sabato 27 febbraio 2016

Verba volant (251): difesa...

Difesa, sost. f.

Con le parole possiamo giocare: lo faccio anch'io, e questo vocabolario è proprio il mio modo di giocare con le parole. Ci sono alcuni che sono davvero bravi a confonderle, a scambiarle, a farle sembrare quello che non sono, ma alla fine, quando le usiamo male, le parole ci chiedono conto di questi inganni.
E' notizia di questi giorni - non a caso mentre la nostra attenzione era giustamente rivolta a un tema importante come quello dei diritti civili - che gli Stati Uniti hanno deciso di utilizzare alcuni droni armati di missili nelle loro operazioni militari in Libia, facendoli partire dalla base aerea di Sigonella, in Sicilia. Abbiamo anche saputo - in maniera un po' fumosa, a dire il vero - che queste operazioni saranno autorizzate dall'Italia, "caso per caso" a detta del presidente del consiglio del nostro paese, ed esclusivamente a scopo di difesa.
Intanto sarebbe utile capire cosa si intende dicendo che saranno autorizzate dall'Italia. Chi è l'Italia? E' il governo? E' il parlamento? E' qualcun altro? Visto che siamo italiani - anche se a nostra insaputa - credo avremmo il diritto di saperlo. Intanto che ci rispondono, proviamo a svelare il trucco, che sta tutto nella parola difesa, che il governo italiano usa con disinvolta ipocrisia.
Fino al 1947 in Italia c'era un ministero della guerra, affiancato da quelli della marina e dell'aeronautica, come succedeva - più o meno con gli stessi nomi - in tutti gli altri paesi europei. Alla fine della seconda guerra mondiale praticamente in tutti i paesi del mondo è avvenuta questa trasformazione istituzionale: è stato abolito il ministero della guerra, sostituito da un ministero della difesa. Ovviamente questo non ha significato che dalla metà del secolo scorso non ci siano state più guerre, tutt'altro, ce ne sono state molte, terribili, in tutti i continenti, anche a poche centinaia di chilometri dai nostri confini. In Italia è avvenuto qualcosa di più rispetto a quello che è successo in altri paesi. La Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948 - e tutt'ora vigente - stabilisce, nei principi fondamentali, ossia nella sua parte più importante, che il nostro paese "ripudia la guerra". Anche in questo caso non basta un principio scritto in un codice, per quanto solenne, per fermare un conflitto e in questi anni l'Italia ha, in qualche modo, partecipato a delle guerre, sempre facendo finta di non farlo e inventando ogni volta un qualche escamotage lessicale: ad esempio "difesa integrata" fu il nome che diedero alla guerra in Kosovo.
In questi giorni ne stiamo cominciando un'altra, appunto autorizzando le missioni dei droni americani in Libia e purtroppo di questo si parla molto poco, troppo poco. Ovviamente tutti negano che all'utilizzo dei droni seguirà quello delle navi e poi delle truppe di terra, ma visto che hanno una certa tendenza a rimangiarsi la parola data, non farei troppo affidamento su queste rassicurazioni. Nessuno ammette neppure che si tratti di una guerra, preferendo parlare di difesa. Immagino che anche quelli che sono più abili ad arrampicarsi sugli specchi facciano un po' fatica a spiegarci come questi droni possano essere usati per la nostra difesa. Qualcuno dal suolo libico ci sta sparando? Stanno partendo dei bombardieri dagli aeroporti di quel paese? Nulla di tutto questo. Forse i droni saranno utilizzati per attaccare qualche bersaglio mirato, con la speranza di uccidere un potenziale terrorista. Ma più probabilmente le vittime saranno quei poveri cristi che hanno deciso di intraprendere un viaggio pericoloso e drammatico verso le nostre coste.
Questa è la vera minaccia che gli Stati Uniti, l'Europa - e quindi l'Italia - vede in Libia: l'arrivo di un numero sempre crescente di disperati che, esasperati dalla povertà, tentano un viaggio dalle mille incognite, ma che almeno offre a loro, e alle loro famiglie, un'opportunità in più rispetto a quella di rimanere nelle loro terre. Al di là di ogni altra considerazione umanitaria, cosa pensate che succeda se continueremo i bombardamenti? Pensate che quei popoli staranno là, ad aspettare le nostre bombe? La guerra provocherà altra povertà, altri dolori, altra disperazione, e spingerà altre persone a fuggire. E noi non saremo in grado di accogliere tutti, anche volendo - fatto salvo che neppure lo vogliamo. E il bello è che sono sempre gli stessi che da un lato vogliono i bombardamenti e dall'altro pretendono di chiudere le frontiere davanti a chi scappa da quelle bombe. Così non ci stiamo difendendo, stiamo solo facendo crescere l'odio, anche contro di noi, contro la supposta "civiltà occidentale", che non riesce a immaginare altro che la guerra per risolvere i problemi del mondo.
Togliamo il velo dell'ipocrisia e usiamo le parole in maniera onesta. Il nostro paese non si sta difendendo, perché nessuno ci ha attaccato, ma stiamo cominciando una guerra, anzi l'abbiamo già cominciata, ma non abbiamo avuto il pudore di ammetterlo. Qual è l'obiettivo di questa guerra? Chi sono i nostri nemici? Cosa ci aspettiamo quando la guerra sarà finita con un'auspicata vittoria? Perché in guerra ci vai per vincere, non per partecipare, come alle olimpiadi. Nessuno vuole rispondere a queste domande. Anche se io penso che le risposte ci siano. Andiamo in guerra perché ne hanno bisogno le industrie che costruiscono tutto quello che è necessario per combattere, andiamo in guerra perché così le grandi aziende si garantiranno delle materie prime a basso prezzo, andiamo in guerra perché le banche hanno bisogno di lucrare sui crediti di guerra, andiamo in guerra perché c'è la crisi, e da sempre le guerre sono il sistema più rapido per uscirne, andiamo in guerra per imporre a quei paesi dei governi che obbediscano agli interessi delle multinazionali, delle industrie, delle banche. Sono buoni motivi per bombardare la Libia? Sì, per chi guadagnerà da questa guerra. Per noi, che la guerra la subiamo, no. Per chi soffrirà a causa di questa guerra, no.
Per questo è venuto il momento di difenderci, dai fanatici, dagli integralisti, dai terroristi, che stanno a Washington, a Londra, a Parigi, a Roma, che siedono nei governi, nei consigli di amministrazione, nelle banche, dobbiamo difenderci da tutto costoro che ci stanno attaccando. Per questo dobbiamo dire che questa guerra, in qualunque modo la vogliano chiamare, è un crimine.
E allora, come diceva Andrea Costa, per la vostra guerra né un uomo, né un soldo.

Andrea Costa interviene alla Camera il 3 febbraio 1887, dopo la sconfitta di Dogali

Costa
Signori! Poche e franche parole, non perché manchino gli argomenti, ma perché tengo anch'io conto delle condizioni della Camera, e capisco che in questi momenti ognuno di noi deve sforzarsi più che possa di esser breve.
Fin da quando nel maggio del 1885 si discusse la politica coloniale del governo (dico del governo, perché fu incominciata e continuata all'insaputa del Parlamento, ed il Parlamento non fu chiamato se non a mettere la sabbia su ciò che si era fatto), fin d'allora, io ed alcuni amici, riconoscendo che l'Italia, l'Italia vera, l'Italia che lavora e che produce, lungi dal desiderare una politica coloniale, voleva invece rivolte tutte le sue attività al suo miglioramento agricolo ed industriale, al suo progresso morale e politico; fin da allora, dico, noi presentammo un ordine del giorno in cui, opponendoci a tutte le velleità di spedizioni africane, che ci hanno dato i bei frutti che ora vediamo, proponevamo il richiamo delle truppe nostre dall'Africa.
Ora, di fronte all'avvenimento doloroso di cui diede un pallido cenno due giorni fa l'onorevole presidente del consiglio, e per cui il cuor nostro sanguina come il vostro, di fronte a questo doloroso avvenimento, il nostro grido è lo stesso di due anni fa. Noi vi diciamo oggi, come allora: cessate da queste imprese pazze o criminose; richiamate le nostre truppe dall'Africa. E non ci lasciamo impressionare dalle frasi altisonanti di onore della bandiera, di prestigio militare, o che so io: tutta questa roba qui (oh! oh!) è di quella che si adopera sempre per far passare la merce molte volte avariata. (rumori a destra; sì, sì, all'estrema sinistra)
Io non ho bisogno infatti di insegnarvi la storia; voi la sapete quanto o più di me, e sapete quante volte questi argomenti siano stati adoperati per fini più o meno ignobili.
La patria? Ma dove la vediamo noi nelle imprese africane? E la bandiera? La bandiera della patria la vedo sui campi di battaglia per la libertà e per la indipendenza, la vedo nelle imprese civili che fanno risalire sempre più la nazione verso le altezze dell'ideale; non la vedo, non la posso vedere nell'impresa africana.
E l'onore della bandiera?
Non è da questa parte che si deve render conto dell'onore della bandiera e del prestigio militare, ma dalla parte di coloro che siedono al governo o che il governo sostennero e sostengono; e davvero mal si invoca l'onore della bandiera quando, incominciando da Lissa e Custoza, questo onore è stato trascinato nel fango sino a Saati. (vive proteste a sinistra, al centro e a destra)

Presidente
Onorevole Costa, io non posso tollerare una simile affermazione; se la nostra bandiera è stata qualche volta sfortunata è stata però sempre onorata. (vivi applausi da tutte le parti della Camera) Ascolti la voce del patriottismo, onorevole Costa! (bene!)

Costa
È appunto per patriottismo ben inteso che io parlo, giacché non credo che sia patriottico il perseverare nell'impresa d'Africa. (vive proteste a destra)

Presidente
Onorevole Costa, ella può esprimere la sua opinione, ma non offendere i sentimenti degli altri.

Costa
Credo che quei signori non abbiano il diritto di pretendere che io abbia sentimenti diversi da quelli che ho. (rumori a destra).
Noi siamo altrettanto patrioti quanto loro...

Voci a destra. No! No!
Voci a sinistra. Sì! Sì!

Costa
...e patrioti nel vero senso della parola. Giacché gli è appunto perché amiamo il nostro paese (denegazioni a destra) che non lo vogliamo vedere impegnato in imprese pazze o criminose (vive proteste a destra e al centro) dove, a quel che dite voi stessi, si può perdere anche l'onore...

Presidente
Ella, onorevole Costa, può dire imprese avventurose non mai criminose. Del resto il patriottismo non è il monopolio di nessuno, ed io non dubito che esso sia sentimento comune a tutta la Camera (approvazioni)

Costa
Onorevole presidente, se quei signori avessero verso di me la stessa tolleranza che io ho verso di loro, creda bene che non si verificherebbe ciò ch'ella deplora... (rumori)

Presidente
Continui, onorevole Costa, continui il suo discorso.

Costa
Risponderò ad un'altra obiezione che mi si fa, e che è la più grave, inquantoché non viene solamente da quei banchi, ma viene altresì dai banchi dell'opposizione e pur troppo, mi duole il notarlo, anche da alcuni miei amici dell'estrema sinistra.
Si dice: infine in Africa ci siamo e bisogna restarci. Noi non possiamo, dopo una sconfitta, andarcene via con le pive nel sacco! Ora, signori miei, io capirei questo ragionamento, quando uno qualunque di voi potesse venirmi a dire che quando avremo accordato questi cinque milioni e mandato nuovi soldati in Africa, saremo sicuri di vendicare l'onore d'Italia e di ritornare gloriosi e trionfanti.
Ma io vi domando, o signori che sedete al banco dei ministri, a voi onorevole Genala, che sbagliate di un miliardo (commenti), a voi onorevole Di Robilant, che confondete quattro predoni con un esercito agguerrito, potete darci voi questa sicurezza che, quando avremo votato i cinque milioni, saprete rivendicare l'onore d'Italia? (bene! all'estrema sinistra) No, o signori, voi non mi potete dare questa sicurezza: ed io alla mia volta, non vi darò un centesimo! (rumori e risa ironiche)
Sì, lo capisco, siamo pochi noi quassù; il nostro ordine del giorno è firmato da quattro soli, lo capisco; ma siate certi, signori miei, che molto probabilmente, per non dirvi sicuramente, il nostro ordine del giorno avrà maggiore eco nel paese che le vostre pazzie africane, e tutte le vostre frasi di patriottismo. (oh! oh!; vivi rumori a destra)

Presidente
Onorevole Costa, ella non deve chiamare frasi le manifestazioni di un sentimento che è nell'animo di tutti i suoi colleghi. (bene!)

Costa
Ho finito. Il nostro ordine del giorno è tanto chiaro, che non credo abbia bisogno di ulteriore svolgimento.
Noi siamo convinti che esso corrisponda ai sentimenti della grande maggioranza del popolo italiano che lavora e produce, e che vi dà, alla fine, e gli uomini e il danaro...

Voce al centro. Lo rappresentiamo tutti!

Costa
E, conchiudendo, mi riferirò ad una frase pronunciata ieri l'altro dall'onorevole Baccarini, il quale in questo ordine d'idee è molto dissenziente da me. Egli disse che l'impresa africana è una impresa non nobile; or bene, noi, francamente, per una impresa non nobile, non ci sentiamo di dare né un uomo, né un soldo.
Richiamate le milizie dall'Africa (rumori) e vi apriremo tutti i crediti che chiederete, ma per continuare nelle pazzie africane, noi non vi daremo, ripeto, né un uomo, né un soldo.

giovedì 25 febbraio 2016

Verba volant (250): fedeltà...

Fedeltà, sost. f.

Non so se esistano delle statistiche precise, ma credo che l'art. 143 sia uno dei più violati dell'intero Codice civile, anche se moltissimi di noi hanno giurato e spergiurato, davanti a testimoni e all'autorità pubblica - qualcuno perfino a dio - che lo avremmo rispettato. Immagino che molti di voi che mi state leggendo lo abbiate fatto, ma - anche se siete tra i pochi che lo hanno seguito alla lettera - vi sfido a citare cosa impone quell'articolo. Eppure è un tema di attualità, perché è l'articolo che impone ai coniugi l'obbligo, tra le altre cose, alla fedeltà. Come ormai è noto, in Italia tra qualche settimana sarà in vigore questo inusuale regime binario, per cui alle coppie eterosessuali sarà richiesta la fedeltà, mentre quelle omosessuali potranno tranquillamente tradirsi.
Al di là dell'ipocrita propaganda che renzioti, che in queste ore esultano per il brillante risultato ottenuto dal loro conducator, molti - anche molti amici omosessuali - pensano che in fondo questo non sia un gran problema, visto che comunque questa legge garantirà a loro alcuni altri importanti diritti, fino a ora ingiustamente ignorati e calpestati, diritti che incidono più direttamente sulla loro vita. E dicono che forse non è il caso di battersi per ottenere qualcosa - l'obbligo alla fedeltà appunto - così ampiamente disatteso dalle coppie eterosessuali. Forse avete ragione voi con il vostro concreto realismo, ma credo che quella mancanza sia grave e indichi che l'impianto di questa nuova legge sia radicalmente razzista e omofobo. Ovviamente nessuno di quelli che si è battuto, vittoriosamente, per togliere l'obbligo alla fedeltà ammetterà mai di essere razzista o omofobo, anzi tutti si scandalizzeranno di essere chiamati così, eppure quella norma crea e sancisce una differenza tra le persone, una differenza basata unicamente sull'identità sessuale. E questo è razzismo, non c'è altro modo per definirlo.
In Italia, fino al 1968, era in vigore un principio analogo, che solo in quell'anno fu dichiarato incostituzionale: il codice penale prevedeva infatti che fosse reato solo l'adulterio della moglie, mentre non c'era una pena analoga per il marito traditore. Non era forse una norma razzista? Lo era, perché si basava sull'idea della superiorità dell'uomo sulla donna. Per fortuna sono state condotte molte battaglie e infatti ora nessuno avrebbe neppure il coraggio di riproporre una norma del genere, neppure i più retrivi conservatori, neppure i cardinali della chiesa cattolica, ossia tutti coloro che ancora pensano che l'uomo sia un genere superiore. La norma che sta per approvare il parlamento ha le stesse caratteristiche, solo che si basa sull'idea, omofoba appunto, che le persone che amano qualcuno del loro stesso sesso siano inferiori rispetto agli altri. Il problema non è la presenza della parola fedeltà nella legge, ma l'idea che ci sta dietro e che nasconde - peraltro in maniera assolutamente ipocrita - un pregiudizio. Sembrerà strano a renzi, ad Alfano, a Bagnasco, ma gli omosessuali sono persone come noi, intelligenti come noi, stronzi come noi, fedeli come noi.
Questa norma, pensata e scritta male, non cambierà la vita di quelle coppie, che continueranno ad amarsi come prima, non cambierà la vita di quelle persone che continueranno a essere fedeli, o infedeli a seconda delle circostanze; e in questo caso sarà un loro problema privato, loro e dei loro partner. Però quella norma disegna un solco e chi crede ai diritti, ai diritti universali, questo non deve accettarlo, non può accettarlo. E deve fare di tutto per cambiarlo.
Visto che tra i diritti riconosciuti alle coppie omosessuali c'è la reversibilità della pensione, immagino che tra poco la toglieranno a tutti, così, per non fare differenze e ingiustizie. Credo che non sarà così con l'obbligo alla fedeltà, non lo toglieranno anche alle coppie eterosessuali, come sarebbe giusto. In fondo lo stato deve regolare questioni come il mantenimento, la scelta della residenza, l'obbligo di cura, ma non dovrebbe interferire in un campo così strettamente privato e personale come la fedeltà. Ci sono coppie che escludono questo obbligo fin dall'inizio, eppure resistono, anzi resistono proprio perché praticano l'infedeltà. Non è forse un esempio lodevole, ma francamente non ho proprio voglia di mettermi a giudicare cosa fanno le persone nelle loro case. Ovviamente i conservatori che ci governano non toglieranno l'obbligo alla fedeltà per le coppie eterosessuali, così come non discuteranno mai di una nuova legge che regoli il delicato tema delle adozioni. Queste promesse sono specchietti per le allodole, per paura di perdere voti alle prossime elezioni. La legge che verrà approvata in questi giorni chiuderà per almeno trent'anni il dibattito sui diritti civili in questo paese, visto la vittoria così schiacciante della destra omofoba, da renzi a Giovanardi.
E ciascuno di noi, omo o eterosessuale che sia, continuerà, se vorrà ad essere fedele al proprio partner, così come ha fatto fino ad ora.
C'è però un'altra fedeltà, non meno importante di quella coniugale, ed è la fedeltà alle proprie idee, ai propri principi, alle cose che ci hanno insegnato e trasmesso quelli che hanno combattuto prima di noi. Pare ormai che questo genere di fedeltà sia passata di moda, non sia più moderna. E tanti vendono questa loro fedeltà per un piatto di lenticchie. Eppure la fedeltà a queste idee è qualcosa per cui vale la pena di vivere. Così come amare ed essere fedeli alla persona con cui abbiamo deciso di costruire una famiglia. E in qualche modo - che a volte ci è perfino oscuro - in qualche occasione queste due fedeltà si intrecciano e si tengono; questa battaglia è una di quelle.

sabato 20 febbraio 2016

da "Le interviste impossibili" di Umberto Eco

Eco
Voi eravate una banda di atei che stava riscrivendo la stessa definizione di Dio, dell'anima, della morale.

Diderot
Nessuno di noi negava l'esistenza della divinità o di una morale naturale. No, no, no. Sono convinto che il pericolo stava altrove, anche se non è stato individuato subito come tale. Il pericolo stava nelle illustrazioni e nelle voci tecniche che le accompagnavano, là dove si descriveva come si coglie la canapa, come si spula il grano, come si concia il tabacco, come si fabbricano gli spilli.

Eco
Vuole spiegare meglio?

Diderot
Sì. Eh. L'Enciclopedia ha capovolto la visione del mondo perché ha portato in primo piano l'uomo che lavora, ha mostrato i processi dell'intelligenza non nell'esercizio astratto della logica o della dialettica, ma nell'esercizio concreto della trasformazione manuale del mondo. Capisce che atto rivoluzionario è stato parlare con rispetto e precisione del lavoro dell'agricoltore (ottantanove tavole), dell'ebanista (ottantotto tavole), del setaiolo (centotrentacinque tavole)? Capisce? Io non credo che da allora sia stata dedicata tanta attenzione scientifica al lavoro umano detto subalterno: tremila tavole, sa? E dal nulla. Non esisteva documentazione precedente. Si doveva andare dagli artigiani e accadeva che un tappezziere mi consegnasse dieci tavole zeppe di figure e tre quaderni scritti fitti fitti fitti per spiegarmi la sua tecnica; mentre un altro che doveva spiegarmi una manifattura complicatissima mi portò un piccolo catalogo di parole senza definizione, assicurandomi che della sua arte non si poteva dire nulla di più. E' che gli stessi artigiani non avevano coscienza critica del loro lavoro, oppure difendevano gelosamente i segreti del mestiere, dopo secoli in cui erano stati costretti a celare la loro unica ricchezza, perché... perché altri non se ne impadronisse. Talora occorreva introdursi come spie in un laboratorio fingendosi apprendisti, per capire qualcosa. E poi fare lavorare i disegnatori con precisione e con coerenza. Vent'anni di lavoro, ma in queste tremila tavole (dodici volumi di sole illustrazioni) c'era il segreto esplosivo dell'Enciclopedia, il primo vero poema didascalico del lavoro umano.

Eco
E dice che di questo potenziale esplosivo non se ne sono accorti subito?

Diderot
Certo che se ne sono accorti, eh. Ma qui, qui emerge uno dei lati curiosi di tutta la faccenda.

Eco
Quale?

Diderot
Che non si può dire che il potere fosse contrario a questa impresa.

Eco
Come?

Diderot
Sì. Il potere... E be', scusi eh? Cosa significa questa parola? Come in ogni epoca storica il potere era impersonato da una classe retriva, che tendeva a lasciare le cose come stavano, ma al tempo stesso era rappresentato da elementi dinamici, che intravedevano che il futuro economico della Francia stava nello sviluppo economico. Per questa classe l'Enciclopedia rappresentava un affare da incrementare.

Eco
Lei mi sta dicendo che stava facendo una rivoluzione con l'appoggio del potere.

Diderot
No, io non le sto dicendo che ero un rivoluzionario nel senso in cui lo intendete voi adesso, così come la Rivoluzione francese non è stata una rivoluzione come adesso voi la intendereste. Era una rivoluzione attuata dalla classe borghese. E chi doveva farla la rivoluzione, se non la classe più giovane, più fresca, più incorrotta rispetto alle vecchie strutture dello stato? Chi? L'Enciclopedia era un manuale rivoluzionario della borghesia rivoluzionaria, se vuole metterla in questi termini. Era un libro liberatorio anche per i lavoratori subalterni, ma la loro liberazione poteva iniziare solo attraverso la liberazione delle energie borghesi. Così l'Enciclopedia glorificava il lavoro anonimo dei filatori, ma era sostenuta da una classe di imprenditori nuovi, che avrebbero poi tratto profitto da quel lavoro anonimo, costruendo l'industria moderna e sfruttando quegli stessi filatori. Intravede una strada diversa? Come avrei dovuto agire?

Eco
Molti compromessi?

Diderot
Molti, molti di cui non me ne pento, eh. Ah, no. alcuni vorrei dire, automatici. Quando andai in prigione, per esempio. Sa chi mi tirò fuori?

Eco
Chi?

Diderot
Gli editori, sì, con l'aiuto del governo. L'Enciclopedia era un affare economico troppo grosso. Un guadagno del cinquecento per cento per gli editori, un giro di affari che il commercio con le Indie non aveva mai reso tanto, mille operai impiegati per vent'anni. Pensi un po'. Era un affare di stato, con la concorrenza dei librai olandesi che stavano rovinando il mercato. Eh, e io solo ero in grado di capire qualcosa in quella babele di progetti, di manoscritti, di bozze di stampa. Mi tirarono fuori, anche se avevo offeso i costumi e la religione. Ma chi mi tirò fuori? Eh? Chi mi tirò fuori? Quelli che mi avevano messo dentro. Lo sa anche lei, l'economia francese in quegli anni non poteva permettersi colpi di testa.

Eco
Quindi l'Enciclopedia fu fatta con l'aiuto dei suoi nemici.

Diderot
I quali oggettivamente dovevano essere amici. Sembra strano.

Eco
Erano stupidi? Erano degli illuministi in incognito?

Diderot
Né l'uno né l'altro. Erano uomini e donne del loro tempo, che vivevano le contraddizioni di una società feudale che stava diventando industriale. Io ebbi un compito, e forse questo fu il mio unico merito, eh, mi scusi: far giocare quelle contraddizioni, e giocarvi sopra, e sfruttarle. Eh, eh, eh! Le vie della libertà sono infinite.

Eco
Quindi lei, il terribile eversore, fu un uomo di potere?

Diderot
Un operatore dell'industria culturale. Vissi nel potere, perché starne fuori non serviva che a blandire la mia cattiva coscienza. Se vuole trovarmi dei meriti, sono stato, ecco, sono stato il primo intellettuale a capire la nuova struttura del potere, con cui ogni intellettuale avrebbe dovuto fare i conti.

Eco
Lei si definisce, ma non si giudica. Come si giudicherebbe?

Diderot
No, no, no. Io non definisco me stesso. Io definisco l'Enciclopedia. Eh! Guardi, è qui su questo tavolo. E' qua, di fronte a lei. Smetta di intervistare me e intervisti queste pagine.

venerdì 19 febbraio 2016

Verba volant (249): verità...

Verità, sost. f. 

Giulio era un giovane intellettuale italiano, che ha cominciato a studiare le vicende del Medio oriente - e dell'Egitto in particolare - e che nel corso di questo lavoro si è appassionato a quello che stava facendo, forse troppo, forse commettendo qualche imprudenza, forse fidandosi di qualcuno di cui avrebbe fatto meglio a dubitare. Giulio era giovane, molto giovane, e questi sono errori che si possono commettere proprio quando si è giovani. Abbiamo tempo quando invecchiamo per perdere l'entusiasmo per quello che facciamo e il coraggio di andare fino in fondo per difendere le nostre idee. Giulio in particolare ha cercato di capire come si sta muovendo e organizzando il sindacato egiziano, per ora l'unico elemento di resistenza a quel regime. Probabilmente ha fatto anche un buon lavoro, visto che quello stesso regime ha deciso di rapirlo, di torturarlo e alla fine di ucciderlo.
Non sappiamo - probabilmente non sapremo mai - chi ha ucciso Giulio, o meglio non sapremo i loro nomi, ma sappiamo chi erano: poco importa se poliziotti, agenti dei servizi o delle forze speciali. Erano uomini del regime quelli che lo hanno imprigionato, torturato e ucciso per quello che sapeva, per quello che scriveva, per quello in cui credeva. E sono poco importanti i loro nomi: un regime ha sempre a disposizione molte persone per fare questi lavori sporchi.
Sappiamo però i nomi dei responsabili, ossia di chi ha saputo, di chi ha coperto, di chi ha voluto questo delitto, sappiamo i nomi di chi ha fatto uccidere Giulio. Si tratta di una lista non molto lunga. In cima a questa lista c'è il nome di Abd al-Fattah al-Sisi. Non mi interessa sapere se egli ha ordinato personalmente questa uccisione, probabilmente no, perché Giulio non era così importante da scomodare il capo del regime, ma certamente ora lui sa come sono andate le cose, sa chi ha deciso, chi ha materialmente compiuto l'azione, sa chi ha ucciso Giulio. E tace naturalmente, perché un dittatore fa così, protegge i suoi sgherri quando eliminano un nemico. E poi ci sono le varie cariche di quel regime, il ministro dell'interno, il capo dei servizi, il capo della polizia. Basta fare una ricerca in internet per avere i nomi delle persone che dovrebbero essere processate e condannate per la morte di Giulio.
Sarebbe comodo però fermarsi lì. Lo dico con senso di responsabilità, perché mi rendo conto che è un'affermazione grave, ma anche il governo italiano, a partire dal presidente del consiglio, è tra i responsabili di quel delitto e come tale dovrebbe essere chiamato a giudizio. E' responsabile perché sa, sa quello che sappiamo noi cittadini che proviamo a informarci, ma verosimilmente sa anche qualcosa di più - o almeno dovrebbe saperlo, altrimenti sarebbe ancora più grave. Il governo italiano sa che al-Sisi è un dittatore, sa che in Egitto c'è un regime autoritario in cui sono negati i diritti elementari di difesa e sa che Giulio è stato ucciso da quel regime. E che il suo cadavere è stato fatto trovare proprio nel giorno in cui il ministro espresso e indicato da Confindustria era in quel paese per stringere affari con quel regime. Il governo italiano, a partire da chi lo guida, è responsabile della morte di Giulio perché ha deciso che quel giovane studente non vale i 6 miliardi di dollari che in un anno si muovono tra i due paesi.
Naturalmente il governo italiano ha finto quel po' di sdegno che era lecito e doveroso attendersi di fronte all'emozione per la morte violenta di Giulio, ma poi quell'omicidio è diventato un argomento di cui è meglio non continuare a parlare. Perché l'Egitto è un alleato chiave in quel delicato scacchiere, perché gli Stati Uniti hanno fatto sapere che è meglio non alzare troppo la voce e soprattutto perché al governo del nostro paese quel regime piace, piace molto, perché fa affari con le aziende italiane, perché difende - immagino dietro compenso - i loro interessi, perché combatte i sindacati e gli imprenditori italiani amano fare impresa in paesi in cui i lavoratori non hanno diritti. Tra le persone da indagare per l'omicidio di Giulio bisogna mettere anche Emma Marcegaglia e Claudio Descalzi che sono a capo di Eni, l'azienda italiana che fa più affari in Egitto. Loro sono certamente responsabili, così come i vertici di Enel, Edison, Ansaldo, Banca Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi. L'elenco dei responsabili della morte di Giulio come vedete è molto lungo, perché 6 miliardi di dollari sono molti, ma con un po' di pazienza è possibile ricostruirlo.
Un regime non fa mai molta fatica a trovare i propri sicari, ma non ne fa neppure a trovare chi si adatta a servizi ancora più sordidi. Immediatamente dopo la morte di Giulio hanno cominciato a diffondersi voci maligne su quel giovane, sospetti, maldicenze, notizie false. In Italia conosciamo bene questa tecnica di diffamazione dei morti, l'ha usata spesso la mafia per coprire i propri delitti, e quindi non è strano che quel mondo oscuro che si muove attorno al governo del nostro paese usi questo sistema per tentare di screditare un morto che in qualche modo danneggia l'immagine moderna e progressista del regime che stanno costruendo qui in Italia. Anche in questo caso l'elenco è lungo, ma vorrei cominciare a chiamare alla sbarra Edward Luttwak che ha "assolto" il regime egiziano, dicendo che probabilmente Giulio è stato ucciso da un amante. E a seguire tutti quelli che hanno scritto che Giulio era un agente o peggio quelli che hanno scritto, più o meno velatamente, che Giulio in fondo se l'è andata a cercare. Non a caso la stessa frase che viene usata per giustificare i maschi che fanno violenza alle donne.
Giulio era un giovane intellettuale europeo, uno di quei giovani che. indipendentemente da dove siano nati, pensa di poter studiare e lavorare a Londra, a Parigi, o in qualsiasi altra città del mondo. Sono come i clerici vagantes che viaggiavano in tutta Europa per seguire le lezioni che a ciascuno di loro interessava di più, per incontrare quei docenti con cui si sentivano più in sintonia, per cercare i libri custoditi in quella biblioteca e non in un'altra. Quei giovani studenti rappresentarono una delle grandi risorse della storia europea, il segno di un risveglio culturale e sociale che è stato determinante per creare l'identità europea. Per questo i giovani come Giulio, come Valeria Solesin, come le centinaia di ragazze e ragazzi che studiano, lavorano, fanno ricerca, producono cultura, sono protagonisti della solidarietà, in giro per l'Europa, sono così importanti e dovrebbero essere aiutati, al di là dei paternalistici incoraggiamenti di un ministro che, essendo professore universitario, immagina che il mondo fuori sia tutto così corrotto e clientelare come quello che lei conosce e in cui ha fatto carriera. Purtroppo la generazione di Giulio non sembra raccontarci un mondo che sta per uscire dagli anni bui, ma un mondo destinato a crollare, sotto il peso dell'egoismo, della volgarità, della ricchezza, dell'ingiustizia. E forse è un bene che crolli questo impero, così marcio.
Giulio era un giovane di sinistra, un giovane che amava il pensiero di Antonio Gramsci, un giovane che pensava che il mondo potesse cambiare. Era un giovane che aveva delle idee, delle utopie direbbe qualcuno che quelle stesse utopie le ha buttate alle ortiche. E forse non solo un'occasione accademica l'ha portato fino nel paese in cui è morto, perché là - più che nel nostro mondo che sta morendo - sta nascendo una speranza, perché là ci sono tanti giovani - e anche tante giovani - che lottano, anche se è difficile, anche se è pericoloso, perché hanno una speranza. Il nostro impegno per trovare la verità sulla morte di Giulio, per condannare chi, a vario livello, è responsabile della sua morte, è importante non solo per onorare la sua memoria, ma soprattutto per quei giovani che Giulio ha conosciuto e che, nonostante tutto, continuano a lottare. La verità non servirà più a Giulio, ma servirà a loro; e questo è importante anche per Giulio.

VERITA' PER GIULIO REGENI

mercoledì 17 febbraio 2016

Verba volant (248): complotto...

Complotto, sost. m.

Secondo Paola Taverna c'è un complotto per far vincere il Movimento Cinque stelle alle prossime amministrative di Roma. Tesi a suo modo suggestiva, ma a cui credo poco. Invece sto cominciando a credere che esista un complotto per far perdere ai grillini le politiche, un complotto tutto interno a quel partito.
Probabilmente è un limite legato alla mia età, alla mia formazione politica, alla mia ostinazione a leggere il mondo attraverso alcune categorie - la dicotomia tra destra e sinistra, il conflitto tra le classi sociali, e tutto quello che sapete - ma io davvero non capisco il Movimento Cinque stelle; non ce la faccio.
In Italia c'è un elettorato - credo ampio e potenzialmente in crescita - di sinistra, sostanzialmente orfano, che non sa per chi votare. Non vorrebbe votare pd perché c'è renzi, perché si è trasformato nel partito della nazione, per il jobs act e per tutte le cose che sapete. Ovviamente non voterà a destra. E francamente sembra lontana la prospettiva della creazione di un soggetto politico autonomo e forte a sinistra, come è avvenuto in Grecia e in Spagna. E quindi non sappiamo cosa fare, ci arrabbiamo, firmiamo appelli - qualcuno tiene addirittura un blog - e speriamo che qualcosa accada, ma sostanzialmente rimaniamo inermi. Verso questo elettorato, verso quelli come me, il M5s alza un muro, che ogni giorno sembra sempre più alto; ci vuole allontanare e questo sinceramente non lo capisco. Vi fanno così schifo i nostri voti? Pensate siano così pochi? Che siano così inutili?
Guardiamo quello che è successo in questi giorni. Il pd ha presentato un disegno di legge per garantire qualche diritto alle coppie formate da persone dello stesso sesso: è una legge importante, non di sinistra in senso stretto - in altri paesi provvedimenti del genere, anche più radicali, sono stati sostenuti da partiti di destra - ma comunque sentita come una necessità dalla parte più progressista di questo paese. E' una legge osteggiata da un fronte conservatore molto ampio, tra cui alcune forze, come le gerarchie cattoliche, strettamente legate al pd. Personalmente credo che al capo di quel partito non freghi nulla dei diritti degli omosessuali, però ha capito - o gli hanno fatto capire - che si tratta di una legge che assicura a quel partito la simpatia e l'adesione di molte persone di sinistra. Quando si presenteranno al voto, quelli del pd potranno dire ai loro potenziali elettori di sinistra: vedete, grazie a noi adesso ci sono le unioni civili. E molti elettori di sinistra cadranno nella trappola, dimenticando che questo è il governo che vuole stravolgere in senso autoritario la Costituzione, che ha cancellato molti diritti dei lavoratori, che ha fatto una politica sociale sostanzialmente di destra. Ovviamente il gioco funziona perché una parte di quel partito continua a votare contro questa legge sui diritti, e così il pd potrà da un lato presentarsi come il partito che ha voluto le unioni civili - ma non le adozioni - e dall'altro continuare a fare affari con la destra peggiore, e quindi a strizzare l'occhio sia ai movimenti degli omosessuali che alla Cei.
Stante così le cose, cosa poteva fare il M5s? Poteva rifiutare ogni dialogo con il pd, poteva dire da subito che non avrebbe mai votato una legge proposta da quel partito, poteva mettere renzi con le spalle al muro, dal momento che si sapeva che non avrebbe avuto i numeri per votare da solo quella legge in parlamento. Oppure - e sarebbe stata la soluzione migliore, secondo me - poteva "intestarsi" quella legge, farla diventare propria, dal momento che i voti dei parlamentari Cinque stelle sono indispensabili per approvarla. Insomma avrebbe potuto indebolire il pd, che per me è la cosa più importante, anche più delle legge sulle unioni civili. Invece cosa è successo. I leader del M5s hanno fatto un passo avanti, ne hanno fatto un mezzo indietro, hanno fatto un salto, hanno fatto una giravolta, l'hanno fatta un'altra volta, e così ci ritroviamo che renzi può dire che il pd avrebbe voluto una fare una legge migliore sulle unioni civili, ma che i grillini glielo hanno impedito, e potrà approvare una leggina che non scontenta troppo i suoi padrini di Oltretevere. E molti elettori di sinistra, alla prova del voto, preferiranno ancora il pd, che si finge di sinistra, rispetto al M5s. Io sono un estremista e la cosa che mi importa di più è la caduta di questo governo, ma vedo che per molti non è la stessa cosa. La decisione di oggi sul Ddl Cirinnà - così come è avvenuto nei mesi scorsi su altri provvedimenti - sembra fatta apposta per creare una frattura tra il M5s e una parte di potenziale elettorato di sinistra.
Se si arriverà al ballottaggio tra il pd e il M5s io non voterò per renzi, ma so che molti di più non voteranno per il M5s. Non so se non lo capiscono, non lo vogliono capire. O se c'è il complotto.

lunedì 15 febbraio 2016

Verba volant (247): mediocrità...

Mediocrità, sost. f.

Perché tutti guardiamo Sanremo? Perché tutti parliamo di Sanremo? Perché ci racconta, perché descrive la nostra mediocrità e allo stesso tempo ci assolve, mostrandoci migliori di quanto effettivamente siamo. Un bell'applauso e via.
Tutti ci siamo sinceramente emozionati quando abbiamo ascoltato Ezio Bosso, tantissimi hanno condiviso sui social la sua esibizione - un po' perché ci ha davvero colpito la vitalità di quell'artista, un po' perché in questo modo eravamo sicuri di fare la cosa "giusta" - qualcuno ha fatto finta di sapere chi fosse, ma praticamente nessuno si è chiesto come mai questo artista sia molto più conosciuto all'estero che in Italia, come mai si esibisca regolarmente nei teatri europei, mentre per farlo qui in Italia debba aspettare che sia rispettata la quota: un artista disabile ogni cento "normali". Per i pochi minuti di quell'esibizione abbiamo potuto far finta che ci importi qualcosa dei diritti delle persone disabili, mentre ogni giorno quei diritti li ignoriamo e li calpestiamo, quando parcheggiamo nei posti a loro riservati, quando ostruiamo i passaggi a loro dedicati, quando evitiamo, se non siamo proprio costretti, la loro compagnia. E ovviamente investiamo pochissimo per l'abbattimento delle barriere architettoniche, ancora meno per la loro integrazione scolastica e praticamente nulla per quella nei posti di lavoro. Se uno di loro ce la fa - come ha fatto egregiamente Ezio Bosso, grazie alla sua musica - siamo disposti ad applaudirlo e a commuoverci, ma non facciamo nulla per aiutare quelli che non hanno il suo genio o la determinazione e la forza di Alex Zanardi. Gli altri si arrangino e non sperino in un nostro mi piace. Un bell'applauso e via.
Tutti ci siamo divertiti per le imitazioni di Virginia Raffaele, in molti hanno fatto notare che finalmente una donna ha avuto l'occasione di esibirsi in un ruolo che è ancora per lo più maschile (e infatti tutti gli altri comici invitati al Festival erano maschi). E qualcuno ha detto anche che una donna può avere delle belle gambe e saper far ridere, anche se non vedo il nesso. Comunque, brava Virginia, ma poi tutti i siti on line hanno dedicato ampi spazi alle gallerie fotografiche della bellissima Madalina Ghenea, che immagino in questi giorni - come nei prossimi - saranno le foto più "guardate" di questo Sanremo. E Madalina era su quel palco solo per essere guardata, esposta al nostro voyeurismo, e infatti l'hanno via via vestita - o svestita - proprio per essere desiderata. Ovviamente nulla di nuovo - Madalina è l'ultima di una lunga serie di donne usate e sfruttate in questo modo e altre ne seguiranno, purtroppo - ma la novità di quest'anno è che a fianco della bellezza femminile hanno messo una bellezza maschile, ugualmente afona. Peraltro, a stare alle cifre pubblicate, Garko avrebbe guadagnato più del doppio della Ghenea solo per essere bello: una vera ingiustizia, che la dice lunga sul ruolo delle donne nella nostra società. Invece di provare a cambiare modello, hanno rincorso una specie di non richiesta par condicio di genere. Invece di migliorare l'immagine della donna, hanno peggiorato quella del maschio, in questa ostentazione della banalità della bellezza. Alle nostre figlie - e anche ai nostri figli, a questo punto - potremo sempre dire: non preoccuparti, cara, basta che tu sia bella e vedrai che un lavoro lo troverai, che farai carriera, che andrai in televisione. Se sei bruttina puoi sempre andare all'estero, dove ad esempio il professore universitario non è una carica ereditaria. Un bell'applauso e via.
Tutti - non proprio tutti, a dire il vero, ma tanti - ci siamo rallegrati di quei nastri arcobaleno che sono spuntati nelle esibizioni di praticamente tutti i cantanti e degli ospiti più o meno illustri delle cinque serate. Nei giorni in cui si tenta finalmente di dare una legge, se non buona - perché buona sicuramente non sarà - ma almeno decente - anche se ormai penso che non sarà nemmeno così - sulle unioni civili, che garantisca uguali diritti alle coppie omosessuali, nei giorni in cui da parte della minoranza conservatrice più retriva e clericale c'è una reazione così violenta contro questa legge, vedere quei nastri ci ha fatto credere che l'Italia sia migliore di quella rappresentata da Bagnasco e dai suoi sodali, manifesti e occulti. Temo che anche in questo caso sia un'illusione. Non è tanto significativa l'opposizione becera di quelli che a ogni nastrino hanno schiumato di rabbia, ma il fatto che quei nastrini siano apparsi, una sera dopo l'altra, come una concessione alla moda del momento. Non voglio sindacare sulla buona fede di quegli artisti che hanno deciso di esprimere in questo modo una propria posizione, ma mi è rimasta l'impressione che si sia trattato di un gesto esteriore, dettato dall'emozione del momento, come quando le nostre foto su Facebook sono diventate tutte - o quasi - arcobaleno. O tutte - o quasi - bianche, rosse e blu. Poi, riposti i nastri, cominceranno i distinguo, le frasi tipo sono favorevole, anche se voglio dire che non sono gay oppure ho tanti amici gay, ma.... Cosa mi importa cosa sei tu e cosa sono i tuoi amici, mi importa sapere cosa pensi sui diritti. E così, anche per questa scarsa consapevolezza, per questa ignavia democratica, nascerà una brutta legge, perché in sostanza il nostro paese non vuole davvero una legge civile, ossia una legge che riconosca i matrimoni tra persone dello stesso sesso. A molti basta sventolare un nastrino, e far vedere agli altri di averlo sventolato. Un bell'applauso e via.
Guardando le interminabili puntate del Festival, emerge questa immagine rassicurante dell'Italia, che alla fine premia un gruppo come gli Stadio, che hanno una storia, che hanno scritto alcune belle pagine della musica d'autore del nostro paese, ma poi raccoglie una serie di canzoni di scarsa qualità, tanto il successo o meno di un pezzo sarà assicurato dal numero di passaggi in radio, che a sua volta dipenderà da quanti soldi avranno a disposizione quelli che controllano le playlist. Viene fuori un'Italia dei buoni sentimenti, che dedica una canzone ad Aylan e una ai morti dell'Ilva, ma che poi presta la sua attenzione morbosa ai delitti di cronaca nera, alle storie a sfondo sessuale, ai miracoli di padre Pio e a tutto quello che ammorba quotidianamente i nostri palinsesti. Viene fuori un'Italia che si dice moderna, ma che poi "inventa" uno spettacolo in cui a un certo punto arriva il superospite dall'America, come fossimo negli anni Cinquanta. Viene fuori un'Italia che deve piacere a tutti, in cui ogni forma di conflitto deve essere annullata, perché così vogliono i padroni del vapore; se ci pensate è lo stesso schema per cui hanno scelto come conduttore matteo renzi, che cerca di piacere a tutti, che non vuole essere definito né di destra né di sinistra, che dà una pacca sulla spalla all'handicappato, che fa il piacione con la bella di turno, che dice che i giovani sono il nostro futuro. Almeno Carlo Conti è più simpatico, spero che presto mettano lui a palazzo Chigi. Viene fuori un'Italia plurale - tre su otto delle Nuove proposte erano ragazzi italiani di origini straniere - ma sono in qualche modo addomesticati. Dove c'è anche posto per una canzone "fastidiosa" come N.E.G.R.A., che infatti è stata subito eliminata ed ha vinto una canzone - peraltro simpatica - che si chiude con il verso
dimentichiamo tutto con un amen.
Spero almeno che Francesco Gabbani volesse prenderci tutti per il culo, la sua origine carrarina dovrebbe garantircelo.
Ovviamente Sanremo è uno spettacolo di varietà, Sanremo è una raccolta di canzoni, non è che possiamo cambiare il mondo attraverso Sanremo. Né pretendiamo che Sanremo si prenda carico o racconti i conflitti di questo paese. Sarebbe già importante che fosse fatto bene, con mano da artigiani. In un paese come il nostro in cui le cose si fanno male, sarebbe già rivoluzionario. Perché alla fine questa ricerca ossessiva del consenso, questo voler piacere per forza a tutti, non riesce a nascondere la mediocrità. Di Sanremo. E dell'Italia. Un bell'applauso. E amen.

mercoledì 10 febbraio 2016

Verba volant (246): outsider...

Outsider, sost. m. e f.

E' molto interessante - e significativo - il modo in cui l'informazione di regime, qui in Italia - ma immagino che qualcosa del genere accada anche nel resto del mondo, visto che il pensiero dominante è sempre quello, a tutte le latitudini - racconta le primarie del New Hampshire e tenta di sovrapporre le figure di Donald Trump e di Bernie Sanders. Vengono presentati entrambi come degli outsiders e la loro vittoria, nei rispettivi campi, viene descritta come una generica e populistica critica al sistema, come fossero dei Grillo qualsiasi. Più riusciranno a farci credere che Trump e Sanders sono la stessa cosa, più riusciranno a sostenere che entrambi sono inadatti a guidare gli Stati Uniti, un compito per cui servirebbe una capacità di sintesi che entrambi non avrebbero. Ovviamente questi stessi organi di informazione - di qua e di là dell'Atlantico - sperano che alla fine vinca Clinton o Rubio o magari Bloomberg, pronto a scendere in campo nel caso di una vittoria alle primarie di Trump. Sono sempre quelli che ci hanno spiegato - e noi della sinistra europea purtroppo abbiamo loro creduto - che le elezioni si vincono andando al centro, e tagliando le estreme. Sono quelli che ci hanno spiegato che dovevamo imboccare la terza via, sono quelli che ci hanno messo in mano la pistola con cui ci siamo suicidati. Sono quelli che quanto è moderno renzi e quanta è vecchia la sinistra. Insomma sono i corifei della destra peggiore, quella del capitale.
Trump e Sanders non sono la stessa cosa e solo un'informazione faziosa e prezzolata può nascondere le differenze. Intanto Sanders non è affatto un outsider: è in parlamento - alla Camera prima e ora in Senato - dal 1991 e proprio questa sua attività parlamentare e politica è stata determinante nella vittoria in New Hampshire. Non è che in quel piccolo stato della costa orientale siano diventati tutti socialisti, così come non sono socialisti nell'ancor più piccolo Vermont, però lì conoscono Sanders, perché lì ha svolto tutta la sua carriera politica, è stato sindaco e soprattutto, anche dopo essere andato a Washington, ha mantenuto un forte legame con quel territorio: Sanders in questi venticinque anni è stato il rappresentante del Vermont, al di là delle proprie idee, che non ha mai rinnegato e che ha sempre espresso con chiarezza, anche quando andavano contro l'opinione comune, perfino dei cittadini del suo stato. Qualcosa di simile vale per un altro "giovane vecchio" della sinistra, come Jeremy Corbyn, che - nonostante non fosse di moda, nonostante fosse sempre all'opposizione rispetto al suo partito - ha mantenuto un forte legame con gli elettori del suo collegio di Islington north, che per otto volte l'hanno regolarmente rieletto alla Camera dei Comuni. Già da qui credo che potremmo imparare qualcosa: la sinistra c'è quando è credibile, quando dice la verità e quando sta sul territorio. Noi abbiamo smesso e siamo morti.
Neppure Trump è un outsider, anche se ovviamente ha tutto l'interesse a presentarsi come tale; è sulla scena pubblica da molto tempo, ma la sua "carriera" non è legata a un territorio, a un'esperienza politica di base, in qualche modo si è costruito - o lo hanno costruito - direttamente come un candidato alla presidenza. Sanders può vincere? Probabilmente no, perché alla lunga l'effetto del New Hampshire svanirà, perché ci sono tanti elettori, nell'America profonda, che non lo conoscono direttamente, mentre tutti conoscono Clinton, però la sua candidatura non è inventata. E infatti anima migliaia di volontari in tutto il paese, raccoglie fondi, poco da moltissimi, mentre Clinton riceve moltissimo da pochi. Neppure Trump vincerà - forse - ma la sua candidatura è inventata e francamente credo che sia stata costruita - anche nei suoi eccessi - per favorire la vittoria di un candidato - o una candidata - rassicurante e di centro, che potesse apparire come un argine rispetto al pericolo rappresentato da Trump. Per far diventare Clinton la meno peggio avevano bisogno del peggio e l'hanno fatto, in fondo servono solo moltissimi soldi, ma i capitalisti li hanno - li hanno rubati a noi. Se questo vi ricorda quello che succede in Italia, in Francia, nel resto d'Europa, è perché è esattamente lo stesso schema. Poi questi esperimenti sono sempre pericolosi e c'è il rischio che il giocattolo sfugga di mano - ai capitalisti è successo negli anni venti del secolo scorso con il fascismo, ma evidentemente hanno preferito rimuovere questa storia. Credo che anche stavolta sia successo qualcosa del genere, perché la candidatura di Trump è diventata all'improvviso reale, dal momento che tanti americani hanno visto in lui, nei suoi eccessi, una risposta ai loro problemi.
Sanders e Trump intercettano entrambi la rabbia, la paura, la disillusione, di un pezzo - evidentemente molto ampio - di America, ma c'è una bella differenza nel modo in cui lo fanno. Trump quella paura la esaspera, creando dei nemici - i musulmani in questo caso - e proponendo una sorta di politica fai-da-te: difendi te stesso e la tua famiglia - dice Trump all'americano impaurito - e io non ti condannerò, prenditi quello che ti serve, anche se lo devi togliere a qualcun altro, e io non ti condannerò. Trump in sostanza spiega agli americani che il loro benessere, individuale e collettivo, passa attraverso la povertà di altri, dentro e fuori gli Stati Uniti. Sanders fa un discorso opposto e spiega agli americani che possono crescere insieme, che il benessere di uno non deve andare a scapito di quello dell'altro. Ovviamente anche Sanders individua un nemico, ma quello giusto, ossia quei poteri economici che in questi anni hanno beneficiato della crisi e che sono gli unici che hanno goduto della crescita economica che c'è stata sotto la presidenza di Obama. La sconfitta dell'attuale presidente è proprio questa: l'economia americana in questi anni è cresciuta, ma di questo hanno beneficiato solo i ricchissimi, solo i padroni delle multinazionali, solo i padroni delle banche, solo quelli che ora vorrebbero come presidente Clinton o qualcuno che continui a fare le cose che ha fatto Obama, che continui a garantire i loro interessi.
La differenza tra Trump e Sanders c'è ed è la vecchia, cara - per molti superata - distinzione tra destra e sinistra, perché alla fine uno come Trump, come tutti i fascisti, starà sempre dalla parte dei padroni. Per questo gli Stati Uniti avrebbero bisogno del vecchio Bernie e ne avremmo bisogno anche noi.

lunedì 8 febbraio 2016

Verba volant (245): coscienza...

Coscienza, sost. f.

Le parole - l'ho raccontato spesso in questo strano dizionario - cambiano, e la storia di questi cambiamenti ci dice sempre qualcosa di noi, che quelle parole le usiamo, più o meno bene.
In questi ultimi anni sembra che la coscienza sia un'esclusiva delle donne e degli uomini che professano la religione cattolica. Hanno una coscienza quei medici che, nelle strutture pubbliche, si rifiutano di praticare l'interruzione della gravidanza; hanno una coscienza quei funzionari pubblici che non vogliono registrare l'atto di un matrimonio contratto da persone dello stesso sesso; hanno una coscienza quei parlamentari che non voteranno a favore dell'estensione dei diritti civili agli omosessuali, in particolare dell'adozione del figlio del compagno o della compagna. Per questa bizzarra concezione noi atei non avremmo una coscienza, ma agiremmo in base a una qualche pretesa direttiva esterna, costretti da qualcosa che ci priverebbe della libertà di scegliere. Infatti quei medici, quei funzionari, quei parlamentari, invocano la loro libertà di coscienza, gettandocela in faccia, forti delle loro convinzioni e delle loro granitiche certezze. Mi dispiace, non è così. Abbiamo anche noi la coscienza e siamo liberi, quando abbiamo la forza di ascoltarla
La coscienza è una cosa seria con cui ciascuno di noi deve fare i conti, indipendentemente da quello in cui crede o non crede. Capisco che praticare un aborto sia un atto che interroga quel medico, che sia più difficile ed eticamente più sconvolgente che prescrivere un antibiotico, ma non lo è meno per la donna che prende quella decisione, che è la persona a cui dovremmo prestare maggior rispetto e di cui dovremmo preoccuparci davvero. E che ha fatto quella scelta, che riguarda lei e quella vita in potenza che c'è in lei, ascoltando la propria coscienza. Proprio perché l'aborto è una cosa seria, così seria - le donne lo sanno - dovrebbero farsi un esame di coscienza quei medici che fanno gli obiettori nelle strutture pubbliche e poi praticano gli stessi interventi in quelle private, oppure che costringono le loro pazienti a viaggi estenuanti, per cercare quelle strutture dove gli obiettori - che continuano a prendere lo stesso stipendio dei loro colleghi che aiutano le donne - non siano in maggioranza.
Allo stesso modo dovrebbero interrogarsi quei politici che usano la libertà di coscienza per raccogliere un po' di voti a buon mercato, per lanciare messaggi trasversali contro o a favore del governo, per ottenere un posto da sottosegretario o la presidenza di una commissione o qualche altro vantaggio meno confessabile. In merito al tema in questione sapete come la penso: credo che tutte le persone debbano avere gli stessi diritti e quindi credo che le persone dello stesso sesso dovrebbero poter scegliere se sposarsi, costituire un'unione con meno vincoli rispetto al matrimonio o semplicemente non sposarsi, esattamente come dovrebbero poter scegliere le coppie eterosessuali. So che ci sono persone che la pensano in maniera radicalmente diversa su questo punto specifico e ovviamente non ho la pretesa che la mia coscienza valga più della vostra, ma nemmeno sono disposto ad accettare che valga di meno. Poi ci confronteremo sui diritti e vedremo chi la spunterà. Però essere in pace con la propria coscienza significa dire la verità, in maniera esplicita: pensi che le persone omosessuali abbiano meno diritti di quelle eterosessuali? Dillo, senza nasconderti dietro il voto segreto. Il tuo partito vuol fare una battaglia politica su questo tema: dillo, senza fare gesuitiche distinzioni, invocando la libertà di coscienza.
Tra le molte cose di cui mi sono stancato c'è anche il fatto che la mia etica sia considerata un po' meno perché non credo in dio, nel dio in cui crede - o finge di credere - la maggioranza. Chiedo rispetto per la mia etica, anche se è fondata non su principi sanciti da un ente superiore, ma sulla cultura dei diritti delle donne e degli uomini, anche se la mia etica è così terrena, perché legata alla storia delle donne e degli uomini. Ho conosciuto persone che, pur non credendo, avevano principi morali saldissimi, rigidi, e un mio cruccio è non riuscire a seguirli, per debolezza, egoismo, pigrizia, quei difetti che credo di condividere con la maggioranza di voi, perché altrimenti il mondo sarebbe un po' meno peggio di quello che è, se noi fossimo davvero come pretendiamo di essere e come ci descriviamo. Tra questi principi c'è anche credere che le donne e gli uomini siano tutti uguali e che il significato della vita sia lottare affinché questo principio sia realizzato. Tra questi principi c'è anche il cercare di fare bene il proprio lavoro - farlo con coscienza, si usava dire dalle mie parti - perché bisogna avere rispetto di quello che si fa, anche se si puliscono i cessi. Tra questi principi c'è anche l'avere coscienza di classe, del fatto di essere parte di un popolo che lotta e cercare di fare la propria parte per continuare quella lotta. Tra questi principi c'è anche il coraggio di dire la verità, nella propria famiglia come nel mondo. Poi è difficile guardare nella propria coscienza, a volte non è uno spettacolo edificante, siamo liberi anche di non farlo, ma siamo più liberi quando lo facciamo.

venerdì 5 febbraio 2016

Verba volant (244): primavera...


per Giulio,
che ha creduto in un mondo diverso
e l'ha studiato con curiosità

Primavera, sost. f.

Sono passati ormai cinque anni da quelle settimane così cariche di speranza; e alla primavera araba è seguito un lungo inverno, la cui fine ci sembra ogni giorno più lontana.
Ho provato a rileggere le cose che avevo scritto allora. Al netto del mio entusiasmo per quei movimenti popolari che mi sembravano rappresentare davvero qualcosa di nuovo e, a suo modo, rivoluzionario, al netto del mio ottimismo - noi pessimisti quando cadiamo nel sentimento opposto tendiamo sempre ad eccedere - ci sono due punti su cui credo di non essermi sbagliato. E su cui sia utile continuare a riflettere.
Il primo è la nostra incapacità di comprendere da un lato e di sostenere dall'altro quei movimenti di protesta. Mi pare che i governi occidentali, i nostri governi, abbiano fatto di tutto per stroncare quelle rivolte, che pure a parole dicevano di apprezzare e di voler aiutare. In Egitto hanno immediatamente dato il loro placet al colpo di stato dei militari e nei mesi successivi, in ogni modo possibile, hanno sostenuto quel nuovo regime, probabilmente più autocratico di quello che c'era prima. In Libia sono intervenuti militarmente, senza alcuna strategia a lungo termine, ma con il solo obiettivo di eliminare non tanto il capo di un regime inviso, quanto un loro complice che non riuscivano più a controllare, da cui si sentivano traditi e che avrebbe potuto rivelare qualche verità imbarazzante; le cancellerie hanno agito con una logica da gangster, da malavitosi, e infatti ora in quel paese questa pare l'unica logica accettata. Nei paesi del Golfo si sono sostanzialmente piegati ai voleri del regime saudita che ha normalizzato, soprattutto con la forza del denaro, le situazioni che sembravano sfuggire al proprio controllo. In Siria hanno avuto paura, per una volta con cognizione di causa, di creare un regime peggiore di quello destinato a soccombere e hanno in sostanza congelato la situazione a cinque anni fa, mentre il resto dello scenario è mutato e le persone in quel paese hanno continuato - e continuano - a morire, nell'indifferenza globale. Di loro, come delle donne e degli uomini di tutti quei paesi, ai nostri governi non interessa nulla, a meno che non abbiano l'ardire di spingersi fino ai nostri confini: solo allora diventano un problema di cui occuparsi. L'unico paese in cui non sono intervenuti è la Tunisia, che - non a caso - è l'unico in cui, pur con tutte le sue difficoltà, la primavera è sbocciata e ha cominciato a dare i primi frutti.
La cosa che però mi pare ancora più preoccupante è che in questi cinque anni si è affermato tra di noi un pregiudizio determinista, se non apertamente razzista, ossia che gli arabi in particolare e i musulmani in generale non sarebbero fatti per la democrazia. La storia della Tunisia smentisce questa teoria strampalata, che pure in qualche modo si è fatta strada nell'opinione pubblica occidentale, non a caso diffusa e fatta crescere in maniera interessata mentre da noi venivano - e vengono - ristrette le prerogative democratiche. Credo sia utile ricordare che quelle manifestazioni di cinque anni fa, in qualche modo e forse allora con scarsa consapevolezza da parte nostra, si collegavano a un'esplosione di ribellione che coinvolse migliaia di giovani - e non solo - in ogni parte del mondo, per protestare contro un sistema capitalista sempre più ingiusto e sempre più potente. C'era un legame tra piazza Tahrir e Zuccotti park, tra i ragazzi di Madrid e quelli di Tunisi, un legame che è stato spezzato, perché potenzialmente poteva rappresentare il vero pericolo per i poteri costituiti, nei paesi occidentali prima ancora che nei paesi arabi. Ecco, se qualcosa è cambiato in questi cinque anni, è proprio il regime capitalista, che è diventato, se possibile, ancora più ingiusto e ancora più potente. E più sfrontato. E' questo regime il nemico che dobbiamo abbattere, noi, insieme a quei popoli che allora - come ora - chiedevano il pane, insieme alla libertà.
E qui vengo al secondo punto su cui insistevo allora e su cui credo occorra ancora ragionare; anche per capire come poter partecipare a questo processo, come poterlo aiutare davvero. La democrazia ha bisogno di tempo per crescere. La vicenda tunisina non è frutto di un caso e il successo della primavera in quel paese non è il risultato di questi cinque anni, per quanto importanti, per quanto significativi. In quel paese, per una serie di vicende storiche, grazie al clima sociale che ha favorito l'incontro tra persone di culture e religioni diverse, grazie al consolidarsi delle organizzazioni sindacali, grazie alla diffusione dell'istruzione, grazie soprattutto al ruolo delle donne, esiste un terreno capace di sostenere quella pianta fragile, di farne attecchire le radici, di darle nutrimento. Naturalmente si è trattato di un percorso tutt'altro che lineare, ma con una direzione precisa. In fondo anche la nostra storia ha le stesse caratteristiche: all'interno dell'Unione europea ci sono paesi che solo quarant'anni fa erano ancora regimi autocratici fascisti o che vent'anni fa erano governati da un partito unico. In Europa ci sono voluti almeno due secoli per costruire la democrazia e non è che il cammino sia compiuto. Non è mai compiuto: la pianta della democrazia rischia di inaridire molto in fretta, perché va curata, va alimentata, va protetta, con una pazienza e un impegno che noi spesso non le dedichiamo. E dobbiamo ricordare, prima di tutto a noi stessi - che non dobbiamo avere la presunzione di poter insegnare qualcosa a qualcuno - che la democrazia cresce con l'educazione, con la cultura, con l'arte, perché donne e uomini consapevoli fanno crescere i diritti, politici e sociali.
Come dice Chance in Oltre il giardino, parlando dell'unica cosa che conosce:
In un giardino c'è una stagione per la crescita. Prima vengono la primavera e l'estate, e poi abbiamo l'autunno e l'inverno. Ma poi ritorna la primavera e l'estate.

martedì 2 febbraio 2016

Considerazioni libere (407): a proposito di come è cambiato quel mondo piccolo...


Se non siete di questa zona, se non conoscete la bassa emiliana, in particolare i paesi lungo la riva del Po, forse il nome Brescello non vi dice nulla, ma sicuramente conoscete la sua piazza, perché è una delle più famose della storia del cinema. Non esagero. Provate ad andare una domenica in questo piccolo paese in provincia di Reggio - a proposito, se venite da queste parti, fatemelo sapere, Zaira ed io vi saluteremo volentieri e vi daremo qualche consiglio su dove andare a mangiare - e incontrerete turisti stranieri che si fanno le foto davanti al carro armato o che guardano la campana, quella senza il batacchio naturalmente, ricordando in maniera precisa la scena in cui Peppone ci rimane sotto, perché i film tratti dalle storie di don Camillo sono conosciuti davvero in tutto il mondo.
Brescello non era il paese in cui il parmense Guareschi aveva immaginato le sue storie, ma venne scelto perché aveva le caratteristiche migliori da un punto di vista cinematografico e così è diventato, per tutto il mondo, il paese di Peppone e don Camillo. Ed il paese stesso, con la chiesa, la stazione, il municipio, le case, le botteghe, la grande piazza, è diventato in qualche modo uno dei protagonisti del film, il terzo personaggio, anche perché Peppone e don Camillo non sanno immaginarsi e non potrebbero vivere in un altro posto. Appena si allontanano, ne sentono immediatamente la nostalgia; e debbono tornarci. E' una nostalgia che prende talvolta anche noi, che pure non siamo nati a Brescello.
Quel piccolo paese ha quindi avuto l'opportunità, per molti anni, di rappresentare l'Italia - un'Italia bella, di cui amiamo considerarci figli - grazie alla capacità di Giovanni Guareschi di raccontare le storie del mondo piccolo e a quella di un formidabile gruppo di registi, sceneggiatori, attori, tecnici, che le hanno sapute trasformare in racconti cinematografici. Quei libri e soprattutto quei film hanno avuto un tale successo, non solo in Italia, perché raccontano storie universali, pur partendo dalle vicende di un paese lungo le rive del Po. E quelle storie hanno ancora un tale successo, perché sono vere, perché Guareschi racconta un'Italia vera, un'Italia che oggi naturalmente non c'è più. Fortunatamente non c'è più. E non c'è più anche per merito di persone come Peppone e don Camillo. Io ho avuto la fortuna di conoscerne molti di Peppone, alcuni di loro mi hanno insegnato la politica. E non solo.
Quell'Italia là non era migliore dell'Italia di oggi, come qualche volta potremmo pensare, sprofondati nello schifo in cui ci troviamo. O almeno nessuno di noi vorrebbe davvero tornare a vivere in quegli anni: ci siamo abituati troppo bene. Pur essendo commedie e dovendo finire bene, quei film raccontano un'Italia in cui c'era una miseria terribile, in cui per tante famiglie mangiare tutti i giorni non era affatto scontato, perché magari la terra era cattiva come quella della Bruciata o perché un fittavolo poteva essere sfrattato, con tutta la sua famiglia, senza sapere dove andare. Racconta un'Italia di contrapposizioni politiche e sociali molto dure, in cui gli scioperi duravano giorni e mettevano a rischio la vita delle persone, anche perché facevano morire le mucche che non venivano munte, e in cui la violenza era un aspetto non secondario della lotta politica, e di questo si poteva morire, come il giovane comunista per cui Peppone e don Camillo suonano le loro campane. Nel mondo piccolo raccontato da Guareschi si viveva con la paura, perché il grande fiume incombeva sulle vite di quei territori e poteva trasformarsi da fonte di vita a pericolo mortale. C'era generosità, rispetto per le persone, senso della memoria, ma c'erano anche tante meschinerie, tante paure, tanta ignoranza, che Guareschi racconta senza ipocrisie. Però quella Brescello lì raccontava l'Italia uscita dalla guerra, anzi che di guerre ne aveva combattute due; e quelli che vivevano a Brescello erano sempre stati sconfitti, perché i poveri le perdono sempre le guerre. Raccontava un'Italia che lavorava, in cui il lavoro era fondamentale: non per niente era la parola che, per una volta d'accordo, Peppone e don Camillo, avevano voluto nel primo articolo della nuova Costituzione. Raccontava un'Italia che voleva crescere, che voleva studiare, che voleva far studiare i propri figli - e per questo accettava ogni sacrificio - che voleva finalmente uscire dalla miseria, ma tutta insieme, cercando che nessuno rimanesse indietro. E ci sono anche riusciti Peppone e don Camillo, hanno fatto tanto e di quello che hanno fatto dobbiamo essere loro grati. Come dobbiamo riconoscerne i limiti, che pure ci sono stati.
Brescello oggi non è solo il paese di Peppone e don Camillo, è anche un paese della 'ndrangheta. E' una di quelle realtà del nord in cui la criminalità ha preso piede, in maniera molto diversa da come aveva fatto storicamente nel Mezzogiorno, ma in maniera non meno permeante. A Brescello i mafiosi non sparano, ma fanno affari, prestano denaro, sostengono aziende in crisi, offrono servizi a basso costo, assumono un ruolo politico. A Brescello i mafiosi sono i nostri vicini di casa, i genitori dei compagni di scuola dei nostri figli, le persone con cui lavoriamo, magari il nostro commercialista o il nostro avvocato, le persone a cui chiediamo aiuto in un momento di difficoltà. Poi possiamo far finta di credere che la mafia qui al nord non esista; non ci chiediamo come mai quell'azienda riesca a smaltire i rifiuti industriali a un prezzo così basso, facendoci risparmiare; non ci meravigliamo di fronte a quei soldi, in contanti, con cui hanno acquistato il nostro bar che da mesi cercavamo di vendere, senza successo; non ci facciamo domande se, d'un tratto, cessano i furti che nelle settimane precedenti ci avevano allarmato; non ci stupiamo se il direttore della banca, mentre ci nega il prestito di cui abbiamo così bisogno, ci spiega che quei soldi possiamo averli comunque, chiedendo alla persona giusta. Possiamo far finta di niente, magari lamentarci che sia finito il tempo di Peppone e don Camillo e alla fine girarci dall'altra parte; e così anche noi abbiamo dato il nostro contributo alle mafie, le abbiamo aiutate a crescere, siamo diventati anche noi un po' mafiosi. Adesso Brescello rappresenta purtroppo questa Italia qui, di cui non amiamo considerarci figli, ma con cui conviviamo, arrabbiandoci sempre meno.
Peppone e don Camillo non riconoscerebbero più la loro Brescello. Certo la piazza è sempre quella, con la chiesa, il municipio, le botteghe sotto i portici bassi, ma la gente è certamente diversa e non è questione del colore della pelle o dell'inflessione dialettale, come qualche sciocco vorrebbe farci credere - c'è una 'ndrangheta che parla dialetto reggiano, come c'è una mafia che parla l'inglese fluente dei manager - è cambiata l'idea che dobbiamo farcela tutti insieme, perché ci siamo abituati a credere che ciascuno deve pensare a se stesso, non c'è più la voglia di non lasciare indietro nessuno, perché se l'altro non ce la fa ce ne sarà più per me. Pensiamo che studiare non serva a nulla, tanto mia figlia farà più successo se andrà al Grande fratello e poi si può diventar ricchi anche senza lavorare. E quella parola là, nel primo articolo della Costituzione, ha sempre meno significato: forse sarebbe perfino ora di cambiarla, di toglierla. Peppone e don Camillo non riconoscerebbero più la loro Brescello, perché vedrebbero la mafia che ha vinto. Ma almeno loro non smetterebbero di combattere.