterioso “cavaliere senza testa”, interpretato da un inquietante Christopher Walken nel film di Tim Burton del 1999.
Poi la strada, sempre costeggiando l’Hudson, prosegue attraversando alcune altre cittadine: Tarrytown, uno dei primi rifugi di Salinger in fuga da New York, Irvington, Dobbs Ferry, Hastings-on-Hudson, dove c’era la villa di Florenz Ziegfeld e Billie Burke, una delle coppie che ha fatto grande Broadway - inteso come metonimia - fino a Yonkers. Questa è, dopo New York e Buffalo, la terza città dello Stato. In questa ricca città commerciale il drammaturgo Thorton Wilder ha ambientato una delle sue commedie più famose, The Matchmaker, la storia di un’esuberante vedova, Dolly Gallagher Levi: abilissima nel combinare matrimoni, tanto che decide di combinare anche il suo, sposando il burbero e posato mercante Horace Vandergelder. E il musical tratto da questa commedia, Hello, Dolly! sarà uno dei grandi successi di Broadway, in scena dal 1964 per quasi sette anni e un totale di duemilaottocentoquarantaquattro repliche.
Passata Yonkers, la Broadway arriva finalmente a New York, entrando nel Bronx, che così, per circa due miglia, ha la “sua” Broadway, come gli altri quattro Distretti. Poi attraversa il quartiere di Marble Hill, l’unico del Distretto di Manhattan che si trova sulla terraferma. Per la precisione si trattava dell’estremità settentrionale dell’isola, ma lo scavo dell’Harlem River Ship Canal nel 1895 e, vent’anni dopo, la colmatura del vecchio corso del fiume Harlem hanno collegato questo lembo di terra con il Bronx, pur rimanendo amministrativamente sotto Manhattan.
A questo punto, attraversato il Broadway Brigde, la strada entra nell’isola scoperta da Giovanni da Verrazzano nel 1524. Precisamente nel quartiere di Inwood, il più settentrionale dell’isola e anche quello in cui nella prima metà del Novecento era più sviluppata l’agricoltura. Proprio qui, nel 1954, quando a Broadway erano in cartellone The Matchmaker e The Pajama Game, la famiglia Benedetto ha chiuso l’ultima fattoria di Manhattan: coltivavano quel terreno, che occupava un isolato tra la Broadway e la 214th Street, da più di duecento anni, producendo per lo più mais.
Prima di proseguire il nostro viaggio per tredici miglia, fino alla punta più meridionale di Manhattan, dobbiamo fare un passo indietro, quando quella strada si chiamava Wickquasgeck ed era solo un sentiero che correva nel bosco che ricopriva quell’isola lunga e stretta sulla riva orientale del fiume Hudson. Non sappiamo come i nativi che abitavano quelle terre da secoli indicavano quel sentiero, che per loro era così importante, ma hanno cominciato a chiamarlo così i coloni olandesi a metà del Seicento, perché quello era il nome di quella tribù, che, al loro arrivo, è stata costretta a lasciare l’isola per andare a nord, sulla terraferma. I nativi si ritirarono nella zona dove sorgerà Dobbs Ferry. I coloni di Nieuw Amsterdam hanno cominciato a chiamare quella strada, la più grande e battuta della nuova città che stavano lentamente costruendo, Heeren Stratt - la “via dei gentiluomini” - perché ce n’era una con lo stesso nome ad Amsterdam. E poi, arrivati gli inglesi, quella strada, la più larga della loro nuova colonia, ribattezzata New York, è diventata semplicemente lo “stradone” - Broadway, appunto - tanto che in una mappa della città del 1776 appare con il nome Broadway Street, che poi non è stato più utilizzato. Dopo, come avviene ancora oggi, quella strada è stata chiamata semplicemente Broadway.
Credo meriti di essere ricordato che i Wickquasgeck hanno partecipato alla Guerra d’indipendenza a fianco delle truppe delle Tredici Colonie contro quelle di Giorgio III. Molti dei loro guerrieri sono morti nel conflitto, ma questo sacrificio, che segnerà la fine della tribù, non è mai stato riconosciuto: nessuno di loro otterrà la cittadinanza del nuovo stato che hanno contribuito a creare. Wickquasgeck sono stati dimenticati, ma una loro traccia rimane nella pianta di Manhattan, perché Broadway, proprio perché è più antica di New York, di Nieuw Amsterdam, e di Giovanni da Verrazzano, non rispetta il tracciato ortogonale del resto delle strade, intersecandole in maniera irregolare.
Dopo Inwood, la Broadway attraversa Washington Heights, il grande quartiere della comunità domenicana. Il 21 febbraio 1965, all’Audubon Ballroom, al civico 3940 della Broadway, all’angolo con la 165th Street è stato assassinato Malcolm X. Poi la Broadway attraversa la parte occidentale di Harlem, quasi costeggiando l’Hudson. Alla fine dell’Ottocento era un quartiere in cui abitava l’alta borghesia bianca che non voleva abitare nel centro di Manhattan. L’arrivo di molti immigrati europei ha portato i ricchi a trasferirsi più a nord e contemporaneamente diversi agenti immobiliari afroamericani e una congregazione religiosa hanno acquistato un grande isolato tra la 135th Street e la Fith Avenue. È cominciata allora per Harlem una nuova storia, legata anche a quella musica di cui i neri erano i più grandi interpreti, il jazz, la musica del Novecento.
Poi Broadway entra in Morningside Heights, il quartiere che è occupato in gran parte dal campus della Columbia University, fondata nel 1754 con il nome King’s College, una delle otto università della Ivy League. Alla Columbia hanno insegnato o studiato sette padri fondatori degli Stati Uniti, quattro Presidenti, dieci giudici della Corte Suprema, novantanove premi Nobel, trentatré vincitori del premio Oscar e centoventicinque del Pulitzer.
Dall’incrocio con la 110th Street fino a Colombus Circle la Broadway attraversa tutto l’Upper West Side. Fino alla 78th Street procede parallela alle altre Avenue che percorrono da nord a sud il Distretto, poi si piega verso sud-est e dalle intersezioni nascono alcune piazze triangolari. In questa parte di Broadway ci sono alcuni edifici degni di nota, storici e lussuosi alberghi residenziali, come il Bretton Hall al 2350 e The Ansonia al 2109, il primo a essere completamente climatizzato, dove hanno alloggiato Babe Ruth e Toscanini, Caruso e Igor Stravinsky, e grandi condomini come The Apthorp al 2201, con la sua splendida facciata in stile neorinascimentale, progettata all’inizio del secolo dallo studio Clinton & Russell.
C’è anche molta Italia in questo tratto di Broadway. Tra la 74th e la 73th Street si trova Verdi Square, con al centro un grande monumento dedicato al Maestro di Busseto. Intorno al basamento ci sono Aida, Otello, Leonora de La forza del destino e Falstaff, mentre la statua di Verdi è sopra di loro. L’opera, realizzata in marmo di Carrara da Pasquale Civiletti, è stata inaugurata il 12 ottobre 1906. Più a sud, tra la Columbus Avenue, la 63th Street e Broadway, c’è il Dante Park, dove la comunità italo-americana nel 1921 ha voluto ricordare il grande poeta con una bella statua in bronzo realizzata da Ettore Ximenes, che l’anno prima aveva realizzato il grande monumento dedicato a Verdi nella città di Parma, di cui rimangono solo alcune statue, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.
La parte più meridionale dell’Upper West Side è adesso uno dei quartieri più ricchi della città, ma non è sempre stato così, West Side Story racconta un’altra storia, quando, negli anni Cinquanta, prima della costruzione del Lincoln Center for the Performing Arts, era un quartiere popolare, dove si combattevano bande giovanili e dove si poteva morire per un amore “sbagliato”.
Dopo Columbus Circle la Broadway entra in Midtown Manhattan. E qui finalmente la Broadway diventa Broadway o, come è chiamato questo tratto, tra la 54th e la 40th Street, “The Great White Way”. A essere precisi, con questo nome a fine Ottocento era conosciuto un tratto della Broadway più a sud, tra Union Square e Madison Square, dove nel 1880 l’amministrazione comunale della città aveva deciso di installare lampade ad arco Brush: una delle prime strade illuminate con la luce elettrica negli Stati Uniti. Poi sono arrivate le insegne pubblicitarie e i giornali hanno cominciato a chiamare quel pezzo di Broadway la “strada bianca”. Nel 1883 il Metropolitan Opera House si è trasferito tra la 39th Street e Broadway e sei anni dopo l’impresario Oscar Hammerstein I, il nonno di uno dei più grandi e prolifici parolieri del teatro musicale americano, ha deciso di aprire il suo teatro, il Victoria, sulla Forty-Second Street. Da quella felice intuizione comincia Broadway. Quando, all’inizio del nuovo secolo, i teatri, i cinema e i ristoranti si sono spostati nella zona a nord di Times Square, “The Great White Way” è diventato uno dei nomi di quella parte di Broadway che percorre il cosiddetto Theater District, che, molti anni più tardi, la città di New York farà diventare, anche dal punto di vista amministrativo, un sottodistretto con precisi confini.
Sulle vecchie storie di Broadway ho scritto un romanzo, e quindi su questa parte dello “stradone” non mi fermerò a lungo. Però almeno fatemi ricordare alcuni dei grandi teatri che stavano proprio sulla Broadway: il Capitol, il Central, l’Astor, il Paramount, il Rialto. Alcuni per fortuna ci sono ancora: l’Hammerstein - anche se adesso si chiama Ed Sullivan, l’ha comprato la CBS e registra lì i suoi Late Show - il Broadway, il Winter Garden - se andate in questi giorni c’è The Music Man con Hugh Jackman e Sutton Foster - il Palace, il Minskoff - in cartellone oggi c’è The Lion King. Per concorrere ai Tony uno spettacolo deve essere rappresentato in un teatro di “classe Broadway”, ossia con almeno cinquecento posti a sedere che sta nel Theater District (l’unica deroga ammessa è per il teatro del Lincoln Center, che è fuori dal “distretto”).
Ovviamente vi consiglio di muovervi in metropolitana, ma vi ricordo che la Broadway da Colombus Circus è tutta a senso unico, da nord a sud. E naturalmente ci sono dei tratti che sono esclusivamente pedonali, come Times Square. Questa grande piazza, che prende il nome dal quotidiano che qui aveva la propria storica sede, all’incrocio diagonale tra la Broadway e la Seventh Avenue, è il cuore della Broadway dei teatri.
Ancora negli anni Sessanta e Settanta si trattava di una zona malfamata, il quartiere a luci rosse di Manhattan, ma un vasto intervento di risanamento ha trasformato la piazza e le vie intorno in un enorme centro commerciale: da un tipo di prostituzione a un’altra.
Passato l’incrocio con la 40th Street, all’altezza di Golda Meir Square, la Broadway naturalmente continua, tagliando le strade che in orizzontale e in verticale disegnano il regolare tracciato disegnato dal Piano urbanistico del 1811. Al 1356 c’è, con le sue grandi colonne doriche, il solenne tempio neoclassico sede della Greenwich Savings Bank. All’incrocio con la Sixth Avenue, dove si crea Herald Square - perché lì aveva la sede questo storico quotidiano cittadino che adesso non viene più pubblicato - c’è il più grande negozio di Macy’s - 116mila metri quadrati di superficie - il più grande “grande magazzino” degli Stati Uniti, un’incredibile calamita turistica della città. Al 1232 c’è quello che un tempo era il Grand Hotel, progettato dall’architetto Henry Engelbert in stile Secondo Impero, il preferito da Oscar Wilde nei suoi soggiorni a New York.
Tra grandi palazzi, costose boutique, esclusivi ristoranti, e gli immancabili McDonald’s, la Broadway incrocia la Fifth Avenue, tagliando il Madison Square Park. Proprio il disegno triangolare di quell’incrocio così importante della città, ha spinto all’inizio del secolo l’architetto Daniel Burnham a realizzare, in stile Beaux-Arts, un palazzo di ventidue piani a forma triangolare - la facciata che disegna la punta è lunga solo due metri. Si tratta del celebre Flatiron, il “ferro da stiro”, diventato uno dei simboli di New York. James Stewart e Kim Novak si baciano appassionatamente sul suo tetto, Jessica Fletcher ci risolve uno dei tanti casi della sua carriera, l’esercito americano lo distrugge nel tentativo di catturare Godzilla.
A Union Square, all’altezza della 17th Street, c’è l’unico punto in cui il corso della strada è discontinuo: infatti qui la Broadway si interrompe per riprendere all’angolo opposto della piazza rettangolare. Proprio qui, sotto lo sguardo della grande statua equestre in bronzo del presidente Washington, l’attivista anarchica Emma Goldman ha tenuto, il 21 agosto 1893, quello che è conosciuto come il “discorso del pane”: «Andate dunque e manifestate davanti alle dimore dei ricchi. Chiedete lavoro; e se non ve ne danno chiedete pane. Ma, se ve li negano entrambi, il pane prendetevelo. È un vostro sacro diritto!». Emma sarà arrestata, come quasi dopo ogni suo discorso a Union Square, che rimarrà per tutto il Novecento la piazza delle grandi manifestazioni politiche e sindacali della città.
Dopo Union Square comincia Lower Manhattan e dall’incrocio con la 10th Street il suo corso torna a seguire il tracciato ortogonale. La Broadway a questo punto taglia a metà l’isola: da una parte c’è il Greenwich Village e dall’altra Little Italy e Chinatown, per citare i quartieri più noti a noi appassionati di cinema. Non mancano anche qui gli edifici storici, come il Clock Tower Building al 346 e il New York City Hall, la sede ufficiale dell’amministrazione comunale, inaugurato nel 1812, il più antico municipio degli Stati Uniti ancora adibito alla sua funzione originaria.
Poi Broadway entra nel Financial District con i suoi caratteristici grattacieli. Proseguendo da un lato c’è l’incrocio con Wall Street dove sorge l’One Wall Street, realizzato nel 1931, uno dei gioielli dell’Art Deco della città, e dall’altra Zuccotti Park, la piccola piazza diventata famosa nel 2011 per il movimento Occupy Wall Street.
Stiamo arrivando alla fine del nostro viaggio lungo la Broadway, già si vedono gli alberi del Bowling Green, il primo parco pubblico di New York, un luogo dove - come dice il nome - si giocava a bocce. Da qui e, tornando verso nord, fino alla City Hall, questo tratto della Broadway è il cosiddetto “canyon degli eroi”, dove si svolgono le grandi parate per celebrare capi di stato, veterani, campioni dello sport, eroi nazionali. Cinque italiani hanno goduto di questa festa e del tradizionale lancio di stelle filanti e nastri colorati dalle finestre che si affacciano sulla Broadway: il generale Armando Diaz nel 1921, Italo Balbo nel 1933 per celebrare la trasvolata dell’Atlantico della sua flotta di idrovolanti da Roma a Chicago, Alcide De Gasperi nel 1947 e ancora nel 1951, e infine due presidenti della Repubblica: Gronchi nel 1956 e Segni sette anni dopo. Nelson Mandela nel 1990, subito dopo essere stato liberato dal carcere, è stato l’ultimo cittadino straniero onorato di una parata. Ormai questa festa tocca solo ai campioni dello sport, gli “eroi” del nuovo secolo. Con la significativa eccezione, il 7 luglio 2021, dei lavoratori della sanità e dei servizi essenziali che hanno permesso a New York di resistere al Covid.
Nell’ultimo tratto Broadway finisce a Battery Park, il grande parco che chiude a sud l’isola di Manhattan e dove c’erano appunto le batterie di cannoni per difendere la città. Dalla fine - o l’inizio, fate voi - della Broadway vediamo la Statua della Libertà ed Ellis Island, il primo approdo per gli oltre dodici milioni di immigrati arrivati da tutto il mondo dal 1892 al 1954.
Il 10 settembre 1935 sbarcano a Ellis Island Kurt Weill e Lotte Lenya, in fuga da un’Europa che per loro è sempre più pericolosa. Le pratiche nel loro caso procedono in maniera spedita. Sono conosciuti, i loro colleghi americani li aspettano: a ottobre i Gershwin li invitano a vedere le prove di Porgy and Bess. Chissà che impressione che hanno avuto quando hanno visto per la prima volta “The Great White Way”. Kurt e Lotte non ameranno mai molto Broadway, nel senso della strada, preferiscono vivere lontano da New York. Ma sono due dei tanti che faranno grande Broadway.
Quando arriverete a New York, immagino vorrete andare a Broadway - tanto più se siete tra i fedeli lettori delle mie storie. Una cosa importante: ricordate che prima di essere una metonimia, Broadway è una strada. Ma fate attenzione: nella “Grande mela” ce ne sono ben quattro con questo nome. Dovete scegliere quella giusta.
Ce n’è una a Staten Island, la grande isola che chiude a sud la baia di New York e che è, tra i cinque Distretti, quello che ha il più alto numero di cittadini di origine italiana. La Broadway di Staten Island comincia a nord, costeggia il Kill Van Kull, lo stretto che divide l’isola da Bayonne nel New Jersey, e poi taglia a sud, fino a incrociarsi con Clove Road, proprio all’altezza del St. Peters Cemetery, il più antico cimitero cattolico del Distretto, fondato nel 1848.
Invece la Broadway di Brooklyn comincia dall’East River, quasi all’altezza del Williamsburg Bridge. Questo ponte è stato aperto nel 1903, quando quello di Brooklyn - quello delle “ciccles” e della panchina di Io e Annie - non è stato più sufficiente a reggere il traffico tra Manhattan e la parte della città che sorge su Long Island. Fino al 1924 il Williamsburg è stato il ponte sospeso più lungo del mondo e alla fine degli anni Cinquanta potevi incontrarci Sonny Rollins che andava lì a suonare il sax per non disturbare i vicini. La strada prosegue diritta in direzione sud-est per quasi cinque miglia, fino all’incrocio con Jamaica Avenue. Poco distante da questo punto c’è uno degli ingressi dell’Evergreen Cemetery, uno dei più grandi di Brooklyn. Qui è sepolta Adelaide Hall, una grandissima musicista, la prima cantante jazz, l’indiscussa regina della Harlem Renaissance.
Anche la Broadway del Queens comincia dall’East River, però più a nord, all’altezza del Socrates Sculpture Park, una sorta di museo a cielo aperto di sculture contemporanee e un laboratorio per giovani artisti. Poi anche questa strada prosegue verso sud-est, attraversa Astoria, il quartiere che ospita la più importante comunità greca di New York, per finire all’intersezione con il Queens Boulevard, dove c’è il negozio della Raymour & Flanigan.
Ma ovviamente nessuna di queste tre strade, per quanto importanti, è la “nostra” Broadway.
A essere precisi la Broadway dove vogliamo andare noi appassionati di musical non comincia nemmeno a New York, ma più a nord, nella contea di Westchester, e precisamente nel villaggio di Sleepy Hollow. Questo è un paesino di neppure diecimila abitanti, ma la Broadway comincia proprio qui, come una diramazione della U. S. Route 9, la strada che porta da Laurel nel Delaware fino a Champlain nello Stato di New York, al confine con il Canada.
Il villaggio di Sleepy Hollow, fondato da un colono olandese nella seconda metà del Seicento, oltre a essere il punto di inizio della Broadway - o di fine, se partite da Battery Park - è famoso perché qui Washington Irving ha ambientato il suo racconto La leggenda di Sleepy Hollow, una delle più famose e terrificanti storie di Halloween, visto che uno dei suoi protagonisti è il misterioso “cavaliere senza testa”, interpretato da un inquietante Christopher Walken nel film di Tim Burton del 1999.
Poi la strada, sempre costeggiando l’Hudson, prosegue attraversando alcune altre cittadine: Tarrytown, uno dei primi rifugi di Salinger in fuga da New York, Irvington, Dobbs Ferry, Hastings-on-Hudson, dove c’era la villa di Florenz Ziegfeld e Billie Burke, una delle coppie che ha fatto grande Broadway - inteso come metonimia - fino a Yonkers. Questa è, dopo New York e Buffalo, la terza città dello Stato. In questa ricca città commerciale il drammaturgo Thorton Wilder ha ambientato una delle sue commedie più famose, The Matchmaker, la storia di un’esuberante vedova, Dolly Gallagher Levi: abilissima nel combinare matrimoni, tanto che decide di combinare anche il suo, sposando il burbero e posato mercante Horace Vandergelder. E il musical tratto da questa commedia, Hello, Dolly! sarà uno dei grandi successi di Broadway, in scena dal 1964 per quasi sette anni e un totale di duemilaottocentoquarantaquattro repliche.
Passata Yonkers, la Broadway arriva finalmente a New York, entrando nel Bronx, che così, per circa due miglia, ha la “sua” Broadway, come gli altri quattro Distretti. Poi attraversa il quartiere di Marble Hill, l’unico del Distretto di Manhattan che si trova sulla terraferma. Per la precisione si trattava dell’estremità settentrionale dell’isola, ma lo scavo dell’Harlem River Ship Canal nel 1895 e, vent’anni dopo, la colmatura del vecchio corso del fiume Harlem hanno collegato questo lembo di terra con il Bronx, pur rimanendo amministrativamente sotto Manhattan.
A questo punto, attraversato il Broadway Brigde, la strada entra nell’isola scoperta da Giovanni da Verrazzano nel 1524. Precisamente nel quartiere di Inwood, il più settentrionale dell’isola e anche quello in cui nella prima metà del Novecento era più sviluppata l’agricoltura. Proprio qui, nel 1954, quando a Broadway erano in cartellone The Matchmaker e The Pajama Game, la famiglia Benedetto ha chiuso l’ultima fattoria di Manhattan: coltivavano quel terreno, che occupava un isolato tra la Broadway e la 214th Street, da più di duecento anni, producendo per lo più mais.
Prima di proseguire il nostro viaggio per tredici miglia, fino alla punta più meridionale di Manhattan, dobbiamo fare un passo indietro, quando quella strada si chiamava Wickquasgeck ed era solo un sentiero che correva nel bosco che ricopriva quell’isola lunga e stretta sulla riva orientale del fiume Hudson. Non sappiamo come i nativi che abitavano quelle terre da secoli indicavano quel sentiero, che per loro era così importante, ma hanno cominciato a chiamarlo così i coloni olandesi a metà del Seicento, perché quello era il nome di quella tribù, che, al loro arrivo, è stata costretta a lasciare l’isola per andare a nord, sulla terraferma. I nativi si ritirarono nella zona dove sorgerà Dobbs Ferry. I coloni di Nieuw Amsterdam hanno cominciato a chiamare quella strada, la più grande e battuta della nuova città che stavano lentamente costruendo, Heeren Stratt - la “via dei gentiluomini” - perché ce n’era una con lo stesso nome ad Amsterdam. E poi, arrivati gli inglesi, quella strada, la più larga della loro nuova colonia, ribattezzata New York, è diventata semplicemente lo “stradone” - Broadway, appunto - tanto che in una mappa della città del 1776 appare con il nome Broadway Street, che poi non è stato più utilizzato. Dopo, come avviene ancora oggi, quella strada è stata chiamata semplicemente Broadway.
Credo meriti di essere ricordato che i Wickquasgeck hanno partecipato alla Guerra d’indipendenza a fianco delle truppe delle Tredici Colonie contro quelle di Giorgio III. Molti dei loro guerrieri sono morti nel conflitto, ma questo sacrificio, che segnerà la fine della tribù, non è mai stato riconosciuto: nessuno di loro otterrà la cittadinanza del nuovo stato che hanno contribuito a creare. Wickquasgeck sono stati dimenticati, ma una loro traccia rimane nella pianta di Manhattan, perché Broadway, proprio perché è più antica di New York, di Nieuw Amsterdam, e di Giovanni da Verrazzano, non rispetta il tracciato ortogonale del resto delle strade, intersecandole in maniera irregolare.
Dopo Inwood, la Broadway attraversa Washington Heights, il grande quartiere della comunità domenicana. Il 21 febbraio 1965, all’Audubon Ballroom, al civico 3940 della Broadway, all’angolo con la 165th Street è stato assassinato Malcolm X. Poi la Broadway attraversa la parte occidentale di Harlem, quasi costeggiando l’Hudson. Alla fine dell’Ottocento era un quartiere in cui abitava l’alta borghesia bianca che non voleva abitare nel centro di Manhattan. L’arrivo di molti immigrati europei ha portato i ricchi a trasferirsi più a nord e contemporaneamente diversi agenti immobiliari afroamericani e una congregazione religiosa hanno acquistato un grande isolato tra la 135th Street e la Fith Avenue. È cominciata allora per Harlem una nuova storia, legata anche a quella musica di cui i neri erano i più grandi interpreti, il jazz, la musica del Novecento.
Poi Broadway entra in Morningside Heights, il quartiere che è occupato in gran parte dal campus della Columbia University, fondata nel 1754 con il nome King’s College, una delle otto università della Ivy League. Alla Columbia hanno insegnato o studiato sette padri fondatori degli Stati Uniti, quattro Presidenti, dieci giudici della Corte Suprema, novantanove premi Nobel, trentatré vincitori del premio Oscar e centoventicinque del Pulitzer.
Dall’incrocio con la 110th Street fino a Colombus Circle la Broadway attraversa tutto l’Upper West Side. Fino alla 78th Street procede parallela alle altre Avenue che percorrono da nord a sud il Distretto, poi si piega verso sud-est e dalle intersezioni nascono alcune piazze triangolari. In questa parte di Broadway ci sono alcuni edifici degni di nota, storici e lussuosi alberghi residenziali, come il Bretton Hall al 2350 e The Ansonia al 2109, il primo a essere completamente climatizzato, dove hanno alloggiato Babe Ruth e Toscanini, Caruso e Igor Stravinsky, e grandi condomini come The Apthorp al 2201, con la sua splendida facciata in stile neorinascimentale, progettata all’inizio del secolo dallo studio Clinton & Russell.
C’è anche molta Italia in questo tratto di Broadway. Tra la 74th e la 73th Street si trova Verdi Square, con al centro un grande monumento dedicato al Maestro di Busseto. Intorno al basamento ci sono Aida, Otello, Leonora de La forza del destino e Falstaff, mentre la statua di Verdi è sopra di loro. L’opera, realizzata in marmo di Carrara da Pasquale Civiletti, è stata inaugurata il 12 ottobre 1906. Più a sud, tra la Columbus Avenue, la 63th Street e Broadway, c’è il Dante Park, dove la comunità italo-americana nel 1921 ha voluto ricordare il grande poeta con una bella statua in bronzo realizzata da Ettore Ximenes, che l’anno prima aveva realizzato il grande monumento dedicato a Verdi nella città di Parma, di cui rimangono solo alcune statue, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.
La parte più meridionale dell’Upper West Side è adesso uno dei quartieri più ricchi della città, ma non è sempre stato così, West Side Story racconta un’altra storia, quando, negli anni Cinquanta, prima della costruzione del Lincoln Center for the Performing Arts, era un quartiere popolare, dove si combattevano bande giovanili e dove si poteva morire per un amore “sbagliato”.
Dopo Columbus Circle la Broadway entra in Midtown Manhattan. E qui finalmente la Broadway diventa Broadway o, come è chiamato questo tratto, tra la 54th e la 40th Street, “The Great White Way”. A essere precisi, con questo nome a fine Ottocento era conosciuto un tratto della Broadway più a sud, tra Union Square e Madison Square, dove nel 1880 l’amministrazione comunale della città aveva deciso di installare lampade ad arco Brush: una delle prime strade illuminate con la luce elettrica negli Stati Uniti. Poi sono arrivate le insegne pubblicitarie e i giornali hanno cominciato a chiamare quel pezzo di Broadway la “strada bianca”. Nel 1883 il Metropolitan Opera House si è trasferito tra la 39th Street e Broadway e sei anni dopo l’impresario Oscar Hammerstein I, il nonno di uno dei più grandi e prolifici parolieri del teatro musicale americano, ha deciso di aprire il suo teatro, il Victoria, sulla Forty-Second Street. Da quella felice intuizione comincia Broadway. Quando, all’inizio del nuovo secolo, i teatri, i cinema e i ristoranti si sono spostati nella zona a nord di Times Square, “The Great White Way” è diventato uno dei nomi di quella parte di Broadway che percorre il cosiddetto Theater District, che, molti anni più tardi, la città di New York farà diventare, anche dal punto di vista amministrativo, un sottodistretto con precisi confini.
Sulle vecchie storie di Broadway ho scritto un romanzo, e quindi su questa parte dello “stradone” non mi fermerò a lungo. Però almeno fatemi ricordare alcuni dei grandi teatri che stavano proprio sulla Broadway: il Capitol, il Central, l’Astor, il Paramount, il Rialto. Alcuni per fortuna ci sono ancora: l’Hammerstein - anche se adesso si chiama Ed Sullivan, l’ha comprato la CBS e registra lì i suoi Late Show - il Broadway, il Winter Garden - se andate in questi giorni c’è The Music Man con Hugh Jackman e Sutton Foster - il Palace, il Minskoff - in cartellone oggi c’è The Lion King. Per concorrere ai Tony uno spettacolo deve essere rappresentato in un teatro di “classe Broadway”, ossia con almeno cinquecento posti a sedere che sta nel Theater District (l’unica deroga ammessa è per il teatro del Lincoln Center, che è fuori dal “distretto”).
Ovviamente vi consiglio di muovervi in metropolitana, ma vi ricordo che la Broadway da Colombus Circus è tutta a senso unico, da nord a sud. E naturalmente ci sono dei tratti che sono esclusivamente pedonali, come Times Square. Questa grande piazza, che prende il nome dal quotidiano che qui aveva la propria storica sede, all’incrocio diagonale tra la Broadway e la Seventh Avenue, è il cuore della Broadway dei teatri.
Ancora negli anni Sessanta e Settanta si trattava di una zona malfamata, il quartiere a luci rosse di Manhattan, ma un vasto intervento di risanamento ha trasformato la piazza e le vie intorno in un enorme centro commerciale: da un tipo di prostituzione a un’altra.
Passato l’incrocio con la 40th Street, all’altezza di Golda Meir Square, la Broadway naturalmente continua, tagliando le strade che in orizzontale e in verticale disegnano il regolare tracciato disegnato dal Piano urbanistico del 1811. Al 1356 c’è, con le sue grandi colonne doriche, il solenne tempio neoclassico sede della Greenwich Savings Bank. All’incrocio con la Sixth Avenue, dove si crea Herald Square - perché lì aveva la sede questo storico quotidiano cittadino che adesso non viene più pubblicato - c’è il più grande negozio di Macy’s - 116mila metri quadrati di superficie - il più grande “grande magazzino” degli Stati Uniti, un’incredibile calamita turistica della città. Al 1232 c’è quello che un tempo era il Grand Hotel, progettato dall’architetto Henry Engelbert in stile Secondo Impero, il preferito da Oscar Wilde nei suoi soggiorni a New York.
Tra grandi palazzi, costose boutique, esclusivi ristoranti, e gli immancabili McDonald’s, la Broadway incrocia la Fifth Avenue, tagliando il Madison Square Park. Proprio il disegno triangolare di quell’incrocio così importante della città, ha spinto all’inizio del secolo l’architetto Daniel Burnham a realizzare, in stile Beaux-Arts, un palazzo di ventidue piani a forma triangolare - la facciata che disegna la punta è lunga solo due metri. Si tratta del celebre Flatiron, il “ferro da stiro”, diventato uno dei simboli di New York. James Stewart e Kim Novak si baciano appassionatamente sul suo tetto, Jessica Fletcher ci risolve uno dei tanti casi della sua carriera, l’esercito americano lo distrugge nel tentativo di catturare Godzilla.
A Union Square, all’altezza della 17th Street, c’è l’unico punto in cui il corso della strada è discontinuo: infatti qui la Broadway si interrompe per riprendere all’angolo opposto della piazza rettangolare. Proprio qui, sotto lo sguardo della grande statua equestre in bronzo del presidente Washington, l’attivista anarchica Emma Goldman ha tenuto, il 21 agosto 1893, quello che è conosciuto come il “discorso del pane”: «Andate dunque e manifestate davanti alle dimore dei ricchi. Chiedete lavoro; e se non ve ne danno chiedete pane. Ma, se ve li negano entrambi, il pane prendetevelo. È un vostro sacro diritto!». Emma sarà arrestata, come quasi dopo ogni suo discorso a Union Square, che rimarrà per tutto il Novecento la piazza delle grandi manifestazioni politiche e sindacali della città.
Dopo Union Square comincia Lower Manhattan e dall’incrocio con la 10th Street il suo corso torna a seguire il tracciato ortogonale. La Broadway a questo punto taglia a metà l’isola: da una parte c’è il Greenwich Village e dall’altra Little Italy e Chinatown, per citare i quartieri più noti a noi appassionati di cinema. Non mancano anche qui gli edifici storici, come il Clock Tower Building al 346 e il New York City Hall, la sede ufficiale dell’amministrazione comunale, inaugurato nel 1812, il più antico municipio degli Stati Uniti ancora adibito alla sua funzione originaria.
Poi Broadway entra nel Financial District con i suoi caratteristici grattacieli. Proseguendo da un lato c’è l’incrocio con Wall Street dove sorge l’One Wall Street, realizzato nel 1931, uno dei gioielli dell’Art Deco della città, e dall’altra Zuccotti Park, la piccola piazza diventata famosa nel 2011 per il movimento Occupy Wall Street.
Stiamo arrivando alla fine del nostro viaggio lungo la Broadway, già si vedono gli alberi del Bowling Green, il primo parco pubblico di New York, un luogo dove - come dice il nome - si giocava a bocce. Da qui e, tornando verso nord, fino alla City Hall, questo tratto della Broadway è il cosiddetto “canyon degli eroi”, dove si svolgono le grandi parate per celebrare capi di stato, veterani, campioni dello sport, eroi nazionali. Cinque italiani hanno goduto di questa festa e del tradizionale lancio di stelle filanti e nastri colorati dalle finestre che si affacciano sulla Broadway: il generale Armando Diaz nel 1921, Italo Balbo nel 1933 per celebrare la trasvolata dell’Atlantico della sua flotta di idrovolanti da Roma a Chicago, Alcide De Gasperi nel 1947 e ancora nel 1951, e infine due presidenti della Repubblica: Gronchi nel 1956 e Segni sette anni dopo. Nelson Mandela nel 1990, subito dopo essere stato liberato dal carcere, è stato l’ultimo cittadino straniero onorato di una parata. Ormai questa festa tocca solo ai campioni dello sport, gli “eroi” del nuovo secolo. Con la significativa eccezione, il 7 luglio 2021, dei lavoratori della sanità e dei servizi essenziali che hanno permesso a New York di resistere al Covid.
Nell’ultimo tratto Broadway finisce a Battery Park, il grande parco che chiude a sud l’isola di Manhattan e dove c’erano appunto le batterie di cannoni per difendere la città. Dalla fine - o l’inizio, fate voi - della Broadway vediamo la Statua della Libertà ed Ellis Island, il primo approdo per gli oltre dodici milioni di immigrati arrivati da tutto il mondo dal 1892 al 1954.
Il 10 settembre 1935 sbarcano a Ellis Island Kurt Weill e Lotte Lenya, in fuga da un’Europa che per loro è sempre più pericolosa. Le pratiche nel loro caso procedono in maniera spedita. Sono conosciuti, i loro colleghi americani li aspettano: a ottobre i Gershwin li invitano a vedere le prove di Porgy and Bess. Chissà che impressione che hanno avuto quando hanno visto per la prima volta “The Great White Way”. Kurt e Lotte non ameranno mai molto Broadway, nel senso della strada, preferiscono vivere lontano da New York. Ma sono due dei tanti che faranno grande Broadway.
lunedì 16 maggio 2022
Verba volant (812): amazzone...
Si conoscono da ventidue anni, da quando entrambi frequentavano la Columbia University: a una festa Richard trova il coraggio di far sentire alcune sue composizioni musicali a quel ragazzo più grande, noto nel campus perché scrive testi di canzoni. A Lorenz piace quel ragazzo che suona il piano e cominciano a lavorare insieme. Per cinque anni compongono un’ottantina di canzoni, qualcuna di queste viene usata in spettacoli di Broadway, ma il successo non arriva. Nel 1925 Richard, scoraggiato, decide di smettere e pensa di entrare nell’azienda di famiglia, impegnata nel commercio di abbigliamento per bambini. Lorenz convince l’amico di cui si è ormai innamorato, senza mai dichiararsi, ad aspettare qualche settimana: scriveranno le loro ultime canzoni per uno spettacolo di beneficenza messo in scena dalla Theather Guild. Garrick Gaieties è un inaspettato successo: invece delle tre serate in programma, le repliche saranno in tutto duecentoundici. Lorenz e Richard sono ormai una coppia, anche se non come ha sperato il primo: il paroliere e il compositore sono diventati una delle “ditte” più prolifiche e di successo di Broadway. Lorenz è felice di poter passare tanto tempo insieme a Richard, eppure soffre di non potergli dire la verità: teme di perderlo per sempre. L’alcol è un rifugio, quando le canzoni non bastano più. A Hollywood per qualche tempo Lorenz sembra star meglio: in quella città ci sono meno pregiudizi, o almeno sembra esserci più tolleranza. Nell’ambiente sono note le feste nelle ville di Cole Porter e di George Cukor, certo non si può sbandierare la propria omosessualità neppure lì, ma non bisogna nascondersi come avviene a New York. Ma quella è la città in cui sono nati e Broadway è il loro regno, a Hollywood quei due geni della musica non hanno lo stesso successo. Tornati in città, continuano a scrivere canzoni, continuano ad avere successo, ma le crisi di Lorenz sono sempre più frequenti, sparisce per giorni interi senza che Richard sappia nulla di lui.
Al Doctors Hospital non possono curare il male di Lorenz, ma almeno lui e Richard possono stare ancora insieme e fare quello che hanno sempre fatto, quello che sanno fare come nessun altro: scrivere canzoni. Nell’ospedale c’è già un pianoforte. Lo ha usato Cole Porter nel 1937, quando è stato ricoverato lì a seguito della caduta da cavallo, un incidente che ha segnato il resto della sua vita. Proprio al Doctors Hospital Cole ha composto le canzoni del musical You Never Know, tra cui At Long Last Love.
Per quel nuovo spettacolo che stanno preparando, Richard vuole tentare qualcosa di nuovo: lui e Lorenz non si limiteranno a comporre le canzoni, dovranno scrivere anche il libretto. Il paroliere non sembra molto convinto. Richard gli spiega che il mondo di Broadway ormai è cambiato: il pubblico non vuole più andare a teatro solo per sentire le canzoni, vuole anche essere coinvolto da una storia. Nei loro spettacoli il libretto è sempre stato un pretesto per far cantare agli attori sul palco dieci o dodici nuove canzoni, che per lo più avevano poco a che fare con la trama. I loro musical erano ancora più simili alle “follie” di Ziegfeld. Con Show Boat Oscar Hammerstein ha scritto un musical che sembra più un’opera che una rivista, i Gershwin con Of Thee I Sing hanno vinto il Pulitzer e Porter ha avuto un buon successo con Nymph Errant. Solo loro ormai rimangono legati a un vecchio modo di scrivere. Lorenz è scettico: a dire la verità il Pulitzer lo ha vinto solo Ira, perché per la commissione del premio soltanto i testi possono concorrere e non le canzoni, che invece sono fatte di musica e parole, Cole è dovuto andare a Londra per mettere in scena il suo spettacolo e nessuna delle canzoni cantate da Gertrude passa nelle radio e anche Porgy and Bess non è stato un gran successo. Ma Richard crede che sia giusto tentare; e Lorenz gli vuole troppo bene per dissuaderlo.
Richard è convinto di aver trovato la storia giusta: a dire la verità The Warrior’s Husband, la commedia scritta da Julian F. Thompson nel 1924, è stata un fiasco. È stata ripresa nel 1932, ma anche in questo caso le repliche sono state soltanto ottantatré; questa edizione viene ricordata per l’interpretazione della venticinquenne Katharine Hepburn nel ruolo di Antiope, che, grazie al suo personale successo, viene chiamata a Hollywood, per cominciare la sua incredibile carriera cinematografica. L’anno dopo la Fox vuole farne un film, diretto dal giovane Walter Lang, con Elissa Landi, David Manners e, nel ruolo di Omero, il veterano Lionel Belmore, un attore inglese che tra il 1915 e il 1945 compare in più di duecento film. Siamo ancora nella Pre-Code Hollywood: si possono generosamente far vedere le gambe e le spalle delle attrici e visto che la storia si svolge nel mitico regno delle Amazzoni, è il film perfetto per tante giovani starlette. Tra le guerriere c’è anche la nuotatrice Helene Madison, vincitrice di tre ori alle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles. Il film - arrivato in Italia con il titolo La disfatta delle amazzoni - è un discreto successo, che permette alla Fox di recuperare le spese, ma nulla di più. Nonostante questo, Richard è convinto che, trasformato in un musical, possa funzionare.
Nel paese delle Amazzoni il mondo è capovolto: le donne governano e combattono, mentre gli uomini se ne stanno a casa ad accudire i figli, a cucinare e a rammendare le toghe delle loro bellicose mogliettine. Un esercito di guerrieri greci, guidati da Ercole e Teseo, attaccano il regno per impossessarsi della cintura di Diana, il simbolo del potere di Ippolita, la regina di quelle donne guerriere. A seguito delle truppe c’è anche un corrispondete di guerra, Omero, l’autore di un fortunato bestseller dal titolo Iliade. I Greci vengono sconfitti e fatti prigionieri, ma la sorella di Ippolita, la giovane Antiope, si innamora di Teseo e cerca di aiutarlo. Intanto l’arrivo dei Greci sembra aver risvegliato anche gli uomini che, guidati dal marito di Ippolita, il poco marziale Sapiens, che si definisce uno “sposo di guerra”, chiedono la parità. È un musical, alla fine l’amore trionfa e si fa capire che anche le guerriere Amazzoni vengono ricondotte alla “ragione” dai loro mariti. A dire la verità, Rodgers e Hart sono molto più bravi come autori di canzoni che come librettisti, ma lo spettacolo funziona.
Rodgers ne è così convinto che decide di associarsi all’impresario Dwight Deere Wiman come produttore dello spettacolo. Come regista viene ingaggiato Joshua Logan. Alla Princeton Joshua ha recitato insieme al suo compagno di studi James Stewart, poi è arrivato a Broadway e a Hollywood, dove ha fatto una bella carriera. Con Rodgers lavorerà ancora: alla fine degli anni Quaranta è il coautore del libretto di South Pacific, un lavoro per cui vince il Pulitzer. Anche Joshua è omosessuale ed è costretto a negarlo: curerà la sua depressione con una lunga terapia al litio. Ha meno di quarant’anni anche il coreografo Robert Alton, ma già una lunga carriera a Broadway: ha lavorato con Ziegfeld e ha creato le coreografie di Anything Goes. A Hollywood collabora con Fred Astaire e Gene Kelly.
E uno dei meriti del successo di questo musical è proprio per i numeri di ballo, visto che nella parte di Sapiens viene scritturato Ray Bolger. Questo trentasettenne di Boston è uno dei grandi nomi di Broadway. È arrivato a New York a metà degli anni Venti, è un ottimo ballerino di tip tap e si esibisce nei migliori locali della città. In pochi anni diventa un nome di cartellone per gli spettacoli di Broadway e il 27 dicembre 1932 è uno degli artisti chiamati a inaugurare il Radio City Music Hall. Poi decide di andare a Hollywood. Nel 1936 viene messo sotto contratto dalla Metro e nel 1939 ottiene il ruolo che gli regala un’incredibile fama: è il dinoccolato Spaventapasseri de Il Mago di Oz. In questo nuovo musical, Rodgers concede a Ray una grande libertà: dopo ogni sua canzone, ha la possibilità di danzare. E lo fa ogni volta con il suo grande talento.
Per i ruoli di Ippolita e Antiope vengono ingaggiate Benay Venuta e Constance Moore. Benvenuta Rose Crooke è nata a San Francisco da padre inglese e madre del Canton Ticino. A Broadway si è fatta conoscere come sostituta di Ethel Merman in Anything Goes, ma dopo quel promettente esordio la sua carriera non decolla come merita. Nel 1994 Woody Allen le regala una piccola parte, quella di una ricca signora che adora finanziare spettacoli, in Pallottole su Broadway. Quando viene scritturata, Constance è conosciuta per lo più dai ragazzini appassionati di fantascienza, perché ha interpretato il ruolo di Wilma Deering, l’unica donna nei cortometraggi dedicati a Buck Rogers (negli anni Ottanta la “nostra” Wilma sarà Erin Gray). Il musical non fa per lei e viene sostituita da Nanette Fabray, una bella carriera, anche se mai da protagonista, tra Broadway e Hollywood: l’indimenticabile Lily Marton in Spettacolo di varietà. Nello spettacolo c’è anche la ventenne Vera-Ellen, nel ruolo di Minerva. Questa ballerina dell’Ohio, minuta e dall’aria da bambina, è arrivata a New York da un paio anni, ma si è fatta subito conoscere: è una delle Rockettes, il corpo di ballo del Radio City Music Hall. Dopo questi spettacoli a Broadway, Samuel Goldwyn la vuole a Hollywood: canta e balla con Gene Kelly in Un giorno a New York, con Fred Astaire in La bella di New York, con Donald O’Connor in Chiamatemi Madame, con Bing Crosby e Danny Kaye in Bianco Natale. Dopo questo successo, la sua carriera si interrompe bruscamente: forse soffre di anoressia, e il suo fisico è troppo magro per sopportare la fatica dei numeri di ballo. O serve un altro tipo di donna a stuzzicare l’immaginario del pubblico. A completare il cast c’è Ronald Graham nel ruolo di Teseo: questo attore arrivato dalla Scozia due anni prima è stato Antifolo di Efeso, uno dei The Boys from Syracuse, un altro dei successi di Rodgers e Hart.
In quei giorni al Doctors Hospital Lorenz e Richard scrivono le sedici canzoni dello spettacolo. Alcune sono strettamente legate allo svolgimento della storia, ma altre diventano presto degli standard, come è successo a tantissime di quelle scritte da questi due giovani autori newyorchesi. C’è la divertente Ev’rything I’ve Got, che nello spettacolo viene cantata da Sapiens e Ippolita e poi ripresa dalla sola regina; diventa un classico prima grazie a Ella Fitzgerald e poi alla pianista e cantante jazz Blossom Dearie. Poi Wait Till You See Her, cantata da Teseo per l’amata Antiope e incisa successivamente da Ella, da Vic Damone, da Frank Sinatra e molti altri. Infine Nobody’s Heart (Belongs to Me), una di quelle canzoni che Lorenz scrive con il cuore, in cui racconta la sua solitudine. Nello spettacolo viene cantata da Antiope e diventerà un successo di Barbra Streisand.
By Jupiter debutta allo Shubert Theatre, lo storico teatro al 225 West della 44esima Strada, il 3 giugno 1942 e rimane in cartellone fino al 12 giugno dell’anno successivo, per un totale di quattrocentoventisette repliche: nessun spettacolo della coppia Rodgers e Hart ha avuto una corsa così lunga a Broadway. E sarebbe anche potuta durare di più, ma Ray ha accettato l’invito dell’esercito per andare in Europa a fare spettacoli per le truppe.
Questo successo - gli spettatori, angosciati dalla guerra in cui sono impegnati i loro ragazzi in Europa e sul Pacifico, vogliono divertirsi a teatro, anche con quelle battute un po’ grevi sul rapporto tra donne e uomini - dimostra che la sfida è vinta: anche Rodgers e Hart possono scrivere i musical “nuovi”. Richard ha trovato un’altra commedia, Green Grown the Lilacs, scritta da Lynn Riggs, che non ha avuto molto successo, ma che secondo lui può diventare un musical: una storia della frontiera, ambientata agli inizi del Novecento, in quello che diventerà il quarantaseiesimo Stato dell’Unione, l’Oklahoma. Lorenz non vuole lavorare a questo nuovo musical: cosa c’entrano loro due con una storia di cowboys e di indiani? Richard gli spiega che si tratta di una storia d’amore, devono raccontare quello che loro hanno sempre messo in musica. Cosa cambia se l’ambientazione è il West? Ma intanto le sparizioni di Lorenz diventano sempre più frequenti e più lunghe: va in Messico, dove conosce tanti “ragazzi” e nessuno sa che è una celebrità di Broadway. E quando torna è sempre più ubriaco e malato. Richard comincia a lavorare a quello che sarà Oklahoma! con Oscar Hammerstein. Lorenz incontra a New York il musicista ungherese Emmerich Kálmán, molto conosciuto in Europa per le sue operette. Kálmán è di origini ebraiche, ma la sua musica piace a Hitler, tanto che, dopo l’Anschluss, gli viene offerto di diventare un “ariano onorario”. Il compositore rifiuta e fugge in America. La possibile collaborazione con Hart non porta a nulla: alle riunioni Lorenz si presenta sempre troppo ubriaco per scrivere.
Nel 1943 Rodgers e Hammerstein ottengono un clamoroso successo con Oklahoma!, ma Richard cerca ancora Lorenz, gli chiede di scrivere insieme cinque nuove canzoni per il revival di A Connecticut Yankee, un loro successo del 1927, basato sul romanzo di Mark Twain Un americano alla corte di Re Artù. Lorenz scrive versi toccanti, specialmente quelli di Can You Do a Friend a Favor?: è la sua ultima canzone. La sua salute è ormai compromessa. Muore il 22 novembre, cinque giorni dopo la prima dello spettacolo. Chissà cosa ha provato Richard quando, al momento di metterle in musica, ha letto queste parole scritte da Lorenz.
That is all that I demand.
Only two, just me and you.
And a good friend heeds a friend
When a good friend needs a friend.
giovedì 21 aprile 2022
Verba volant (811): comparsa...
Ma partiamo dall’inizio, dal 1923, ossia dal suo primo film documentato, intitolato Hollywood, che sicuramente non avete mai visto, perché è uno dei tanti film perduti dell’epoca del muto. Allora si usavano pellicole al nitrato, un materiale altamente infiammabile, e gli incendi nei magazzini delle case di produzione, anche le più grandi, erano piuttosto frequenti. E poi non c’era una particolare cura nella conservazione, anzi, quando si è passati al sonoro, gli studios si sono via via sbarazzati di tutto quel materiale che prendeva posto e per loro era solo un costo improduttivo. Hollywood è stato prodotto dalla Famous Players-Lasky Corporation e diretto da James Cruze, uno dei pionieri della settima arte. La trama è esile, ma divertente. Angela è una ragazza dell’Ohio che sogna di fare l’attrice e vuole andare a Hollywood, i suoi familiari sono preoccupati e così decidono che suo nonno Joel la accompagnerà. Arrivati nella città del cinema Angela e Joel incontrano tutti i loro beniamini e infatti in questo film appaiono tutti gli artisti sotto contratto per lo studio, da Mary Astor a Charlie Chaplin, da Gloria Swanson a Douglas Fairbanks, da Mary Pickford a Will Rogers. Appare perfino “Fatty” Arbuckle: è il primo film che il celebre comico interpreta dopo lo scandalo per la tragica morte di Virginia Rapp. Angela fa un provino dopo l’altro, ma non ottiene una parte, è invece Joel a essere ingaggiato dal regista William C. de Mille, il fratello maggiore di Cecil B.. E all’improvviso il nonno diventa una star. I parenti rimasti in Ohio, non avendo notizie di Angela e di Joel, partono tutti per Hollywood e, una volta arrivati, ciascuno di loro finisce per apparire in un film, perfino il pappagallo di casa diventa una star. Solo Angela non viene mai scritturata. Rinuncia al suo sogno e accetta di sposare Lem, il suo eterno fidanzato, che l’ha raggiunta e che ovviamente ha già girato un film. Da quel loro matrimonio nascono due gemellini: anche loro naturalmente finiranno per essere “assunti” dallo studio. Bess interpreta una delle parenti di Angela.
La giovane attrice ha venticinque anni, è nata il 23 novembre 1898 a Sherman, nel Texas. Un anno prima, dopo aver preso “in prestito” i soldi che la madre custodiva nella zuccheriera, è scappata di casa con l’intenzione di andare a fare l’attrice a New York, ma quando arriva in stazione a Dallas vede un manifesto che pubblicizza le arance della California e così decide di andare a Hollywood. E, a differenza di Angela, riesce quasi subito a fare la comparsa per due film della Metro, di cui però non sappiamo nulla. Poi c’è Hollywood e sempre nel 1923 si sposa con Cullen Tate, l’aiuto regista di Cecil B. DeMille in diversi film, tra cui la prima versione de I dieci comandamenti. È un anno importante per lei: è anche nel cast di La donna di Parigi, il primo film che il suo amico Charlie Chaplin può produrre in maniera indipendente, con la United Artists.
Andiamo avanti di quarantun’anni: al cinema si può fare. È il 1964, la Columbia produce un film scritto e diretto da David Swift intitolato Good Neighbor Sam, che in Italia conosciamo con il titolo Scusa, me lo presti tuo marito?, una divertente commedia con Jack Lemmon e un’incantevole Romy Schneider. Sam fa il pubblicitario e ha un capo, interpretato dal celebre caratterista Edward Andrews, che ovviamente deve avere una moglie, un ruolo perfetto per una signora distinta ed elegante come Bess. E questa è la sua ultima apparizione in un film.
Tra Hollywood e Scusa, me lo presti tuo marito? Bess Flowers compare in più di trecentocinquanta film, di cui cinque hanno vinto l’Oscar e diciotto hanno ottenuto la nomination: e davvero nessuno è apparso in così tanti film “nominati”. E infatti lei è “The Queen of the Hollywood Extras”, ossia degli attori che di mestiere fanno le comparse. Nel corso degli anni diventa una dress extras, perché lei arriva negli studi e nei teatri di posa già vestita per il ruolo richiesto. Ed è una cosa molto apprezzata dalle case di produzione perché così si risparmia sia nei tempi di lavorazione che ovviamente nei costumi di scena. Bess ha un guardaroba molto assortito, quando in un film c’è una cena ufficiale, una prima a teatro, un ricevimento, potete stare sicuri che Bess c’è, perché ha sempre il vestito adatto. E se serve una segretaria, una commessa, una semplice passante, lei è pronta, perfettamente calata nel ruolo, qualche volta deve anche dire una o due battute, ma per lo più appare accanto al protagonista di turno. Bess è una donna piuttosto alta, bella, elegante in maniera naturale e registi come Frank Capra e Alfred Hitchcock chiedono espressamente di lei quando preparano i cast dei loro film.
I “suoi” Oscar sono per Accadde una notte del 1934 di Frank Capra, il primo film a vincere tutte e cinque le statuette più importanti (film, regia, sceneggiatura, attore ed attrice protagonisti) con Clark Gable e Claudette Colbert; L’eterna illusione del 1938, ancora di Capra, con James Stewart, Jean Arthur e il vecchio Lionel Barrymore; Eva contro Eva del 1950, con la coppia di regine Bette Davis e Anne Baxter; Il più grande spettacolo del mondo del 1952, con la regia di DeMille; Il giro del mondo in 80 giorni del 1956, con, oltre a Shirley MacLaine e David Niven, quaranta camei di grandi star del cinema. Un appassionato di musical come me deve citare due grandi classici del genere: Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà. Hitchcock la vuole in Notorius, Il delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro , La donna che visse due volte, Intrigo internazionale. Bess è nel cast di alcune comiche di Laurel e Hardy, Una notte all’opera, Ninotchka, La fiamma del peccato, Gilda, Il grande sonno, Il padre della sposa, Gli uomini preferiscono le bionde, Il gigante, Vincitori e vinti: si può scrivere la storia del cinema leggendo l’elenco dei film in cui è apparsa. Certo molti non sono capolavori, molti possono essere dimenticati, ma Bess c’è sempre.
Poi c’è la televisione. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta fa la comparsa in decine di telefilm, tra cui ben tredici episodi di Perry Mason, interpretando sempre ruoli diversi. Ed è anche negli spot pubblicitari della Chevrolet. Ma Bess non è una che accetta tutti i ruoli. Un giorno si presenta per chiedere una parte e il produttore la fa entrare, mentre tiene i piedi sulla scrivania: non è così che si riceve una signora, secondo Bess, che se ne va sbattendo la porta. E nel 1945 mette in gioco la sua esperienza partecipando alla fondazione alla Screen Extras Guild, il sindacato delle comparse, di cui sarà per diversi anni vicepresidente.
La vita di Bess è il cinema. Il matrimonio con Cullen dura solo cinque anni. Si sposa una seconda volta nel 1929, ma divorzia dopo un anno. Ha una sola figlia Patricia E. Tate, morta prima della madre, nel 1972. Bess è morta il 28 luglio 1985 in una casa di riposo per lavoratori del cinema a Woodland Hills, vicino a Santa Monica. La regina delle comparse diceva di sé: “Ho voluto essere un individuo, sempre, mai uno del mucchio”.
lunedì 11 aprile 2022
Verba volant (810): anteprima...
Anteprima, sost. f.
Quando il sindaco Rolland Marvin riceve quella telefonata da Hollywood per poco non cade dalla sedia. I produttori della Universal hanno deciso di organizzare la prima del loro nuovo film proprio nella sua città, invece che a New York o a Los Angeles, come normalmente avviene. Marvin convoca immediatamente il capo della polizia William Rapp: mancano solo due mesi e tutta Syracuse deve essere pronta per quel grande evento, destinato a superare per quell’anno la Grande Fiera dello Stato di fine agosto.
I press-agent della casa di produzione che sta per lanciare il film The Boys from Syracuse hanno pensato che, anche se quella citata nel titolo è la polis della Magna Grecia, possono promuovere la pellicola usando proprio l’omonimia con la città dello Stato di New York, famosa in tutti gli Stati Uniti per la sua università (e per il sale). A dire la verità un collegamento, per quanto labile, tra le due città, esiste veramente. I nativi della nazione Onondaga hanno abitato da sempre quella zona ricca di laghi e di sorgenti di acqua salata, poi all’inizio del diciassettesimo secolo sono arrivati i francesi, prima i gesuiti e poi i commercianti di pellicce, seguiti dagli olandesi e infine dagli inglesi: il sale è una ricchezza che tutti vogliono sfruttare. Per assegnare un ufficio postale a quel gruppo di villaggi sorti intorno al lago, il governo federale vuole che gli abitanti si scelgano un nome. Qualcuno propone Corinth, ma c’è già una cittadina che si chiama così, nella contea di Saratoga. Allora il ricco proprietario John Wilkinson, che da giovane ha avuto una passione per la poesia, si ricorda di alcuni versi in cui veniva decantata la bellezza della città siciliana, in cui acqua dolce e salata si mescolano, e propone quel nome agli altri tredici proprietari che costituiscono l’assemblea del villaggio.
Gli Stati Uniti hanno bisogno di sale e così Syracuse cresce sempre più rapidamente: i suoi abitanti passano da duecentocinquanta a oltre ventiduemila in soli trent’anni, dal 1820 al 1850. Poi Ernest Solvay apre in città il suo primo stabilimento (e le acque del lago ne risentono ancora, nonostante tutti i successivi interventi di bonifica). All’inizio del Novecento l’industria del sale comincia a declinare, ma altre grandi aziende si stabiliscono in città: la Franklin Automobile Company produce proprio a Syracuse il primo motore raffreddato ad aria al mondo. Nel frattempo, per la precisione nel 1870, è stata fondata la Syracuse University che all’inizio del secolo diventa uno degli atenei più noti del paese. Ovviamente la prima guerra mondiale richiede che la produzione industriale cresca sempre più velocemente e in Europa è già scoppiata la seconda: nel 1940, al tempo del sindaco Marvin, la popolazione di Syracuse supera i duecentomila abitanti.
Ma torniamo in Magna Grecia. A dire la verità, la vicenda raccontata nel film non si svolge nella città siciliana, ma ad Efeso, in Asia Minore (ovviamente c’è una città con questo nome anche in Georgia, nel profondo sud degli Stati Uniti). A Efeso vivono Antifolo e sua moglie Adriana. Antifolo ha un gemello, con lo stesso nome, che vive a Siracusa: i due neonati sono stati separati a causa di un naufragio. Anche Dromio, il servo di Antifolo di Efeso, ha un gemello con lo stesso nome, che ovviamente vive a Siracusa ed è il servo di Antifolo. Quando Antifolo e Dromio siracusani giungono a Efeso vengono scambiati per i loro gemelli efesini, perfino da Adriana e dalla sua serve Luce, che è la moglie di Dromio. Ne nasce una divertente serie di equivoci, complicati dal fatto che Antifolo siracusano si innamora di Luciana, la sorella di Adriana.
Questa divertente storia di scambi di persone, di equivoci, di repentini riconoscimenti, funziona: non per niente l’ha scritta, con il titolo Menaechmi, Tito Maccio Plauto, il più grande commediografo della Roma repubblicana, nato intorno al 250 a.C. a Sarsina, in Romagna. A Henderson, in Nevada, c’è Sarsina Avenue, tra Fanano Street e Pennabilli Street, paesi dove, qualche anno dopo l’uscita del film, arriveranno le truppe americane per combattere contro i tedeschi, ma questo non c’entra. La storia inventata da Plauto funziona così bene che un giovane teatrante, nato nel 1564 a Stratford-upon-Avon, decide di usarla per uno dei suoi primi spettacoli, che intitola The Comedy of Errors. Così quando, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, George Abbott cerca un soggetto per il suo nuovo musical, pensa proprio a questa classica storia: è la prima volta che un’opera di William Shakespeare viene adattata per un musical di Broadway. Non sarà l’ultima.
Nel 1938 George, che è a nato a Forestville, nello Stato di New York - non troppo lontano da Syracuse - ha cinquantun’anni ed è un nome noto a Broadway e a Hollywood. Ha cominciato all’inizio del secolo come attore, ma la sua passione è quella di scrivere e di fare il regista. Nel 1925 The Fall Gay, il primo spettacolo che scrive e di cui cura la regia, ottiene buoni riconoscimenti, ma il vero successo arriva l’anno successivo con il musical Broadway, una divertente storia di gangster e di ballerine negli anni del proibizionismo: seicentotre repliche al Broadhurst Theatre. Ed è proprio con questo spettacolo che inizia anche la sua fama di “show doctor”: il libretto scritto da Philip Dunning zoppica, non convince del tutto i produttori, ma dopo l’intervento di Abbott, il “paziente” si salva e, come abbiamo detto, gode di ottima salute. Ovviamente comincia anche a scrivere, con lo stesso successo, soggetti e sceneggiature per Hollywood, ma Broadway rimane il suo grande amore: dalla metà degli anni Venti e fino a quella dei Quaranta sono pochissimi gli anni in cui non debutta uno spettacolo in cui George non abbia mezzo in qualche modo lo zampino. E la sua carriera continua con grande fortuna anche dopo: dirige, tra gli altri, Pal Joey, Wonderful Town, The Pajama Game - e in questo caso è anche il regista della versione cinematografica - Damn Yankees, Fiorello! Nel 1965 gli viene intitolato lo storico Adelphi Theatre sulla 54esima Strada. Tutti hanno lavorato con questo gigante del teatro musicale, anche perché la sua carriera continua per decenni: George Abbott muore nel 1995, a centosette anni: una settimana prima sta ancora lavorando a una revisione di The Pajama Game.
Una delle maggiori capacità di Abbott è quella di collaborare con altri grandi. Per quello spettacolo basato sulla commedia shakespeariana, il librettista e regista coinvolge Richard Rodgers e Lorenz Hart per scrivere le canzoni. Negli anni Venti e Trenta questi due grandi autori - rispettivamente compositore e paroliere - nati a New York da famiglie di origine ebraica, dominano la scena di Broadway: compongono spesso due spettacoli a stagione, ottenendo un successo dopo l’altro. Falling in Love with Love, This Can’ Be Love e Sing for Your Supper sono, tra le canzoni scritte per lo spettacolo di Abbott, quelle che diventano in pochi anni standard. Le coreografie vengono curate da George Balanchine, il celebre ballerino russo, che a Parigi ha lavorato per Djaghilev ai Ballets Russes e, finita quella stagione, è sbarcato negli Stati Uniti dove fonda l’American Ballet. The Boys from Syracuse debutta all’Alvin Theatre il 23 novembre 1938 e rimane in cartellone per duecentotrentacinque repliche: un vero successo. Il 10 giugno 1939, quando si svolge l’ultima replica in Europa ormai la guerra è imminente.
In quel fortunato spettacolo Eddie Albert e Ronald Graham interpretano rispettivamente Antifolo di Siracusa e Antifolo di Efeso. Eddie, nato nel 1906 in Illinois, negli anni Trenta è già noto a teatro e conduce anche un popolare programma radiofonico. Dopo The Boys from Syracuse e dopo aver prestato servizio con onore nella marina durante la seconda guerra mondiale, la carriera di Eddie continua, tra il teatro, il cinema e la nascente televisione, anche se, visto che il suo nome è nella “lista nera” di McCarthy, non decolla come potrebbe. Nel 1953 è Irving, il simpatico fotografo amico di Gregory Peck in Vacanze romane. Il suo “gemello” Ronald è invece nato in Scozia nel 1911 e anche lui ha cominciato a lavorare in radio prima di fare una bella carriera a Broadway.
Jimmy Savo e Teddy Hart sono i due Dromio. I due comici si ritrovano sul palco di The Boys from Syracuse dopo aver lavorato spesso in coppia negli spettacoli di varietà e nel vaudeville. Il successo del musical dipende moltissimo dalla loro incredibile capacità nel creare gag. Teddy Hart, fratello minore di Lorenz, ha cominciato nel teatro yiddish e si è fatto in breve un nome nel vaudeville. Vincenzo Rocco Sava è nato a New York nel 1892, ma i suoi genitori vengono dalla Lucania, dal paese di Stigliano. Jimmy, come si fa chiamare, è basso di statura, piuttosto mingherlino, ma è agilissimo, scopre che con il suo corpo sa fa ridere: in pochi anni quel piccolo clown diventa una stella del vaudeville. Poi è l’attrazione comica degli spettacoli di burlesque: certo gli spettatori vogliono vedere quelle belle ragazze che si spogliano, ma tra un numero e l’altro si divertono con Jimmy, che sa cantare e ballare, è un ottimo mimo e fa anche giochi di prestigio. Ma il mondo del burlesque alla fine degli anni Trenta sta finendo e Jimmy Savo sembra destinato a finire tra gli artisti dimenticati. Per fortuna arriva George Abbott che capisce che quella maschera comica è capace anche di fare il musical e poi c’è Barney Josephson che alla fine del 1938 apre il suo locale, il Café Society, al Greenwich Village, “the wrong place for the right people”, e Jimmy, con i suoi spettacoli di cabaret, con il suo umorismo intelligente e irriverente, ne diventa presto una delle maggiori attrazioni. Poi c’è la televisione. Il 13 gennaio 1952 la CBS presenta una nuova serie, intitolata Television Workshop: si tratta di brevi commedie, spesso parodie di classici. Nella prima puntata, dal titolo Don Quixote, diretta da Sidney Lumet, c’è Boris Karloff che interpreta il cavaliere dalla triste figura, accanto a un’esordiente e bellissima Grace Kelly nel ruolo di Dulcinea: Jimmy è un impareggiabile Sancho Panza. Il comico non dimentica neppure l’Italia, ci ritorna alcune volte prima della guerra ed è uno dei pochi che non si fa ingannare dalla propaganda fascista. E quando torna negli Stati Uniti, anche se Mussolini è ancora popolare, è considerato il grande statista capace di mettere in riga l’Italia, l’uomo del futuro come lo presenta nel bel mondo di New York Margherita Sarfatti, Jimmy non smette di denunciare, spesso inascoltato, i misfatti del regime. Per questo suo costante impegno antifascista - è sempre in prima fila nelle manifestazioni a favore della Repubblica spagnola - e perché al Café Society bianchi e neri suonano e recitano insieme, anche lui finisce nella “lista nera”.
A completare il cast, nella parte di Adriana c’è l’attrice inglese Muriel Angelus. Muriel comincia nel music hall del suo paese, ma poi, come tanti altri, sente il richiamo dell’America. È bella e il suo viso piace ai registi di Hollywood e, visto che ha anche una bella voce ed è brava a cantare, sopravvive, a differenza di tante sue colleghe, all’avvento del sonoro. Ma non diventerà mai una stella. Lavora per lo più a Broadway, ma nel 1946 - a soli trentaquattro anni - decide di ritirarsi. E alla fine degli anni Cinquanta resiste alle lusinghe dell’amico Richard Rodgers, che vorrebbe lei come madre badessa nel nuovo musical che ha scritto insieme a Oscar Hammerstein II, in cui si racconta la storia di una novizia che ama tanto cantare.
L’Universal è decisa a sfruttare il successo dello spettacolo e acquista subito i diritti per la trasposizione cinematografica. Come autori del soggetto sono accreditati Tito Maccio Plauto, William Shakespeare e George Abbott, che però è l’unico che incassa i diritti. Il regista è Albert Edward Sutherland. Dopo una breve carriera come attore durante gli anni Venti, Eddie, questo inglese sbarcato a Hollywood, passa, su consiglio di Charlie Chaplin, alla regia. Tra gli anni Venti e Trenta si specializza nelle commedie, lavora con il comico WC Fields, di cui è intimo amico, dirige I diavoli volanti con Stan Laurel e Oliver Hardy, anche se il rapporto con il suo connazionale Stan è piuttosto conflittuale, perché il geniale comico vuole essere l’unico regista dei suoi film, al di là di chi li firma in cartellone, e poi One Night in the Tropics, l’esordio cinematografico della coppia Abbott and Costello, quelli che noi conosciamo come Gianni e Pinotto. Tra il 1926 e il 1928 è l’invidiato marito di Louise Brooks, con il suo caschetto nero, la diva dei Roaring Twenties.
Al cinema non serve avere due attori per ogni ruolo: ci sono gli “effetti speciali”. E infatti il film ottiene una delle due nomination agli Oscar proprio in questa categoria. I due Antifolo vengono interpretati da Allan Jones, mentre i due Dromio da Joe Penner. Nella seconda metà degli anni Trenta la carriera di Allan, nato nel 1907 in Pennsylvania, sembra destinata a un grande successo. È bello e sa cantare: quando nel 1935 Zeppo Marx smette di recitare insieme ai suoi fratelli nella parte del giovane innamorato, la Metro mette loro accanto proprio Allan. Una notte all’opera è un successo anche per lui, che, l’anno successivo, ottiene la parte di Gaylord Ravenal nella versione cinematografica di Show Boat, accanto a Irene Dunne. Poi torna a lavorare con i Marx in Un giorno alle corse. Dopo The Boys from Syracuse e One Night in the Tropics, in cui recita la solita parte dell’innamorato, al servizio dei comici di turno, i ruoli per lui tendono a diventare sempre più rari e così va a Broadway. Ha una bella voce da tenore e si dedica anche all’opera. Joe Penner - ma il suo vero cognome è Pintér - è nato nel 1904 nella vecchia Europa, in quello che è ancora l’Impero Austro-ungarico e arriva in America, a bordo della RSM Slavonia, nel 1907. Dieci anni dopo si esibisce in una riuscita imitazione di Charlot. Fa la gavetta nei piccoli teatri di vaudeville dell’Indiana e poi arriva a Chicago. Comincia a perfezionare il suo personaggio, caratterizzato da un sigaro scuro, dall’uso dei giochi di parole e da una battuta che diventa presto famosa: “Wanna buy a duck?”. È la radio che fa la sua fortuna: il cantante Rudy Vallée lo chiama spesso come ospite nel suo programma e finalmente nel 1935 sulla CBS va in onda The Joe Penner Show. Partecipa a qualche film e il suo personaggio viene usato anche nei cartoni animati: Joe “incontra” Elmer dei Looney Tunes e Popeye. E fa capolino anche in un delizioso cartone animato della Disney del 1938 intitolato Mother Goose Goes Hollywood: dice la sua celebre battuta e mostra Paperino su un piatto. The Boys from Syracuse purtroppo è il suo ultimo film. Muore nel 1941, colpito da un infarto.
Adriana e Luce sono interpretate rispettivamente da Irene Hervey e Martha Raye. La carriera di Irene, in quegli anni sposata con Allan Jones, non è mai davvero sbocciata, nonostante sia una bella ragazza e sia anche brava a cantare. Debutta in Il ritorno della straniera di King Vidor e tra gli anni Trenta e fino all’inizio del decennio successivo gira, ma mai con un ruolo da protagonista, diversi film. Spazia tra i generi: da L’artiglio giallo, una delle pellicole con il detective Charlie Chan, al western Partita d’azzardo, con James Stewart e Marlene Dietrich, dal musical Un angolo di cielo con Bing Crosby all’horror Night Monster con Bela Lugosi. The Boys from Syracuse rimane in questa fase della sua carriera il suo film più importante. È vittima di un grave incidente automobilistico, ma per fortuna si riprende. Nel 1969 è la signora Durant, una delle pazienti del dentista Walter Matthau in Fiori di cactus. Martha non è certo una delle bellezze di Hollywood, con quella bocca così grande, sproporzionata rispetto al resto del viso, ma sa cantare, è una brava attrice ed è maledettamente simpatica. E quella bocca diventa la sua inconfondibile caratteristica, tanto che negli anni Settanta l’attrice diventa la testimonial della Polident. Tra la fine degli anni Trenta e i Quaranta interpreta diversi film, poi partecipa a molti spettacoli per le truppe durante la seconda guerra mondiale, un impegno che continuerà anche negli anni successivi, in Corea e in Vietnam. Al cinema nel 1947 è la chiassosa Annabella Bonheur, l’unica donna che resiste al fascino omicida di Monsieur Verdoux nel film diretto e interpretato da Charlie Chaplin, a Broadway nel 1967 è una convincente Dolly e il suo viso diventa familiare in televisione: tra le tante apparizioni, è la mamma di Mel, nella sitcom Alice.
Il film, nonostante i talenti messi in campo dalla Universal, non è il successo sperato. Le critiche sono per lo più impietose, viene bollato come un film di consumo, destinato a essere presto dimenticato, adatto a un pubblico di non grandi pretese. Non che i critici abbiano sempre ragione. Comunque il film esce nel luglio 1940 e forse in quei giorni gli americani sono più impegnati a osservare quello che succede al di là dell’oceano: le bandiere del Reich sventolano su Parigi e gli aerei della Luftwaffe bombardano Londra. In molti capiscono che, ancora una volta, la guerra sta per arrivare anche nelle loro famiglie.
I press-agent della casa di produzione che sta per lanciare il film The Boys from Syracuse hanno pensato che, anche se quella citata nel titolo è la polis della Magna Grecia, possono promuovere la pellicola usando proprio l’omonimia con la città dello Stato di New York, famosa in tutti gli Stati Uniti per la sua università (e per il sale). A dire la verità un collegamento, per quanto labile, tra le due città, esiste veramente. I nativi della nazione Onondaga hanno abitato da sempre quella zona ricca di laghi e di sorgenti di acqua salata, poi all’inizio del diciassettesimo secolo sono arrivati i francesi, prima i gesuiti e poi i commercianti di pellicce, seguiti dagli olandesi e infine dagli inglesi: il sale è una ricchezza che tutti vogliono sfruttare. Per assegnare un ufficio postale a quel gruppo di villaggi sorti intorno al lago, il governo federale vuole che gli abitanti si scelgano un nome. Qualcuno propone Corinth, ma c’è già una cittadina che si chiama così, nella contea di Saratoga. Allora il ricco proprietario John Wilkinson, che da giovane ha avuto una passione per la poesia, si ricorda di alcuni versi in cui veniva decantata la bellezza della città siciliana, in cui acqua dolce e salata si mescolano, e propone quel nome agli altri tredici proprietari che costituiscono l’assemblea del villaggio.
Gli Stati Uniti hanno bisogno di sale e così Syracuse cresce sempre più rapidamente: i suoi abitanti passano da duecentocinquanta a oltre ventiduemila in soli trent’anni, dal 1820 al 1850. Poi Ernest Solvay apre in città il suo primo stabilimento (e le acque del lago ne risentono ancora, nonostante tutti i successivi interventi di bonifica). All’inizio del Novecento l’industria del sale comincia a declinare, ma altre grandi aziende si stabiliscono in città: la Franklin Automobile Company produce proprio a Syracuse il primo motore raffreddato ad aria al mondo. Nel frattempo, per la precisione nel 1870, è stata fondata la Syracuse University che all’inizio del secolo diventa uno degli atenei più noti del paese. Ovviamente la prima guerra mondiale richiede che la produzione industriale cresca sempre più velocemente e in Europa è già scoppiata la seconda: nel 1940, al tempo del sindaco Marvin, la popolazione di Syracuse supera i duecentomila abitanti.
Ma torniamo in Magna Grecia. A dire la verità, la vicenda raccontata nel film non si svolge nella città siciliana, ma ad Efeso, in Asia Minore (ovviamente c’è una città con questo nome anche in Georgia, nel profondo sud degli Stati Uniti). A Efeso vivono Antifolo e sua moglie Adriana. Antifolo ha un gemello, con lo stesso nome, che vive a Siracusa: i due neonati sono stati separati a causa di un naufragio. Anche Dromio, il servo di Antifolo di Efeso, ha un gemello con lo stesso nome, che ovviamente vive a Siracusa ed è il servo di Antifolo. Quando Antifolo e Dromio siracusani giungono a Efeso vengono scambiati per i loro gemelli efesini, perfino da Adriana e dalla sua serve Luce, che è la moglie di Dromio. Ne nasce una divertente serie di equivoci, complicati dal fatto che Antifolo siracusano si innamora di Luciana, la sorella di Adriana.
Questa divertente storia di scambi di persone, di equivoci, di repentini riconoscimenti, funziona: non per niente l’ha scritta, con il titolo Menaechmi, Tito Maccio Plauto, il più grande commediografo della Roma repubblicana, nato intorno al 250 a.C. a Sarsina, in Romagna. A Henderson, in Nevada, c’è Sarsina Avenue, tra Fanano Street e Pennabilli Street, paesi dove, qualche anno dopo l’uscita del film, arriveranno le truppe americane per combattere contro i tedeschi, ma questo non c’entra. La storia inventata da Plauto funziona così bene che un giovane teatrante, nato nel 1564 a Stratford-upon-Avon, decide di usarla per uno dei suoi primi spettacoli, che intitola The Comedy of Errors. Così quando, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, George Abbott cerca un soggetto per il suo nuovo musical, pensa proprio a questa classica storia: è la prima volta che un’opera di William Shakespeare viene adattata per un musical di Broadway. Non sarà l’ultima.
Nel 1938 George, che è a nato a Forestville, nello Stato di New York - non troppo lontano da Syracuse - ha cinquantun’anni ed è un nome noto a Broadway e a Hollywood. Ha cominciato all’inizio del secolo come attore, ma la sua passione è quella di scrivere e di fare il regista. Nel 1925 The Fall Gay, il primo spettacolo che scrive e di cui cura la regia, ottiene buoni riconoscimenti, ma il vero successo arriva l’anno successivo con il musical Broadway, una divertente storia di gangster e di ballerine negli anni del proibizionismo: seicentotre repliche al Broadhurst Theatre. Ed è proprio con questo spettacolo che inizia anche la sua fama di “show doctor”: il libretto scritto da Philip Dunning zoppica, non convince del tutto i produttori, ma dopo l’intervento di Abbott, il “paziente” si salva e, come abbiamo detto, gode di ottima salute. Ovviamente comincia anche a scrivere, con lo stesso successo, soggetti e sceneggiature per Hollywood, ma Broadway rimane il suo grande amore: dalla metà degli anni Venti e fino a quella dei Quaranta sono pochissimi gli anni in cui non debutta uno spettacolo in cui George non abbia mezzo in qualche modo lo zampino. E la sua carriera continua con grande fortuna anche dopo: dirige, tra gli altri, Pal Joey, Wonderful Town, The Pajama Game - e in questo caso è anche il regista della versione cinematografica - Damn Yankees, Fiorello! Nel 1965 gli viene intitolato lo storico Adelphi Theatre sulla 54esima Strada. Tutti hanno lavorato con questo gigante del teatro musicale, anche perché la sua carriera continua per decenni: George Abbott muore nel 1995, a centosette anni: una settimana prima sta ancora lavorando a una revisione di The Pajama Game.
Una delle maggiori capacità di Abbott è quella di collaborare con altri grandi. Per quello spettacolo basato sulla commedia shakespeariana, il librettista e regista coinvolge Richard Rodgers e Lorenz Hart per scrivere le canzoni. Negli anni Venti e Trenta questi due grandi autori - rispettivamente compositore e paroliere - nati a New York da famiglie di origine ebraica, dominano la scena di Broadway: compongono spesso due spettacoli a stagione, ottenendo un successo dopo l’altro. Falling in Love with Love, This Can’ Be Love e Sing for Your Supper sono, tra le canzoni scritte per lo spettacolo di Abbott, quelle che diventano in pochi anni standard. Le coreografie vengono curate da George Balanchine, il celebre ballerino russo, che a Parigi ha lavorato per Djaghilev ai Ballets Russes e, finita quella stagione, è sbarcato negli Stati Uniti dove fonda l’American Ballet. The Boys from Syracuse debutta all’Alvin Theatre il 23 novembre 1938 e rimane in cartellone per duecentotrentacinque repliche: un vero successo. Il 10 giugno 1939, quando si svolge l’ultima replica in Europa ormai la guerra è imminente.
In quel fortunato spettacolo Eddie Albert e Ronald Graham interpretano rispettivamente Antifolo di Siracusa e Antifolo di Efeso. Eddie, nato nel 1906 in Illinois, negli anni Trenta è già noto a teatro e conduce anche un popolare programma radiofonico. Dopo The Boys from Syracuse e dopo aver prestato servizio con onore nella marina durante la seconda guerra mondiale, la carriera di Eddie continua, tra il teatro, il cinema e la nascente televisione, anche se, visto che il suo nome è nella “lista nera” di McCarthy, non decolla come potrebbe. Nel 1953 è Irving, il simpatico fotografo amico di Gregory Peck in Vacanze romane. Il suo “gemello” Ronald è invece nato in Scozia nel 1911 e anche lui ha cominciato a lavorare in radio prima di fare una bella carriera a Broadway.
Jimmy Savo e Teddy Hart sono i due Dromio. I due comici si ritrovano sul palco di The Boys from Syracuse dopo aver lavorato spesso in coppia negli spettacoli di varietà e nel vaudeville. Il successo del musical dipende moltissimo dalla loro incredibile capacità nel creare gag. Teddy Hart, fratello minore di Lorenz, ha cominciato nel teatro yiddish e si è fatto in breve un nome nel vaudeville. Vincenzo Rocco Sava è nato a New York nel 1892, ma i suoi genitori vengono dalla Lucania, dal paese di Stigliano. Jimmy, come si fa chiamare, è basso di statura, piuttosto mingherlino, ma è agilissimo, scopre che con il suo corpo sa fa ridere: in pochi anni quel piccolo clown diventa una stella del vaudeville. Poi è l’attrazione comica degli spettacoli di burlesque: certo gli spettatori vogliono vedere quelle belle ragazze che si spogliano, ma tra un numero e l’altro si divertono con Jimmy, che sa cantare e ballare, è un ottimo mimo e fa anche giochi di prestigio. Ma il mondo del burlesque alla fine degli anni Trenta sta finendo e Jimmy Savo sembra destinato a finire tra gli artisti dimenticati. Per fortuna arriva George Abbott che capisce che quella maschera comica è capace anche di fare il musical e poi c’è Barney Josephson che alla fine del 1938 apre il suo locale, il Café Society, al Greenwich Village, “the wrong place for the right people”, e Jimmy, con i suoi spettacoli di cabaret, con il suo umorismo intelligente e irriverente, ne diventa presto una delle maggiori attrazioni. Poi c’è la televisione. Il 13 gennaio 1952 la CBS presenta una nuova serie, intitolata Television Workshop: si tratta di brevi commedie, spesso parodie di classici. Nella prima puntata, dal titolo Don Quixote, diretta da Sidney Lumet, c’è Boris Karloff che interpreta il cavaliere dalla triste figura, accanto a un’esordiente e bellissima Grace Kelly nel ruolo di Dulcinea: Jimmy è un impareggiabile Sancho Panza. Il comico non dimentica neppure l’Italia, ci ritorna alcune volte prima della guerra ed è uno dei pochi che non si fa ingannare dalla propaganda fascista. E quando torna negli Stati Uniti, anche se Mussolini è ancora popolare, è considerato il grande statista capace di mettere in riga l’Italia, l’uomo del futuro come lo presenta nel bel mondo di New York Margherita Sarfatti, Jimmy non smette di denunciare, spesso inascoltato, i misfatti del regime. Per questo suo costante impegno antifascista - è sempre in prima fila nelle manifestazioni a favore della Repubblica spagnola - e perché al Café Society bianchi e neri suonano e recitano insieme, anche lui finisce nella “lista nera”.
A completare il cast, nella parte di Adriana c’è l’attrice inglese Muriel Angelus. Muriel comincia nel music hall del suo paese, ma poi, come tanti altri, sente il richiamo dell’America. È bella e il suo viso piace ai registi di Hollywood e, visto che ha anche una bella voce ed è brava a cantare, sopravvive, a differenza di tante sue colleghe, all’avvento del sonoro. Ma non diventerà mai una stella. Lavora per lo più a Broadway, ma nel 1946 - a soli trentaquattro anni - decide di ritirarsi. E alla fine degli anni Cinquanta resiste alle lusinghe dell’amico Richard Rodgers, che vorrebbe lei come madre badessa nel nuovo musical che ha scritto insieme a Oscar Hammerstein II, in cui si racconta la storia di una novizia che ama tanto cantare.
L’Universal è decisa a sfruttare il successo dello spettacolo e acquista subito i diritti per la trasposizione cinematografica. Come autori del soggetto sono accreditati Tito Maccio Plauto, William Shakespeare e George Abbott, che però è l’unico che incassa i diritti. Il regista è Albert Edward Sutherland. Dopo una breve carriera come attore durante gli anni Venti, Eddie, questo inglese sbarcato a Hollywood, passa, su consiglio di Charlie Chaplin, alla regia. Tra gli anni Venti e Trenta si specializza nelle commedie, lavora con il comico WC Fields, di cui è intimo amico, dirige I diavoli volanti con Stan Laurel e Oliver Hardy, anche se il rapporto con il suo connazionale Stan è piuttosto conflittuale, perché il geniale comico vuole essere l’unico regista dei suoi film, al di là di chi li firma in cartellone, e poi One Night in the Tropics, l’esordio cinematografico della coppia Abbott and Costello, quelli che noi conosciamo come Gianni e Pinotto. Tra il 1926 e il 1928 è l’invidiato marito di Louise Brooks, con il suo caschetto nero, la diva dei Roaring Twenties.
Al cinema non serve avere due attori per ogni ruolo: ci sono gli “effetti speciali”. E infatti il film ottiene una delle due nomination agli Oscar proprio in questa categoria. I due Antifolo vengono interpretati da Allan Jones, mentre i due Dromio da Joe Penner. Nella seconda metà degli anni Trenta la carriera di Allan, nato nel 1907 in Pennsylvania, sembra destinata a un grande successo. È bello e sa cantare: quando nel 1935 Zeppo Marx smette di recitare insieme ai suoi fratelli nella parte del giovane innamorato, la Metro mette loro accanto proprio Allan. Una notte all’opera è un successo anche per lui, che, l’anno successivo, ottiene la parte di Gaylord Ravenal nella versione cinematografica di Show Boat, accanto a Irene Dunne. Poi torna a lavorare con i Marx in Un giorno alle corse. Dopo The Boys from Syracuse e One Night in the Tropics, in cui recita la solita parte dell’innamorato, al servizio dei comici di turno, i ruoli per lui tendono a diventare sempre più rari e così va a Broadway. Ha una bella voce da tenore e si dedica anche all’opera. Joe Penner - ma il suo vero cognome è Pintér - è nato nel 1904 nella vecchia Europa, in quello che è ancora l’Impero Austro-ungarico e arriva in America, a bordo della RSM Slavonia, nel 1907. Dieci anni dopo si esibisce in una riuscita imitazione di Charlot. Fa la gavetta nei piccoli teatri di vaudeville dell’Indiana e poi arriva a Chicago. Comincia a perfezionare il suo personaggio, caratterizzato da un sigaro scuro, dall’uso dei giochi di parole e da una battuta che diventa presto famosa: “Wanna buy a duck?”. È la radio che fa la sua fortuna: il cantante Rudy Vallée lo chiama spesso come ospite nel suo programma e finalmente nel 1935 sulla CBS va in onda The Joe Penner Show. Partecipa a qualche film e il suo personaggio viene usato anche nei cartoni animati: Joe “incontra” Elmer dei Looney Tunes e Popeye. E fa capolino anche in un delizioso cartone animato della Disney del 1938 intitolato Mother Goose Goes Hollywood: dice la sua celebre battuta e mostra Paperino su un piatto. The Boys from Syracuse purtroppo è il suo ultimo film. Muore nel 1941, colpito da un infarto.
Adriana e Luce sono interpretate rispettivamente da Irene Hervey e Martha Raye. La carriera di Irene, in quegli anni sposata con Allan Jones, non è mai davvero sbocciata, nonostante sia una bella ragazza e sia anche brava a cantare. Debutta in Il ritorno della straniera di King Vidor e tra gli anni Trenta e fino all’inizio del decennio successivo gira, ma mai con un ruolo da protagonista, diversi film. Spazia tra i generi: da L’artiglio giallo, una delle pellicole con il detective Charlie Chan, al western Partita d’azzardo, con James Stewart e Marlene Dietrich, dal musical Un angolo di cielo con Bing Crosby all’horror Night Monster con Bela Lugosi. The Boys from Syracuse rimane in questa fase della sua carriera il suo film più importante. È vittima di un grave incidente automobilistico, ma per fortuna si riprende. Nel 1969 è la signora Durant, una delle pazienti del dentista Walter Matthau in Fiori di cactus. Martha non è certo una delle bellezze di Hollywood, con quella bocca così grande, sproporzionata rispetto al resto del viso, ma sa cantare, è una brava attrice ed è maledettamente simpatica. E quella bocca diventa la sua inconfondibile caratteristica, tanto che negli anni Settanta l’attrice diventa la testimonial della Polident. Tra la fine degli anni Trenta e i Quaranta interpreta diversi film, poi partecipa a molti spettacoli per le truppe durante la seconda guerra mondiale, un impegno che continuerà anche negli anni successivi, in Corea e in Vietnam. Al cinema nel 1947 è la chiassosa Annabella Bonheur, l’unica donna che resiste al fascino omicida di Monsieur Verdoux nel film diretto e interpretato da Charlie Chaplin, a Broadway nel 1967 è una convincente Dolly e il suo viso diventa familiare in televisione: tra le tante apparizioni, è la mamma di Mel, nella sitcom Alice.
Il film, nonostante i talenti messi in campo dalla Universal, non è il successo sperato. Le critiche sono per lo più impietose, viene bollato come un film di consumo, destinato a essere presto dimenticato, adatto a un pubblico di non grandi pretese. Non che i critici abbiano sempre ragione. Comunque il film esce nel luglio 1940 e forse in quei giorni gli americani sono più impegnati a osservare quello che succede al di là dell’oceano: le bandiere del Reich sventolano su Parigi e gli aerei della Luftwaffe bombardano Londra. In molti capiscono che, ancora una volta, la guerra sta per arrivare anche nelle loro famiglie.
In Italia il film non arriva, è ormai pienamente in vigore la legge Alfieri che ha imposto l’autarchia anche nell’industria cinematografica. Arriverà nei nostri cinema solo finita la guerra con il titolo Hellzapoppin in Grecia. Nel 1941 è uscito in America, prodotto sempre dalla Universal, il film Hellzapoppin’. I distributori italiani che si ritrovano le due pellicole nelle stesse settimane li mettono in qualche modo in relazione, anche perché in entrambi recita Martha Raye.
Il 18 luglio 1940 è il giorno tanto atteso dal sindaco Marvin e dagli abitanti di Syracuse. Il film viene proiettato contemporaneamente nelle tre più grandi sale della città: il Keith’s e il Paramount Theatre, rispettivamente al 410 e al 426 di South Salina Street, e all’Eckel, al 214 di East Fayette Street. In tutte le sale le maschere indossano toghe. E anche molte delle commesse dei negozi del centro per quel giorno devono vestirsi “alla greca”. Molti degli spettatori si sono presentati allo spettacolo in sandali e toghe. A dire la verità in Grecia indossavano i pepli, ma non è il caso di andare troppo per il sottile. Tutta la città è imbandierata e prima delle proiezioni una grande parata, guidata dal sindaco Marvin, percorre le vie della città, dalla stazione di Erie Boulevard fino al Billings Park. Il Comune ha deciso di ribattezzare per quel giorno “Sigma Chi Square” la centralissima Clinton Square e di dedicare quindici fermate delle rete cittadina degli autobus per le bighe.
A dire la verità, a parte i protagonisti del film, non sono molte le celebrità scese quel giorno a Syracuse, almeno non tante quante speravano i cacciatori d’autografi. Ci sono Lou Costello e Bud Abbott, sotto contratto con l’Universal, e alcune starlette che vogliono farsi vedere, nelle loro succinte toghe: Peggy Moran, il cui ruolo più importante è stato quello della venditrice di sigarette in Ninotchka, Constance Moore, conosciuta per il ruolo di Wilma Deering, la “fidanzata” di Buck Rogers, l’ungherese Franciska Gaal, che ha recitato con Crosby in Paris Honeymoon. Comunque gli uomini di Rapp hanno avuto il loro bel daffare per tenere calma la folla: in South Salina Street una vetrina è stata rotta e molte signore si sono trovate con le toghe strappate.
Il sindaco Marvin, quando Joe Penner è entrato in teatro non ha saputo resistere e ha urlato: “Ehi Joe, wanna buy a duck?”.
Il 18 luglio 1940 è il giorno tanto atteso dal sindaco Marvin e dagli abitanti di Syracuse. Il film viene proiettato contemporaneamente nelle tre più grandi sale della città: il Keith’s e il Paramount Theatre, rispettivamente al 410 e al 426 di South Salina Street, e all’Eckel, al 214 di East Fayette Street. In tutte le sale le maschere indossano toghe. E anche molte delle commesse dei negozi del centro per quel giorno devono vestirsi “alla greca”. Molti degli spettatori si sono presentati allo spettacolo in sandali e toghe. A dire la verità in Grecia indossavano i pepli, ma non è il caso di andare troppo per il sottile. Tutta la città è imbandierata e prima delle proiezioni una grande parata, guidata dal sindaco Marvin, percorre le vie della città, dalla stazione di Erie Boulevard fino al Billings Park. Il Comune ha deciso di ribattezzare per quel giorno “Sigma Chi Square” la centralissima Clinton Square e di dedicare quindici fermate delle rete cittadina degli autobus per le bighe.
A dire la verità, a parte i protagonisti del film, non sono molte le celebrità scese quel giorno a Syracuse, almeno non tante quante speravano i cacciatori d’autografi. Ci sono Lou Costello e Bud Abbott, sotto contratto con l’Universal, e alcune starlette che vogliono farsi vedere, nelle loro succinte toghe: Peggy Moran, il cui ruolo più importante è stato quello della venditrice di sigarette in Ninotchka, Constance Moore, conosciuta per il ruolo di Wilma Deering, la “fidanzata” di Buck Rogers, l’ungherese Franciska Gaal, che ha recitato con Crosby in Paris Honeymoon. Comunque gli uomini di Rapp hanno avuto il loro bel daffare per tenere calma la folla: in South Salina Street una vetrina è stata rotta e molte signore si sono trovate con le toghe strappate.
Il sindaco Marvin, quando Joe Penner è entrato in teatro non ha saputo resistere e ha urlato: “Ehi Joe, wanna buy a duck?”.
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