giovedì 11 gennaio 2024

Storie (XXXIII). "La befana rossa"

27 dicembre 1929, venerdì


Quella sera cade un gelido nevischio. Il poliziotto, mentre fa il suo solito giro di ronda, nota la luce nella bottega della sarta sulla Spiegelgasse. È l’unica in cui c’è ancora qualcuno a lavorare. Pensa che non ci sia nulla di strano: è naturale che ci sia molto da fare, vista l’ansia con cui tutte si stanno preparando per le feste del Capodanno. Anche sua moglie gli sta dando il tormento… Ma l’uomo sa anche che nel retro di quella bottega si riunisce un gruppetto di donne iscritte al partito comunista. E lui deve tenerle d’occhio, con discrezione. Il suo vecchio capo, prima di andare in pensione, gli ha detto di controllare in particolare quella maestra che viene dall’Italia, una che spesso si mette nei guai.

Effettivamente Franziska e Greta non smettono di cucire mentre Adelaide comincia a raccontare quella sua strana idea. Quello è uno dei periodi dell’anno in cui lavorano di più: tutte le loro clienti hanno bisogno di qualcosa e tutte hanno fretta. Oltre a loro ci sono due ragazze iscritte al partito, la signora Kammerer e Lotte. Lei è la più eccitata di tutte: è la prima volta che partecipa a una di quelle riunioni “segrete”. Titus ha bofonchiato un assenso forzato, ma in fondo è contento che sua figlia abbia quelle idee e abbia il coraggio di sostenerle.
«Non ho capito cos’è questa “befana”?». È proprio la più giovane del gruppo a chiedere una spiegazione di quel buffo nome italiano che pare sia l’oggetto di quella riunione convocata così in fretta.
«Compagne, è una storia molto antica. Prima dei Romani i popoli che abitavano in quella che non si chiamava ancora Italia celebravano le notti intorno al solstizio d’inverno. Credevano che fossero misteriose, che i morti potessero tornare nel mondo e che delle donne magiche volassero sui campi per renderli fertili. Era un tempo in cui le donne comandavano sugli uomini e in cui credevano che dio fosse una donna». Sono tutte molto attente. «Va bene, maestra, ma cerca di venire al punto» la incalza Franziska, che sa che quando Adelaide comincia a raccontare quelle storie non la finisce più.
«Va bene, cerco di semplificare. Poi sono arrivati i Romani e dopo i cristiani. E i maschi hanno vinto. Però qualcosa di quel mondo così antico ha resistito. Ecco la befana è questa forma di resistenza delle donne. Perché in una notte d’inverno questa fata benigna scende ancora e porta regali ai bambini. La chiesa ha voluto che coincidesse con l’epifania e i maschi hanno dipinto la befana come una strega, una brutta vecchia con i vestiti laceri».
«Ma questo cosa c’entra con noi» stavolta è Helga a incalzare la giovane amica.
«Dovete sapere che è una festa molto popolare in Italia, almeno quanto il natale. Anch’io da bambina aspettavo la befana, appendevo una calza al camino e speravo di trovarci un piccolo regalo. I miei genitori dicevano che se ero stata cattiva ci avrei trovato del carbone, mentre se ero stata buona un dolcetto. Che ansia quelle notti ad ascoltare i rumori che venivano dalla cucina. Proprio perché è così popolare i fascisti se sono impossessati. Il 6 gennaio è diventato festa nazionale e in tutt’Italia è un fiorire di quelle che loro chiamano “befane fasciste”: sfruttano questa tradizione per indottrinare i bambini, per far credere che da quando c’è Mussolini si sta bene».
«E noi cosa possiamo fare?» chiede Lotte.
«Qualche giorno fa una compagna di Lugano mi ha detto che loro, proprio per opporsi al regime, hanno cominciato a organizzare la “befana rossa”. E hanno ragione i compagni ticinesi. La befana è rivoluzionaria, è nostra e non dei fascisti. Siamo noi che lottiamo per costruire una società diversa e giusta. Allora che ne dite se lo facciamo anche noi a Zurigo?».
Le amiche sanno che se Adelaide si è messa in testa di fare una cosa è impossibile fermarla. E poi tutte pensano che sarà bello organizzare quella piccola festa per le bambine e i bambini della casa del popolo.
«Il 6 al pomeriggio faremo la festa. Cominciamo a dirlo alle compagne, che portino i figli e i nipoti. Io faccio la befana. Franziska, tu e Greta riuscite a prepararmi una gonna piena di toppe colorate? Io da qualche parte credo di avere un vecchio scialle, bruttino e che ha un buco. Poi basterà un grosso fazzoletto e una scopa e il travestimento è fatto. Poi servono i dolci».
«Quello non è certo un problema. Domani chiamo la moglie del salsicciaio e le altre amiche della Spiegelgasse. Avrete tutti i dolci che volete», Helga interviene spiccia come al solito.
«Mio marito suona la fisarmonica - dice una delle compagne più giovani - sarà felice di venire».
Tutte hanno un compito. La riunione sembra finita. Ma Adelaide esclama: «E se la facessimo volare?».

martedì 10 ottobre 2023

Verba volant (847): ruga...

Ruga
, sost. f.

Joseph Sweeney muore a New York il 25 novembre 1963. Ha già settantanove anni, ma continua a lavorare fino alla fine: proprio quell’anno recita in tre episodi della serie televisiva Car 54, Where Are You?, interpretando ogni volta un personaggio diverso, e in un episodio di Dr. Kildare. D’altra parte quando i registi hanno bisogno di un vecchio dall’aria sveglia pensano immediatamente a lui. Il suo volto solcato dalle rughe con i radi capelli bianchi è ormai diventato familiare per il pubblico televisivo. La fortuna di Joseph è stata la televisione, ma come tutti quelli della sua generazione - è nato a Philadelphia il 26 luglio 1884 - comincia la sua carriera a teatro.
Da ragazzo condivide il sogno di recitare con un suo amico, William, che ha solo quattro anni più di lui e vive al piano di sotto. Anche se i genitori di Joseph si lamentano di quel vicino perché si esercita di continuo a fare il giocoliere: non reggono più il rumore delle palline che cadono a terra, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Quel ragazzo nel 1894 lascia Philadelphia, lavora per un breve periodo in un teatro all’aperto a Plymouth Park e finalmente quattro anni dopo debutta nei locali di New York, dove si esibisce come giocoliere e comico con il nome di W.C. Fields. È una delle star delle Ziegfeld Follies e in pochi anni il suo naso rosso e le sue irriverenti battute diventeranno famose in tutta l’America. Nel 1935 ottiene la parte di Wilkins Micawber in una fortunata edizione cinematografica di David Copperfiled. Quel ragazzo che voleva diventare un giocoliere ce l’ha fatta, ma nel 1946 muore per una grave emorragia gastrica. E per ironia della sorte proprio il giorno di Natale, una festa spesso oggetto delle sue scandalose battute.
Joseph lascia Philly nel 1910 e arriva a New York. Dopo molte audizioni e qualche piccola parte negli spettacoli di vaudeville, finalmente debutta a Broadway e riesce a fare una bella carriera. Non è mai il protagonista, ma dal 1919 al 1939 recita in ben diciannove produzioni. Per lo più è il “cattivo”, un ruolo che, dopo qualche dubbio iniziale, comincia davvero a piacergli: “Mi sono accorto - dice in un’intervista del 1928 - che quando faccio il cattivo il pubblico mi ascolta quando parlo”.
Alla fine degli anni Trenta, quando le possibilità per lui a teatro cominciano a diminuire, tenta, come tanti suoi colleghi, la strada di Hollywood. È un maggiordomo in Scandalo a Philadelphia, il grande successo del 1940 con Katharine Hepburn, Cary Grant e James Stewart, anche se non è accreditato nei titoli. Sono anni difficili, non ci sono parti per lui, sembra che il sogno di Joseph sia destinato a frantumarsi, ma per fortuna alla fine degli Quaranta arriva la televisione. Joseph ha già sessantacinque anni e i capelli bianchi: comincia a interpretare la parte del nonno, del vecchio testimone, dell’anziano droghiere e così via. Ha salvato la pensione, non sarà costretto a tornare con la coda tra le gambe a Philadelphia, anche se la sua carriera sembra ormai arrivata al capolinea, destinata a spegnersi lentamente, tra una puntata e l’altra di qualche telefilm.
Poi arrivano gli anni Cinquanta e in maniera assolutamente imprevedibile Joseph si trova a recitare in due lavori che segnano una delle migliori stagioni dello spettacolo degli Stati Uniti, in un momento in cui Broadway e Hollywood cercano di resistere agli attacchi della “caccia alle streghe”.

Il 22 gennaio 1953 debutta al Martin Beck Theatre il nuovo dramma scritto da Arthur Miller. C’è una grande attesa tra il pubblico e gli addetti ai lavori, visto il successo di Erano tutti miei figli del 1957 e soprattutto di Morte di un commesso viaggiatore del 1949. Sono gli anni più duri del maccartismo e nell’aprile del 1952 Miller si trasferisce alcune settimane a Salem, nel Massachussetts, per studiare i documenti conservati nell’archivio della città relativi ai processi svolti tra il 1692 e il 1693 che avevano portato all’impiccagione di diciannove persone accusate di stregoneria e all’uccisione per schiacciamento di un ventesimo imputato che si era rifiutato di testimoniare.
Agli spettatori del Martin Beck Theatre è ben chiaro che Miller quando descrive il fanatismo che porta i “bravi” cittadini di Salem a uccidere tante persone con false accuse di stregoneria racconta l’America dei suoi tempi, in cui alcuni, per aumentare il proprio potere, sfruttando una furia irrazionale contro il pericolo comunista, alimentano paura e fanatismo. Si cercano dei colpevoli e, quando non si trovano, si inventano, piegando i meccanismi della giustizia ai propri interessi. Sottoposti a tortura, praticamente tutti gli imputati dei processi di Salem confessano di praticare la stregoneria, pur di fermare quei terribili supplizi. Come le persone condotte davanti alla Commissione per le attività antiamericane finiscono per confessare e denunciare altre persone sotto la pressione di minacce e durissimi condizionamenti psicologici.
Durante i processi di Salem il contadino Giles Corey è l’unico che si rifiuta di testimoniare al processo. Per tre giorni viene tenuto nudo in una fossa, sopra di lui vengono sistemati un’asse di legno e, uno dopo l’altro, massi sempre più pesanti, sperando che ceda e confessi. Ma Giles resiste, quando il giudice gli chiede se vuole confessare, lui si limita a sibilare: “Peso”. Finché quei sassi non gli provocano lo scoppio del torace.
I critici dei quotidiani più importanti di New York e molti degli spettatori non apprezzano quella decisa presa di posizione politica di Miller, che mette l’America sul banco degli imputati. Ma The Crucible - in italiano Il crogiolo, Luchino Visconti lo traduce e lo mette in scena in Italia appena due anni dopo - pur rimanendo in cartellone solo per centonovantasette repliche, diventa una bandiera per l’America che resiste. L’anno successivo ottiene il Tony come miglior opera in prosa.
A interpretare il vecchio Giles Corey viene richiamato proprio Joseph Sweeney. Si tratta di una piccola parte, ma è quella che consacra la sua carriera a Broadway.

Nel 1954 per la settima stagione della fortunata serie antologica Westinghouse Studio One della CBS lo sceneggiatore Reginald Rose decide di scrivere un dramma ambientato nella stanza di un tribunale di New York, la seduta in cui dodici giurati vengono chiamati a decidere il verdetto in un caso di omicidio. Sembra un caso facile: le prove e le testimonianze oculari sono tutte lì a confermare che quel ragazzo abbia ucciso suo padre. Probabilmente basteranno solo pochi minuti alla giuria per deliberare. Si fa un primo giro di votazioni: undici giurati votano per la colpevolezza, solo il giurato n. 8 è contrario e chiede di esaminare ancora le prove. Comincia una discussione estenuante, durante la quale emergono le differenze tra quei dodici giurati, apparentemente un blocco monolitico di maschi bianchi. E vengono fuori anche pregiudizi e drammi: alla fine quelle prove che sembravano così solide si rivelano inconsistenti. Incriminare il figlio è stata la soluzione più semplice, legata a idee preconcette da parte degli inquirenti. Nell’ultima votazione il verdetto è finalmente unanime: dodici “non colpevole”.
Anche Twelve Angry Men - come The Crucible - è un testo che prende posizione, che invita gli spettatori a riflettere sui pericoli che corre la società quando la paura e il pregiudizio hanno la meglio sul buon senso. E sui pericoli di un sistema giudiziario apparentemente equo, in cui se sei povero, immigrato e fai parte di una minoranza rischi la vita, perché non ti giudicherà una giuria di tuoi “pari”.
Lo spettacolo va in scena negli studi della CBS di New York il 20 settembre 1954 e trasmesso in diretta sulla costa orientale, mentre viene registrato in cinescopio per essere ritrasmesso sulla costa occidentale. La regia è affidata a Franklin J. Schaffner, che nel 1971 vincerà l’Oscar per Patton e avrà un grande successo con Papillon e I ragazzi venuti dal Brasile. Nel cast il nome più noto è quello di Robert Cummings nel ruolo del giurato n. 8; Cummings è inizialmente noto per i suoi ruoli nelle commedie brillanti, anche se Alfred Hitchcock lo fa diventare un attore drammatico.
La trasmissione è un successo: vincono l’Emmy Rose, Schaffner e Cummings.
Il giurato n. 9 è il più vecchio tra i componenti della giuria, giudicato con sufficienza dai più giovani giurati. Ma è lui che, inaspettatamente vota “non colpevole” durante la seconda votazione, permettendo di rimettere tutto in discussione. Serve un attore di esperienza e Joseph Sweeney ha la faccia giusta per il ruolo.
Tre anni dopo Henry Fonda decide di portare quel testo sul grande schermo. Non è solo uno degli attori più popolari di Hollywood, è anche un convinto sostenitore dei diritti civili e quel testo gli sembra perfetto. Coinvolge da subito Reginald Rose e i due decidono di produrre il film. Chiamano a dirigere il film l’esordiente Sidney Lumet, un giovane regista che fino a quel momento ha lavorato solo in televisione, tra l’altro in alcuni drammi della serie Studio One.
Fonda riesce a convincere altri grandi nomi a partecipare a quell’impresa. Il giurato n. 3 è Lee J. Cobb, che è stato il protagonista a teatro di Morte di un commesso viaggiatore. Cobb ha conosciuto bene la “caccia alle streghe”: accusato di essere un membro del Partito comunista, resiste due anni senza fare nomi davanti alla Commissione, poi, come altri, non riuscendo più a lavorare, cede e viene costretto a denunciare altri suoi compagni. E.G. Marshall è il giurato n. 4, nel 1953 è il protagonista del dramma di Miller, nel ruolo del reverendo Hale. E poi ci sono Jack Warden, Martin Balsam, Ed Begley.
Del cast della produzione televisiva vengono chiamati George Voskovec, il giurato n. 11, il cortese orologiaio che viene dall’Europa e che mostra una forse eccessiva ammirazione per il sistema giudiziario americano, e naturalmente Joseph. E la sua interpretazione non sfigura tra quei giganti del cinema. Joseph è semplicemente perfetto e quel ruolo è destinato a consegnarlo nella storia del cinema. Meritatamente.